La letteratura contemporanea sta dando i numeri
di Sergio Garufi
La letteratura contemporanea sta dando i numeri. Di recente Amazon ha inserito delle statistiche su molti dei suoi libri in commercio. Queste statistiche mostrano parecchi dati: dal numero totale delle parole di un libro, a volte comparato col suo prezzo (“Infinite Jest è un affare, 39.574 parole a dollaro!”), alla media di parole per frase, fino alla percentuale di vocaboli complessi presenti nel testo (e per complessi s’intende di lunghezza superiore alle tre sillabe), che vengono interpretati come indici di leggibilità dell’opera. Va da sé che questo invito ad assecondare le ischemie dell’attenzione di un pubblico di lettori sempre più distratto e assuefatto ai tempi televisivi non genera automaticamente chiarezza comunicativa, bensì un linguaggio balbettante, fatto più di sentenze lapidarie che di ragionamenti; a tal punto da far sospettare che il registro gnomico di molta letteratura sapienziale che affolla le classifiche di vendita sia chiamato così per la brevità delle sue espressioni.
Lo scrittore Steven Johnson, autore del saggio Tutto quello che fa male ti fa bene, edito in Italia da Mondadori, in un post intitolato Literary style by the numbers, pubblicato il 21/10/2007 sul suo blog (www.stevenberlinjohnson.com), confronta su un grafico cartesiano di ascisse e ordinate (vedi foto) i propri dati con quelli di altri autori, scoprendo così che se i due ultimi suoi libri hanno una media di 24,6 parole per frase, quelli di venerabili maestri come Frederic Jameson e Michel Foucault invece lo sopravanzano nettamente (per esempio Postmodernismo di Jameson ha una media di 53 parole per frase). Ma i paragoni che lo attirano di più sono quelli con colleghi contemporanei che scrivono testi simili ai suoi, e qui scopre che Malcom Gladwell, rispetto a lui, vanta delle frasi più corte del 25%; dal che ricava che il valore di riferimento cui uniformarsi è quello (“Ho sempre pensato che la lunghezza delle frasi fosse un fattore determinante per la complessità di un libro e nel tempo ho imparato a scrivere frasi più brevi”).
A ben pensarci, esempi simili sono presenti anche qui. E’ il caso della rivista Vanity Fair, che avverte i suoi lettori circa il tempo necessario per leggere ogni articolo, o del concorso Subway letteratura, rivolto a racconti brevi la cui lettura doveva durare giusto il viaggio di un certo numero di stazioni della metropolitana, perché sono il tempo e la capacità di concentrazione quelli che mancano al lettore medio. Ma si può stabilire quale sia il ritmo di lettura giusto per tutti, o non si corre forse il rischio di fare come Woody Allen, quando disse che aveva letto Guerra e pace col metodo della lettura veloce e tutto quello che aveva capito era che si parla della Russia? E la soglia di attenzione di un lettore è stimolata più dalla monotonia di una prosa costantemente brachilogica o dall’alternarsi del ritmo e dei registri espressivi, come insegnano tutti i trattati di retorica da Cicerone in poi? E non esiste una ciarlataneria della brevità, che può rendere logorroico pure un discorso frammentato se sconclusionato? Domande retoriche, certo, eppure la risposta a cui pare si stiano uniformando editori e autori sembra proprio essere quella meno scontata. Io nel frattempo rileggo gli anacronistici saggi di critica d’arte di Giovanni Testori, quelli composti da frasi interminabili, scandite dalla mise en abyme di file di due punti consecutivi, quasi che i suoi pensieri fossero matrioske una dentro l’altra, e con una selva fittissima di subordinate e coordinate che disorientano lo stesso autore, al punto da costringerlo in alcuni casi a ripetersi (“; dicevo appunto che…”) perché aveva perso il filo del discorso.
p.s. l’opzione di leggibilità che calcola le parole per frase è contenuta pure nel programma di Word. Basta andare nel menu “Strumenti”, scegliere “Opzioni”, nella tabella “Ortografia e Grammatica” barrare la casella “Mostra statistiche di leggibilità”, che include il conteggio del numero di parole per frase ma non il numero delle sillabe di ogni parola. Io mi astengo. Come diceva Manganelli, per me “le statistiche sono le frigide megere dei nostri tempi”.
