Letteratura e editoria (il caso Germania)

cartiera 2
di Giovanni Nadiani

Il caso Germania: la scrittura ‘silenziata’ e i traffici del marketing.

Un’analisi della situazione tedesca contrassegnata da un lato da una rete istituzionale e mediatica di sostegno all’attività letteraria, dall’altro lato investita come in tutto il mondo dal crescente prevalere dei valori di mercato, dalla ricerca del bestseller e da una iperproduzione di libri di intrattenimento a scapito della narrativa ‘seria’, ciò che ha dato luogo a fenomeni di ‘sparizione’ di tanti autori di qualità come, ad esempio, l’assai stimato Jürgen Theobaldy, uno dei protagonisti della stagione degli anni Settanta, che si è ridotto a pubblicare senz’alcun riscontro ‘on demand’.

Da decenni ormai, secondo quanto proposto dalla critique génetique e fatto proprio in molte arti, anche in letteratura il “testo”, cioè il “prodotto” con cui un lettore-ascoltatore-spettatore viene a confrontarsi, in realtà non è da considerarsi il frutto affatto esclusivo di una singola genialità bensì come il lungo processo di una creatività collettiva. E soltanto in questo modo ci è possibile, se non comprendere, avvicinare determinati fenomeni caratterizzanti l’attuale produzione letteraria, in misure e forme diverse, di quasi tutte le lingue. Se in linea di principio si può sostenere che un “testo” esista a partire dal momento in cui esso si fissa sulla carta o in una memoria digitale indipendentemente dal fatto che un giorno venga letto o no, chiunque scrive, piegato sul suo diario o intento a digitare bit&byte nel suo “privatissimo” blog, sa e sente di rivolgersi comunque a un interlocutore, a un altro, che da fittizio si vorrebbe sempre più reale affinché ciò che è stato scritto prenda infine una boccata di vita attraverso la lettura di qualcuno. Questa banale operazione creativa collettiva, almeno a due, nella nostra distrattissima società evenemenziale, è diventata un sofisticato processo di messa in scena testuale: dell’Opera oggi fa indissolubilmente parte anche la sua messa in scena, la quale a sua volta è fatta di tante, parziali messe in scena. Dall’ideazione del libro come corpo del testo (autore, agente, editor ecc.), alla creazione dell’immagine dell’autore e relativa spettacolarizzazione, alla teatralizzazione dei paratesti fino all’eventizzazione, nelle più svariate forme e col concorso di tutti i possibili media (dai tradizionali a internet nelle sue varie modalità anche gratuite quali YouTube, MySpace FaceBook ecc.) del marchio “Autore+libro+Cd+DVD+ecc.”, in base al budget a disposizione dei “venditori” e secondo la notorietà dell’“etichetta”. In questo, esemplare per il nostro paese nel momento in cui si abbozzano queste note (tarda primavera 2008) è risultata la messa in scena del marchio “Lucarelli” in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo. Ma, fatte le debite proporzioni, la stessa cosa a livelli più artigianali e manuali si può dire accada per certi marchi di poeti (da noi da vent’anni sempre e solo lo stesso manipolo di eletti e qualche loro amico), o di scrittori di notorietà non televisiva e mediati dai giornali locali che possono comunque contare su un “bacino di utenza” interprovinciale per letture, spettacoli, presentazioni, tavole rotonde ecc. che in qualche modo contribuiscono alla messa in scena del “testo”. E, sostanzialmente, è giusto così, perché in molti casi il testo proprio non esisterebbe: si pensi al non-mercato della poesia: senza i tanti, piccoli eventi coinvolgenti autori e pubblico a fungere da moltiplicatori, essa non avrebbe quasi mai circolazione. Ovviamente, anche la letteratura al pari delle altre arti ha conosciuto nel tempo sempre forme di pubblicizzazione per poter essere diffusa e l’oggetto “libro”, al di là della sua aura di sacralità, è da Gutenberg che è considerato un prodotto da vendersi. Nulla di cui scandalizzarsi. In tedesco, del resto, per definire il lavorio attorno e all’interno del mondo letterario, con le sue regole e costrizioni scritte e no, si usa il composto Literaturbetrieb, e uno dei significati del secondo termine “Betrieb”, derivato dal verbo “treiben” (azionare, movimentare ecc.), è appunto l’animazione, il traffichio insito nella “società letteraria” (che spesso di socievole ha ben poco); ma non si dimentichi che il termine significa anche impresa, azienda. Ciò che caratterizza però in modo affatto nuovo e a ritmi accelerati mai conosciuti prima questa fase del cosiddetto capitalismo postfordista e finanziario è la massimizzazione dei profitti in tutti i segmenti economici, industria cultural-editoriale compresa, anche nella branca di ciò che dovrebbe essere pane per la nostra intelligenza emotiva, nella Letteratura e non solo nella Paraletteratura. Nonostante sappiamo quanto sia infido il terreno in questa nostra Seconda Modernità (preferisco non usare “postmodernità” per non causare equivoci) in cui la mescolanza dei generi è fluida (anzi ormai il superamento del “genere” sembra completamente avvenuta), in tedesco si usa distinguere ancora tra E-Literatur (Ernste Literatur, letteratura seria) e U-Literatur (Unterhaltungsliteratur, letteratura d’intrattenimento), a prescindere dal genere e dalla capacità di divertire, tra la qualità associata alla ricerca e tutto il resto impilato nelle librerie delle grandi catene distributive che hanno quasi sostituito ovunque le librerie indipendenti che, comunque, soprattutto nelle grandi città resistono, e proprio in esse, sui loro scaffali ed espositori spesso troviamo la linea di demarcazione tra qualità e mero intrattenimento. Qualcuno stante la “sfacciataggine estetica” in voga ha proposto di riprendere a usare la vecchia etichetta di Trivialliteratur (Dorothea Dieckmann) per distinguere per onestà verso il cliente il “ciarpame” dall’“opera d’arte” in vendita sugli stessi scaffali, come succede in tutti i negozi che si rispettino, sostenendo che in letteratura la pretesa di avere alta qualità e vendibilità è un controsenso in sé, e che non c’è nulla di male nell’esistenza della Trivialliteratur, basta che essa sia resa riconoscibile, come lo deve essere l’opera d’arte. Insomma, sarebbe ora di finirla con una trivialità di massa furbescamente arricchita con un tocco di letterarietà e esteticità.

