Giancarlo Siani
di Roberto Saviano
E io ti seguo di Maurizio Fiume è un film con il prezioso merito di ricostruire in modo significativo la vicenda di Giancarlo Siani, il suo percorso umano e la sua professione innescata dalla passione del vero.
Giancarlo Siani venne ammazzato il 23 settembre del 1985, ormai quasi vent’anni fa, in una Napoli profondamente diversa da quella apparentemente pacificata di oggi, 300 morti ammazzati l’anno la rendevano una città in perenne guerra.
Il movente preciso del suo assassinio per molti rimane un mistero. Non convince la verità processuale o almeno non convince tutti. Quell’articolo di 4000 battute pubblicato su Il Mattino il 10 giugno del 1985 firmato da Siani aveva generato grandi fastidi nel clan Nuvoletta. Il giovane cronista aveva osato insinuare che l’arresto di Valentino Gionta, boss di Torre Annunziata avvenuto a Marano fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una insostenibile guerra di camorra con il clan di Bardellino. I Nuvoletta decisi a disfarsi del loro scomodo affiliato Valentino Gionta che aveva invaso con i propri affari i territori di Bardellino preferirono venderlo ai carabinieri piuttosto che ucciderlo. L’essere scoperti e denunciati come infami in un articolo su Il Mattino infastidì il clan di Marano e per suo tramite anche il loro più potente alleato Totò Riina capo della mafia vincente di Corleone. I Nuvoletta decretarono la morte di Siani per dimostrare al clan Gionta la menzogna (in realtà verissima) della sua ipotesi. Per molti altri osservatori invece quell’articolo non basta a spiegare la condanna a morte ma piuttosto bisogna dirigere le attenzioni verso le ricerche che Giancarlo Siani stava facendo sulla ricostruzione del dopo terremoto, il grande business degli appalti che aveva rimpinguato le tasche di dirigenti politici, imprenditori e soprattutto camorristi. Siani aveva raccolto materiale prezioso con nomi e situazioni per farne un libro che non vedrà mai luce e le cui bozze non verranno mai ritrovate.
Il movente unico che accomuna le diverse ipotesi è però certo: Siani fu ucciso per quello che scriveva. Questo giovane corrispondete riusciva nei ristretti spazi che gli venivano concessi a ricostruire gli scenari di camorra, gli equilibri di potere, evitando di arenarsi sul mero dato di cronaca. Giancarlo Siani gettava nuove ipotesi di senso attraverso gli elementi che scovava sul campo o gli venivano forniti dai fatti. Il suo era un giornalismo fondato sull’analisi della camorra come fenomenologia di potere e non come fenomeno criminale. In tal senso la congettura, l’ipotesi, divenivano nei suoi articoli strumenti per comprendere le articolazioni tra camorra, imprenditoria e politica. Riflettere sul caso Siani non deve essere solo un modo per commemorare il suo sacrificio e ricordare la sua breve vita, deve divenire un necessario momento per considerare lo stato attuale del giornalismo d’inchiesta.
Seguendo quanto affermato da Giuseppe D’Avanzo e Carlo Bonini il giornalismo d’inchiesta in Italia risulta una pratica che ormai interessa poco ai lettori ed ai direttori dei giornali, esso sembra ormai defunto. La morte del giornalismo d’inchiesta diventa una garanzia di silenzio sui complicatissimi affari economici della camorra. Questa morte è celebrata dalla greve cappa di silenzio calata definitivamente sull’irrisolta questione dei rapporti tra DC, PSI e Nuova Famiglia, il cartello camorristico che negli anni ’80 e ‘90 riuniva tutte le famiglie campane e che Hobsbawm definì la più grande holding imprenditoriale d’Europa. Dopo rinvii a giudizio, sentenze e appelli, le inchieste giudiziarie si sono arenate e con esse anche quelle giornalistiche. Eppure il pentito Pasquale Galasso aveva iniziato con efficacia a raccontare meccanismi e operazioni economiche, investimenti e rapporti clientelari che stavano mostrando le dettagliate logiche e le precise dinamiche con cui il potere politico democristiano aveva gestito lo Stato. In questa dialettica senza sintesi tra dato storico e dato giudiziario il giornalismo d’inchiesta risulta necessario nel comprendere le modalità attraverso le quali i politici e gli imprenditori sono riusciti a sfuggire alle condanne isolando i sodalizi criminali con cui prima avevano imbastito stretti rapporti e fruttuosi profitti. Tutto invece è scomparso nell’oblio. Oggi la camorra viene rubricata nella cronaca nera o nel migliore dei casi in quella giudiziaria falsando la sua reale potenza che vede affermarsi nel mondo politico ed in quello economico-finanziario.