Te lo ricordi Matilde di Giovanni Mariotti (Anabasi 1993), da pagina 11 a pagina 188 pagine pulite, non un singolo segno d’interpunzione (che io non riuscirei, beninteso, a non mettere, anche qui) al massimo qualche corsivo, anche un piacere per gli occhi, nella pagina solo parole una in fila all’altra, un’unica sterminata frase, lettura non agevolissima talvolta, ma piacevole sì.
Recentemente mi sono impuntata con la curatrice di un libro, che poi è anche una conoscente e ha capito, perchè mi chiedeva di cambiare l’ultima frase di un pezzo che le pareva troppo lunga. L’articolo era il ricordo di una persona , del suo lavoro, molto semplice insomma e la frase non era nemmeno lunga ma c’è questo timore che si renda difficile la lettura.
e proust??
E’ da scrivere:
Nuovo metodo pe’ iggnoccolire il lettore
onde si spupazzi con tre cazzate per proposizione.
MarioB.
Tutto breve e tutto veloce, tutto in superficie. Poi al massimo prendere un alka-seltzer per digerire il fast. O tempora o mores!
Sto leggendo il “Dialogo dei massimi sistemi” di Galileo e lo ho aperto con rigoroso terrore e con letture critiche anticipatorie e propiziatorie (Letteratura Italiana dell’Einaudi compresa) temendo di abbandonarlo alla prima frase. E invece dopo il primo passo “coraggioso” sono già a pagina 33 ed è piacevolissimo, spiritoso e addirittura chiaro! (va bè ho la laurea in fisica, però si può leggere, garantisco).
Lo cito perchè ho scoperto con enorme piacere che Galileo quando parla di velocità parla anche di “tardità”!! Quando spiego la velocità in classe faccio notare che in maniera equivalente si potrebbe definire la lentezza (e tutti sghignazzano, ma poi si convincono). Ecco la lentezza ha pari dignità della velocità, al punto che per farsi capire Galileo dice “[…] di velocità minori, o vogliamo dire di tardità maggiori […]”.
Cercare di quantificare la leggibilità fa male tanto alla letteratura quanto alla matematica. La statistica ha ben altra utilità, in questo modo non le si rende onore. Lunga vita alla statistica (quella sana).
Segnalo questi altri che studiano il Petrarca con le equazioni differenziali: http://www2.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Interventi/Articoli/Petrarca/Petrarca.html
La leggibilià si definisce di per se stessa: se si legge è leggibile, se si pianta lì, no. E a volte pianto lì perché il testo è “leggibile” ma è noioso, banale, poco interessante. Se la forma funziona senza il contenuto non serve a nulla.
E poi un conto è il giornalista e un altro lo scrittore… tanto la maggior parte non legge nemmeno l’articolo e si ferma al titolo…. Ecco, a quando un bello studio sulla leggibilità dei titoli?
sono stata abbastanza leggibile?
fem
Consiglio l’esilarante tanto bello quanto originale approccio di Vonnegut alla letteratura con i grafici cartesiani, lo trovate a pag. 27-37 del suo “Un uomo senza patria”
Per una panoramica sugli indici di leggibilità, il loro uso pratico e gli approfondimenti consiglio la pagina CENSOR: leggibilità GULPEASE e vocabolario di base di Eulogos spa.
CENSOR è anche un servizio di valutazione a cui si possono inviare testi.
La leggibilità, intesa come facilità di lettura e quindi di diffusione di un testo, è un tema importante per chi si occupa di divulgazione scientifica, comunicazione politica, critica sociale, alfabetizzazione. Temi molto vicini a quello che sta a cuore a Nazione Indiana.