Di pari passo, c’è stato come uno spostamento semantico del termine Literaturbetrieb: esso è venuto a indicare il sempre più ristretto mondo letterario in qualche modo “sovvenzionato”, una sottobranca del Literaturmarkt. A questo punto è forse necessario precisare alcune cose dando alcuni dati.

Il mondo letterario tedesco, e culturale in genere, visto con occhi italici, è veramente un altro mondo: si pensi soltanto all’altissimo numero di orchestre sinfoniche, di teatri stabili, di case della letteratura che non ha paragoni a nessuna latitudine; ma si pensi anche ai sistemi radio-televisivi pubblici sorti su base federale: in breve, per la sola Germania, si provi a immaginare una Rai moltiplicata per nove emittenti, ognuna delle quali oltre a un canale televisivo proprio dispone di almeno cinque canali radiofonici, due dei quali eminentemente culturali, a cui si aggiungono due canali radiofonici nazionali, uno dei quali porta addirittura nella sua denominazione il termine Kultur (Deutschlandradio Kultur e Deutschlandfunk). A questi si aggiungano i programmi austriaci dell’ORF, della Rai di Bolzano e della DSR svizzero-tedesca e si avrà un quadro delle immense possibilità che si aprono in questa area linguistica anche per gli scrittori (100 milioni di parlanti madrelingua più circa 30 milioni di persone che considerano il tedesco seconda lingua) con una forte tradizione di lettura. Con tranquillità si può sostenere che dal Dopoguerra a oggi la radio di diritto pubblico, interpretando al meglio il suo compito istituzionale di acculturare, è stata per migliaia di scrittori il primo e più importante datore di lavoro e non è un caso che ancora oggi l’Hörspiel (il radiodramma) sia un genere molto frequentato con un suo pubblico fedele. È stata anche questa consuetudine con la letteratura “detta” a rendere possibile da ormai più di un decennio l’esorbitante fenomeno degli audiolibri.

Distribuzione territoriale delle emittenti del servizio pubblico della catena tedesca ARD

A ciò si aggiunga l’“istituzionalizzazione” del ruolo dello scrittore nella normale attività educativo-culturale con la sua presenza nelle scuole, nelle biblioteche e nei teatri, spesso impegnato, oltre che in laboratori di vario tipo, nella Lesung (lettura pubblica) nelle sue più svariate modalità, tradizionalmente momento significativo di incontro tra autori e pubblico di lettori-ascoltatori: dai salotti settecenteschi, ai circoli di lettrici ottocenteschi passando per i cabaret berlinesi, viennesi e zurighesi dei primi del Novecento, fino ai vari open mike e performance varie di oggi. Le numerose case della letteratura e i vari “uffici letterari” disseminati sul territorio costituiscono un altro pilastro consolidato per la promozione e la circolazione di libri e autori, congiuntamente alle iniziative collegate agli innumerevoli posti di “scrittore residente” o ai tanti premi letterari ufficiali di livello (neanche lontanamente parenti della misera industria nostrana dei concorsi a pagamento). Mediamente un premio che si rispetti ammonta a € 15.000. Si calcola che i tre stati di lingua tedesca, nelle loro varie diramazioni regionali e locali, investano solo in premi e borse di lavoro (anche per traduttori) circa cinque milioni di euro all’anno, addolcendo l’esistenza a un paio di migliaia di artigiani della parola. Esemplare è l’opera del Fondo letterario tedesco che interviene con aiuti consistenti sotto forma di assegni mensili di durata varia ad autori impegnati in lavori di particolare respiro. Elemento da sempre consistente nel quadro appena disegnato del Literaturbetrieb sono, ovviamente, i festival dalle denominazioni più strambe che attraversano tutta l’area linguistica tedesca, dall’Alto Adige a Berlino, da Erlangen a Colonia, da Basilea a Brema. Con tutta questa ricchezza si potrebbe pensare che ci sia posto per tutto e per tutti attorno alla torta letteraria. Purtoppo la realtà è in molti casi più tetra di quanto sembri: su tutto e tutti scende l’ombra lunga del Mercato con le sue 100.000 novità librarie all’anno, comprese alcune migliaia di “pezzi” di narrativa (il mercato librario tedesco è il secondo al mondo dopo quello di lingua inglese per giro d’affari), che sempre di più tende a concentrarsi nelle mani di pochi grandi gruppi interessati al massimo profitto nel più breve tempo possibile secondo l’adagio “mordi e fuggi”, ai quali non interessa “crescere” gradualmente e promuovere nel tempo l’opera di uno scrittore originale e di qualità da poche migliaia di copie, facendo altresì il gioco delle grandi catene distributive: il 60% dei libri è venduto nei megashop di Tahlia e Hugendubel. È stato calcolato che per i grandi apparati editoriali un romanzo, perché non sia in perdita, deve essere in grado di vendere almeno 15.000 copie nelle sei settimane in cui mediamente un libro resta in libreria. Scrittori considerati fino a poco tempo fa come “affermati” coi loro 10.000 acquirenti regolari, improvvisamente non vendono quasi più niente, travolti anch’essi dai bestseller. La cosa si spiega anche col fatto che la letteratura (la scrittura e la lettura) è “fatta” di tempo, e questo non può essere dilatato: con l’aumento spropositato della produzione libraria e dell’offerta culturale e mediatica in genere, proporzionalmente cala la porzione di tempo potenzialmente a disposizione del singolo utente per unità di prodotto e si abbassa la relativa soglia di attenzione verso determinati prodotti poco visibili e non strillati. È matematico: l’accelerazione trasforma la percezione della letteratura. Anche il lettore forte e motivato lotta col tempo, è frastornato e magari perde di vista, non si accorge più di quel dato scrittore che pure aveva apprezzato, la cui opera è diventata “invisibile” nel calderone mediatico. Questo costringe, da un lato, l’autore a un’iperproduttività (si pensi ai nostrani scrittori di noir e gialli costretti a consegnare un libro all’anno) affinché la macchina presenzialista venga continuamente oliata (pure a costo di oggetti scadenti), e dall’altro, nella scarsità di tempo, indirizza il fruitore forzatamente e spesso a sua insaputa verso determinati prodotti.

