Moleskine 5
di Sergio Garufi
Le metafore sono strane, le incontri nei posti e nelle circostanze più impensati. Magari c’è un oggetto o un’immagine che sta sotto i tuoi occhi da anni, ti incuriosisce, senti che è lì lì per dirti qualcosa ma non riesci ad afferrarne il significato profondo, e allora passi oltre, rimandi tutto a un altro momento, tanto nessuno ci corre dietro. Poi all’improvviso, grazie a un incontro fra cose e concetti all’apparenza distanti, ti si svela un mondo. Di recente mi è capitato uno di questi incontri felici. Come ogni buon lettore, quasi quotidianamente vado nella biblioteca della mia città. Lo faccio all’intervallo di pranzo, che nel mio lavoro è abbastanza lungo. E lo faccio anche senza mire particolari, tipo prendere il tal libro in prestito o consultare il tal altro, perché so che semplicemente entrandovi le idee mi verranno da sole, gli stimoli provenienti da tutto quel sapere mi guideranno sulla strada giusta.
Una volta, subito fuori dall’entrata della biblioteca, a fianco dei posacenere per i fumatori e vicino ai parcheggi per le bici, c’era un grosso blocco di marmo, un monolite di pietra di circa due metri dall’aria molto vecchia. Sulla superficie rivolta verso l’alto aveva degli incavi di diverse dimensioni. L’ho visto lì per anni, finché un giorno, leggendo un libro sulla storia di Monza, ho trovato la sua foto. Diceva che quel blocco risaliva ai primi del XIV sec., e gli incavi servivano a pesare alcuni alimenti. Le misure erano particolari, e difatti la datazione del blocco lo metteva in corrispondenza all’edizione degli Statuti Monzesi, quando fu concesso alla città di stabilire pesi propri. Il libro aggiungeva che questo blocco si trovava originariamente davanti alla facciata del Palazzo dell’Arengario, sotto le cui arcate si svolgeva in epoca medievale il mercato.
Oggi quel blocco di pietra non sta più sotto l’Arengario, e neppure di fronte alla biblioteca. Ne ho chiesto ragione ai bibliotecari e mi hanno risposto che l’avevano spostato di poco, all’interno del cortile del liceo classico Zucchi, adiacente alla biblioteca. Mentre lo osservavo dalla vetrata della biblioteca, mi è venuto in mente un passo dei Quaderni di Cioran che avevo letto la sera precedente, quando dice che “riflettere significa soppesare”. Riflettendo si misura il peso di ogni cosa, e di conseguenza pure il valore – tranne quello fisico e materiale, demandato alle attività manuali. Ecco allora che quel blocco di marmo, meglio: l’interrogazione sulla sua assenza, si è incontrato con un pensiero scritto molti anni fa e letto il giorno prima, ed è così diventato una metafora, e insieme un monito, a dare il giusto peso alle cose, perché il valore di ciascuno è in stretto rapporto col valore delle cose alle quali ha dato importanza. “Noi siamo ciò in cui crediamo”, diceva Marco Aurelio.
Questo spostamento è, a ben vedere, un esempio di reimpiegologia moderna. Se nella reimpiegologia classica si spostava un elemento più antico cambiandogli posto e funzione – come nel caso della lastra marmorea con croci e cristogramma che oggi decora la facciata del Duomo di Monza e che un tempo faceva parte del pluteo di recinzione presbiterale dell’edificio primitivo -, nella reimpiegologia moderna la nuova funzione può essere del tutto simbolica, e la sua identificazione affidata alla fantasia dell’osservatore.
