La città di notte
di Roberto Saviano
Caro Tiziano, ti invio un raccontino che narra una storia vera. L’uccisione di due ragazzi innocenti avvenuta il 28 Settembre 2003 a Villa Literno (Ce), posto infame e tremendo vicino casa mia. Avevano 24 e 25 anni e sono stati fatti fuori senza motivo. Erano in piazza e si sono trovati all’interno di un regolamento di conti. Vorrei che il raccontino apparisse, qualora dovesse piacerti, su Nazione Indiana. Se ti va mi piacerebbe lo introducessi tu, con due minime righe. Anche ad attestare che narro fatti veri.
Fammi sapere Tiziano e grazie
un abbraccio
roberto
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Esiste un posto dove nascere comporta avere colpa. Il primo respiro e l’ultimo catarro hanno equivalente valore. Il valore della colpa. Non importa quale volontà t’abbia guidato, non importa che vita hai svolto. Conta ancor meno il pensiero che ha rimbalzato tra le tue tempie ed ancor meno qualche affetto che hai speso, forse, in qualche ora quotidiana. Conta dove sei nato, cosa è scritto sulla carta d’identità. Questo posto è ampio e ricco. Non lo conoscono che le persone che vi abitano, perché tra colpevoli ci si conosce. Tutti colpevoli, tutti assolti. Ma chi non ha cittadinanza in questo posto, ignora questo luogo.
Trovare la voglia di raccontare episodi già scomparsi nella mente di tutti diviene cosa scomoda. Sembra quasi di alzarsi di mattina, prestissimo, di propria iniziativa quando non c’è nulla che ti costringe. Così mi alzo, quasi di notte perché forse la giornata val la pena di raccontarla tutta. Ed inizio a raccontare.
Ebbene, in questo posto, era Settembre, il 28 precisamente, sei giorni dopo il mio compleanno, una sera in cui il freddo sembrava tardare a venire, una primavera allungata, stiracchiata quasi sino a Novembre. “Pagheremo questo caldo, l’inverno sarà gelido!” qualcuno ammiccava da dietro il bancone del baretto. Uno schifoso baretto sportivo dove ci si ferma ad acquistare vecchie bevande e nuovissime cedoline di scommessa sulle partite di calcio. A’ bullett’. La bolletta. Puntare, giocare, vincere una volta una grande somma e credere d’esser stati capaci. Poi ci si accorge che quella somma ripaga gli anni di giocate andate a male. In questo posto, dove nel baretto tutti bevono la gassosa Arnone, perché è del posto e perché qualcuno vuole che si venda soltanto la gassosa Arnone, c’è una piazza. Tutto avviene in questa piazza. Esiste ancora un’Italia (eggià, questo posto si trova in Italia) che si raccoglie oziosamente tutte le sere o quasi nelle piazzette dei paesi. Sempre gli stessi orari, i soliti volti. Tutti, lì, sui motorini, sui muretti. Spinelli, birre, chiacchiere a valanga. Qualche rissa. Sono quasi tutti parenti, figli di tre, quattro famiglie diverse, tutti stesso sangue, memorie comuni, stesse classi. Poi ci sono i nuovi ragazzi, i figli degli immigrati o i figli della gente del posto fatti con immigrati o immigrate. Infatti questo posto è un paese africano. Non per il clima, non per architetture esoticheggianti ma per la maggioranza della popolazione che ci vive. Questo posto è abitato per la parte maggiore da immigrati africani. Non maghrebini. Quasi tutti nigeriani, senegalesi, molti ivoriani, pochi della Sierra Leone, abbastanza della Liberia.