Curiosamente due premi recentemente istituiti il Deutscher Buchpreis e il Buchmessenpreis della Fiera del libro di Lipsia in pochi anni si sono trasformati nell’ambito della narrativa in incredibili agenzie del mainstream secondo il motto: “nessun esperimento!”, monopolizzando coi volumi vincitori tutto l’imponente apparato mediale che neanche Hollywood… Le proporzioni del fenomeno hanno sorpreso tutti gli osservatori e gli stessi editori, che ovviamente sono corsi subito al riparo foraggiando le opere secondo la presunta “qualità” imposta dal trend: intrattenimento; facile usabilità, facile leggibilità, semplicità linguistica, piacevolezza formale senza particolari pretese stilistiche; argomenti comprensibili possibilmente ambientati nel ceto medio-alto (romanzo familiare con un tocco di storicità nel momento in cui la famiglia è scomparsa, romanzo generazionale, romanzo di rapporti tra coppie, romanzo sessuale ecc.); il tutto elaborato e risciacquato in modo popolareggiante al fine di garantire un prodotto a bassissimo rischio estetico in presenza della massima rentabilità economica e all’insegna della facile digeribilità. La critica un tempo militante di quotidiani e settimanali (i tedeschi sono ancora fortissimi lettori di giornali), secondo il severo giudizio di un bravo e preparato critico come l’austriaca Sigrid Löffler, sembra vedere ormai “il proprio compito nel limitarsi a benedire il Mercato dedicando in modo crescente e consensuale il proprio spazio a ciò che di per sé è già di successo”; oppure affiancando in modo significativo il Mercato col suo prestigio highbrow (come fanno regolarmente lo Spiegel o la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il corrispettivo del Corriere della Sera) nell’affermazione di nuove mode, e relegando tutto il resto ai margini o passandolo sotto silenzio (la peggiore delle stroncature). Lo stesso avviene con gli altri media. Il ruolo della radio, ad esempio, decantato più sopra, in parecchi casi sembra quello di fungere da cassa di risonanza ai grandi eventi e ai grandi successi editoriali. Sulla spinta della concorrenza con le emittenti private, si assiste, inoltre, a un diffuso alleggerimento di taglio infotainement nei programmi culturali, con interventi a voce (sia di recensori che di scrittori con le loro opere) sempre più brevi nelle emittenti pubbliche di cui si diceva, anche se fortunatamente diverse isole radiofoniche tengono ancora duro. Stesse tendenze si hanno parallelamente negli altri attori citati, case della letteratura, festival ecc.

