Un amaro Montenegro
di
Azra Nuhefendić
Nove vittorie su nove elezioni hanno riportato il presidente montenegrino Milo Djukanović e il suo partito democratico dei socialisti: hanno vinto tutte le elezioni politiche negli ultimi vent’anni. È un miracolo. In Europa non ci è riuscito mai nessuno.
Di miracoli, il minuscolo Montenegro con appena 670.000 mila abitanti, ne ha prodotti parecchi. Ad esempio, insieme alla Serbia ha partecipato a tutte le guerre balcaniche degli anni Novanta. La Serbia e i serbi si sono guadagnati l’etichetta di cattivi, mentre il Montenegro, miracolosamente, l’ha fatta franca.
Nel 1991 Milo Djukanović, allora primo ministro montenegrino, aveva ordinato i bombardamenti dell’antica città di Dubrovnik. Per rifarla “più antica e più bella”, dichiarò il capo dei serbi erzegovesi Božidar Vučurević. L’assedio e l’attacco alla città di Dubrovnik fu chiamato in Montenegro “la guerra per la pace”. Il quotidiano “Pobjeda” (La vittoria) di Podgorica, nell’edizione straordinaria dell’ottobre 1991, aveva scritto che il Montenegro (con la guerra) “si è rilanciato nel mito e nella leggenda e ha mostrato il suo volto inconfondibile… e con orgoglio marcia di nuovo tra gli eroi, nell’eternità, nel posto che gli spetta da sempre”.
Poi il giornale offre un ritratto dei riservisti montenegrini che, insieme alla JNA (l’Armata popolare jugoslava), bombardavano la città che fa parte del patrimonio dell’umanità: “I nobili eroi dai cuori grandi, le persone care e familiari, la gente comune che nei giorni scorsi abbiamo incontrato per strada, al lavoro, all’università, ci hanno regalato esempi di dignità e di eroismo, difendendo la pace, la libertà e l’onore”.
Vi hanno partecipato interi villaggi e famiglie al completo, informa il quotidiano.
Per la comunità internazionale “l’operazione Dubrovnik” fu un crimine di guerra. Infatti, l’assedio e i bombardamenti della città croata, finì con molte vittime umane ed enormi danni materiali. Una piccola parte del danno fu direttamente correlata ai combattimenti e alle operazioni militari, il resto fu il risultato dei saccheggi di massa.
Una commissione internazionale ha accertato che i nobili eroi avevano rubato televisori, videoregistratori, abbigliamento, calzature, biancheria da letto, elettrodomestici, utensili, macchine agricole, automobili, diverse opere d’arte, dalle pareti delle case avevano tolto gli interruttori elettrici, strappato le piastrelle in ceramica, vasche da bagno e water. Dall’ACI Marina di Dubrovnik avevano rubato 51 yacht, e altri 171 vennero completamente distrutti. Dall’aeroporto di Cilipi hanno rubato e trasportato in Montenegro tutti i macchinari di valore, dispositivi a raggi X per il controllo del traffico, apparecchi d’illuminazione per illuminare la pista, fari, generatori, veicoli antincendio, sistemi radar, la scala mobile, ed è stato saccheggiato il duty-free. Nella valle di Konavle, nel retroterra di Dubrovnik, hanno portato via tutto il bestiame dall’allevamento di bovini, a Kupari hanno depredato tutti e sei gli hotel lasciando solo i muri nudi. Il bottino di guerra ammonta a un miliardo e mezzo di euro.