Caro Jan, io direi che la leggibilità, perseguita con i criteri esposti da Steven Johnson che ho riferito (parole e frasi il più possibile brevi), è un’aberrazione giornalistica indebitamente applicata alla letteratura. Ha senso per l’articolo di un quotidiano, non ne ha per una rivista letteraria o un romanzo. E poi ognuno ha il suo gergo. Quello degli informatici, che tu usi spesso, mi risulta tanto estraneo quanto forse il recensese a te. Ad ogni modo, in generale penso sia meglio non parlare a nome di altri. Nazione Indiana è formata da 18 persone, ognuna con i suoi gusti e la sua visione del mondo. Non ricordo molte occasioni in cui siamo stati tutti d’accordo. Ciò che sta a cuore a te, o a me, non è detto che stia a cuore a tutti i redattori del blog.
@sparz
Pur scritto in quel modo, ho trovato piacevole la lettura di Storia di Matilde (Adelphi 2003), del versiliese Mariotti. Quella di Adelphi è un’edizione ampliata rispetto ad Anabasi, addirittura.
Per quanto possa interessare, dell’edizione Adelphi mi sono occupato qui:
http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?p=691
Garufi, Johnson non parla di letteratura. Parla di saggisti, critici, teorici, giornalisti, divulgatori. La parole e le cose non è letteratura. L’inconscio politico non è letteratura. Una recensione non è letteratura. Questo pezzo non è letteratura.
qualche anno fa tenne banco per una stagione il discorso relativo alla classificazione dei libri in base al tempo di lettura.Per ironia della sorte(al quadrato)andò a vincere “l’arcobaleno della gravità”:12 ore.Aveva ragione Paolo Rossi nel secolo scorso a dire che uscendo in giro veniva voglia di riprodursi(sottolineando il triplo senso da cogliere nell’affermazione)
Io però non sottovaluterei il problema della leggibilità.
Voglio dire che lo affronterei senza offendermi e senza scandalizzarmi.
Questa storia della legibilità, che mi pare più legata alla complessità sintattica e alla densità della frase e dei concetti, piuttosto che al semplice numero di parole, o alla difficoltà lessicale, è parecchio che va avanti, e certamente risponde al desiderio degli editori di vendere i libri a un pubblico il più possibile vasto.
Ma se il pubblico che leggeva un autore come Manganelli (prendo lui a esempio perché è stato citato qui, ma scegliete voi a piacere il vostro scrittore arduo preferito) si è ristretto come un maglione, vuol dire anche che le generazioni successive, hanno più difficoltà di un tempo ad affrontare un testo complesso.
Se non ricordo male le cifre, mi è stato raccontato che in Germania, un paese che legge più del nostro, Manganelli vendeva all’inizio all’incirca tremila copie, adesso vende forse la metà.
Abbiamo due scelte, io credo.
La prima è sbeffeggiare la richiesta di leggibilità, e tanti saluti.
La seconda è cercare di capire perché e vedere se è possibile salvare la complessità del pensiero (parlo di libri in genere, non solo di letteratura) cedendo in parte sulla difficoltà sintattica e la complessità con cui si offre il pensiero.
Io faccio parte di una generazione che ha masticato il difficile, l’astratto, lo sperimentale senza batter ciglio.
Ma già quella successiva aveva delle difficoltà, e chiunque insegni a scuola o all’università sa quanto questo sia vero. Non è solo un problema di lessico, è il pensiero articolato e complesso, la catena non lineare dei concetti, le frasi a mille foglie, che non vengono più capite.