Insomma, anni luce sembrano passati dai tempi di Max Frisch che era considerato un autore di successo con le sue 5.000 copie vendute nel corso di un paio di stagioni negli anni Sessanta. Idealisti come il vecchio Siegfried Unseld, padre-padrone della casa editrice Suhrkamp, l’editore di cultura europeo per antonomasia, che fino alla fine dei suoi giorni ha creduto nell’importanza di pubblicare poeti da nemmeno 500 copie, sono scomparsi dalla circolazione; e se è vero che esiste tutta una serie di editori medio-piccoli (Merlin, Wunderhorn, Wallstein; Kookbooks, Blumenbar, Tropen, wjs ecc.) dediti allo scouting, tuttavia senza osare mai troppo e attenti anche a ciò che “tira” (ad es. una piccola collana di “gialli” è immancabile, del resto i conti devono pur tornare), sono venute a mancare certe collane di riferimento per una letteratura di ricerca (non saprei come definirla altrimenti per non ghettizzarla immediatamente usando l’arcaico e fuorviante aggettivo “sperimentale”) che rischia strade nuove o impervie, all’interno di editori maggiori come poteva essere “das neue buch” dell’editore Rowohlt di Reinbeck (Amburgo), che veramente ha improntato per la capacità dei curatori (l’indimenticato poeta e narratore Nicolas Born morto prematuratamente, e il critico e editor Jürgen Manthey) tutta un’epoca; oppure la prima fase della “collection fischer”. Al loro posto da poco dopo la Caduta del Muro, prima che il marketing diventasse l’unica unità di misura sovrapponendosi soffocantemente al Literaturbetrieb, anzi inglobandolo, era già subentrata la creazione ad hoc di vere e proprie correnti ovvero mode. La Riunificazione stessa era stata una grande occasione non tanto per pubblicare autori vietati o censurati nella ex-DDR, ma per lanciare la spasmodica ricerca appunto del “romanzo della Riunificazione”; oppure per ricreare il mito di Berlino capitale prima con gli autori della “Generazione Berlino”, poi con la letteratura metropolitana del “romanzo berlinese”. E quando 15 anni dopo finalmente appare la definitiva narrazione sulla capitale, Teil der Lösung [Parte della soluzione] di Ulrich Peltzer, non viene riconosciuta come tale. Così tutti a correre a Berlino ad aprire filiali editoriali, a rilevare e rilanciare editrici blasonate, poi diventate semplici etichette all’interno delle multinazionali, o a piazzare una succursale della redazione culturale nel caso della grande stampa (diverse delle quali nel frattempo chiuse). La stessa DDR è diventata a più riprese una moda letteraria con relative operazioni mediatiche (film, serie televisive, show): si pensi soltanto al successo arriso ad autori che con ironia e leggerezza hanno preso in giro il loro ex-stato come Thomas Brussig o Jens Sparschu. Successivamente col passare degli anni e il relativo disincanto è poi esplosa la Ostalgie (la trasfigurante nostalgia per l’est, cioè la Germania Est) sulla scia di bestseller quali Zonenkinder (“Figli della Zona”, con riferimento al termine spregiativo con cui nella Germania di Adenauer si definiva la Germania comunista) di Jana Hensel, che ancora perdura.

Molti scrittori fedeli al regime comunista sono riusciti a riciclarsi sfruttando le varie cordate di “ex”, il cosiddetto Kulturfonds (un fondo culturale creato nel 1949 nella Germania per l’aiuto materiale agli artisti alla base dell’omonima fondazione sorta alla Riunificazione nei Nuovi Länder della vecchia Zone), la “DDR-Bibliothek” della multinazionale editoriale Faber&Faber impegnata nella ristampa del canone realsocialista. Questo cosiddetto Bonus-DDR, accordato troppo facilmente e pletoricamente a una marea di scrittori giovani, in alcuni casi ha comunque rivelato anche autori di spessore quali il narratore Ingo Schulze, autore di un “romanzo a racconti” diventato un punto di riferimento, Simple Stories (un falso anglicismo velatamente ironico che potrebbe essere tradotto, oltre che con “Semplici storie”, com’è stato fatto da Mondadori, con “Fatti elementari”), o il poeta “sacerdotale” Durs Grünbein, per citare solo due nomi le cui opere sono reperibili anche in italiano.

Da pochi mesi soltanto, a quasi due decenni dalla Riunificazione, si può parlare di assistere a una vera “scoperta”. Finalmente è stato ricostruito filologicamente e reso disponibile per la prima volta il denso e monumentale romanzo Rummelplatz [“Piazza della fiera”, ma anche “Luogo di frastuono”, Aufbau Verlag, pp. 770] di Werner Bräunig, a posteriori da considerarsi un grande della DDR. Il romanzo, ambientato nei primi anni Sessanta di questa, era stato sempre censurato e veramente nessuno ne aveva mai avuto notizia in quanto quasi nulla del suo autore era trapelato in Occidente; soltanto un capitolo era stato pubblicato sulla rivista dell’Associazione degli scrittori tedesco-orientali Neue Deutsche Literatur, con Sinn und Form una delle riviste “ufficiali” tollerate dal regime, con conseguenze disastrose per l’autore, morto alcolizzato a 42 anni in seguito a tutte le vessazioni di cui era stato vittima a partire da quella piccola pubblicazione.

Successivamente si è assistito alla piaga dei popliteraten che, scimmiottando e saccheggiando i grandi autori pop degli anni Settanta, in primis Rolf Dieter Brinkmann (scomparso a 35 anni nel 1975), hanno monopolizzato la scena con un massimo di visibilità alla stregua di star hip hop. Sintomatica in questo contesto è la carriera (anche economicamente molto importante) di Benjamin von Stuckrad-Barre, diventato un ectoplasma dell’industria dello spettacolo e del gossip. Al confronto il “cannibalismo” nostrano di un decennio fa è stato poco più di un grido nel deserto.

E poi a seguire il fenomeno Fräuleinwunder: giovani, impertinenti e telegeniche fanciulle, assurte in massa e di punto in bianco a rinnovatrici della narrativa nordeuropea. Una di queste, l’onesta artigiana Julia Franck, ha conseguito infine lo scorso anno appunto il famoso Deutscher Buchpreis con un battage mediatico da ammazzare un elefante. Molte delle Fräulein nel frattempo sono tornate ad attività più consone, anche se nel mazzo a ragion del vero un paio si sono dimostrate scrittrici di valore con una voce riconoscibile e solida, come Karen Duve e Juli Zeh.