L’omicidio Siani avveniva vent’anni fa eppure a guardare l’orizzonte attuale sembra passato un giorno. La Napoli dei centurioni democristiani che Siani osservava e denunciava non sembra mai esser stata sconfitta: Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Vincenzo Scotti, Alfredo Vito, Aldo Boffa continuano ad essere poteri politici ed economici ancora forti e per giunta formalmente immacolati. La camorra d’altro canto non è morta. La sua egemonia è fortissima e totale. I clan campani gestiscono sommando i profitti di ogni attività legale ed illegale oltre dieci miliardi di euro annui, un patrimonio astronomico che si innesta nel tessuto dell’economia legale europea e mondiale. Assurdo in tal senso sembra ancora parlare di criminalità organizzata. Sarebbe cosa più assennata definire i clan una vera e propria imprenditoria capace di accedere al mercato “pulito” con un preziosissimo plusvalore garantito dalla protezione militare, dall’accesso a mercati clandestini e sempreverdi come l’usura e la droga. Mai come in questa fase si avrebbe bisogno di un giornalismo d’inchiesta capace di districare il ginepraio di investimenti che vede i clan camorristici tramutarsi in prestigiose aziende, controllare i trasporti, imporre prezzi e prodotti (vedi caso Parmalat-Camorra) ed ovviamente mutarsi in gradi fucine di voto e di potere politico. I giornali locali sono le uniche testate che danno informazione sulla camorra mutandosi però in bollettini di morte e di faide in un flusso di cronaca senza volontà di approfondimento e denuncia.
La figura del giornalista d’inchiesta dovrebbe porsi come intermediario tra la verità giuridica e la verità storica. Due piani assai diversi e sovente non sovrapponibili. Proprio l’infinita costruzione e decostruzione degli elementi, dei fatti, delle ipotesi rappresentano il compito del giornalista che si occupa di camorra.
Giancarlo Siani fu ucciso a 26 anni, in una serata ancora estiva di settembre, mentre tornava a casa pieno di vita con la sua Mehari da una giornata allegra. La sua giovane biografia, la foto di quel corpo smilzo ed occhialuto piegato dai colpi di mitra mostrano quanto fragile fosse quel ragazzo le cui vere parole avevano fatto tremare i potentissimi capi di inoppugnabili organizzazioni. E’ proprio in nome della infinita forza della denuncia unita ad una terribile fragilità della persona che bisognerà rintracciare le coordinate per far rinascere un nuovo giornalismo d’inchiesta diffuso ed efficace al punto da non costringere ad un eroica e solitaria battaglia i pochi ed inascoltati inviati di provincia.
Pubblicato su Il manifesto-Metrovie venerdì 11 giugno 2004
Ringrazio per la foto il sito www.giancarlosiani.it
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Sì, purtroppo il giornalismo d’inchiesta è morto. Ora c’è il gionalismo embedded. Ricordo su Franco Serantini, l’anarchico ucciso dalle forze dell’ordine, un libro di Corrado Stajano, “Il sovversivo”. Ne fecero addirittura un’edizione per le scuole medie. Altri tempi…
D’accordo su tutta la linea, Roberto.
G.
meno male che c’è saviano. ringraziamolo. abbracciamolo questo nostro fratello minacciato, a cui tirano gli uccelli morti nel balcone un giorno sì e uno no. proteggiamolo.
Ogni volta che leggo un articolo di Saviano entro in uno stato contraddittorio, da una parte esulto perché esiste ancora qualcuno che denuncia, fa giornalismo d’inchiesta e rende testimonianza di una realtà che vorrebbe essere occultata e rimanere nascosta per continuare indisturbata il proprio schifosissimo lavoro, dall’altra mi preoccupo per lui e sì, come dice don giovanni, vorrei proteggerlo, aiutarlo in qualche modo…
Avevo diciott’anni quando ammazzarono Peppino Impastato e ancora serbo nel cuore il ricordo della sua lotta, grazie anche al film I cento passi. Passano gli anni e ci si chiede se è sufficiente serbare nel cuore e tenere ben presente nella mente certi fatti, allora forse riallacciandomi a quanto si discute in un altro colonnino, bisognerebbe continuare a credere che il voto elettorale possa modificare qualcosa. Come viene chiesto dal coordinamento Libera Palermo, andare a votare tenendo presente a chi si da il voto potrebbe forse far si che invece di un orgasmo il voto fosse un atto pregno di coscienza civile. Per non dimenticare il lunghissimo elenco di morti, per non continuare a piangere ogni volta che succede… è difficile non entrare in derive retoriche quando si affrontano argomenti che scardinano l’emotivo, ma sono venti anni che tengo duro perché le inchieste come quelle che scrive anche Roberto non diventino pioggia che scivola sull’indifferenza generale. L’unica strada che conosco è parlare, raccontare, diffondere.