Se ci limitiamo a sbeffeggiare, la crepa tra i pochi lettori forti e addestrati e la massa dei lettori si allargherà, ma la zolla dei lettori forti non resterà delle stesse dimensioni, verrà lentamente erosa a vantaggio di una massa sempre più ampia di non lettori, di gente che fatica ad articolare perché ha rinunciato a leggere, che non sa più scrivere neppure un curriculum senza aiuto perché non controlla l’organizazione del discorso, e di gente, ne scopro anche sui giornali, che fa degli svarioni, anche di senso, usando frasi semi fatte e semi sfatte che ha orecchiato qua e là “oralmente” e lì si è fermata.
La scuola è quel che è e non mi aspetto molto.
L’editoria, spinta dalla necessità di profitto, cerca di agganciare tutti, e di agganciarli come può. Già adesso le tirature della saggistica sono ridottissime rispetto al passato, perché di gente che non solo vuol fare fatica, ma può, che è stata addestrata alla lettura complessa, ce n’è sempre meno.
Che facciamo?
Alziamo le braccia al cielo irridendo quei poveretti? Stiamo attenti, perché alla fine gli editori smetteranno semplicemente di pubblicarli, quei libri per quattro gatti, e continueranno con fatica a far uscire solo quegli autori che qualcosa vendono perché hanno ancora un nome.
E quelli che resteranno a bocca asciutta saremo solo noi, aggrappati alle nostre copie ingiallite, sperando che non vadano in polvere, perché neppure la carta è più quella di prima.
Scusate la lunghezza, non me n’ero accorta
hai ragione, francesca e.m.. forse il miglior modo imparare a leggere, è imparare la bellezza della lingua matematica. una lingua, senza dubbio, e senza dubbio ‘poco leggibile’ ad una prima lettura. mi sono rimesso a studare matematica (e pesantemente) a 27 anni e ne sono stato subito affascinato. l’ho trovata, dopo e grazie ad un po’ di applicazione, intelleggibile. un fascino ‘adulto’ che forse da ‘giovini’, abituati ad altri ritmi ed altre velocità, non si capisce.
ora vado: domani ho un esame di matematica. speriamo tutto ciò sia di buon auspicio. speriamo possa trovare il compito leggibile (e non noioso).
Bonaventura Cavalieri, allievo di Galileo, iniziando la prefazione alla sua Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota, scriveva così: “Penso che senza dubbio nessuno abbia mai assaporato la dolcezza delle dimostrazioni matematiche, sia pure sfiorandola solo con le labbra, senza poi cercare con tutte le forze di inebriarsene fino alla sazietà…”
Vai così, Beccalossi!
Però Steven Johnson non parla di letteratura. Gli esempi che fa sono giornalistici e saggistici. Malcolm Gladwell è un giornalista. Fredric Jameson è uno storico della cultura etc. Nella saggistica la personalità dello stile è sì importante, ma dato che non si sta facendo arte bensì comunicando concetti, teorie, leggi etc., è altrettanto importante la leggibilità. E allora non ci vedo niente di male se un autore usa strumenti di verifica della leggibilità di quel che scrive. Sono strumenti imperfetti, ma un autore vero li usa senza esserne usato.
“La leggibilità si definisce di per se stessa: se si legge è leggibile, se si pianta lì, no. E a volte pianto lì perché il testo è “leggibile” ma è noioso, banale, poco interessante. Se la forma funziona senza il contenuto non serve a nulla.” Scrive Francesca E.M., sottoscrivo il suo limpido intervento. Stupefacente l’analisi del Petrarca con le equazioni. Rimanendo in matematica, il giudizio di pesantezza o leggerezza di un testo è emesso da un cervello di un determinato peso specifico. Variabile di persona in persona e nel quale è presente in variabili quantità l’educazione culturale ricevuta e coltivata. Ora, i passi di danza degli occhi sulle righe di un libro possono essere condotti da lettori per i quali un volumetto Harmony, ad esempio, trascende la leggibilità e la storia in esso contenuta è mitopoiesi. Per altri è solo un leggero passatempo. Per altri ancora – non ho dati alla mano, la speranza è che sia la maggioranza – è leggibile quanto i rotoloni regina.
