Tutte queste informazioni di Vincent: Ilaria Boemi

larmes-tears

Morire due punto zero

di

Seia Montanelli

A sedici anni volevo morire. Mi ero presa una cotta assurda per una specie di teppistello da strada con background famigliare degno di Moll Flanders, che ovviamente sognavo di redimere per poi scappare con lui chissà dove. E ho scritto ogni cosa sul mio diario. In realtà invocavo una morte metaforica, come quasi tutti gli adolescenti in certi periodi: uccidere noi stessi che in quel momento soffriamo per un qualsiasi motivo, per poi rinascere a una nuova vita più soddisfacente; tutto il resto invece era vero come può esserlo a quell’età.

E’ stata una fortuna che all’epoca non ci fosse Facebook, perché se fossi morta dopo aver scritto quelle parole, delle quali solo io potevo comprendere fino in fondo il senso, mi sarei trovata il profilo saccheggiato da giornalisti in cerca di facili scoop, e per prima cosa avrebbero individuato come colpevole il mio “malacarne” (così a Messina vengono i chiamati i ragazzi che non si presenterebbero volentieri ai genitori). Le mie origini siciliane avrebbero potuto dare adito poi a dissertazioni al limiti del razzismo regionalistico, e rovistando tra le mie foto come ratti nei rifiuti, qualcuno si sarebbe potuto addirittura spingere a cercare – nei miei tratti somatici e nella cronica assenza di sorriso – una causa-effetto di lombrosiana memoria per quanto successo, e così da vittima sarei diventata colpevole e infine di nuovo vittima della gogna mediatica. Morta due volte. La morte due punto zero.

Così è morta Ilaria, sedici anni, anche lei messinese, prima per aver ingerito delle pasticche di droga sintetica e poi per la manipolazione della sua vita sui social: ha smesso di essere poco più di una bimba vittima di una piaga sociale per diventare una darkettona coi «capelli corti, rasati all’altezza delle tempie. Tre piercing sul volto: sul labbro, sul naso e sulla lingua» (“Il corriere”).

Qualcuno ha scritto che non era molto bella, la peggiore delle colpe in questo schifo di mondo votato all’estetica senza arte (una giornalista di “Repubblica”, edizione di Palermo Alessandra Ziniti, alla quale faccio i miei “complimenti” per la professionalità: «Era particolarmente inquieta questa ragazzina di 16 anni con il viso sfigurato da cinque piercing, compreso una perla sulla lingua, il lobo dell’orecchio destro sfondato, i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino»). Altri hanno ipotizzato avesse tendenze suicide perché scriveva frasi macabre nei suoi status: «Il buio è più denso ed io non riesco a trovarci un senso» (io giuro che ho scritto molto, molto peggio). “Vanity fair” l’ha addirittura definita «adolescente controcorrente», come se i ragazzini di quell’età fossero tutti modelli di conformismo. Giornalisti tutti dimentichi di aver avuto un diario a cui da ragazzini affidavano i pensieri più reconditi – quasi mai di gioia – perché, come scriveva David Gerrold, “l’adolescenza è quella parte della vita in cui s’impara a essere depressi”. Non è fatta per la felicità, o meglio per la consapevolezza della felicità, ma si nutre dell’illusione della disperazione (quando non ci sono i drammi veri), perché solo distruggendo si può costruire, solo ribellandosi ci si può emancipare, e basta poco per farlo: colorarsi i capelli, o decidere di frequentare una scuola diversa da quella scelta dai genitori. Poi tutto passa, perché è questo l’adolescenza, un passaggio, un’iniziazione (c’è anche chi è un adolescente senza patemi, ma non so che adulto possa diventare senza un po’ di sturm und drang – ma non sono una psicologa quindi non parlo di cose che non conosco. Io.).

Quindi sono davvero grata di essere stata un’adolescente problematica in un tempo in cui potevi odiare il mondo e sentirti in trappola nella tua vita e, a meno di grandi gesti di ribellione, potevi solo urlarlo nel tuo diario, quello di carta, chiuso col lucchetto. Poi magari tutti a casa lo leggevano a tua insaputa, ma finiva lì, in quel segreto diffuso che genitori intelligenti continuavano a custodire, magari vigilando un po’ di più ma senza drammatizzare troppo.

Ora invece che tutto si affida alle confidenze da social network, che le frasi macabre riempiono gli status di tutti gli adolescenti, è facile accanirsi su questi diari telematici alla ricerca delle motivazioni più assurde per morti che non si possono spiegare, o meglio, che hanno cause oggettive, ma che restano comunque incomprensibili perché ingiuste e premature.

Ilaria è morta a sedici anni per delle pasticche tagliate male. Questa è la notizia. Ed è l’unica cosa che dovrebbe scrivere. Parlare di come ha avuto la droga, di chi gliel’ha data, di chi la vende, del contesto in cui si trovava. Tutto questo è la notizia, il resto è spazzatura. Le chiacchiere dei moralisti che imbrattano i giornali, un tanto a parola, il doppio per ogni vaneggiamento, sono sproloqui senza senso e senza valore.

E poi c’è gente come Maurizio Blondet, giornalista in pensione, collaboratore de “L’Avvenire”, del “Giornale” e de “La Padania”, famoso per le sue posizioni antisemite, razziste, omofobe (nonché grande produttore ed esegeta di ipotesi di complotto). Orfano di una testata che gli dia voce, sul suo blog personale due giorni fa ha scritto un inqualificabile post sulla tragedia di Ilaria in cui si rivolge direttamente alla ragazza dandole del topino insignificante, tanto che le chiede: «Le foto che hai postato sono tutti “selfie”, perché chi volevi ti fotografasse, né bella né brutta com’eri?» Sì, di nuovo l’aspetto fisico come colpa da espiare: siamo a questo.