Paolo Mantegazza è uno dei miei concittadini più illustri e bizzarri. Nacque nel 1831 a Monza in via Zucchi 21, a pochi metri dalla biblioteca e dall’omonimo liceo, e fu una figura eclettica di scienziato, romanziere, divulgatore e politico. Partecipò alle 5 giornate di Milano, conobbe Garibaldi e Mazzini, viaggiò e si sposò in Argentina, diffuse in Italia le tesi di Darwin, fu senatore del regno e infinite altre cose, eppure il mio interesse nei suoi confronti risiede in alcune pagine dell’immenso Giornale della mia vita, un diario composto da 63 voluminosi tomi (uno per ogni anno, dai 18 anni alla morte), tutti rimasti inediti e consultabili soltanto su microfilm nella biblioteca di Monza. Quest’opera monumentale sembra obbedire a un’imperiosa esigenza di verità, al folle desiderio di registrare la propria vita mentre ancora la si sta vivendo, di protocollarla con esattezza passandola agli atti. Al suo interno – non si sa bene a che punto perché non esiste un sommario – si nasconde il mitico Indice minotaurico, che sarebbero i verbali, scrupolosamente annotati, dei suoi accoppiamenti coniugali. Carlo Dossi nelle Note azzurre lo descrive così: “Paolo Mantegazza dall’età di 18 anni a quest’ora (1878) ha scritto quotidianamente la sua vita. Possiede di essa 31 grossi volumi. Vi ha giorni in cui la scrisse ora per ora. Inaugura ciascun anno col proponimento di vita – col preventivo de’ libri da scrivere e dei denari da spendere – con un’epigrafe. P. es. (pel 1878) «economia». – Tiene poi una tabella mensile del suo stato finanziario, una tabella dei gradi di temperatura, dello stato meteorologico, e così tiene un indice minotaurico che riguarda i rapporti carnali fra lui e la moglie. Mantegazza è velocissimo nello scrivere. Si direbbe che scriva ancor prima di pensare.”
Pur passando spesso davanti alla sua casa natale, che sta di fronte a una clinica dove vado a fare delle analisi mediche, per lungo tempo ho ignorato la targa che ne celebrava i molti meriti. Mi ci è voluta un’iniziativa commerciale da tanti biasimata, come quella delle bancarelle che vendono i libri a peso, per incontrarlo. Fu una copia della sua Fisiologia del piacere, pagata come fosse prosciutto, a farmelo conoscere; e in fondo è giusto così, cibo e sesso sono sempre andati a braccetto, e poi i libri sono il nutrimento dello spirito, pertanto non ci si può scandalizzare se li si vende a peso.
I miei ripetuti assalti all’imponente e maniacale autobiografia del Mantegazza ad oggi non hanno prodotto alcun risultato: L’Indice minotaurico resta una chimera bibliografica. Ad ogni modo qualcosa ho ricavato da quei pranzi saltati, ossia l’aver appreso i primi rudimenti del gioco degli scacchi cinesi. Avevo visto uno dei bibliotecari in pausa al bar vicino che giocava con un amico su una scacchiera e con delle pedine inusuali. La scacchiera cinese è sempre composta da 64 caselle ma non ha dei quadrati bianchi e neri, e in più è divisa al centro da una fascia vuota chiamata “il fiume”. Le pedine invece si distinguono solo per il colore dell’ideogramma che le nomina. A differenza della tradizione indoeuropea, i pezzi cinesi si muovono nella proiezione simbolica di uno spazio geografico, mentre i nostri agiscono su un unico astratto campo aperto. Stando a quanto sostiene il bibliotecario, la superiorità degli scacchi cinesi dipende dal fatto che questi si dispongono su un nodo, cioè sull’intersezione delle linee lungo le quali si spostano, individuando quindi un percorso, laddove i nostri stabiliscono solo una posizione, conquistano e difendono un confine.
In cambio di queste lezioni ho dovuto procurargli un saggio spagnolo tramite mio fratello che vive a Barcellona. Il volume in questione s’intitola Tumbas, di Cees Nooteboom. In realtà l’autore è olandese, sebbene risieda da molti anni a Menorca. Alla sua patria di adozione ha dedicato un altro testo bellissimo: Verso Santiago, da noi edito da Feltrinelli, che è un mirabile esempio di odeporica letteraria, per molti aspetti simile a quella praticata da Magris in Danubio. Mi capitò di vederli e ascoltarli assieme, ad una conferenza del Salone del libro di Torino di qualche anno fa proprio su questo tema, e fu un’esperienza che non dimenticherò. Pur apprezzando Nooteboom, non ho provato grande curiosità verso questa sua ultima opera. Vi sono raccolte 82 sue prose ed altrettante fotografie della moglie (in questo ricorda il legame fra Paolo Rumiz e Monica Bulaj), che riguardano le tombe di scrittori illustri, comprese quella di Borges a Ginevra e quella di Benjamin a Portbou, che io rifiutai di visitare. Ho un paio di amiche con questa passione cimiteriale, e una di queste ebbe l’onore di incontrare e conoscere George Steiner proprio di fronte alla tomba di Joseph Roth. A me questa fascinazione della cenere lascia indifferente, in quelle sepolture vedo solo miseri resti. Lì non ci andarono, ci furono messi dopo morti. Mi interessano molto di più i luoghi di residenza, le case che videro i loro passi, dove sognarono, amarono e scrissero.