In alternativa è stata proclamata la Debütantenwelle, l’ondata dei debuttanti (Crazy, di Benjamin Lebert, diventato milionario) e soprattutto delle debuttanti, simili alle nostrane “spazzole”, possibilmente adolescenti sessualmente invasate e “porche”, scomparse dalla scena alla seconda pubblicazione. In tutti questi casi, più che un libro, si vendeva un brand, un personaggio, una generazione, un esotismo, in sostanza era all’opera una branca dell’industria del life-style più che la letteratura. Magari qualcuno di loro, sfruttati fino all’osso la notorietà del newcomer e il sistema di promozione istituzionalizzato, potrà sopravvivere un paio di lustri all’interno del “traffichio”, ma poi si farà dura senza un altro mestiere, a meno che non ci si chiami Günter Grass, Peter Handke, Dieter Wellershoff, Martin Walser, Brigitte Kronauer, Ulla Hahn, F.C. Delius, Uwe Timm, Botho Strauß, Christoph Hein, Wolf Biermann, Adolf Muschg, Peter Schneider o, tra i cinquantenni di oggi Matthias Politycki, Robert Schneider, Christoph Ransmay e non si sia riusciti a creare effettivamente un’“opera” con uno “stile”, oltre gli imperativi dello Zeitgeist.

Da diversi anni, ovviamente, non poteva, infine, mancare il grande filone “interculturale” prosperato sulla mai sopita “coscienza sporca” collettiva dei tedeschi, in cui si sono dimostrati maestri proprio nell’affermare il proprio “marchio” il turco di seconda generazione Feridun Zaimoglu, l’inventore della cosiddeta Kanaksprach (per dare una vaga idea: “lingua dei terroni di strada”), oppure il russo, berlinese d’adozione, Wladimir Kaminer con le sue ironiche, radiofonicamente ruffiane storielle del quotidiano metropolitano multikulti, fatto di immigrazione e ipermodernità: entrambi accolti a mani piene d’euro nello star system letterario-televisivo.

Qualcuno cerca di interpretare il sommovimento in atto nel mercato editoriale tedesco, e più specificatamente nella scena letteraria, come il tentativo delle nuove generazioni di “sfuggire alla pressione proveniente dalla società tedesca che richiederebbe alla letteratura di essere dispensatrice di senso politico, etico o estetico” e di tagliare finalmente il cordone ombelicale con una tradizione idealistica profondamente tedesca in cui è radicato il dovere della letteratura a assumere la funzione di istanza morale e pedagogica (Richard Herzinger). In tal modo le nuove generazioni, nella loro assoluta libertà da condizionamenti morali e stilistici sarebbero state in grado di svecchiare la letteratura tedesca, facendo finalmente propri modelli anglo-americani, anzi rimodellandoli in modo autonomo, senza però finalmente il Diktat del “nazionale”, rendendola di nuovo esportabile. Si veda, a questo proposito, il successo mondiale conseguito dal romanzo di Daniel Kehlmann Die Vermessung der Welt [La misura del mondo, Feltrinelli]. Altri, tuttavia, come il noto critico militante Hubert Winkels, a fronte delle montagne di leichte Kost (cibo leggero, non sostanzioso) sotto le quali si rischia di soffocare smagati, continua a propugnare che “quando si parla di letteratura si intende innanzitutto un’opera d’arte linguistica, un complesso articolato, pensato con intelligenza, forgiato assennatamente, altamente organizzato dal punto di vista formale, il cui effetto, sia pure inebriante, dipende da principi drammaturgici e di economia linguistica. Il piacere che ne deriva, in questi tempi tardo-moderni e disincantati, si deve alla conoscenza di questi principi. Insomma, è dentro al sapere che noi godiamo di un’opera d’arte, attraverso la conoscenza e per mezzo di strumenti analitici”. Oppure questa è soltanto la “pretesa” estetica sorpassata di un ormai vecchio Novecento, di cui sembrano essere rimasti vittima decine e decine di autori, di forme, di scritture letteralmente spazzati via dallo scenario testé descritto, pur avendo costituito una parte significativa della letteratura tedesca (e non solo) degli ultimi decenni?