“In passato ce ne stavano assai di più!!” dice sempre lo stesso qualcuno dietro il banco dello schifosissimo bar dello sport. Sì, di più. Ciò significa che in paese su dieci persone che incontravi, nove erano africane ed una indigena. Ammesso che ti fidassi del colore della pelle, perché se quel singolo che incontravi era un polacco… dieci su dieci erano immigrati. Questo posto poteva essere una miniera di cultura accumulato in pochi metri quadri. Mezza Africa si era riversata nelle sue strade e si spaccava la schiena nei campi di pomodori a settemilalire l’ora. Ora a cinque euro (nessun arrotondamento dai caporali del lavoro….). In questo posto però tra gli africani e gli italiani le cose non vanno sempre bene perché qualcuno, qualcuno che comanda e comanda davvero, vuole che gli africani siano relegati nelle baracche, chiusi tra loro, timorosi. Temono che vivendo da uomini possano chiedere diritti da uomini e vantare più soldi, organizzarsi con i sindacati, far fuggire le ragazze africane quasi tutte costrette a battere. La gente del posto non era crudele con gli africani, non li guardava con nausea. Anzi. In qualche modo iniziarono i primi festeggiamenti in comune, qualche matrimonio misto. Le ragazze nere entrarono nelle case come babysitter. Col tempo però, i potenti, i veri potenti, hanno diffuso un senso di paura, una diffidenza, una separazione imposta. Se proprio devono esserci contatti che siano minimi, che siano superficiali, che siano momentanei. Poi ognuno per sé ed il danaro solo per loro.
Quella sera infatti non c’erano ragazzi africani, forse qualcuno schiantato in un angolo pieno di alcool e qualcun altro a spiare qualche pancia scoperta di ragazzina non osando avvicinarsi a lei. E lei magari spia il ragazzo nero dell’angolo pensando un giorno di poter scoprire se è vero quanto dicono intorno ai neri i suoi compagni di classe ovvero che hanno un pisello quanto quello di un cavallo che supera di molto i venticentimetri…
Quella sera erano in cinque. In cinque mentre sbevacchiavano qualche gassosa e qualche birra. Francesco, Simeone, Mirko, Giuseppe e Vincenzo. Discutono. Si conoscono da sempre, di vista, o hanno fatto qualche scuola assieme, si sono beccati al campo di calcetto, alle partite della Liternese. Forse hanno fatto la visita di leva assieme. Parlano, ridono, ruttano. Milano, Torino, Roma. Le cartine geografiche si accartocciano intorno ai lacerti di discorso dei ragazzi di questo posto. Nessuno vuol rimanere, sentono la colpa. Stanno crescendo ed intuiscono la colpa di vivere in quel posto. Chi non va via è un fallito. Vogliono far soldi, ma Giuseppe e Vincenzo sanno che non ce la faranno mai a mantenersi con il loro lavoro prima dei quarant’anni. Giuseppe, 25 anni, fa il falegname. E’ bravo, ha un talento per i mobili, sembra un ebanista nato. Nella sua officina però è pur sempre nu guaglione. Prende quattro soldi, quando si farà le ossa gli daranno finalmente mille euro al mese. Il suo sogno. Vuole sposarsi al più presto. Vincenzo ha 24 anni e fatica come muratore. Nel dialetto di questo posto il lavoro è chiamato FATICA. Se non sudi, non torni a casa che le gambe non si piegano, se non senti la sera la bocca asciutta e lo stomaco vuoto, allora non hai affatto FATICATO. Il lavoro o è così o non è. Vincenzo non è un gran che come muratore. Per ora lo fanno impastare. Impasta cemento, aggiunge acqua. Una volta era venuto a casa mia assieme al Masto per ritinteggiarmi una stanza maculata d’umido. Aveva visto una Menorah sul tavolo. Il candelabro ebraico della mia famiglia materna. L’aveva riconosciuto. “E’ il candelabro degli ebrei?” Non credevo che Vicienz’ sapesse certe cose. In piazzetta si parla di molto meno e molto peggio. Se non dai il peggio di te temi ti possano sottovalutare. Ed invece scopri che con il rutto non si è esalata l’anima.