Borges era contrario alle biografie che scandagliavano troppo il privato di un autore, detestava lo spirito diagnostico con cui spesso il lettore le affronta. Questo è il motivo delle sue lodi per le autobiografie di Gibbon e di Kipling, e dei suoi silenzi per Le confessioni di Rousseau e per il Journal intime di Amiel. Su Poe fu più esplicito. Come ricorda Emir Rodriguez Monegal, che su di lui scriverà una stupenda biografia, Borges disse: “Settecento pagine in ottavo conta una certa vita di Poe; l’autore, affascinato dai cambi di domicilio, riesce appena a salvare una parentesi per il “Maelstrom” e per la cosmogonia di Eureka”. Non conosco ovviamente la biografia di Poe a cui fa riferimento, ma credo che al riserbo borgesiano non fosse del tutto estraneo il desiderio di non mettere a parte i lettori di particolari intimi imbarazzanti. Comunque, morboso o meno che sia quell’interesse, io dai cambi di domicilio sono molto incuriosito, e credo che in alcuni casi per conoscere a fondo il percorso umano di uno scrittore sia necessario passare pure da quelle stazioni della via crucis che furono le sue residenze: valga per tutti l’esempio di Walter Benjamin, che nel suo essere inesorabilmente déraciné testimonia molto di più di una condizione personale.
Per Terry Eagleton, se l’arte e la cultura di questo tempo hanno dato segni di grande vitalità questo è accaduto per compensare i declinanti valori religiosi. In questo senso l’arte avrebbe molto in comune con la religione: perché entrambe sono forme simboliche, e tutte e due rappresentano il distillato di alcuni tra i significati fondamentali di una società. L’arte sarebbe insomma “una trascendenza rinnovata e sostitutiva, il solo residuo di immortalità rimasto a chi lamenta la barbarie spirituale della modernità”. La letteratura è dunque un surrogato della religione, una religione senza teologia e precettistica morale; e il turismo cimiteriale di Nooteboom sarebbe una sorta di pellegrinaggio culturale, l’ennesima disperata ricerca di senso, un modo diverso di porre la stessa estrema domanda morale di sempre: per cosa viviamo?
Le risposte non possono che essere ugualmente elusive e illusorie, balenare per squarci, per brevi e folgoranti epifanie. I luoghi che visitiamo sono muti, siamo solo noi a farli parlare attraverso le opere di chi li abitò. A Parigi sono andato più di una volta in rue Lepic 98, dove viveva Céline con Elizabeth Craig quando non era ancora Céline, ma solo il medico Louis-Ferdinand Destouches. Ho visto il n°67 del Passage Choiseul dove nacque, rue de l’Odéon 21 dove Cioran viveva in una mansardina, alcuni dei 18 indirizzi di Benjamin in quegli stessi anni (dal ’34 al ’39), ma il mio vero pellegrinaggio, il mio Camino de Santiago lo vorrei fare sulla route Lister, e quello sarebbe sicuramente un percorso penitenziale. Sulla route Lister, un impervio sentiero che valicava i Pirenei parallelamente alla strada ufficiale, situato ai piedi di un costone che lo proteggeva dai controlli delle guardie, di norma percorso solo da contrabbandieri che attraversavano clandestinamente il confine tra Francia e Spagna, Walter Benjamin cercò invano la salvezza dai nazisti. Era il 25 settembre 1940. La route Lister rappresenta per me l’ultimo dei suoi Passages, e forse non è un caso che l’intellettuale europeo che più di ogni altro coltivò un’autentica vocazione interdisciplinare, l’inclassificabile sempre in movimento da un ambito culturale a un altro, si sia tolto la vita proprio quando fu bloccato a una frontiera. I confini sono metafore gerarchiche, vengono concepiti per escludere, per mettere al bando. Oggi che quelle barriere non esistono più, che quel sentiero si può percorrere liberamente, penso che sarebbe giusto omaggiare in questo modo chi, come lui, incarnò meravigliosamente “la bellezza e la purezza dell’insuccesso”.
Bello. Come sempre.