Un abbraccio a Roberto.
Roberto Saviano tiene botta con pochi altri nel giornalismo investigativo. E quello quasi non c’è più. Secondo me anche per colpa del giornalismo non investigativo. Cioè del giornalismo tout court. Discorso qualunquista? Può darsi. E’ un’impressione spietata, più che altro, secondo me. I giornali e i magazine a più alta diffusione sono pieni di fuffa televisiva e di fuffa e basta. Chi è che se la sente di rischiare la pelle per delle inchieste che pochissimi pubblicano? La maggior parte preferisce scrivere “rubando” le notizie da internet. E’ pieno di gente così.
Poi ci sono gli inviati di guerra col make up e l’abbronzatura di buon taglio – si, come un vestito. Gli embedded con aria condizionata. S’incazzano in diretta per il satellite. Poi si candidano alle elezioni…
Le migliori inchieste sul “campo” (settore hotelerie) sono quelle di Rossella 2000 fu Carlo. Volete leggere del giornalismo investigativo da ombrellone? Col libro che vi ripara dal sole – ottimo per le spiagge libere, cioè per le poche restanti sul litorale? Accattatevillo il libro sugli hotel di Miami Bitch di R.2000. Quello è giornalismo investigativo da Grand Hotel. Intrepido. Un pò Monello.
E il giornalismo investigativo che diventa “inchiesta introspettiva”, “autobiografia d’un catodo”?. Ecco Maurice Constance, quello che vende 100.000 copie col suo “Chi mi credo di essere”. La finta autoironia è un vero pugno nello stomaco… Chi si crede di essere, insomma?
Grazie a Saviano, insomma, al suo coraggio che preoccupa giustamente le mamme (come Gabriella). Una persona seria in un mondo di buffoni con tanto di ragione sociale, partita iva e anima nera.
Quanti Bel Ami ci sono in giro? Ne cicatrizza più la penna dell’alcol denaturato.
E’ necessario riflettere oggi su giornalismo e verità. E’ necessario dal momento in cui la miscela di ignoranza e disinformazione (va bene, scegliamo una data: l’11/IX/2001) è divenuta letale ed opprimente. Roberto offre spunti sempre interessanti, questa volta mi piacerebbe sentire la sua opinione su un tema così importante, forse astratto rispetto alla testimonianza coraggiosa qui presentata e che pure mi sembra una sfida su cui non si debba mai essere rassegnati, di fronte alla quale non si può arretrare
Come Siani, ovvio.
Credo però che la domanda da porci oggi sia:”Come reagire ad un contesto in cui non solo il giornalismo d’inchiesta è solo un ricordo, ma in cui il giornalismo stesso vacilla, ibridato, cumunicativizzato, imbastardito..”.
Grazie a tutti per l’affettuosa solidarietà al mio difficile impegno anticamorra. Ribadisco che il mio agire ed il mio scrivere non sono una sorta di eroismo contemporaneo. Per nulla. Faccio solo ciò che chiunque è nato in queste infernali terre e vede quanto danno i sodalizi politico-criminali generano, dovrebbe fare. Vivo qualche problema certo non per mio coraggio anzi vivo una paura terribile e continua ma perchè denunciare, raccontare, descrivere queste cose è elemento di grande scandalo e diffidenza. Qui non esiste camorra ma solo imprenditoria, è ciò che imprenditori camorristi e politici vorrebbero sentirsi dire.
Rispondendo poi alle parole di Jacopo dovrò dire che credo non ci si una manipolazione ideologica dell’informazione ma piuttosto un adattamento a modelli mediatici che strozzano l’inchiesta. I giornali che hanno più successo sono queli che si distribuiscono nelle metropolitane. Sono banali ricettacoli di notizie d’agenzia eppure piacciono. Commenti, analisi, non parliamo poi di pagine d’inchieste, annoiano. Tutto deve contenersi nel titolo o poco più. Tutto deve fluire identico, pubblicità, notizia, morte, scandalo, prigionieri, liberazione. L’inchieta quindi viene scartata ancor prima che per il suo contenuto per la sua forma.
Certo che negli interstizi di questo modello però si inseriscono anche vere e proprie manipolazioni; ultima quella dei Tg italiani di non aver dato la gravissima notizia che i Pm di Palermo (tra cui Ingroia allievo di Borsellino che ne ha seguito leinchieste sospese) hanno chiesto 11 anni a Marcello Dell’Utri per essere stato in perenne contatto con COSA NOSTRA. Bsiogna dire che Dell’Utri meno di due mesi fa ha commemorato parlando a nome dello Stato, Giovanni Falcone a Palermo l’anniversario della sua barbara uccisione. Aut regem aut fatuum nasci oportet
Sottoscrivo l’interrogativo di Jacopo Guerriero: come reagire al contesto che rende vacillante e dannosamente imbastardito il giornalismo tout court? Questa è una domanda davvero interessante, che offre un sacco di spunti.