Quella sera erano in cinque. Francesco si sente gli occhi addosso. Qualcuno da troppo tempo passava e spassava vicino la loro combriccola. Francesco ha 21 anni, sta facendo carriera con quelli che comandano. E’ vicino al clan dei Tavoletta. Il clan del posto. Spaccia, e spaccia anche dove non può farlo, ma per questo il clan lo riconosce come un affiliato serio anche se ragazzino. Guadagna 1200 euro al mese. Spaccia, raccoglie pizzo, ogni tanto fa da autista. Ha il coraggio di spacciare nei territori dei nemici di Tavoletta, i Bidognetti. Francesco scherza, ride, beve la terza birra, tira la decima boccata allo spinello. Ma non è tranquillo.
Mirko e Simeone sono amici. Simeone è il fratello di Giuseppe. Sono loro che si sono fermati in piazza per primi a parlare e così gli altri si sono avvicinati. E’ così che si forma il gruppo in piazza. Una sorta di sedimentazione per osmosi. Arriva ad ondate, se ne va ad ondate. Simeone lavora anche lui in falegnameria. Ha meno talento del fratello, ma avendo 31 anni viene pagato di più ed ha incarichi più prestigiosi. Mirko è disoccupato. Il padre gli sta trovando un posto, forse a Formia. Già l’odore di Roma lo eccita. Ha 31 anni, ha lavorato sempre come cassiere in un supermarket. Poi hanno preso un ragazzo del Ciad che lavora il doppio con la metà dello stipendio che davano a Mirko. Ma Mirko non se la prende. Lascia perdere. “E’ la volta buona che mene vado,” dice a tutti quelli che lo vogliono confortare.
Parlano, parlano, è domenica. Domani lavoro, maledizione. Ma parlano, continuano a parlare. Francesco caccia un rotolo di cento euro. E’ orgoglioso. Dice che lui si sposa prima degli altri e che il matrimonio lo farà sulla collina di Posillipo. Gli altri ridono, lo invidiano, ma sanno che quei soldi se li è fatti divenendo camorrista. In questo luogo camorrista è il miglior complimento che si possa fare ad un individuo. Ma non tutti vogliono diventarlo, non tutti ci riescono. I quattro ragazzi si tengono lontani dai clan. Troppo pericolo, troppa fatica. Tranne Francesco.
Intanto i tizi continuano a ripassare. Francesco questa volta ha capito. Cerca di allontanarsi salutando velocemente i ragazzi in piazza. Vincenzo, Giuseppe, Mirko e Simeone non capiscono. I tre personaggi che stavano appostati lì in piazza da almeno tre ore iniziano a correre verso di loro, hanno cacciato le pistole, i ragazzi scappano, Francesco è già avanti loro. I tre tizi hanno le pupille dilatate, sono pieni di coca. Sono uomini di Bidognetti, il clan rivale, mandati a punire Francesco.
Corrono, corrono, caricano il ferro. Smith&Wesson. Scaricano sui ragazzi. Questi riescono ad infilarsi in un vicolo. E’ cieco, ma alla fine se si riesce a scavalcare il muro che separa un piccolo parco dalla strada è fatta. Francesco mette i piedi nei fori dei mattoni mancanti, è già in cima al muretto. L’ha scalato in tre secondi. Gli sparano sette colpi. Solo uno lo impallina alla clavicola. Cade dall’altra parte del muro. E’ salvo. Mirko e Giuseppe sembrano due pinocchietti snodati. Corrono ormai senza fiato. Non riescono a fermarsi per la paura, danno tutti e due una musata contro il muro. Scavalcano i mattoni di tufo aggrappandosi anche con le unghie. Contro di loro cinque colpi. Mirko preso di striscio sull’addome, Simeone di striscio al gomito. Due graffi, nulla di più. Passano il muro. Sono salvi. Scappavano non sanno bene da cosa e da chi.
I killer sono senza fiato, strozzati dalla coca, tentano di arrampicarsi. Cascano continuamente, non ce la fanno. Sentono dall’altra parte che i ragazzi stanno scappando. La gente ha chiamato la polizia. Ma non possono tornare a mani vuote.