Condivido il disinteresse per le tombe illustri. L’unica volta in cui vidi Parigi, ad esempio, mi rifiutai di recarmi a Père Lachaise a visitare quelle di Apollinaire, di Proust e di Wilde. Prima di tutto perché non mi piace che i cimiteri divengano luoghi d’attrazione per turisti svagati: la morte è l’unica cosa davvero meritevole di rispetto. In secondo luogo, qualcuno riesce ad immaginare un luogo più stridente con uno scrittore o un poeta? Per chi ha composto versi immortali o scritto pagine che sopravviveranno a centinaia di generazioni, la morte è solo un banale incidente di percorso, che non attrae la mia attenzione. Quando leggo un grande autore, provo piacere nel notare quel talento, quel genio che lo rende dissimile e “superiore” rispetto ad ogni altro essere umano. Morire, invece, è cosa da tutti.
Invidio moltissimo le pause pranzo in biblioteca, anche perché io sono una bibliofila nel senso letterale del termine. Amo i libri anche dal punto di vista fisico: mi piace il contatto con loro e il loro odore.
Mi è piaciuto molto questo saggio di garufi e ricordare soprattutto il patologo e antropologo Mantegazza mi sembra cosa utile perché molti non ne hanno mai sentito parlare. Influenzò persino freud con quel saggio sulle virtù igieniche e medicinali della coca. Ricordo quello straordianario romanzo utopico L’anno 3000. Sogno. Il libro si fa leggere volentieri, è divertente e anche istruttivo
” I confini sono metafore gerarchiche, vengono concepiti per escludere, per mettere al bando. Oggi che quelle barriere non esistono più, che quel sentiero si può percorrere liberamente, penso che sarebbe giusto omaggiare in questo modo chi, come lui, incarnò meravigliosamente “la bellezza e la purezza dell’insuccesso”. ”
Come sempre complimenti.
A quando la raccolta dei moleskine in un libro?
In qualche senso odeporico può ritenersi anche lo scritto di Magris Un altro mare, che racconta il viaggio di Enrico Mreule in Argentina, Enrico era uno dei due grandi amici di Carlo Michelstaedter; lo cito perché Magris mi confidò che l’inizio di tutto fu la sua visita alla tomba di Mreule in un cimitero istriano.
Grazie Sergio, ancora. Ottima l’idea di Nadia di un volumetto di Moleskine!
Bello scritto, come le altre Moleskine. Solo, non sono convinto che “quelle barriere non esistono più, che quel sentiero si può percorrere liberamente”. Continuano ad esistere, non solo metaforicamente; e continuano ad escludere, a mettere al bando.
Diversamente da te, Sergio, quando mi sono trovato vicino a luoghi dove erano sepolti i grandi artisti, ho fatto sempre in modo di far loro una visita. Il motivo: sentivo che era un omaggio dovuto proprio a quei resti mortali di uomini che avevano dato tanto.
Non me la sono mai sentita di passare loro vicino, senza sostare sulla loro tomba.
A presto.
Bart
P. S. Ci tengo a rivendicare di essere stato il primo (mi pare proprio così) ad annotare la bellezza di questi moleskine che mostrano di te un aspetto sensibile e intimo che prima era un po’ “soffocato” dalla tua notevole cultura.
D’accordissimo – e non da oggi – con Nadia e Sparz. Devi farne un libro, assolutamente.
Oltre ai contenuti, amo molto questa scrittura: si sente che si è cresciuti con l’esempio di grandi maestri, e che ora si sa volare benissimo da soli.
Interessante (e istruttivo ;)) come sempre.
Mi sento però di spezzare una lancia in favore sia dei cimiteri dei grandi (no, non à la Foscolò) sia dei confini.
Nei primi è pur ovvio che non ha senso ricercare la voce dei morti – a meno che non ci si trovi davanti a qualche tomba che ci si è scelti in vita – ma si trova molto, moltissimo, di ciò che pensano/dicono/ i vivi a proposito dei lì sepolti, della morte in generale, del proprio rapporto col passato, la memoria etc etc. E questo per me non è affatto privo di interesse.
