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Costruire una casa

di Eduardo De Cunto

Cominci a costruire una casa, ma scopri che la partita di calce che hai acquistato è viziata. Poni lo stesso la prima fila di mattoni e non sembra esserci problema; che smotta un po’, tuttavia, è chiaro già dalla seconda fila. Tu vai avanti, trovi un equilibrio e tiri su un muretto che tiene. Peccato che qualcosa scricchiola. Prendi paura, vedi la piccola parete oscillare, capisci che non puoi mettere altro peso, ti fermi. E il muro torna fermo.

Tutto ti sembra calmo, dunque riparti, un po’ ritorto (ma impercettibilmente, tant’è che te ne accorgi appena). Prosegui. E prosegui ancora. Il peso delle fila aggiuntive sembra stabilizzante.

Che è ritorta tu lo sai, è un pensiero che non ti abbandona. Ma chi passa non batte ciglio. Cos’è questo se non un muro, un muro come tanti? Vuoi che gli altri muri non abbiano anch’essi una piccola crepa, una briciola di calce fuori dalla scanalatura? Ecco, qualcuno, addirittura, ci si siede e sciabatta pietre all’aria. Tra chi sciabatta c’è una ragazza: un tipo maschiaccio, ma carina; capelli biondi a caschetto, alla Semola scudiero di re Artù.

Hai pensieri vertiginosi. Hai voglia di sapere dov’è che immagina che cadono le pietre che fa finta di scalciare.

Ti dici che il muretto non è poi così instabile, che l’insicurezza è nella tua psiche e non altrove, e dal momento che siamo arrivati a un metro e mezzo/due bisognerà pure porre le basi per un balconcino, per delle finestre, bisognerà pure iniziare a ragionare in maniera quadridimensionale (sì, le dimensioni che aggiungi con un solo guizzo dell’intelletto sono due: la terza è per la profondità, la quarta per il tempo in cui verrà gente a stare con te nella tua casa).

Dunque: di buona lena, a colpi di calce e di cazzuola.

La ragazza che sciabattava le pietre al vento adesso è sul balcone: ha un seno, ha mani da donna per accarezzare, ha baci. Ma, soprattutto, ha gli occhi spaventati e il fiato mozzo.

La gente potrebbe passare e tirare avanti. Alcuni lo fanno. Altri, prima di perdersi lungo le loro lunghe strade, uno sguardo sulla tua casa lo poggiano. Quello che pensano glielo leggi negli occhi: il muro è sempre più ritorto.

Allora tu disfi.

Ti disfi di Semola, che piangerà ma non caverà nulla da nessuna roccia, ti disfi delle quattro dimensioni, ti disfi di otto o nove file di mattoni, torni a poggiare i piedi a terra.

Chi piange di più tra te e Semola? Te lo chiederai per tutta la vita.

Riparti dalle fondamenta. La calce che ti hanno dato è sempre quella, è cattiva. Le prime tre file di mattoni, ormai, rimarranno dove stanno. Ma puoi puntellare, puoi imparare dall’esperienza del fallimento, puoi fare un muro come tutti gli altri, che non si sono mai visti muri senza crepe e senza necessità di ristrutturazioni. Così fai. Ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora calce, ancora mattoni, ancora persone, ancora l’idea di creare una stanza, un balcone, ancora l’idea del tempo da condividere con qualcuno, ancora, ancora persone e ancora cemento. Ed ecco una stanza. Con una finestra e un balcone. Ecco una casa, si direbbe, si potrebbe dire, se non si avesse quasi timore di dirlo.

Stavolta racconti tutto a tutti, preferisci giocare d’anticipo e lasciarli a bocca aperta: «La calce non era buona, questa casa non dovrebbe star su». «Ma dai!», ti si risponde in genere, «Non l’avrei mai detto!». Ti piace quando ti rispondono così. Li vedi rilassarsi, assopirsi sui sofà, non dar peso alle cose che dici. E intanto uno scricchiolio. Proprio come in quel racconto: conoscete quel racconto in cui c’è una goccia che, invece di scendere per le scale, le sale? Ecco, tu senti una goccia salire per le scale, mentre tutti dormono, e non è che ci sia un senso o una morale. C’è una goccia che sale per le scale. C’è uno scricchiolio che senti solo tu. E poi la casa crolla, con la gente addormentata dentro.

Voglio essere molto onesto: penserai agli altri, ma molto dopo. Prima pensi a te stesso. Sei vivo? Sei vivo o sei morto?

Non lo sai. In certe circostanze non è affatto semplice dirlo. Sei a base organica o sei un qualsiasi agglomerato di materia?

Ecco, ecco, sì, partiamo da qui: pensi?

Buon vecchio Escargot, sì che pensi, dunque sei.

Cosa sei? Una pietra? Un gatto? Un qualcosa di mai visto prima? Non lo si può stabilire. Potresti essere un mattone che pensa grazie alla materia grigia che gli hai prestato, potresti essere la casa che è crollata, potresti esserne l’ombra.

E invece, a due a due, ti separi dai tuoi negativi e ritrovi la tua identità. Perché lo sai e basta, non per deduzione. Dunque non sei un oggetto inanimato, ma un essere vivente. Ecco che spuntano i colori, e appartieni al mondo della luce e non del buio. Sei un essere aerobio e non anaerobio, perché ansimi. Animale e non vegetale, perché hai sangue in bocca. Maschio, perché tua sorella si separa da te, scostando le sue mutandine dalla tua bocca. Stai recuperando i ricordi.