Si reagisce caro Franz scrivendo, raccontando non abbassando la guardia e forse non fugggendo. Si reagisce creando realtà sempre più diffuse (come Nazione Indiana) dove è possibile argomentare in spazi ampi senza la castrazione di pubblicità e direttori. Cercare di coinvolgere, di reagire usando ogni mezzo a disposizione dalla telecamera alla scrittura. Una continua denuncia che sappia trascendere lo squallore della cronaca d’agenzia. Non dobbiamo che foggiare nuovi strumenti altrimenti la realtà come dice Jean Amery “non sarà null’altro che ciò che vediamo”.
Roberto, hai risposto mentre scrivevo il mio post-icino. Dunque, in parole povere, è soprattutto un discorso di mercato, se ho ben capito. I giornali dei metrò tu dici che piacciono; ma piacciono perchè hanno un valore di “notiziario”, o piacciono soprattutto perchè sono gratis? A me viene questo sospetto, credo fondato. E poi: fino a che punto la situazione mediatica strozzata attuale è responsabilità degli editori e fino a che punto del pubblico dei lettori? E che ruolo hanno in tutto questo gli attori principali della commedia, vale a dire i giornalisti? Fino a che punto si può arrivare per migliorare la qualità di un giornale senza intaccarne la vendibilità? Perchè questo è il punto, secondo me, un’economia di mercato: é possibilissimo fare e vendere un’informazione di più alto livello riuscendo nel contempo a vendere lo stesso numero ipotetico di copie. Insomma, c’è dell’altro?
Roberto, scriviamo in contemporanea!
VOglio anch’io ringraziare Saviano per questo articolo. Credo anch’io, come dice Franz Krauspenhaar, che l’ostacolo al giornalismo d’inchiesta non sia il mercato. L’ostacolo è di altra natura.Chi scrive sul giornale è ricattato da altro tipo di vincoli. Sarebbe possibilissimo fare ottimo giornalismo senza abbassare le vendite di un giornale. Anzi.
Jacopo, dobbiamo davvero incominciare a interrogarci su “giornalismo e verità”.
Secondo me, i fattori ci sono tutti e due. Uno volontario, coercitivo, attivo, e uno più o meno involontario, strutturale, passivo. Piergiorgio Bellocchio dichiarava che, dopo aver scritto su riviste di grandi tirature come “Panorama”, aveva trovato “conferma a ciò che, in astratto, già sapevo: qualunque cosa tu scriva, perde ogni proprio significato per uniformarsi al contesto. Mai mi ero sentito così solo e inutile come quando avevo un pubblico potenziale di migliaia di lettori. Di qui l’esigenza di creare uno strumento di comunicazione libero da ogni condizionamento, indenne dal rumore della chiacchera culturale, della pubblicità, dei falsi specialismi”.
Faccio un esempio, che mi è rimasto molto impresso. Una edizione del Venerdì di Repubblica, rivista di (sedicente) sinistra. Inizio a sfogliare le prime pagine, arrivo all’editoriale di Giorgio Bocca (che io non stimo più di tanto, anzi). Un articolo al vetriolo contro Murdoch e la Sky. Lo leggo: interessante. Giro la prima pagina: un intero paginone di pubblicità su Sky a caratteri cubitali e fluorescenti, Sky ha tutto, abbonati a Sky ecc. Giro pagina: un’altro intero foglio a firma Sky, immagini tridimensionali, slogan agguerriti e contorni vari.
Ora, si sa che la posizione degli inserti pubblicitari non è mai casuale. Se in un giornale c’è un articolo sulla vecchiaia, con ogni probabilità di fianco troverai una pubblicità su un adesivo per dentiere. Se è la pagina per i ragazzi, aspettati nei paraggi qualche reclame di playstation o simili. Il fatto è questo: quei due paginoni di strabordante pubblicità su Sky subito dopo il magro trafiletto di un terzo di pagina contro Sky, erano un incudine sul pezzo di Bocca, un peso che comprimeva, schiacciava, stritolava, sfarinava qualsiasi contenuto sotto un tacco di scarpa. Era un enorme gomma che cancellava tutto il resto. Quel giorno ho visto il neoliberismo cucinarsi e papparsi tutto intero, in un sol boccone, un anti-liberista. E’ stato orribile, non mi sono più ripreso.
P.S. Ho parlato solo di uno dei due fattori, va da sé che l’altro è tutto politico, e ha ragione la Carla.
Eppure tu, in fondo, hai visto illuminarsi quella pubblicità di luce sinistra. Forse anche altri, dopo l’articolo, l’hanno trovata menzognera. Forse l’articolo l’ha invalidata.