sento citare molte cose che amo, e anche molti discorsi che mi interessano professionalmente. sono un insegnante di lettere di un liceo scientifico. in una prima (molto buona) ho dato da leggere giusto qualche giorno fa FLATLANDIA, del reverendissimo ABBOTT. ho dato quel libro a tre “cervelloni” che si sono disitinti in una prova di matematica speciale, ma naturalmente farò girare il libro in tutta la classe. FLATLANDIA, tra l’altro, era uno dei libri più amati da manganelli. e, tra l’altro, io l’ho dato da leggere perché vi si incrociano, secondo me, la letteratura, la geografia, l’antropologia, la geometria e la matematica. i ragazzini “cervelloni” scrivono bene, e sono anche dei discreti lettori, ma al primo apporccio al libro pare che non siano tanto entusiasti. aggiungo, se nza che forse ce ne sia bisogno, che i “cervelloni” hanno anche un blog e usano normalmente la rete, etc. comincio a chiedermi, e a chiedervi, quali valutazioni dovrei cominciare a fare, eccetera. mi piacerebbe sentire cosa ne pensate. condivido molto la posizione di alcor, ma ho ascoltato con attenzione anche magni, e anche gli altir. mi sembra, in ogni caso, quella aperta da questo pezzo di garufi, una discussione fondamentale un po’ per tutti – purtroppo, anche per la bistrattata istituzione scolastica… forse… ancora… checché ne dica la profondissima alcor.
Insegno matematica e fisica nel triennio di liceo scientifico + socio psicopedagogico (alla faccia del leggibile!) + linguistico e in terza ogni anno per le vacanze di Natale do da leggere Flatlandia e in genere piace molto a quasi tutti per tantissimi motivi. L’anno scorso hanno anche visto lo spettacolo “le geometrie non euclidee” del Teatro Arsenale e quando hanno sentito la citazione al libro, puoi immaginare i commenti (del tipo,” ahò qui noi non semo da meno, entendes?”)!!
Credo che la lettura sia una questione di allenamento (e di gusti e inclinazioni e passioni personali, come dice giust Plessus) quindi io consiglio la lotta estrema corpo a corpo: quando facevo le supplenze all’ITIS di Baggio (biennio allo stato brado) davo perfino dei pezzi di “Bouvard e Pécouchet” figuratevi che lotte!!! Ma se uno va a scuola già imparato, che gusto c’è??? E poi la prof di Fisica che dà dei libri da leggere è proprio ‘na robba teribile, spiazza anche lo studente più grigio di materia (cervellotica) che c’è!! Inzomma, lotta dura con la cultura, bisogna allenare, che i neuroni poi reagiscono.
Beccalossi: in bocca al lupo!!! Non dirmi che vuoi fare la fine di Coetze… :-))
Ultima cosa: se in effetti “Steven Johnson non parla di letteratura” come insinuano alcuni, allora Garufi ha toppato post, no? Anche se è dagli equivoci che di solito nascono le grandi questioni, quindi, grassie lo stesso.
fem
pero “Infinite Jest” non è un saggio, no??
Hm. Mi viene in mente un racconto di Buzzati.
@ Aldovrandi
non è che ce l’ho con la scuola, “scuola” di per sé è un’astrazione. Mi capita però di insegnare, da qualche anno, nelle SIS o come si chiamano, ogni regione ha una sigla diversa, e resto sempre un po’ spiazzata da quanto NON leggono le future insegnanti.
Certo qualcuno non avrà insegnato a loro, ma certamente loro non insegneranno ai loro allievi, salvo forse Il gabbiano Jonatan e Pirandello.
La catena delle generazioni è lunga e micidiale:–)
Però. come ho detto, è un problema serio e va affrontato senza spocchia.
