Ombre grosse

di Gianni Biondillo

Pare che la prima volta che Le Corbusier andò negli Stati Uniti, invitato da non so quale università, una delegazione di architetti e giornalisti lo accompagnò in giro per New York, tutta orgogliosa della “giungla d’asfalto” che svettava su Manhattan. Alla domanda di cosa pensasse di tale meraviglia l’architetto francoelvetico rispose, lapidario: “I grattacieli? Troppo bassi e troppo vicini.”
In quelle parole c’era, ovvio, l’atteggiamento snob dell’intellettuale europeo che guarda sempre con disprezzo la volgarità d’oltreoceano, ma c’era anche il teorico razionalista che sul tema del grattacielo aveva vergato pagine fondamentali. È come se fosse una partita doppia, quella teorizzata da Le Corbusier. Date le nuove tecnologie edili, potevamo finalmente pensare di costruire in altezza, liberando però il suolo per un uso collettivo: parchi, spazi pubblici, servizi alla città. New York, ai suoi occhi, era la barbarie. Una selva incoerente di torri, indifferenti alla socialità, uno sfoggio capitalistico di potere, come una gara un po’ infantile a chi arrivava più in alto, a chi “ce l’aveva più lungo”.
Penso spesso a lui, mentre seguo divertito la polemica sulle torri di CityLife e sul progetto di ridisegno dell’intera area. Come al solito i nodi vengono al pettine, e come al solito troppo tardi. Da una parte le esigenze della popolazione, dall’altra quelle del mero interesse privato che si camuffa goffamente in una operazione di rilancio della città. CityLife è un brutto progetto, con una cubatura colpevolmente alta, e tutti i dovuti aggiustamenti in corso d’opera sanno sempre più di pezze d’appoggio che non sanno coprire la falla.
Detto ciò io non mi annovero fra i denigratori del grattacielo tout cour. E la becera questione di raddrizzare il progetto di Libeskind con iniezioni di viagra, mi sembra più una boutade da osteria che una dotta e divertita citazione al professor Grammaticus di rodariana memoria (che voleva addirittura raddrizzare la torre di Pisa).
Quando ancora studente feci il mio praticantato nello studio milanese di un vecchio professionista, mi accorsi di quanto fosse indifferente, quando progettava, all’asse eliotermico. Memore dell’antico adagio “nove mesi inverno, tre mesi inferno” sapeva che Milano, alla fin fine, resta una città grigia, dove il sole non si vede mai (e dove il cielo “è bello quando è bello”, per dirla con Manzoni), o dove l’afa estiva ti attanaglia e cerchi, semmai, un disperato riparo. All’ombra.
Ora: che i grattacieli e gli edifici residenziali – sempre di Libeskind, architetto che mediamente apprezzo ma che qui è al peggio delle sue capacità – facciano ombra mi pare la scoperta dell’acqua calda. Fra le proposte tampone che circolano (di singoli cittadini o di comitati di residenti) ci sono quelle di spostare i grattacieli, o l’intera palizzata di edifici residenziali, a sud, evitando che la proiezione delle loro ombre interferisca sul parco previsto, ma ciò significa che l’ombra oscurerà, di conseguenza, tutto il quartiere che si adagia ai loro piedi, come paventato da alcuni residenti prospicienti l’area.
Insomma, per quanto si tiri la coperta, sempre troppo corta, qualcuno pagherà per una scelta di politica urbana semplicemente demenziale. Citylife è un brutto progetto non perché ha le torri storte, ma perché pecca di una autoreferenzialità fatta di oggetti indifferenti al contesto (basti pensare che la torre di Isozaki è il riciclo di un progetto bocciato di un grattacielo previsto davanti alla stazione ferroviaria di Tokio), piovuti dal cielo, che esibiscono muscolarmente la loro eccentricità, senza controllare gli equilibri e le ricadute sull’intera città. Basti pensare che persino spostare o meno le tre torri o la residenza significherà cambiare le essenze da seminare nell’eventuale parco. Più ombra o meno ombra implica piantumazioni differenti. Fosse stato un progetto migliore non avremmo parlato di ombre, ma di sostanza.
Abbiamo perso, insomma, l’opportunità di inventare un simbolo davvero condiviso dalla cittadinanza. Ché tranne alcuni pelosi nostalgismi da nimby della porta accanto, i milanesi, quando è il momento, sanno scegliere i nuovi segni urbani con i quali identificarsi. O li sanno denigrare senza pietà. Io vi confesso che non so più guardare il progetto dei tre grattacieli senza pensare ad una mia amica, alla quale ricordano due ubriachi che aiutano il terzo a vomitare. Ormai li chiamo abitualmente “i tre ciucc”, come il gruppo scultoreo in via Lazzaro Papi. Che peccato. Anche perché, da San Giminiano, a Bologna, a Pavia, giù giù fino a New York, non ostante l’opinione di Le Corbusier, un certo gusto romantico-tecnologico la selva di torri ce lo solletica, non possiamo negarlo.
La Torre Velasca, ad esempio, è sita nel centro di una piccola piazza quadrata e si staglia sulle case attorno a sé da cinquant’anni, eppure nessuno si è mai lamentato della sua ombra. Qualcosa vorrà pur dire, no?

