Seia cinque: Gaetano Cappelli
di Seia Montanelli
Autore prolifico, con oltre quindici romanzi in trent’anni di carriera (oltre a decine di racconti e saggi pubblicati), Gaetano Cappelli è uno scrittore di razza e uomo dotato di dosi massicce di ironia – “accusa” che si può muovere a ben pochi scrittori nostrani – e vi consiglio di leggere il suo ultimo libro, sperando che non la prenda come un’onta personale, avendomi tempo fa bonariamente seppur pubblicamente, invitato a cambiar mestiere (per la cronaca, nel contesto della discussione aveva una sua ragione di pensarlo).
“Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” (Marsilio, pagg. 194, € 16) il titolo del libro, è lettura perfetta soprattutto in quest’ultimo scorcio d’estate, per concedersi un po’ di leggerezza.
Cappelli è una voce particolare nel nostro sistema editoriale: il suo habitat è la commedia; la sua missione è divertire il lettore; la sua grande capacità è costruire trame e personaggi che intrattengano il pubblico, raggiungendo egregiamente quello che dovrebbe essere lo scopo primario di ogni manifestazione artistica, il divertissement, se come me siete d’accordo con il filosofo e saggista José Ortega y Gasset: «se invece di prendere sul serio l’arte, la prendessimo per quel che è, come intrattenimento, un gioco, una diversione, l’opera artistica guadagnerebbe così tutta la sua ammaliante riverberazione».
Sante parole.
Anche per “Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” non intinge la penna nel dolore pervasivo in cui affogano gran parte dei romanzi italiani degli ultimi anni, ma sceglie lo humour e l’arma della dissacrazione per raccontare l’Italia dei giorni nostri: boccaccesca, scollacciata, sessuomane, maschilista, sbruffona e disonesta, distillata perfettamente in pagine e pagine di intercettazioni telefoniche.
E’ Roma in particolare a cadere sotto gli strali potenti e potentini di Cappelli: la Roma dei furbetti, che anticipa di poco lo scandalo di “Mafia capitale”, con magistrati corrotti, politici inquisiti, avvocatesse che non fanno rimpiangere le matrone più perverse della Roma antica, idraulici per “signore” e intellettuali da quattro soldi, soprattutto scrittori a caccia di visibilità e denaro (ci sono spesso scrittori nelle vicende raccontate da Cappelli, e di solito non fanno una bella figura). Il tutto condito da un immaginario erotico porno-soft, in cui il sesso non è un pruriginoso espediente per vendere più copie o attrarre lettori lussuriosi, è invece strumentale a offrire un ritratto implacabile di una Roma che, De Gregori docet, «sembra una cagna in mezzo ai maiali». Di più, il sesso, soprattutto se clandestino, è merce di scambio e moneta sonante, ma in qualche modo anche il simbolo di un raggiunto status sociale.
Il nostro prende una varia e squallida umanità e la fa muovere tra feste, palazzi del potere, ville di lusso, palestre, ma anche tuguri bui o sale per gli interrogatori in carcere, facendo abilmente ricorso a una lingua che solleva l’opera al di sopra di una mera parodia verosimile del contingente – e, pur usando il mezzo letterario, riporta alla memoria la rappresentazione cinematografica di una certa Italia tipica della commedia italiana anni ’60 e ’70 (con qualche aggancio alla “Grande Bellezza” di Sorrentino).
Come sua abitudine, assurta ormai a cifra stilistica, l’autore inventa un dialetto, anzi diversi dialetti, li mescola a neologismi, lemmi stranieri, e alla neolingua 2.0 in un idioma ripreso dal parlato che produce un italiano nuovo, ibrido, pieno di onomatopee e parole strascicate, rese sulla pagina spesso con l’uso del corsivo, come a dare indicazioni per la lettura – quasi fosse un copione teatrale, anzi (di nuovo) cinematografico. Divertente per esempio la citazione colta delle rinascimentali wunderkammer, le camere delle meraviglie di rinascimentale memoria, che diventano WunderRealityKammer nel libro, venendo altresì derubricate a meri postriboli contemporanei.
A sottolineare lo scarto tra quella dei protagonisti e “l’italiano”, c’è la lingua del narratore onnisciente, colto, elegante, ironico, che non disdegna di usare il turpiloquio in qualche occasione, ma appare sempre misurato, anche se palesemente divertito da quanto racconta: è un personaggio anch’egli, per quanto è pervasivo sulla pagina: sa tutto, anche ciò che al lettore non sarà mai svelato, e ci tiene a sottolinearlo.
Come mio solito non indugerò sulla trama del libro, anche se per una volta (una delle poche volte, suvvia) che un romanzo italiano mostra una struttura solida e un vero intreccio con personaggi non di cartapesta, sarebbe il caso di festeggiare descrivendola in dettaglio, ma resto fedele al diktat per cui al lettore deve sempre essere garantito il gusto della scoperta di fronte a un libro, e mi limito a consigliare “Scambi, equivoci eppiù torbidi inganni” per la leggerezza con cui rende uno spaccato del nostro paese con più efficacia (e maggiore divertimento), di qualsiasi saggio di sociologia, e di ogni romanzo doloroso e addolorato.
In questo senso Cappelli è autore per molti – da qui il successo di pubblico dei suoi libri – ma non per tutti: soprattutto non per quella parte di critica letteraria che guarda alla commedia con lo stesso sdegno che riserva alle barzellette di Totti.
Non credo tuttavia che Cappelli se ne dispiaccia, avendo egli già individuato il suo lettore tipo: come recita il profilo Twitter, scrive «storie per chi non s’accontenta di una vita sola».
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Sono solo io a trovare fuori luogo la copertina con particolari anatomici oversize?