Steven Johnson parla di letteratura. Basta leggere il titolo del suo post, titolo che ha dato lui, non io. Si chiama “Literary style by the numbers”. Comunque, anche volendo ammettere per assurdo – perché è un’assurdità – che “Le parole e le cose” non sia letteratura, c’è il riferimento a “Infinite Jest”, oltre al fatto che nella discussione sviluppatasi nello spazio commenti del blog di Johnson in seguito al suo post si sottopongono allo stesso criterio di leggibilità Dostoevskij ed altri.
A me, questo criterio di leggibilità meramente quantitativo (scrivere con parole brevi e frasi brevi) pare un’enormità. Credo, come ha detto bene Francesca, che non ce ne possa essere uno valido per tutti, si valuta caso per caso e a seconda dei gusti e delle esigenze di chi legge. Quello della letteratura è uno spazio di negoziazione permanente, chiuderlo in una gabbia di ascisse e ordinate è semplicemente folle (e ricorda tanto l’altrettanto folle grafico di valutazione del valore delle poesie inventato dall’emerito prof. Prichard nel film “L’attimo fuggente”). Grazie per l’attenzione
Quindi Manganelli si legge sempre meno? e risulta poco leggibile e arduo? e allora che ci sta a fare la corteccia prefrontale?
comunque Garufi e’ molto leggibile
Il vero punto del post di Sergio Garufi è proprio quello che lui spiega poi in un commento: «A me, questo criterio di leggibilità meramente quantitativo (scrivere con parole brevi e frasi brevi) pare un’enormità».
Questo preoccupazione è da tenere in seria considerazione se vogliamo parlare di letteratura. Sto leggendo in questi giorni un’illuminante raccolta di saggi critici di Alfonso Berardinelli (“Casi critici / Dal postmoderno alla mutazione”, Quodlibet, 2007). In uno di questi saggi, intitolato “La fine del postmoderno”, riprendendo e ampliando le suggestioni di George Steiner (“Gli archivi dell’Eden”) sul postmoderno, Berardinelli scrive: «[…] Il postmoderno è infatti la forma che l’egemonia americana ha dato a tutta la cultura occidentale dopo il 1945. […] Negli Stati Uniti, cioè, i valori della convivenza e della coesione sociale, l’etica del lavoro produttivo e del successo economico, stanno al di sopra di qualsiasi altro valore elaborato nei sistemi filosofici e nelle opere d’arte. Perciò l’amore americano per la cultura è un amore che viene da un aldilà della cultura. Se la grande cultura europea ha prodotto o ha permesso l’esistenza dell’ingiusta e corrotta società europea, questa cultura va preservata, messa in archivio, venerata come un feticcio. Ma va tenuta igienicamente lontana dalla vita sociale americana, dall'”American way of life”, la quale soltanto è in se stessa un valore primario.»
Ecco, questa mania catalogatoria, archivistica, è tipica della cultura americana, che notoriamente è la cultura attualmente dominante nel mondo. Non è un caso che le statistiche citate vengano da Amazon, cioè dalla più grande venditore mondiale di libri online, che è un’invenzione americana appunto. Amazon che ora sta lanciando un eBook Reader proprietario, rivoluzionario sotto certi aspetti ma preoccupante sotto altri. Ma si pensi anche al sempre più indispensabile – anch’esso americano – Google, col suo esoterico “algoritmo”, che analizza miliardi di pagine web, le lemmatizza, le trasforma in numeri e statistiche, le pesa, misterioso come la formula della Coca Cola, ma efficientissimo.
C’è dunque un’ideologia dietro tutto ciò. Quella che ritiene che la cultura, l’arte, la letteratura, la divulgazione del pensiero e della scienza, rispondano a delle regole di funzionamento, a delle leggi come quelle della fisica, che possono essere formulate e catalogate. C’è forse anche la speranza che ciò che viene scritto non sfugga di mano, non interagisca con la società e le persone, prevenendo così i conflitti che hanno portato alle grandi catastrofi europee del secolo scorso.