Vincenzo e Giuseppe non hanno corso verso il muro. Hanno iniziato a bussare a molte porte. Non capivano per qual motivo venivano aggrediti. Quasi nessuno gli ha aperto. Pur conoscendoli, pur essendo i figli di Rosetta e donna Paola, conosciute da tutte le signore del paese, nessuno gli apre. Eppure tutti li hanno visti ragazzini crescere in piazza. Ma non aprono. Non sanno da uomini cosa sono divenuti. Battono alle porta. Due pensionati aprono. Conoscono Peppino. Come no, hanno fatto costruire a lui l’armadio a muro quando la loro prima nipote si è sposata. Aprono, i due ragazzi entrano. I vecchietti gli offrono due bicchieri d’acqua e chiamano i carabinieri. Dopo pochi minti però tornano a sentire bussare alla porta. Sono i killer. Nella corsa non hanno tralasciato di vedere dove i ragazzi si stavano nascondendo. Battono con i piedi e con il calcio della pistola. I ragazzi urlano “Cosa volete? Non c’entriamo nulla!” I Bidognetti però devono punire Francesco, e visto che è scappato ora devono attuare una punizione per interposta persona. Forse sarebbe stata considerata equivalente per i capi. I tre killer sfondano la porta, i ragazzi tentano di fuggire per la finestra della cucina, i killer però sono abili, hanno rabbia. Se tornano a mani vuote possono avere lo stipendio bloccato dal clan per interi mesi e loro c’hanno famiglia. Così tirano i capelli ricci di Vincenzo, il ragazzo cade con la schiena per terra. Lo sparano alla nuca, con un calcio lo sbattono ormai cadavere sotto il tavolo. Giuseppe cerca di scappare rimbalzando per le pareti della minuscola stanza. Lo finiscono con quattro colpi in pancia. Cade nel sangue di Vincenzo sotto il tavolo. I due anziani sono fermi. Non urlano. E’ come se quella fosse l’ennesima condanna da subire, quando si nasce in questo paese di colpevoli. I killer sentono le sirene. Scappano, loro sì, dalla finestra della cucina che dà sul parco dietro il muro. Da lì è l’unica fuga. Per tutti.
I carabinieri entrano nella stanza. I ragazzi sono sotto il tavolo. Sulla tovaglia un mandarino sbucciato raccoglieva dei semi sputati, una bottiglia di vino fragolino era caduta per terra impastandosi con le ciocche dei ricci di Vincenzo. L’alone viola sulla tovaglia è perfettamente sferico.
Erano innocenti. Vincenzo il giorno dopo sarebbe andato dalla ragazza, Rosetta, come sua madre. L’avrebbe accompagnata a lavoro, al caseificio. Giuseppe invece era solo, stava ancora cercando qualche ragazza che non chiedesse di farsi sposare dopo un mese di fidanzamento. Sarebbero quella sera andati in piazza a parlare con i vari sedimenti d’uomo che si fermano lì per poi esser ripresi dalle loro maree quotidiane. Andare, tornare. Stare in una piazza e scappare dinanzi alla paura inseguiti non si sa perché né da chi. Questa la colpa più grande di Vincenzo e Giuseppe. Ammazzati. Ventiquattro e Venticinque anni.
Morti che nessun giornale nazionale il giorno dopo ha ricordato. Nessun telegiornale, nessun radiogiornale ha accennato. Niente di niente. Muti a sinistra, destra, centro. Muti gli estremisti, i religiosi, i saggi. In silenzio i giornali d’inchiesta, d’opinione, di sport. Muti le tv di stato, quelle di regime, quelle private, quelle minuscole, quelle immense, quelle europee. Mute. Questo posto non esiste per chi non ha colpa. E nessuno vuole saggiare questa colpa trattando del paese della colpa. “Ti meravigli?” mi dice il maresciallo dei carabinieri del posto, “se vieni ucciso qui, qualcosa hai dovuto fare. Con la camorra o contro la camorra. Ma sempre camorra è per il resto d’Italia”. Sono nati nel paese della colpa. Non potevano dirsi innocenti. Nascere in questi luoghi significa già avere una colpa non indifferente.