Poi si spengono.

Poi non sei più a casa tua e la catastrofe è ai tuoi piedi. Nessuno si è fatto male, tranne te.

Ma si comincia da capo. E devi trovarti altri amici.

Dunque: hai una partita di calce viziata. Le prime tre file rimangono dove sono. Devi tirare su una casa che stavolta tenga, ne va della vita. Ma non hai più fiducia nel fatto che l’esperienza accumulata e gli errori fatti possano giovarti. Ti convinci che fallirai ancora.

Ma ne va della vita. E allora, ancora calce, ancora mattoni, ancora cazzuola, ancora gente, ancora mani che ti accarezzano, occhi che ti guardano, labbra che ti baciano. Il muro è dritto, perché ogni volta che vien su un po’ ritorto tu disfi, ti disfai di mani, occhi e labbra, riempi di lacrime la casa e la strada. Ma il muro è dritto.

Magari non avrai mai più un Semola scudiero di re Artù, ma ti riprometti che avrai una casa che non crolla. Dunque, visto che di nuovo siamo al metro e mezzo/due, inizi a lavorare sulla terza dimensione. Fai un rettangolo di mattoncini, semplice come un fortino Playmobil. Per esser certo che non abbia aperture e punti deboli, e che nessuno vi entri, non fai porte. Crei un enorme cubo di mattoni. Nessuno ne vedrà gli interni, nemmeno tu, dal momento che non avrà finestre, dunque non passi l’intonaco.

Fai il soffitto, con grande sforzo.

E ora sei lì dentro, al buio.

È stupefacente quanto tempo può durare una simile permanenza, per un essere aerobio. Passano forse millenni, ma hai ancora ossigeno, e sei ancora vivo.

Pensi.

Pensi alle idee, come diceva di fare Platone.

L’avrà avuto un corpo, Platone?

Per alcuni millenni pensi alle idee, poi sei troppo distratto dal corpo.

Poi ti capita di pensare alle persone.

Ogni muro, anche il tuo muro perfetto, deve pur avere una crepa. Altrimenti, davvero, aerobio come sei, saresti già morto. Pensando alle persone trovi la crepa e, stavolta deliberatamente, vai incontro al tuo terzo crollo.

È un crollo parziale e controllato. La luce del sole ti ha schiaffeggiato, ma adesso è gentile. Di sotto, una discreta folla ti guarda alquanto interdetta, ma non propriamente spaventata.

Hai un enorme punto a tuo vantaggio, è evidente: stavolta non devi ripartire da tre sole fila di mattoni, sei già a un metro e mezzo/due.

Chi l’avrebbe detto, ti ritornano vezzi che credevi abbandonati per sempre: immaginare un balcone, i gerani da mettervi su, una ragazza. Insomma una casa per persone.

Fai un balcone. Fai un perimetro con finestre. Ricevi delle prime visite.

C’è una ragazza con i capelli raccolti a foglie d’ananas e calzettoni da uomo che viene a trovarti spesso. È l’opposto di Semola, ma è uguale.

Pensi che è proprio giunta l’ora di fare un tetto e che stavolta ce la farai. Inizi.

Le forme squadrate ti sono venute a noia e non ti hanno portato bene. Così, più che un tetto, provi a fare una cupola. E visto che ci sei, sotto lo sguardo della ragazza, decidi di usare la manualità acquisita.

Le punte d’ananas ti osservano; chissà come, ti riesce di curvare le pareti.

La volta è talmente tonda che inviti la tua compagna ad abitarvi dentro, talmente perfetta che decidi di affrescarla.

Compri dei pennelli e della polvere colorata che stemperi nell’acqua. Finalmente stendi l’intonaco.

Il verde è il primo colore che usi. Ti serve per disegnare un pendio sul lato sinistro della scena (dietro, l’indaco di un colle lontano). Sul pendio si posa un giovane; il suo corpo nudo, semidisteso nell’erba, è scolpito e grande. Ne tracci i pettorali a riposo e gli addominali contratti, l’avambraccio destro è poggiato al suolo e il braccio sinistro proteso all’aria (bicipite sicuro, gomito che poggia sul ginocchio raccolto, mano rilassata, a palmo in giù con l’indice che sopravanza appena le altre dita). Lo sguardo, che corre sul braccio, è languido; il mento deciso.

Da sfondo: un cielo chiaro da accecare.

L’indice indica l’indice di un uomo maturo.

È l’altra figura. Tutto ciò che è altro da te. O almeno ne avrebbe le pretese, e si vede. È attorniato da ben dodici tra angeli e putti (quella che è sotto il suo braccio sinistro sembra piuttosto la sua puttana, ed è quella che conserva la maggior dignità nello sguardo). La nidiata lo sostiene senza che lui faccia alcunché. Indossa una tunica lilla. Tende il braccio, questo gli basta per darti vita.

L’aria è solida. È il tuo capolavoro.

Ma tra il dito dell’uomo e del dio, guarda un po’, Cristo di Buddha, c’è una crepa.

 

 

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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