Per quanto riguarda i secondi: la parola ‘confine’ andrebbe, mi pare, distinta dalla parola ‘frontiera’. La seconda contiene un che di aggressivo, un af-frontarsi che davvero suggerisce un senso di identità escludente, mentre la prima, con quel prefisso con- dà l’dea di un affiancarsi, di un accordo ragionevole (una con-venzione) sul fatto che ciascuno, persona o comunità che sia, ha i suoi limiti, è un’entità finita, cioè a termine. Il confine contiene, insomma, il tentativo di ovviare al senso di onnipotenza che sta dietro a ogni desiderio fusionale.
O no?
@nadia
se e quando mi chiederanno di raccogliere in volume questi testi io sarò felicissimo di accettare la proposta.
@caracaterina
la seconda obiezione, quella sui confini, mi convince; un po’ meno quella sulle tombe illustri. le rare volte che mi è capitato di visitarne qualcuna non ho trovato segni tangibili dei visitatori, che in genere sono più timidi di chi omaggia le rockstar defunte. su quella di celan non troverai mai ciò che si può trovare sulla tomba di jim morrison, per dirne uno. forse i poeti autorizzano forme di tributo diverse, meno appariscenti e più raccolte.
@gunale
hai ragione, i confini continuano ad esistere. il fatto che pochi privilegiati ne siano esenti non significa che sono spariti.
@luminamenti
in effetti mantegazza è un personaggio che meriterebbe un’attenzione non solo provinciale. se fossi un editore l’indice minotaurico lo pubblicherei.
@lunkhead
le pause pranzo in biblioteca sono un altro modo di nutrirsi :-)
a voi e a franz, bartolomeo e antonello un grazie di cuore e i miei auguri di buone feste.
[…] questo post di Sergio Garufi su Nazione Indiana – e in particolare un riferimento ai sepolcri degli uomini illustri e ai luoghi […]
Moleskine numero 5 mi piace tutta: gli specchi che soppesano (unione di ottica e gravità), l’indice minotaurico, i libri al peso, i posti dei vivi e quelli dei morti… l’unica volta che sono andata in quel senso è stato a Londra alla ricerca della tomba di Newton, era lì sul pavimento dell’abbazia di Westminster (all’epoca ero però un po’ polemica con lui, tutta infarcita di letture antiriduzionistiche a favore dei sistemi complessi analizzati alla Prigogine ecc. ) poi ho spostato l’occhio vicino e ho provato un’emozione intensissima (emozzione insensata come tutte le emozzioni) perché c’era la tomba di Darwin. Mi ha colpito molto scoprirlo così per caso, nell’ignoranza.
Non riesco ancora a capacitarmi di come possa esistere una cosa come Nazione Indiana, è un regalo quotidiano, un Natale Ininterrotto
vabbè oggi ‘so sentimentale…
baci e baci
fem
essere sentimentali a natale è come essere grassi a tonga.
saluti,
rs
il sommo Solmi in versione cannibale?
nonno-stante
fem
Orsola, che bellissima perla hai scovato. Sembra scritta oggi per l’oggi. A dimostrazione che ci raccontiamo sempre le solite fregnacce.
E che qui una volta era tutta campagna…
;-)))
Si avrà pur bisogno di una guida, no?
http://www.bol.it/libri/scheda/ea978888873891.html
Baci.
Monia.
Del monzese Paolo Mantegazza (1831-1910) ho scoperto di possedere il portentoso Dizionario d’igiene per le famiglie, pubblicato nei Libri Scheiwiller nel 1985. Copio qui la conclusione della lunga voce “emancipazione”: “.. A quelli che pretendono migliorare la condizione della donna spingendola sulle orme dell’uomo (come chi volesse consigliare una colomba a seguire il volo del falco) ripeteremo i quattro versi ammirabili di un poeta conosciuto:
Ah! Si la rêvérie était toujours possible!
Et si le sonnambule etandant la main
Ne trouvait pas toujours la nature inflexible
Qui lui heurte le front contre un pilier d’airain!
[lascio i piccoli errori d’ortografia dell’originale, airain è la vecchia parola francese per bronzo, a.s.]
il pronto risultato che si avrebbe ove le donne venissero classificate come gli uomini in caste patentate di avvocati, di dottori, di contabili ecc., è che farebbero male la prima cosa che importa loro di far bene, cioè mettere al mondo dei figliuoli sani e robusti.”
Sic.
sig
Sul monolite di Monza e soprattutto sulla sua simbolicità si veda anche “2001 Odissea nello spazio”. Riguardo al libro con i Soppesamenti di Garufi, esiste già in rete “Iooooo e Borges”:-/