La madre di Giuseppe da allora passa le giornate in strada. Seduta su una sedia, vicino al bar dello sport. A chiunque incrocia con lo sguardo chiede: “Mi vai a chiamare Giuseppe? Fa sempre tardi la sera… domani deve lavorare “. Tutti rispondono “adesso ve lo chiamo” e poi iniziano ad affrettare il passo. La signora guarda i passi sino a dove la miopia glielo concede, si quando non spariscono girando a qualche angolo. Ieri mi ha fermato. “Roberto, bello, mi vai a chiamare Giuseppe? Fa sempre tardi quello…” Non rispondo, mi alzo il bavero del cappotto e mi faccio un giro. Poi ritorno. “No signora, Giuseppe non è in piazza…”
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Conosco Roberto da poco tempo, e ci tengo molto a fargli i complimenti anche dal post di nazione indiana.
Il suo impegno coraggiosissimo contro la camorra lo porta a rischiare spesso la pelle.
Convive con una realtà assurda, dove perdere gente che si conosce diventa praticamente una consuetudine.
La cosa incredibile è che quella realtà non si consuma tra i confini di un paesino sperduto chissà dove. Sono cose che succedono ogni giorno nel sud d’ Italia.
Quello che racconta- sia nei suoi articoli, sia nei suoi racconti- mi lascia sempre senza parole.
So che Roberto ci tiene a non essere dipinto come un eroe, ma io non saprei come altro definire un ragazzo di 25 anni che anche ieri è stato minacciato, eppure continua a denunciare e a scrivere di camorra…
Lo stimo molto.
In bocca al lupo, Roberto!
Grazie Saviano,
la seguo anche su “Diario”. Continui a proporci le sue inchieste coraggiose. Saluti cordialissimi
Grazie davvero,si rischia di diventare retorici, ma in un paese dove il giornalismo d’inchiesta è pressochè scomparso, leggere i tuoi “racconti” è sempre sconvolgente e lascia gli animi gonfi d’impotenza e amarezza.
Grazie ancora.
Un saluto solidale.
un bellissimo pezzo di inchiesta. complimenti a roberto da una collega.
Grazie davvero per i messaggi che avete voluto dedicarmi. Vivere dove vivo significa anche avere immani difficoltà di condivisione. Il pezzo, o meglio la qualità di esso ti viene attestata dalle minacce o querele. Ricevere invece dialettiche di riflessione mi riempie di gioia. Non sono affatto un eroe. Non basta esser minacciati per esserlo. Chi vive qui, a sud, nella provincia d’Italia fa semplicemente una scelta. Io ho fatto la mia.
Grazie ancora.
Il coraggio delle proprie scelte, proprio. Complimenti!
Caro Roberto,
sono anch’io di “quaggiù”, come diciamo noi (un mio amico poeta con cui ero al telefono una volta sbottò ironicamente: “Noi di quaggiù… le cose di quaggiù… Ma perché dici sempre “quaggiù”? Dove credi di vivere, nel sottoscala di un palazzo?”). Sono un pugliese. In Puglia non abbiamo la camorra, bensì la Sacra Corona Unita, ma la situazione non è certo migliore. Anni fa, sulla mia strada di casa, hanno ammazzato due giovani dopo un inseguimento. La notte noi sentivamo i colpi nell’aria e ci guardavamo stupiti e ci chiedevamo: “Che santo è oggi? Che festa è? Perché fanno i fuochi d’artificio?”. Finché il giorno dopo, a due passi da casa, il muretto sfondato dall’auto, le sagome tracciate col gesso sull’asfalto…
Capisco a cuore tutto quello che scrivi: la colpa, la voglia di fuggire, la rassegnazione e assuefazione che s’insinuano sottopelle, il lavoro come “fatica” (dalle mie parti addirittura si dice “fatìa”, con la caduta della c, come a rimarcare la sofferta stanchezza di chi pronuncia la parola)…
Sappiamo come i governi (e quindi anche i mezzi di comunicazione, che sono al loro servizio) usino la politica estera per stornare l’attenzione dagli eventi interni che denunciano il malessere sociale. In un’epoca di guerre internazionali, di eventi e tragedie di portata planetaria, niente di più facile e politicamente conveniente per la cricca di coloro che giocano allo Stato! In questi casi la letteratura deve abbandonare estetismi e narcisismi, uscire dalle torri d’avorio per dire la realtà nuda e cruda, evidenziare l’invisibile, essere bollettino d’informazione…
Capisco MALATESTA (approposito ma è un omaggio al grande ERRICO delle mie parti?) che le nostre situazioni si assomigliano. Molto di più che quelle che si vivono in SICILIA. Della MAFIA si parla ma dei camorristi, dei sacristi, della N’drangheta, nessuno sa nulla. Le notizie che si hanno sono di mero folkore da FAR-WEST. Non so se la soluzione, intendo a questo silensio, si può trovare spingendo la letteratura a divenire bollettino d’informazione. E’ il tempo della denuncia e dell’indignazione, dell’analisi e forse per alcuni della partecipazione. La letteratura saprà in molteplici cammini prescegliere le giuste strade. Speriamo. Grazie per l’attenzione Malatesta, della provincia, del sottoscala d’Italia si sa davvero poco.
