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La polacca

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di Mirfet Piccolo

Le piaceva farlo così, senza guardarlo: con la gamba sottile abbracciava la coscia di lui e con il pube ancora caldo e umido si premeva e stringeva un poco; la clitoride era un bacio lieve sul fianco dell’uomo con il quale era in amore. E poi diceva:

Raccontami ancora quella storia.

Con la testa posata sul suo petto nudo e lo sguardo lontano dal suo, Fiona aveva la libertà di vedere meglio ciò che le raccontava. La stanza dell’albergo era troppo grande per tutto lo squallore che conteneva, ma sarebbe andata bene, si era detta Fiona appena varcata la soglia, sarebbe andata bene comunque perché la voglia di stare di nuovo insieme era tanta e quella era, doveva esserlo, semplicemente la stanza che in un hotel a quattro stelle riservavano a chi richiedeva il day-stay per mezza giornata

Quale storia?

Quella di quando eri in Polonia per lavoro e hai conosciuto quella ragazza.

La polacca? Dici quella?

Sì, lei.

La mia Polish girl.

Davanti agli occhi di Fiona c’era una cassettiera fuori moda e di dubbio gusto, e che molto probabilmente era stata brutta anche quando era di moda per via della fattura fintamente pregiata; accanto, sulla sedia dall’imbottitura logora, lui aveva posato il suo giubbino. Nonostante il lieve squallore che la circondava, o forse proprio in virtù della mancanza di un contesto gradevole, Fiona riuscì ancora una volta a ricostruire l’immagine di lui da ragazzo brillante agli esordi della sua carriera di auditor in giro per il mondo: giovane e audace, i capelli in posa con il gel e la risata fragorosa con i colleghi per la strade di Varsavia dopo una giornata di lavoro. E questa volta aggiunse anche la luce gialla dei lampioni che cadeva a cascata sulla strada che li aveva poi condotti nel locale dove avevano incontrato il gruppo di ragazze.

Ma lei, non ti ricordi proprio come si chiamava?

Perso nella memoria, anche perché dopo non ci siamo più visti.

E com’era? Fisicamente, dico.

Normale, una ragazza normale. Come te, come tante. Vestita normale, un po’ acqua e sapone.

Ma in che momento ti ha detto di essere una prostituta, prima o dopo?

Me lo ha detto lì, al pub. Si chiacchierava. Ma non stava mica lavorando in quel momento. Era fuori con le amiche. Una ragazza normale. Non era una vera prostituta, lo faceva solo ogni tanto, per bisogno.

E ci sei rimasto male?

No, te l’ho già detto. Era simpatica e molto carina. Tutto qui.

E poi?

E poi abbiamo parlato di altro.

Di cosa?

Boh, e chi se lo ricorda. Però ricordo che mi piaceva il suo accento quando provava a parlare in italiano. Lì lo imparano un po’ tutte.

Questa dell’accento era un’informazione nuova. Non ne aveva mai parlato. Fiona ripensò a quando lui, emiliano, la prendeva un po’ giro sottolineando le e troppo aperte del suo accento milanese: chiudi quelle e, le diceva, non sono mica le tue gambe, e la guardava con quel sorriso un po’ rapace e un po’ scherzoso.

Forse la ragazza polacca aveva imparato l’italiano dalle canzoni di Eros Ramazzotti, e allora Fiona immaginò una ragazzina magra, con i capelli lisci e lunghi sulle spalle e le cuffie alle orecchie, china sulla scrivania della sua stanza a trascrivere su un diario i testi delle canzoni. Una ragazza normale, una ragazza come tante.

Poi lui lamentò di avere il braccio addormentato. Per mettere a tacere il formicolio, nel muoversi sollevò la gamba destra e dal quel sollevamento Fiona vide emergere un piccolo buco sul lenzuolo bianco; che posto ridicolo, pensò. Quando abbassò di nuovo la gamba, il buco scomparve dalla sua vista.

