Il volo di Giuseppe Pinelli
di Franz Krauspenhaar
Il dolore è diventato fitto, come se il mio corpo stesse aprendo varchi e crepe gigantesche dentro di sé. Prendo in mano una busta che mi ha appena consegnato Angela, triste come non mai. Ha fatto l’errore di affezionarsi a un moribondo, e ora ne paga le conseguenze. E l’attende una sorta di lutto, che vorrei tanto risparmiarle, anche perché non merito il dolore degli altri. Apro la busta e trovo il catalogo della mia ultima mostra. A Ravenna. Trenta dipinti, raccattati in collezioni private di un certo prestigio, dei miei inizi. “Starting Fabio Bucchi”, si chiama la mostra, Trenta quadri a macedonia, gli inizi furibondi e caotici di un artista che ancora non si sente tale, che annaspa nel gelo di una vita impiegatizia, tra la nebbia di una Milano anni 60 che il boom lo calpesta, lo vede per modo di dire. C’è anche il quadro dei Casati ̶ Stampa, recuperato chissà dove, a chiudere. E vari tentativi di informale, a rifare alla mia cruda maniera il Morlotti della Brianza. Due quadri così, dove metto insieme in un informale esasperato un paesaggio di campagna brulla e casermoni, sopra, come nell’incollaggio di due realtà del tutto diverse. E poi vedo la foto di un quadro che mi fa male rivedere: “Il volo di Pinelli”. Ecco, rappresentai l’anarchico Pinelli che viene gettato da una finestra della questura di Milano come un fantoccio, un manichino grigio. Niente occhi, niente tratti nel viso. Un fantoccio di pezza che cade da una finestra dipinta sommariamente, grigi su grigi, come sottovuoto. L’impressione è terribile. E’ un gran quadro, quello: non perché lo abbia dipinto io, so che allora dovevo ancora trovare una strada, so che facevo ancora fatica ad avere una personalità mia. Ciononostante quel quadro è l’opera di un maestro che ancora non sa di esserlo, anzi che non lo è; è un colpo di genio probabilmente involontario, la raffigurazione di un pensiero terribile, mortale, senza pietà. Io allora, giovane fascista senza forza in me stesso, pensavo che Pinelli si fosse davvero ucciso, si fosse davvero buttato da quella finestra. Accettando la versione della legge, accettavo quella morte come volontaria di uno che aveva avuto responsabilità nella strage di Piazza Fontana. Quel giorno avevo dormito nel mio letto, febbricitante, senza sapere di nulla. Verso le otto di sera m’ero ripreso, e, non avendo mangiato nulla per tutta la giornata, mentre mia madre veniva spesso nella mia stanza per offrirmi il conforto di una scodella di minestrone, io chiamai al telefono il Catelani, il pizzaiolo più avanti, e ordinai quattro delle sue pizze cotte sul forno elettrico, ma davvero buone, rotonde e un po’ alte, e meno larghe di quelle napoletane da pizzeria classiche. E il suo garzone ce le portò ancora belle calde, così che sbranai due pizze, una dietro l’altra, e mio padre la sua e mia madre la sua appresso. A un certo punto mio padre accese la televisione, e al telegiornale della notte appresi della strage alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana. Ce ne vergognammo, ognuno dalle sue sponde. “Ecco, ora daranno la colpa alla sinistra!” esclamò il mio vecchio. Continuai a mangiare la mia seconda pizza, arrabbiato. “Non hai niente da dire, eh?” mi disse mio padre, mentre deglutivo ormai a fatica l’ultimo boccone. Me ne andai in camera mia, evitando lo scontro.
Tre giorni dopo, il 15, l’anarchico Pinelli volò dalla finestra. Io, nella mia demenza giovanile, credetti subito al suicidio. E mi misi al cavalletto, per fare con furia quel quadro strano. Dipinto da un fascista che però sotto sotto rimaneva affascinato dalla rabbia di verso opposto di suo padre, l’ex fascista e ora comunista credente, suo padre, che gli disse: “Sono stati loro, l’hanno ammazzato perché non parlasse! I fascisti hanno messo le bombe, lì e anche a Roma, dove hanno fatto poco danno, solo feriti… Ma da noi… Morti, morti!” Eccoli, i nomi degli assassinati dalla bomba di piazza Fontana : Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silvia, Attilio Valè, Gerolamo Papetti. Io, sconosciuti morti, ora provo a pregarvi, io che non ho mai creduto in nulla, pensando a quel mio vecchio padre che aveva creduto perlomeno in voi, nel vostro tacere senza speranza. E che quando per un caso era entrato nella mia stanza e aveva visto il mio quadro che rappresentava la caduta del povero Pinelli aveva rivolto subito il suo sguardo severo ai miei occhi, e mi aveva puntato nelle pupille come a chiedersi perché, perché quel figlio tristemente fascista e ribelle potesse poi dipingere il male così appropriatamente; perché lui – me lo disse il giorno dopo – in quel quadro ci vedeva la verità, quella dell’omicidio, e quel fantoccio che volava verso lo sfracello e la morte era la rappresentazione della spersonalizzazione di un uomo, già ucciso a sangue freddo prima di quel volo. Così, senza volerlo, avevo dipinto l’ingiustizia della nostra legge, e così quel quadro veniva adesso descritto. Ne ero ricompensato, sentivo da qualche parte lo sguardo severo di mio padre che redimeva tutto quel mio periodo di giovanile follia. Quel quadro in qualche modo l’avevo fatto dipingere a lui, e ora, che i miei giorni erano finiti, perlomeno qualcosa di nostro continuava a vivere in una sala, davanti a dei visitatori, a degli appassionati della mia pittura.
(Vedi anche qui., a.s.)
bellissimo post. stamattina ho trovato questi due filmati che non conoscevo, mi fa piacere condividerli con Nazione Indiana:
http://www.youtube.com/watch?v=l27IJPnzrOk&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=AAkhdZi8-Bo&feature=related
è un modo per ricordare anche un grande attore e un grande uomo come Gian Maria Volontè
mille grazie irene, questi due video sono importanti.
Bellissimo pezzo, grazie Franz.
Un bel pezzo ed un bel ricordo di tuo padre.
grazie, ma qui mio padre non c’entra. questa è fiction al 100 per cento, a parte il volo di pinelli, si capisce.
.. un padre che diventa comunista; il figlio idem; era un po’ troppo, effettivamente