Caro Roberto,
sì, il mio nick è un omaggio a Errico Malatesta (ci sta dentro il pensiero anarchico che sempre mi appassiona, il legame col sud e anche – a un livello linguistico superficiale, di calembour – la volontà di un atteggiamento controcorrente e anticonformistico, di “mala testa”, “testaccia” come si dice da queste parti…).
Penso che spingere la letteratura a farsi bollettino d’informazione (ma rimanendo sempre letteratura, cioè non scivolando nel giornalismo!) non sia un rimedio certo e assoluto contro il silenzio imperante, ma spero e credo che una letteratura “responsabile” possa almeno sforacchiare il fondo dell’attuale omertà politica e mediatica perché qualcosa passi, notizia o pensiero, sgocciolando…
Una letteratura d’impegno oggi, nell’era massmediatica per eccellenza, non può molto, ma qualcosa può comunque: infastidire, informare, stimolare, anche se pochi… Oggi la capacità di focalizzare questioni e suscitare dibattiti è passata nelle mani del cinema (vedi Buongiorno, notte di Bellocchio o la più recente Passione di Mel Gibson),
tuttavia i libri e anche solo le idee degli scrittori sono continua fonte di ispirazione, base e nucleo di partenza per molti registi (Buongiorno, notte sarebbe esistito senza il libro Il prigioniero?). E penso a I cento passi di Giordana…
Poi, come vedi, oggi c’è anche internet, che consente qualche movimento in più. Dunque, bisogna scrivere per far circolare tutto, informazioni e idee, come un polline, ché sempre più ne respirino…
sai roberto, io ho sempre vissuto al nord, in piccole cittadine o paesini, al sud ci sono stata in ferie e credo di non aver capito un bel niente come si conviene ad ogni turista. sai una cosa? sono terrorizzata al pensiero che raramente la cronaca del sud ci tocca la coscienza, io non sono menefreghista cinica o disinformata eppure era da un bel pò che non mi sentivo “coinvolta” da ciò che sta succedendo a casa nostra, a qualche chilometro più al sole. e ora, mi sento in dovere di ringraziarti ma soprattutto di chiedere scusa. scusa e grazie.
Si, capisco Malatesta far passare nella foggiatura della letteratura tutto quanto è marginalizzato, reso vano, inutile, dal quotidiano informare. La letteratura come ambito ultimo in cui poter congetturare e quindi avvicinarsi al vero. Credo che Uwe Johnson abbia molto da isnegnare a tutti noi. A presto Malatesta.