Era l’epoca del giornalismo patriottico. I giornalisti di tale stampo non erano meno eroici dei riservisti. Uno di questi, il montenegrino Nebojša Jevrić, si era fatto filmare nella villa, saccheggiata e distrutta, della cantante croata Tereza Kesovija, vestito con la lingerie della cantante, ed esaltando il proprio patriottismo vantandosi in vari articoli di aver defecato nella piscina della cantante. Un mio collega, che era lì con la troupe televisiva all’epoca della guerra, mi raccontava quello che aveva visto sulla strada statale che collega il Montenegro e Dubrovnik:
“Per una corsia si muovevano i veicoli militari e i camion pieni di riservisti che andavano al fronte come se stessero andando a una festa. Si sporgevano dai camion, cantavano abbracciati e ubriachi, la bottiglia con la grappa passava di mano in mano. Sicuri del loro successo, mostravano due dita in segno di vittoria. Nella seconda corsia il traffico si svolgeva in due direzioni: dalla parte del fronte tornavano i camion pieni zeppi di roba rubata, e in direzione opposta, sempre nella metà della stessa corsia, colonne di civili a piedi, con le auto o i trattori andavano verso il fronte. Il traffico si muoveva a velocità di lumaca e spesso tutto si fermava, perché in mezzo alla strada dei gruppi si mettevano a ballare il kolo “oro crnogorsko”, il ballo tradizionale dove i partecipanti si dispongono in cerchio tenendosi per le spalle mentre nel centro, a turno, ballano con una donna. Nessuno tentava di mettere un po’ di ordine; persino i veicoli con i feriti, con i lampeggianti e le sirene accese, passavano con difficoltà, e ogni tanto venivano fermati dai civili che si congratulavano con gli eroi feriti: “Sretne ti, rane junače!”.
L’attacco a Dubrovnik fu la prova generale per quello che di lì a poco sarebbe successo in Bosnia. “I nobili eroi montenegrini”, nella guerra in BiH si sono distinti partecipando alle brigate di elettrodomestici, le cosiddette brigate del weekend, cioè quelle fatte da “uomini comuni” che andavano in guerra durante il fine settimana a fare razzie e a commettere un po’ di crimini.
Il saccheggio era così diffuso e sistematico, che ispirò la barzelletta sui due proverbiali scemi bosniaci, Suljo e Mujo. Suljo chiede a Mujo, che è diventato profugo, dove vorrebbe andare a vivere, e Mujo: “Nella città di Nikšić, in Montenegro.” “Perché vuoi andare tra i nemici?” “Perché là c’è già tutto quello che possedevo”.
Le notizie di quel periodo mi hanno fatto ricordare e capire un episodio capitatomi una decina di anni prima che cominciasse la guerra. Anton ed io c’eravamo persi in Montenegro e chiedemmo informazioni sulla strada da prendere a un vecchio. Questo ci guardò, fece cenno con la testa verso di me e disse: “Lei potrebbe essere nostra”, e poi, alla domanda di Anton “Come va?”, aveva risposto: “Male, siamo rimasti in braghe di tela perché da troppo tempo non c’è una guerra.”
“Due occhi in una testa”, così si definivano uniti la Serbia e il Montenegro, fino al 2006. Dal giugno di quell’anno il Montenegro è diventato uno Stato indipendente. “Siamo manipolati e vittime della propaganda di Belgrado”, con queste parole Milo Djukanović, si era liberato della compagnia di chi aveva commesso il genocidio e aveva perso la guerra. Si scusò con i croati, promettendo il risarcimento. Il signor Metodije Prkačin, un croato sopravvissuto al campo di concentramento di Morinj, organizzato dal Montenegro dichiara: “Io non mi fido del tribunale montenegrino perché lì lavorano giudici che hanno partecipato ai crimini di guerra, nella zona di Dubrovnik”.
A vent’anni dalla guerra, l’accusa montenegrina non ha avviato alcun procedimento per i reati commessi dalle forze della JNA e dai riservisti montenegrini durante l’operazione Dubrovnik. I politici montenegrini responsabili della guerra occupano ancora posizioni di rilievo nel governo. Tra i primi c’è Milo Djukanović.
Nel 1991, a soli ventinove anni, Djukanović diventò il più giovane primo ministro in Europa. Fu scelto dal regime di Belgrado per compiere la cosiddetta rivoluzione anti-burocratica in Montenegro, eufemismo coniato per destituire i politici che si opponevano al nazionalismo serbo. In pubblico Milo Djukanović era celebrato come “giovane, bravo e bello, uno che pensa con la propria testa”. A Belgrado, negli anni Novanta, capitava di vederlo almeno una volta alla settimana, in via XIV Dicembre, dove si incontrava con Slobodan Milošević. “Andava a prelevare la propria opinione”, dicevamo con ironia.