Sempre nella sopra citata raccolta di Berardinelli, nel saggio intitolato “Come insegnare letteratura moderna?”, c’è questa frase significativa: «Insegnare letteratura moderna (se questa cosa davvero viene fatta) vuol dire mettere in contatto stridente, dissonante, conflittuale, un’istituzione che tende a integrare socialmente e a formare una classe dirigente, con un insieme di autori e di opere che dal loro letterario aldilà continuano a mandarci messaggi di denuncia, di aggressivo risentimento, di non-conciliazione e di rivolta». E, più avanti: «Ancora una volta bisgna constatare che la modernità degli scrittori è antimoderna. Se vogliamo capire questo, non abbiamo scampo: dovremo smettere di essere “lettori ipocriti” che cercano tutte le scappatoie per evitare l’immedesimazione con gli autori, per non prendere in parola le loro parole, per evitare di entrare in quel terreno minato che è la vita reale e non istituzionale della letteratura moderna».
Credo che la “leggibilità” di un testo, letterario e non, stia tutta in questa possibilità di immedesimazione, di condivisione di un “pathos”, non nelle sue caratteristiche strutturali.
“le mie condoglianze” di Dulce Maria Cardoso, 311 pp e neanche un segno di interpunzione.
Bisogna padroneggiare le parole e la loro organizzazione per poter tenere il lettore in tensione dalla prima all’ultima pagina.
Il lettore, lui, se l’autore ha questa maestria, non si accorge di nulla.
Sergio, l’inglese “literary” ha un significato più ampio dell’italiano “letterario’. Così anche “literature”.
Certo, anche Dostoevskij in America vuol dire un’altra cosa…
Forse sono stata troppo criptica:
Perpless qui sopra ha scritto «Però Steven Johnson non parla di letteratura. Gli esempi che fa sono giornalistici e saggistici.»
Al che Garufi ha ribattuto «Steven Johnson parla di letteratura. Basta leggere il titolo del suo post, titolo che ha dato lui, non io. Si chiama “Literary style by the numbers”.»
Io volevo soltanto far notare che in inglese “literary” e “literature” hanno accezioni che possono includere scritti e scritture che in italiano non sono né “letterarie” né “letteratura”. Si vedano ad esempio le definizioni riportate dal Merriam-Webster [1].
[1] http://m-w.com/dictionary/literature .
“Literary style” è esattamente traducibile come “Stile letterario”. E il significato del titolo è molto chiaro: lo stile letterario misurato attraverso delle cifre. Si parla quindi di stile, che può essere patrimonio sia della saggistica che della narrativa. Non vedo dov’è il problema.
E’ che le statistiche hanno uno strano carattere. Nessuno le prende per il verso giusto. Loro si limitano a descrivere un dato di fatto e giù tutti a trarre delle conseguenze.
Come in politica. Tutti a guardare le statistiche che dicono “SI” e nessuno a contare la gente in piazza che dice “NO”.
Quello che si dice è vero. Un mio amico, uno scrittore abbastanza affermato, ha visto rifiutato all’ultimo momento un romanzo da una grossa casa editrice perché un software aveva decretato che nelle sue pagine c’era un’alta percentuale di parole difficili.
Dov’è l’errore? Non certo nel software (lui fa quello che gli si chiede) né nella percentuale statistica di parole difficili (quelle ci sono). L’errore è in chi aveva giudicato il romanzo un bel romanzo e poi ha dato l’ultima parola al software.
Pazzesco.
Quello che voglio dire è che non bisogna mai dare la colpa ai numeri o alle macchine. Bisognerebbe guardarsi allo specchio e chiedersi: “Questi numeri, queste macchine li stiamo usando nel modo giusto?”
A me piace la letteratura “balbettante” fatta di frasi corte, di molti punti e poche subordinate. La trovo giusta per questi tempi. Kurt Vonnegut scrisse una volta: “Non usare mai il punto e virgola in letteratura. Serve solo a far capire che sei andato all’università” E qualcuno provi a dire che Vonnegut non è un pilastro della letteratura del Novecento.
Questo è tutto.