New Wave

copertina originale New Wave di Pierfrancesco Pacodadi Mauro Baldrati

In redazione a Frigidaire, a Roma, arrivavano molte visite. Una quantità di collaboratori veniva nella palazzina di Monteverde Vecchio, una villetta col cortile interno, un giardino abbastanza trascurato e un piccolo pergolato, per consegnare articoli, disegni, proposte. Talvolta per litigare, durante misteriose riunioni nell’ufficio del direttore. Con Tanino Liberatore, per esempio, che arrivava da Parigi, non mancavano mai urla, o rumori non meglio identificati. Quando era il turno dei bolognesi si accendeva una luce nella redazione, dove dominava il look cupo autonomia/via dei Volsci, la luce dell’eleganza: Marcello Jori, giovane pittore che utilizzava una interessante commistione tra immagini fotografiche in polaroid e tecnica pittorica, entrava con la sua bellezza aristocratica, i vestiti alla moda (il nero era sempre in voga), i modi affabili, da giovane vincente; Andrea Pazienza, seguito spesso da tipi equivoci, ambigui, spuntati da chissà dove, con giubbotti di pelle extralusso che riempivano di meraviglia il direttore; Massimo Iosa Ghini, che curava servizi/performance d’avanguardia, architetto anche nello stile che usava per aprire e chiudere le porte; Daniele Brolli, il letterato avant-garde anni ’80 multimediale, disegnatore, illustratore, sceneggiatore; Giorgio Carpinteri, che disegnava personaggi duri, cuneiformi, il primo, credo, a utilizzare guanti da lavoro come accessorio d’abbigliamento.

Arrivava anche un tipo svelto, un ragazzo leccese bolognese d’adozione che si occupava di musica, soprattutto la new wave inglese, l’ultima generazione del dopo tsunami punk, un network di gruppi politicizzati, eversivi nei contenuti e nello stile, che lui ci portava direttamente da Londra (per la scena newyorkese ci pensava Stefano Tamburini). Il suo nome era Pierfrancesco Pacoda, io lo chiamavo “il ragazzo della Mandarina” perché si presentava con una elegante valigetta Mandarina Duck, dove teneva gli articoli e le foto. Era uno che ti metteva subito a tuo agio, uno disponibile, adattabile, predisposto all’ascolto. Insomma, un tipo cool, il perfetto imprinting del giornalista che ti spinge a parlare, a raccontare, a spiegare. Diventammo subito amici, a pranzo scendevamo a Trastevere nelle vecchie osterie popolari dove i gestori ci trattavano rudemente, come tutti, e ci servivano fettuccine con frascati a buon mercato. Spesso lo ospitavo nell’immenso appartamento che avevo in comodato gratuito a Fontana di Trevi, e la notte facevamo il giro dei locali.

Un giorno notai, nel banco secondario di una libreria, un libro che attirò la mia attenzione: aveva una copertina semplice e stilizzata, un ragazzo con la bocca piegata all’ingiù con un triangolo grafico che partiva dai cateti del bavero della giacca: Pierfrancesco Pacoda, New Wave, interviste, testi e foto di una serie di gruppi inglesi. Nessun riferimento all’editore, solo che era stato stampato a Londra (oggi sappiamo che fu Marcello Baraghini di Stampa Alternativa a produrlo). Ma guarda un po’, pensai, il ragazzo della Mandarina. Lo comprai, e lo lessi un pomeriggio in redazione. Erano schede-interviste dei gruppi di tendenza, realizzate nel 1979 a Londra nelle loro case, o per strada. Un documento in tempo reale: alcuni di quei gruppi erano in piena attività, e rappresentavano dei punti di riferimento importanti per le avanguardie di mezzo mondo: i Killing Joke, Passions, Ruts, Pop Group, Essential Logic, e Robert Wyatt, il mitico fondatore dei Soft Machine, maestro di stile (e di impegno politico) con le sue fusion di free jazz, afro, funk.

copertina nuova edizione new Wave di Pierfrancesco Pacoda28 anni dopo, oggi che Pacoda è un giornalista professionista, ha co-fondato un’etichetta, la Century Vox, che ha prodotto gruppi di hip hop italiano e ha scritto vari libri per Feltrinelli, Einaudi, Alet, quel testo è stato ripubblicato dall’editore NDA, con l’aggiunta di una interessante riproduzione di copertine originali dell’epoca, una prefazione dello stesso Pacoda e una traduzione di alcuni testi. Non è uno studio fatto a posteriori, con implicazioni sociologiche, economiche e politiche del periodo post punk, compreso tra il 1978 e i primi anni Ottanta, come il fondamentale Post Punk di Simon Reynolds. E’ un vero e proprio salto temporale, un documento che arriva direttamente dalla prima linea londinese, quando i gruppi si organizzavano con mezzi propri, sulla scia del do it yourself del movimento punk (a sua volta derivato – benché in apparente contrapposizione – dal do it! degli anni Sessanta), ragazzini arrabbiati in rivolta contro il thatcherismo, che vivevano e suonavano nei quartieri degradati, con forti tensioni razziali (Armi su Brixton cantavano i Clash, Piccadilly, Notting Hill). E’ l’incontro tra un apprendista giornalista ventenne e suoi coetanei che stavano rivoluzionando la musica giovanile di mezzo mondo, sganciandola dalle logiche di mercato, producendola con mezzi artigianali e distribuendola in proprio, nei canali alternativi (il piccolo negozio di Rough Trade, a Portobello, era il loro centro di distribuzione). Pacoda narra l’incontro con uno dei gruppi più radicali, fautori del cosiddetto industrial sound che con le sue sonorità estreme stava per “sporcare” il ritmo martellante della dance music in arrivo da Chicago e da Detroit: “I Throbbing Gristle abitavano tutti insieme, come la maggior parte dei gruppi di quell’epoca, in una casetta sotto a un ponte in Martello Street, in uno dei quartieri più oscuri e degradati di Londra, vecchi palazzi abbandonati coi muri scrostati. Nella casa mangiavano, dormivano, suonavano, e incidevano. Infatti era anche la sede della loro etichetta, la Industrial Records. Mi ricevettero con l’ospitalità e l’educazione di veri gentlemen inglesi, davanti a una tazza di tè. Io però non la smettevo di guardarmi intorno: i muri della casa, tutti i muri, erano rivestiti di carta da parati, secondo la tradizione inglese, ma una carta tutta speciale: era infatti un unico, enorme collage di immagini pornografiche ultra gore, violente, macabre.”