[pubblicato, in forma leggermente ridotta, su La Repubblica-Milano, il 16.05.2008]

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20 Commenti

  1. Non dovrei intervenire in questa disussione, e, bannato, sono quasi certo che questo intervento non verrà pubblicato.
    Lo scrivo lo stesso, a memoria postuma.
    Non conosco Biondillo, ma – correggetemi se sbaglio – lui è un architetto [un urbanista?].
    Bene! Io penso che nessuno che si fregi di quel titolo, in Italia, abbia diritto di parlare di architettura. Eccetto quei pochi, veramente grandi, il cui numero non supera quello delle dita di una mano di Brasilia.
    Per l’urbanistica siamo invece a zero: i nipotini di Bernardo Secchi, assieme al nonno, sono la categoria di tecnici che, negli ultimi cinquant’anni, ha fatto più danno al nostro paese.
    Perché dare la colpa al capitale immobiliare, alla mafia, a quant’altro?
    Non è che negli altri paesi gli architetti non lavorino per il capitale immobiliare o per la mafia – tutto il mondo è paese e il capitale è uguale dappertutto – ma perchè fuori d’Italia vengono, talvolta, fatte cose degne, mentre qui da noi non se ne salva quasi nessuno?
    Genova per noi.
    Scuola, mentalità, presunzione, sicurezza che la teoria è buona perchè la verificabilità è garantita dalla tessera di partito?

  2. Bellissimio post!

    Nemmeno io sono un amante del progetto citylife, ma trovo assurdo lamentarsi dell’ombra degli edifici in una metropoli come Milano

    Tuttavia, segnalo che le rimostranze dei cittadini (e l’imminente crisi del settore immobiliare) hanno contribuito a migliorare il progetto riducendo le volumetrie, aumentando gli spazi verdi aperti al pubblico e collegando meglio citylife alla rete dei trasporti pubblici.

  3. Non amo i progetti “impositivi”, le “astronavi” calate dal cielo. Purtroppo la costumanza italiana nei confronti dell’architettura ormai si riduce solo a parcheggiare queste astronavi dove c’è abbastanza posto. Nonostante ciò, per gli standard architettonici odierni sarebbe un successo (sic.) se il progetto venisse realizzato tale e quale a quello proposto! Oltre al danno sicuramente ci sarà la beffa dei veti dei rimaneggiamenti delle varianti e dei ripensamenti (vedi cosa succede per l’uscita degli Uffizi a Firenze o il caso dell’ Ara Pacis a Roma)

  4. Oggi parlavo a casa dell’Expo 2015, della grande operazione immobiliare nel nordovest della città, se e quali benefici e cambiamenti porterà al resto di Milano. Il soprannome dei “tre ciucc” è fantastico, entrerà nella storia cittadina come il cinc e tri vot” o il mezz liter e i quater bicer.