Nel corso di venti anni Milo Djukanovic è riuscito a mantenersi a galla, è saltato dalla poltrona di capo di governo a quella di presidente, e viceversa, mantenendo una carica o l’altra quasi ininterrottamente dal 1991 al 2010. Da giovane comunista, modesto ed esemplare, è diventato un turbo-nazionalista, poi un guerrafondaio. Il governo guidato da Djukanović è considerato responsabile dei crimini di guerra. Poi Milo si è trasformato in feroce oppositore al suo mentore, l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, e infine è diventato il padre dell’indipendenza montenegrina. La longevità della sua carriera politica si potrebbe paragonare, solo a quella dei mogol comunisti, come il presidente dell’Uzbekistan Karimov, oppure del Kazakistan, Nazarbayev.
Ma la carriera più importante Djukanović l’ha fatta in modo “sconosciuto e misterioso”, come pure la sua ricchezza. La famosa rivista americana, Forbes, ha inserito Milo Djukanović nell’elenco dei politici più ricchi del mondo. Possiede ben 10 milioni di euro ma, come rileva lo stesso periodico, “sembra evidente che egli è in realtà molto più ricco, perché proprietario di immobili gestiti da una ristrettissima cerchia di collaboratori”.
La famiglia Djukanović, tra l’altro, controlla la Prva Banka del Montenegro. La maggior parte del denaro qui depositato, secondo l’autorevole società di revisione “Pricewaterhouse”, proviene da fondi pubblici, mentre due terzi dei prestiti assunti è andato ai Djukanović e ai loro stretti collaboratori.
In Montenegro si crede che i primi milioni Djukanovic se li sia guadagnati durante la guerra infrangendo le sanzioni imposte alla Serbia e al Montenegro, con l’importazione di petrolio e di armi. In seguito ha allargato il suo business con il contrabbando di sigarette americane in Europa. La procura di Bari ha indagato per diversi anni Djukanović e la sua famiglia per il coinvolgimento in questo traffico, ma il leader massimo si è salvato grazie all’immunità diplomatica.
Il direttore del settimanale di Podgorica “Monitor”, Esad Kocan, sostiene che la guerra degli anni Novanta ha generato una nuova classe capitalista in Montenegro basata sul sangue e sul saccheggio.
Infatti, l’autorevole rivista americana, “Foreign Affairs”, di recente ha descritto il Montenegro come uno “Stato mafioso”. Secondo la rivista, a differenza degli stati normali, gli stati mafiosi non solo si affidano occasionalmente a gruppi criminali per avanzare particolari obiettivi di politica estera. In uno stato mafioso gli alti funzionari del governo diventano effettivamente i protagonisti se non i capi stessi delle imprese criminali; la difesa e la promozione di quelle imprese diventa la priorità ufficiale dello stato. Negli stati mafiosi l’interesse nazionale e gli interessi della criminalità organizzata sono ormai inestricabilmente intrecciati, scrive la rivista.
Quando la prestigiosa BBC ha definito il Montenegro uno stato mafioso, l’ambasciatore montenegrino a Londra ha protestato ufficialmente, ma i dirigenti della BBC hanno rifiutato di scusarsi o ritirare la definizione, dicendo che l’etichetta ci stava.
“Come si fa a dire che non siamo uno stato mafioso se abbiamo un ex primo ministro/ ex presidente accusato di contrabbando, e che tra i suoi migliori amici ci sono dei mafiosi”, si domanda l’editore della rivista indipendente locale “Monitor”, Milka Tadić.
Il collega del quotidiano “Vijesti” di Podgorica, Balša Brković, spiega come mai i rapporti con la mafia e i vari scandali di corruzione, che accompagnano ormai da vent’anni Milo Djukanović, non abbiano rovinato la sua carriera politica: “Una gran parte dei montenegrini ammira i ladri e i criminali. Per secoli la rapina è stata la principale imprenditoria nazionale e Milo si adatta bene in questa verticale storica”, dice Balša Brković.
Oggi, a soli cinquant’anni, Milo Djukanović non ci pensa proprio di ritirarsi. “Non ho ancora deciso se farò il primo ministro, o il presidente dello Stato”, dichiara Milo Djukanović dopo l’ultima vittoria elettorale del suo partito.
I commenti a questo post sono chiusi
Ottimo articolo della Nuhefendić, è sempre un piacere amaro leggerla.