Incubi sonori, apocalittici, “cattiva coscienza dell’Inghilterra”, autoproduzione: “Nella new wave” scrive Pacoda, “ci sono spezzoni di arte, il dark, il new romantic, il new funk, la moderna culture club della house e della techno, c’è un intero, infinito universo sonoro e sociale che si muove per i territori, invade, travolge le frontiere, contagia ogni nazione.”

Benvenuti quindi negli anni frenetici e furiosi, quando la creatività bruciava i tempi e le vite, e la musica, l’amicizia, la rivolta , la ricerca di una nuovo stile e della libertà espressiva viaggiavano veloci in una Londra incupita dalla reazione thatcheriana, e si diffondevano nel resto del mondo. Leggere questo libro non significa solo studiare, capire, ma esserci. E’ come viaggiare in una macchina letteraria, per uscire da questo tempo, dove il mercato domina con la sua protervia e la sua disperazione, per tornare là dove regnavano “il desiderio di far irrompere sulle scena delle culture e del consumo, l’assoluta libertà, e la consapevolezza tornava, finalmente, nelle mani dei ragazzi.”

We are all prostitutes

del Pop Group

Siamo tutti delle prostitute

Ognuno ha il suo prezzo

E anche tu ti abituerai alla menzogna

Aggressione

Competizione

Ambizione. Fascismo consumatore

Il capitalismo è la più disumana tra tutte le religioni

I grandi magazzini sono le nostre nuove cattedrali

Le nostre macchine sono i martiri per la causa

Siamo tutti delle prostitute

I NOSTRI FIGLI SI ERGERANNO CONTRO DI NOI

Perché noi siamo i responsabili

Noi siamo quelli che essi accuseranno

Ci attribuiranno un nome

Noi saremo

IPOCRITI IPOCRITI IPOCRITI

(Throbbing Gristle)

(Pop Group We are all prostitutes)

http://www.youtube.com/watch?v=s1oyfG6t2ew

(Killing Joke)

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23 Commenti

  1. “in una Londra incupita dalla reazione thatcheriana”
    è vero. ma non dimentichiamo che la new wave fu anche la musica della “provincia”, della “periferia”: manchester (joy division e fall), birmingham (swell maps), sheffield (human league) – giusto per sparare i primi che mi vengono in mente.

  2. Mauro, come sempre, ha la capacità di portarti nel cuore dell’ ‘azione’…Anni eroici quelli della new wave…anni eroici quelli di frigidaire..l’intenzione, quando scrissi il libro, era di raccontare Londra attraverso le voci di un manipolo di giovani musicisti che avevano un solo desiderio…sperimentare…

  3. 1) la canzone dei Killing Jones è una delle loro piu brutte…e poi è copiata dai Nirvana quindi siamo nei 90
    2) non se ne può piu di queste nostalgismi degli anni 80 aiuto sono di una tristezza infinita

    • Dietro segnalazione di Mauro, ho corretto i link ai libri nell’articolo: facendo clic sulle immagini di copertina (e nel testo al punto opportuno) si arriva alla scheda della riedizione di New Wave su IBS.

  4. Ringrazio anch’io gli intervenuti..il bello della new wave è proprio quello di essere forza vitale…capace oggi di generare passioni…

  5. si li conosco li ho visti piu o meno nel 85 al tenax e avevo il loro primo vinile…eppure mi sembrava di sentire delle somiglianze con ‘smell like a teen spirit’ prova a risentirla …

  6. sicuramente i Nirvana si sono nutriti di new wave…nulla di strano se nei loro pezzi ci sono echi di gruppi di quella ondata…

  7. per chi fosse interessato lo presentermo il 7 settembre a Bologna con Mark Stewart, il cantante del Pop Group

  8. ho una teoria che non ho il tempo d’argomentare però fidatevi vi prego. la new wave è un fatto americano, ha poco a che fare coll’inghilterra

  9. Frigidaire, la new wave, i miei anni ’80…leggendo l’articolo quasi piango. domattina cerco il libro (peccato che abbiano cambiato la copertina, quella originale è un altro passo!).

  10. si… era molto new wave…ma questaedizione ha un bellissiimo inserto fotografico…con copertine di dischi rarissimi e locandine e altro…

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Mi occupo dell'infrastruttura digitale di Nazione Indiana dal 2005. Amo parlare di alpinismo, privacy, anonimato, mobilità intelligente. Per vivere progetto reti wi-fi. Scrivimi su questi argomenti a jan@nazioneindiana.com Qui sotto trovi gli articoli (miei e altrui) che ho pubblicato su Nazione Indiana.
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