  5. In effetti, Corto Maltese, questa è la vera beffa. In ogni caso CityLife è ad uno standard nettamente più alto rispetto la norma. Ma il problema è che abbiamo una norma davvero bassa!!!
    ;-)

  6. Una volta, qualche anno fa, mi capitò di intervistare Libeskind. Fu una breve intervista di rito, che mi trovai a fare un po’ per caso. Il tutto si svolgeva in un albergo a cinque stelle a due metri da Piazza del Duomo. Come sempre in queste interviste con le grandi star, Libeskind fu molto professionale, ovvero non mi disse assolutamente nulla. Era accompagnato da una corte di personaggi che non posso che definire pittoreschi, tra i quali spiccavano alcuni giovani architetti che lavoravano con lui in Italia. Erano di una tale idiozia che catturarono subito la mia attenzione, anche perché (questa era un’aggravante) sembravano credere davvero in quello che dicevano. Rigorosamente in costume da architetti (oggi Le Corbusier, a confronto, verrebbe scambiato per José Bové), si spendevano in serissimi proclami sulla profonda bellezza del progetto Citylife. Già allora le torri della Fiera erano discusse, perché la procedura di selezione era stata condotta in modo tale che il progetto fu scelto sostanzialmente sulla base dell’offerta economica (le conseguenze, ancora oggi, si vedono). Uno di questi ragazzi passò il suo tempo a spiegarmi che il grattacielo curvo progettato da Libeskind (è quello al centro dell’immagine) era un progetto geniale che nessuno aveva davvero capito fino in fondo. Cosa aveva di così speciale? “Questo è l’unico grattacielo al mondo che si fa ombra da solo”.

  7. Esatto Gianni. La nostra norma così bassa ci porta ad “apprezzare” interventi abbastanza discutibili. Ne consegue un dialogo tra sordi: l’archistar (occhio a lasciargli carta bianca!!) se le canta e se le suona. La committenza e la società civile, spesso colpevolmente digiuna di cultura architettonica o asseconda acriticamente il progettista (sembra di sentire echeggiare la tipica frase “si fa così perchè l’ha detto l’architetto”)o, tutt’al più, formula critiche ad aspetti marginali di un intervento che ha conseguenze ben più pesanti (leggi: l’ombra prodotta dagli edifici). Non so se sia più preoccupante il comportamento dell’Archistar di turno o quello di chi gli dà da lavorare…

  8. Renato: pensa a quegli appartamenti che sono SEMPRE in ombra grazie a se stessi. Roba da diventare isterici! :-)

  9. Monom, vedo solo ora il tuo commento: io non mi fregio di nulla, meno che mai del mio titolo di studio, sulle responsabilità di certa architettura io ho parlato diffusamente (non mi conosci, però mi giudichi?), sui luoghi comuni nei confronti dell’architettura italiana che qui esprimi non ho tempo di risponderti, però. Ci ho scritto un libro intero, se hai tempo, passa il libreria (non ti chiedo di comprarlo, basta che lo consulti). E comunque tutto mi pare, questo articolo, tranne che una difesa della categoria.

  10. l’architettura è sicuramente cosa per principianti -parafrasando il libro di Gianni- non serve avere tessere di partito o apparati culturali speciali. in italia gli architetti sono più di 125mila (gosh!) questo genera frustrazione, risentimento.

    ma tant’è

    Un architetto è buono se -semplificando- produce un cambiamento benefico e sopratutto se li cambiamento è il frutto di una volonta politica e collettiva condivisa.

    I ciucc di milano corrispondono ad una volontà condivisa da legislatore e cittadino? ad un desiderio di cambiamento benefico?

    se si, allora si passerà anche sopra l’ombra ritorta e si totalizzera un beneficio

    se no, si sarà trattano unicamente di un gesto puramente estetizzante ed autoreferenziale di Libeskind.

    La colpa non può essere dell’architetto -aldilà delle simpatie o dell’orgoglio di squadra- ma del potere e della sua espressione fenomenica -dharmica.

    Il progetto di milano dunque è il modo in cui “quel” potere si dà forma, si manifesta.

    con i migliori auspici
    ;)

  11. Mi sembra fin qui più un processo all’architettura che una valutazione del progetto in questione. Io da architetto impegnato in frontiera difendo questo lavoro. In frontiera significa che ogni volta che la difficoltà del committente o del ribasso dell’impresa o dell’ottusità delle amministrazioni si pone come ostacolo sulla strada della realizzazione l’architetto invece di mollare prova a trarne un’ulteriore occasione per a migliorare il suo progetto. Questo me lo ha insegnato il mio professore all’università tanti anni fa, Riccardo Dalisi. Detto questo, city life é innegabilmente un brutto progetto e racconta inequivocabilmente cosa succede quando le grandi firme vengono a coprire operazioni speculative (l’albergo di mario botta o il quartiere di foster a milano). Anche l’Ara Pacis é un brutto progetto ma é ancora più desolante che uno come alemanno parli di demolirlo. Tutto ciò non sposta di un millimetro la gratitudine che ognuno dovrebbe avere per la buona architettura.