Cara Kanij non c’è nulla da chieder scusa. La tua email mi ha molto commosso. Mi ha fatto molto, moltissimo piacere sapere che il mio racconto-inchiesta ha stimolato la tua sensibile coscienza coinvolgendola. Non è affattuo tua colpa se da turista o da attenta lettrice non ti sia accorta del sistema-camorra. E’ cosa complessa, sotterranea, nascosta. Arrivare a comprender ecerte notizie significa avere il copro per tre quarti già immerso nella fanghiglia…Bisogna tener gli occi spalancati e stringere l’indignazione nel palmo. Come un sampietrino. Forse così non lasceremo troppe notizie e troppe nostre realtà scomparire come se non fossero mai accaduto o esistite. Grazie davvero per le tue parole.
essendo anch’io un SUDato SUDista aancor più a meridione del tuo centro so di cosa stai parlando, so cosa vuol dire parlare di certe cose e rischiare anche per un aggettivo di troppo (a me è successo) una rappresaglia da parte della SCU
( o camorra o ‘ndrangheta o quarta mafia….tutto il mondo,quasi, è paese…)
Sono salentino e di morti ne ho visti, sia inseguiti e fulminati sotto un tavolo per caso come da te, sia massacrati da un pera “regalata” dal tuo giuda personale.
Conosco anche il tuo paese, ci son venuto parecchie volte quand’ero a Roma,lo conosco anche per la sua nomea di “città interculturale” (se non sbaglio è il paese col rapporto più alto di immigrati rispetto a “li paesani”).So di cosa parli.
Qui nel salento stiamo cercando di far voce forte contro simili deeviazioni (che poi per molti dei nostri coetanei fare il mafioso non è affatto una deviazione, ma un modo come un altro per gudagnare,spacciando,taglieggando,e talvolta intimando col piombo chi non abbassa la voce )
Ti andrebbe di scrivere qualcosa per la nostra (mia tua nostra di tutto il sud )rivista ? qualsiasi cosa valga per te la pena di far tuonare nel nostro sottoscala….
se ti interessa c’è il mio indirizzo, la rivista è Ariosto219
Coraggio,siamo più di quanto possano immaginare!
Apprezzo sinceramente i pezzi di Saviano perchè consuma molto meno colore di quanto la tradizione letteraria e il costume utilizzano nel raccontare vite e personaggi del genere. La cosa più bella, poi, è che i suoi luoghi sono comunque sempre luoghi dell’affetto, si capisce bene, anche se non c’è alcuna pietas regionale -che sarebbe intollerabile nella narrazione-. Nel contempo, però, non c’è neppure nessuna purezza, c’è anzi un’inconciliabilità di fondo che parla di due realtà, di due mondi, uno egemone ed uno, quello di Saviano, vinto. Due entità che non sono separate o estranee ma concentriche. Così si crea questo senso dispari, una pulsazione forte che mi sembra essere poi il dolore che agisce dietro il racconto, che ne determina la peculiarità.
Da un irpino d’origine, avellinese -cognome a testimone-, un grazie sincero a Saviano. Continui ma cerchi anche di non rischiare troppo, speriamo di conoscerci prima o poi..
Grazie roberto, grazie jacopo. Sarò prudente. Anche se è cosa difficile come sapete non ci è dao sapere sin dove è possibile esporsi. Questa solidarietà però che cerchiamo di attestarci credo sia molto. Davvero.
Solo oggi ho letto “Annalisa. Cronaca di un funerale.” E, soprattutto, “La città di notte” di Roberto Saviano. Perché “soprattutto”. Annalisa è stata uccisa, l’Italia intera ha conosciuto la sua storia attraverso i media. Anche Vincenzo e Giuseppe sono stati ammazzati come cani, a sangue freddo… ma nessuno ha parlato di loro. Tranne Roberto Saviano. Leggendo “La città di notte” mi sono sentito male: in quattro pagine l’autore dell’articolo ci sbatte in faccia un orrore senza pietà, con una tale forza… che si resta di ghiaccio, senza speranza. Ma forse è proprio questo l’effetto che Roberto vuol produrre: sommergerci con un’ombra emanante muffa e putredine affinché rivoli di sangue penetrino nella nostra razionalità… e producano uno scrollone alle nostre coscienze atrofizzate.
A Roberto Saviano va la mia gratitudine per il “male” e il dolore che mi hanno prodotto i suoi terribili articoli… brani, tra l’altro, di alta letteratura che mandano in frantumi l’idea dell’impotenza del “sapere narrativo”.
Adriano Petta