La febbre di contemporaneità e l’ebbrezza della velocità, che divorano senza memoria il quotidiano, le nostre vite e quegli strani oggetti materiali e immateriali a nome “libri”, sembrano aver ingoiato un’intera generazione di scrittori. Se da un lato l’ingranaggio letterario, mediatico e commerciale per sua natura è costretto alla continua clonazione di pseudo-novità, spesso giovanilistiche, e dall’altro spreme all’inverosimile anche alcuni grandi vecchi, che volentieri stanno al gioco, Günter Grass, Martin Walser e Siegfried Lenz, curiosamente e assurdamente da tempo sono spariti non solo dagli scaffali delle librerie, dai programmi editoriali e dal traffichio del Literaturbetrieb, ma pure dalla memoria collettiva di lettori e critici, moltissimi scrittori nati tra la metà degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta. Essi in vario modo tentavano e tentano – perché per molti questo è il dramma: si continua a scrivere anche senza interlocutori – di proseguire il progetto della Modernità sviluppando forme e stili complessi. E si sta parlando di personalità che tra la metà degli anni Sessanta e gli Ottanta della Germania Federale (gli stessi del famoso “cinema d’autore tedesco”), ma anche fin dopo la Riunificazione, si erano trovati a intascare premi e critiche importanti e godendo della massima attenzione da parte dei maggiori editori, non ancora anonime entità mediatiche devote delle agenzie alla McKinsey, guidati da persone interessate a finanziare “trasversalmente”, cioè attraverso i guadagni derivanti dalle opere di consumo, scritture considerate difficili ma assolutamente necessarie per la “causa della letteratura”. La lista di poeti e narratori “scomparsi” (solo alcuni effettivamente deceduti, anche per propria mano nell’assenza di una qualsivoglia ricezione) potrebbe essere lunga: Gerd-Peter Eigner, Gerd Fuchs, Gerhard Köpf, Johannes Schenck, Lothar Baier, Karin Reschke, Karin Struck, Helmut Eisendle, Hannelies Taschau, Jürg Laederach, Uwe Herms, Ralf Thenior, Guntram Vesper, Hugo Dittberner, Wolfgang Hegewald, Frank-Wolf Matthies, gli ultimi due transfughi della DDR agli inizi degli Ottanta ecc. Le opere di molti di questi sono rintracciabili ormai solo nel modernariato online ovvero presso infimi editori invisibili, quando va bene. Sintomatico è il destino occorso all’opera di Jürgen Theobaldy (nato nel 1944), uno dei protagonisti della stagione letteraria degli anni Settanta tra il disincanto post-Sessantotto e la cosiddetta Nuova Soggettività: personalità citatissima in tutte le storie letterarie e ancora in piena attività con raccolte poetiche, racconti e romanzi qualitativamente andati in notevole crescendo (secondo l’opinione dei pochissimi critici che se ne sono occupati e del sottoscritto in veste di lettore), praticamente assente dal “circo mediatico”, dopo alcuni volumi pubblicati presso editori semisconosciuti, si è ridotto a pubblicare senz’alcun riscontro on demand, e pensare che la sua opera, per quanto elaborata, è molto “accessibile” e potenzialmente potrebbe parlare anche a un pubblico molto giovane se solo questo ne avesse notizia. Certo, con qualche sforzo si potrebbe rinvenire qualcosa di questi deparacidos in alcune delle riviste che hanno fatto la storia letteraria tedesca del Dopoguerra (“Aspekte”, “Manuskripte”, “Wespennest”, “Schreibheft”, “Literatur und Kritik”) e magari pure nelle più recenti (“Bella Triste”, “Edit”, “Muschelhaufen”, “weisz auf schwarz”, “das Gedicht” ecc.), e soprattutto sulla “die horen”, in assoluto forse la rivista più impegnata al recupero di scritture “ai margini” o dimenticate come pure a far conoscere le letterature di aree linguistiche meno frequentate. Ma queste con le loro tirature di poche migliaia di copie (per le più importanti) in continuo e pericoloso calo, difficilmente riusciranno a scolpire nella coscienza collettiva l’importanza e la necessità di un’opera, di un autore. E non sarà certamente l’incestuoso incrocio dei blog letterari, ogni sera già vecchi, a farlo, intenti come sono a fomentare l’accelerazione del consumo immediato. La letteratura è sempre stata una strada individuale, si dirà. D’accordo, ciascun lettore deve aprirsi la strada col segnalibro-machete nella foresta millenaria della grande letteratura per giungere al boschetto contemporaneo e confrontarsi con esso, ma questo oggi sembra troppo spesso soltanto la palude dell’immediatezza mercificata in cui è sempre più difficile rinvenire forme di slow writing da non consumarsi su due piedi tra uno squillo di un qualche apparato elettronico e l’altro. E se miracolosamente altri due grandi vecchi, Günter Kunert e Ror Wolf, riescono ancora a farsi pubblicare la loro Kurzprosa, le loro narrazioni e prose brevi brevi, spesso ironiche e meravigliosamente antinarrative, per tutta una schiera di adepti delle forme non standard viene a mancare qualsiasi piattaforma editoriale visibile: diversi fratellini e sorelline di Robert Walser sono alla disperata e inutile ricerca di un editore, e mentre non si contano più le gare di slam poetry con guru quali Michael Lentz e Bastian Böttcher a pontificare performando, se si esce dalla piccola cerchia degli aficionados quasi nessuno conosce più, se mai ha conosciuto, lirici di grande valore quali Rolf Haufs, Manfred Peter Hein, Wulf Kirsten, Johann P. Tammen, Heinz Kattner, tuttora in piena creatività.

Si ha come la fortissima sensazione che oggi, ovviamente non solo in Germania, la prepotente, luccicante e dirompente messa in scena del Testo, come processo di creatività collettiva, in realtà releghi, succedeneamente, sempre di più l’Opera in secondo piano, diventando questa una delle tante variabili interscambiabili in detto processo. Magari il software troglodita di chi scrive non è ancora stato aggiornato adeguatamente, ma entrando in qualsiasi megabookstore il software entra in loop e si chiede se l’implacabile macchina di “contraffazione del marchio” non inibisca, l’emergere, l’affermarsi e il perdurare di forme, scritture e autori senza alcun “valore mediatico di mercato” con danno permanente per i lettori.

Certo, lo sappiamo: la condizione ineluttabile (sempre rimossa, per autosostentamento forse) dell’uomo è la precarietà, la provvisorietà. Le sue fortune sono caduche e, tutto sommato, inutili. Eppure l’essere umano, “costretto” a vivere, ontologicamente e ossimoricamente non può non aggrapparsi a qualcosa. L’arte della parola, sì insomma la letteratura – scritta e orale – nel momento stesso in cui pronuncia la sua inutilità, ne proclama la necessità. Siamo fatti di provvisoria consunzione, eppure non possiamo non aggrapparci beckettianamente, tra la polvere e il fango se è piovuto, ai radi fili d’erba che sporgono dal nostro fosso: e così scriviamo (troppo); e così pubblichiamo (troppo). Se è naturale che nell’inarrestabilità del tempo tutto e tutti affondino, forse però non è naturale accettare supinamente l’ingiustizia della dimenticanza e della distrazione indotte dal vorace, fagocitante, danaroso circo mediatico della grande produzione/distribuzione che sta soffocando l’entretien infini in un assordante blaterio in tempo reale, in cui è sempre più difficile distinguere, rintracciare e “fermare” le parole per noi necessarie. È ora di riappropriarsi del tempo lento di cui è fatta la letteratura, per guadagnare il nostro tempo. O questa è soltanto la spocchiosa pretesa di un’epoca e dei suoi viandanti definitivamente oscurata?