E ancora: «Eri standard, eri una dei tanti, delle nullità da discoteca», e poi – dopo averla definita vittima delle troppe libertà imposte dai media – le addossa diverse colpe condivise con le sue colleghe adolescenti: «ragazzine “liberate”, fate i pompini, prendete la droga, fate tutto quello che vi dice il bulletto o la ganga dei farabuttelli senza onore, perché altrimenti “vi escludono”; e voi non sapete dove andare. Non avete risorse, né mentali, né morali, per sopportare la solitudine».

Viene da chiedersi cosa ne sappia Blondet della vita di Ilaria: nemmeno i post su Facebook consentono di intuire più di tanto di lei, perché infangarne così l’immagine? E infine l’irrisione del corpo privo di vita sulla spiaggia, l’ultima delle ingiurie, spregevole da parte di un uomo che avrà dei figli e dei nipoti e che non dimostra alcuna compassione: «un corpicino di nessuno – un piccione morto, un topino grigio».

Blondet, si legge in un post successivo in cui spiega perché ha dovuto chiudere i commenti al suo blog, intende scioccare provocare: lui non ce l’ha con la ragazzina, ma con la sua famiglia colpevole di averle dato troppo libertà. Una famiglia allo sbando secondo lui, perché i genitori hanno entrambi altri rapporti alle spalle, perché Ilaria si trovava a vivere con tre fratelli nati tutti da altre relazioni. Genitori incapaci di dare un’educazione valida: «il “padre” ha avuto “precedenti convivenze”, più d’una. E sicuramente le “madri”, plurime, hanno avuto anch’esse le “loro esperienze”. Hanno bevuto a grandi sorsi la libertà magnificata dai media e raccomandata dalla pubblicità» (Le “madri” sono ovviamente più colpevoli).

Blondet insiste, pure, sulla provenienza della ragazza da Messina e soprattutto da una zona periferica che in un altro post assimila ai ghetti di quelli che chiama negri americani: «A Messina, nelle periferie orribili del sottoproletariato inutile, di quelli che un tempo si chiamavano “Poveri” o umili». In questa periferia che lui dipinge come una sorta di girone dantesco, la maggior colpa dei “poveri” è quella di non farsi mancare «la libertà sessuale, la trasgressione… si sono emancipati anche loro. Insomma hanno perduto Dio, il Dio a cui credevano bene o male i nonni; ed hanno perduto tutto. Come tutto il popolo italiano, che si rigettato Dio, non è più nulla e sta affondando nel nulla del suo degrado. Ma in quei quartieri, in quel Meridione, è peggio: perché non avevano altro che sperare in Dio. E adesso, sperano nella libertà sessuale».

Così sproloquia Blondet, servendosi della morte di una ragazza come di una clava per randellare una società a suo avviso troppo permissiva – in cui si accolgono (sia pure malamente) i migranti che arrivano sulle nostre coste stremati e in cerca di una possibilità di vita, in cui si parla di regolarizzare le unioni tra individui e dello stesso sesso, e di legalizzare le droghe leggere, in cui le ragazzine di sedici anni possono uscire di casa senza troppe storie, in cui le famiglie sono allargate perché l’amore può andare oltre il legame di sangue. Nessun rispetto per il dolore dei genitori, nessuna compassione da parte di chi si professa cattolico e si riempie la bocca di Dio, quello stesso Dio che secondo il Dogma cristiano per l’umanità ha sacrificato il proprio figlio: là dove Blondet è incapace di provare pietà per il figlio di qualcun altro.

Ilaria è colpevole tre volte: non era carina, ai suoi occhi, era meridionale, ed era una giovane donna con troppe libertà acquisite. Per questo merita di morire di nuovo, uccisa da parole che feriscono e bruciano e disseminano odio e fomentano gli animi di poveri in spirito che aspirano a Dio ma hanno dimenticato la propria umanità.

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4 Commenti

  1. Ottimo pezzo, a parte le considerazioni finali su Blondet, personaggio scontato e in fondo irrilevante. Chiunque abbia persone care adolescenti dovrebbe leggere.

  2. Lo schifo che mi ha assalito leggendo il “pezzo” di Blondet è indescrivibile. Povera Ilaria, e povera la sua famiglia, costretta a sentire continuamente insulti e offese infami su di lei. Che schifo.

  3. W la democrazia ! Evvai ! Chiunque può sparare sentenze senza informarsi né autocensurarsi né pensare prima di scrivere ! Pensavo che la democrazia fosse la vera libertà di opinione,di far satira e di ben informarsi,ma evidentemente mi sbagliavo !

  4. Una storia triste, vera,
    le lacrime o il trucco di una ballerina di cancan,
    e poi tutte queste informazioni di Vincent che non spiegano cos’è che muore…
    un breve pezzo che, senza pretese, mi sembra, e per questi semplici accostamenti, forse evita di aggiungere retorica a retorica.
    In tono più prosaico, con l’auspicio di non sfiorare, quasi e neppure, una storia delicata, come quella di ognuno… suggerisco un secondo titolo: Il fascino di uno stile innaturale e ricordo come già Dick Hebidge abbia individuato le forme mediante le quali il discorso pubblico sembra far fronte a ciò che sfugge la sua e la nostra comprensione: forma di merce e forma ideologica. (Cfr. Sottoculture. Il fascino di uno stile innaturale)

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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