  12. Chi ha promosso prodotto e comunicato questo progetto (come del resto in tanti altri casi) ha già scelto su cosa puntare l’attenzione: una serie di immagini tridimensionali di ciò che sarà il progetto e stop. Queste immagini, sempre le stesse, girano ormai da diversi anni tra rivste giornali e televisioni. E’ chiaro che poi si finisce a fare processi all’architettura, anzi all’idea di architettura…

    PS. se avete tempo e non lo avete magari ancora fatto digitate sul vostro motore di ricerca “fuffas+crozza” e godetevi i video! Credo siano molto pertinenti alla discussione ;-)

  13. i video di crozza centrano il punto.

    sono questi tempi maturi perchè la riflessione che ha sollecitato il testo di Gianni possa suscitare un interesse che esuli dalla ristrette -ma accoglienti- braccia della disciplina aurea e rotonda?

    Il fatto che Crozza faccia una straordinaria parodia di Fuksas – e con esso dell’archistar tout-court. vuol dire che il personaggio in questione gode di una straordinaria mediatizzazione. Altrimenti chi capirebbe la barzelletta?

    il che è un buon segnale.

    La politica è necessaria per comprendere il senso dell’architettura.
    Come molti di voi hanno segnalato: Alemanno alla sua prima uscita pubblica da neosindaco ha proposto di abbattere la teca di Mayer.

    il che è un buon segnale.

    l’architettura è mediatizzata fino a saturazione.

    una visione più pragmatica, realistica, che si nutra di “temi” (l’emergenza casa -puntata di Report- il rapporto con la storia, la cultura, etc) e non di “immagini” è proponibile a livello collettivo, mediatico?

    qui si intercetta il rapporto tra scrittura e architettura: qual’è l’immaginario, il fenomenico a cui darà forma la destra in questi prossimi 5 anni?

    torneremo/torneranno al postmoderno?

    ci sarà un orgia di grattacieli e ponti verso la luna, che tanto “abbiamo la tecnologia per poterlo fare?”

    oppure ci sarà una salvifica ripresa delle tematiche “sociali”?

    ed i governi ombra in tutto ciò? faranno come il grattacielo onanista di Libeskind?

    (….)

  14. Biondillo, scusa se mi avulgo un attimo da cotanta pregnante discussione. Volevo chiederti: ma quando hai scritto il racconto per la raccolta di autori varii ‘I confini della realtà’, stavi poco bene?

  15. Il grattacielo storto non mi entusiasma. Non è neanche un’idea tanto nuova: a Madrid ci sono due torri pendenti (orribili, secondo me) inclinate una verso l’altra, in forma di arco (di trionfo?) sul Paseo de la Castellana.
    Detto questo, però, non mi pare che per Milano ci fossero in circolazione idee alternative particolarmente esaltanti. E qualcosa bisognava fare. Gli ultimi quarant’anni erano stati contrassegnati dall’immobilismo totale, da pratiche defatiganti anche solo per ristrutturare un cesso, ecc. ecc. In compenso, per migliorare il decoro urbano (!), c’era stata l’esplosione dei graffiti.
    Stando così le cose, pur di rimettere in moto Milano, sono disposto a ingoiare anche i tri ciucc.

  16. Grazie Tashtego per questa perla!La chiesa in questione è semplicemente un obbrobrio. Ho negli occhi S.Giovanni Battista (la chiesa dell’autostrada) a Firenze: il sacro che nn ha bisogno di parole…e poi leggo il trombone di Fuksas…mah…non c’è limite al peggio!!

  17. si davvero grazie a tashtego,
    ho rimbalzato la notizia con le dovute fonti origine.

    chissà se questa conversione riuscirà a domare l’ego di Mr.Xsas….

    ;)

  18. L’intervista è così demenziale che pare finta. Massimone si dimostra quel gran paraculo che è, però a me il progetto della chiesa in questione non mi dispiace affatto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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