Il saggio, apparso inizialmente qui, è stato ripreso con il titolo La scrittura silenziata su «Versodove» – Rivista di letteratura, nr. 14 (2009).

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12 Commenti

  1. Molto interessante nonostante la lunghezza ed il rimpianto dei bei tempi andati in alcune parti dell’articolo. A Domenico chiedo: la distribuzione libraria tedesca ha il meccanismo del reso come da noi?

    Inoltre, non pensi che l’editoria digitale possa dare spazio ai testi che vengono lasciati ai margini dalle politiche commerciali? Che possa creare nuove e più interessanti dinamiche editoriali? In Germania c’è un progetto centrato sull’ebook detto TXTR che sta sviluppando un hub di contenuti, un negozio online ed un lettore ebook proprio, è un progetto estremamente rilevante in un’area linguistica di 100 milioni di persone.

    http://txtr.com/

    Nadiani critica le politiche d’impresa che cercano di aumentare i ricavi in un mercato con eccesso di offerta (troppi scrivono troppo) e con costi di produzione e distribuzione fissi (stampare, portare in libreria, ruotare sugli scaffali). Non offre però alternative, ignora la rete (“l’incestuoso incrocio dei blog letterari, ogni sera già vecchi”), non propone meccanismi economici alternativi, produzioni dal basso eccetera (le alternative non sono solo e soltanto ebook, eh!). Questo è il limite dell’articolo.

    Complimenti Domenico per averlo comunque pubblicato.

  2. estremamente interessante, e fondamentale (secondo me bisognerebbe trovare il modo perchè resti in qualche modo in evidenza su NI);

    nel senso che qualsiasi analisi della situazione italiana che non si fondi su un’approfondita conoscenza di quello che avviene negli altri paesi (e non sull’individuazione (non corroborata da dati empirici) di astratte e generiche tendenze di carattere economico, di mercato …), mi sembra vana;

    se abbiamo qualcosa da dire, mi sembra, è proprio nel proporre contributi di questo genere, e nel rifletterci sopra;

    quindi sarebbe interessantissimo affiancare analisi simili relative alla Francia e all’inghileterra (ma anche alla Spagna, che ci assomiglia molto di più…);

    e naturalmente molto sconfortante, vista l’oggettiva marginalità della “vera” ricerca letteraria, o anche solo della “vera” letteratura, ormai bellamente espulse dal mercato;
    se Peter Handke non fosse Peter Handke (affermatosi in condizioni molto diverse dalle attuali), non pubblicherebbe (lo dice lui stesso);
    (e non è che la nostra arretratezza, come avviene anche in altri campi dell’economia, non abbia in questo anche qualche vantaggio, nel senso che qualche nostro buon prodotto e qualche nostro buon autore riescono pur sempre a infilarsi nella macchina sempre più industriale?)

    ma forse un elemento di speranza c’è, come dice l’autore stesso del pezzo:
    “entrando in qualsiasi megabookstore il software entra in loop e si chiede se l’implacabile macchina di “contraffazione del marchio” non inibisca, l’emergere, l’affermarsi e il perdurare di forme, scritture e autori senza alcun “valore mediatico di mercato” con danno permanente per i lettori.”

    perchè è vero, basta entrare in una qualsiasi libreria italiana (esempio: Feltrinelli) per verificare il desolante conformismo e la povertà dell’offerta; ed è vero, sono i lettori stessi a non essere contenti/soddisfatti (non parlo dei grandi lettori, che sanno dove andare a trovare il pane per i loro denti, ma soprattutto dei “normali” lettori che, facendo fatica a orientarsi, sono le principali vittime del marchingegno industriale e mediatico; tutte le persone con cui parlo me lo confermano);

    come dire, l’industria del libro di cui si strombazza tanto la potenza e l’invincibilità, non è poi – esattamente come altri tipi di industrie – così efficiente come sembra: non dà da mangiare cose sane ai lettori, e i prodotti che sforna non durano (il che è un suo interesse, ma non quello – la gente è molto meno scema di quello che si pensa – del “consumatore”), insomma, non è sostenibile;

    grazie Domenico;

  3. Interessante il concetto di “messa in scena”, cioè tutta quella serie di operazioni a cui la filiera editoriale si dà pur di relegare il libro sullo sfondo (e ci metto anche i cosidetti materiali on line, i cosiddetti siti creati ad hoc, magari dagli stessi autori, in occasione di ogni nuova uscita- risorsa o immiserimento del testo?). Insomma, pare proprio che il libro da solo non ce la faccia più (ma un testo, in quanto tale, non dovrebbe essere autosufficiente per quanto concerne le sue implicazioni?). Invece oggi saremmo disposti a inventarci qualsiasi cosa, pur di non dover leggere ANCHE il libro.

  4. La Germania ha valenze proprie a livello di produzione e “welfare” letterari (del resto, fino a 20 anni fa erano due), ma in senso complessivo e generale direi che la Germania è specchio dell’Italia che è specchio della Francia che è ecc. e tutte si riflettono nel mercato (letterario) che non vuole lettori ma consumatori.
    Quanto alla “creatività collettiva”, “Genettique” a parte, a mio avviso consiste ancora nella “cretività” che annusa e perviene al romanziere immerso nel sociale, che esce in strada, guarda e ascolta, a prescindere se scriva poi Harry Potter o Gomorra.

  5. @jan
    Non conosco il sistema delle Remittenden tedesche, ma forse Helena ne sa di più. A ogni modo cercherò di raccogliere informazioni.
    Non ho, poi, un’opinione sugli e-book. Forse perché la comunità di lettori a cui guardo è fisiologicamente molto esigua, e potrebbe ancora essere raggiunta con i metodi tradizionali (carta, librerie). Questo, oggi, non accade. Non accade mai. Le interruzioni di linea fra il libro e il lettore sono talmente numerose che ho rinunciato a ripararle (quando ciò è possibile). Per il momento aspetto che Lavieri migliori la sua posizione distributiva e promozionale. Ma si trattarà comunque di variazioni “fra il nulla e lo zero”.

    Sarà interessante, invece, vedere se la Rete possa giocare un ruolo nello spazio conflittuale della letteratura, lateralmente al sistema di mercato. Per farlo occorre accumulare capitale simbolico, e dialogare con i nostri lettori. Un tentativo in questa direzione è, come sappiamo, la collana Murene di Nazione Indiana, in via di preparazione.

    @giacomo
    L’unico che va ringraziato è l’autore dell’articolo!

  6. molto interessante soprattutto per la lunghezza. Dove lunghezza sta per particolareggiato e approfondito: non la solita broda mercificata. Grazie Giovanni per tutte le informazioni e per lo scenario che prospetti. L’accusa di ‘rimpianto dei bei tempi andati’ è vecchia come il cucco, e pure molto ideologica.

    Molto seria la critica che fai alle politiche d’impresa: è la critica di chi vive nella scrittura, nella cultura. Starà ad altri, magari economisti, o addetti culturali meno vincolati alle strategie di vendita, proporre modelli o alternative.ciao gio.na!
    credibili.

  7. Sono sostanzialmente d’accordo con l’analisi qui presentata, anche se vorrei cercare di far emergere alcuni aspetti di differenza con l’Italia che forse non si colgono abbastanza.
    Il primo paradosso è che ancora oggi in Germania molti scrittori – e spesso ancora più poeti – riescano a vivere facendo quasi esclusivamente gli scrittori e i poeti, ma NON dei propri libri. Dei premi, delle borse di studio, delle loro presenze a festival e dei reading che – sempre- vengono pagati. Nel senso che io lettore pago per andare a sentire lo scrittore o il poeta che legge.
    Mentre il mercato, per alcuni aspetti, è diventato più violento di quello italiano. E’ pressoché scomparsa dal catalogo delle grandi case editrici di cultura la poesia. E le piccole qui citate ad esempio Wallstein, Blumenbar e tante altre, somigliano per presenza in libreria ossia distribuzione più alle nostre molto piccole che non a Minimum Fax o Nottetempo.
    I libri in Germania sono costosissimi e il mercato è enorme. Questo spiega credo in parte la sua maggiore aggressività.
    Detto questo, ho avuto l’impressione che la presentazione dei due maggiori e recenti premi letterari, rispecchi un punto di vista assai di parte (della letteratura che non vuole sottostare ai dettami del mercato). Il che è legittimo, ma forse non fa un’altra volta capire le differenze. Qui però si entra nel campo di valutazioni personali. Per come la vedo io, è innegabile che molti vincitori del Deutscher Buchpreis e del Preis der Leipziger Buchmesse, rappresentano la tendenza a un main-stream di livello. Romanzi di famiglia, Romanzi storici ecc. Ma quei premi sono andati pure a scrittori non facilmente commestibili per stile o volume come Uwe Tellkamp, Terezia Mora, quest’ anno Kathrin Schmidt (con un romanzo che narra del processo di riapprpriazione di sé di chi è stato colpito da un ictus) dopo che Herta Mueller, la candidata più accreditata ha avuto il Nobel.
    Dopodicché anche molti dei romanzi più tradizionali premiati presentano comunque un livello di scrittura che li distingue come autoriali e non come “prodotti di mercato” puri e semplici. Spiegando poi forse pure perché non “funzionano” che in Germania.
    Il modo eminentemente funzionale al mercato di agire di questi premi credo sia primariamente un altro. La loro visibilità e pure il loro “prestigio” è infatti assai maggiore dello Strega nostrano. Per cui chi vince questi premi si trova addosso un enorme bollino pubblicitario, concentrando su di sé le vendite di chi vuole “leggere un buon libro”.
    E questo è esattamente la tendenza planetaria per cui la forbice tra titoli che vendono tantissimo e titoli che non vendono quasi nulla si allarga sempre più. E per chi poteva godere di rispetto e contare su un numero di copie che mandavano l’editore almeno in pari, diventa sempre più difficile.
    Ultima osservazione, strettamente personale. Feridun Zaimoglu per me è uno scrittore di livello assai diverso dal simpatico Vladimir Kaminer.

  8. Questa osservazione di Helena mi pare importante:

    Il primo paradosso è che ancora oggi in Germania molti scrittori – e spesso ancora più poeti – riescano a vivere facendo quasi esclusivamente gli scrittori e i poeti, ma NON dei propri libri. Dei premi, delle borse di studio, delle loro presenze a festival e dei reading che – sempre- vengono pagati. Nel senso che io lettore pago per andare a sentire lo scrittore o il poeta che legge.

    Anche io riflettevo di come lo scrittore (in Italia, in USA) spesso non guadagni DI CIO’ che scrive, ma PERCHE’ scrive, con delle attività collaterali (conferenze, incontri pubblici, promozione di propri progetti, consulenze ed altri) rese possibili dalla sua autorevolezza di scrittore. Che poi riesca a guadagnarsi da vivere senza lavorare in un call center poi è tutto da vedere. Sono ottimista.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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