La sua stanza, ti ricordi com’era la sua stanza?

Giovane. Ragazza acqua e sapone. Ragazza come tante. Prostituta. Fiona avrebbe voluto sapere di più della stanza della ragazza polacca. Aveva anche lei poster di cantati e attori famosi, e vestiti in disordine su una sedia e scarpe sempre in giro? Ma lui si fermava sempre qui: era una stanza come tante, la stanza di una ragazza giovane.

Lo baciò sul petto, poi ripose nuovamente la testa su di lui e con il dito iniziò a disegnare una costellazione invisibile in cui i suoi nei erano i pianeti e lei con il dito li circumnavigava e poi li univa per formare animali fantastici e divinità. Fiona non aveva mai visto così tanti nei su un uomo e ormai li considerava un tratto distintivo del suo corpo.

Nelle giornate tra un incontro e l’altro, quando lui per lavoro doveva spostarsi in altre località, non vedeva l’ora che arrivasse il momento di andare a dormire così da togliere dalla sua vista la presenza astiosa della sua coinquilina e potere, finalmente, stringere il cuscino e con gli occhi chiusi richiamare alla mente tutta la costellazione del suo corpo nudo. Le sembrava di averlo al suo fianco e così si addormentava.

Ma io non ho capito la dinamica. Dopo il pub, come è successo che siete andati a casa sua? Te lo ha chiesto lei o glielo hai proposto tu?

Fiona fu sorpresa e soddisfatta da se stessa: era la prima volta che gli faceva questa domanda eppure ora che era uscita dalla sua bocca le sembrò di grande importanza. Questa sì che è una bella domanda, si disse.

È venuto così, parlando.

Parlavate un po’ in inglese e un po’ in italiano, giusto?

Sì.

E quindi, come è successo? Te lo ha chiesto lei o sei stato tu?

Sai quel genere di sguardi, no? Quelli che vogliono dire tutto. Poi ci siamo dati qualche bacio lontano dalle amiche ed è venuto così, di andare da lei. Lì è facile, è sufficiente dire loro che le porti in Italia.

Le dita della mano di Fiona si fermarono e si rifugiarono nel palmo; la costellazione subì un piccolo, netto collasso.

Adesso però aveva fame, aggiunse, voleva uscire a mangiare qualcosa, e si divincolò dall’abbraccio immobile. Quando lei gli ricordò che avevano la stanza prenotata ancora per un’altra ora, lui le disse che non era importante, che non si preoccupava mai dei soldi che spendeva se erano stati spesi bene.

Stiamo stati bene anche questa volta, no?

Fiona disse di sì, sì certo, sì. Sollevò il busto e dal letto lo seguì con lo sguardo mentre andava in bagno; lo sentì aprire la porta e poi chiuderla, sentì che girò chiave.

Guardò verso la finestra: la luce che filtrava era intrisa di granelli di polvere che fluttuavano vicini e non cascavano mai. Fece per alzarsi dal letto, e da un movimento distratto del piede il piccolo strappo sul lenzuolo si allargò. Fiona provò un immediato imbarazzo: guardò in direzione del bagno – lui era sotto la doccia e non sarebbe certo uscito in quel momento – e poi di nuovo il buco sul lenzuolo. Infine si alzò del tutto e con il lenzuolo superiore e poi con il copriletto coprì ogni cosa.

Ancora nuda, andò alla finestra. La camera si affacciava su un parcheggio che in quel momento era parzialmente deserto. Oltre la recinzione che delimitava il parcheggio notò un appezzamento di terra erbosa con delle bestie. Sembravano lama, o forse erano alpaca? Era un posto strano per tenere degli animali come quelli. Da quella distanza le era impossibile distinguerli e forse, si disse, forse non sarebbe stata in grado di farlo neppure da vicino. Sapeva che i primi sputavano e i secondi no, ma cos’altro?

Secondo te quelli sono lama o alpaca?

Andò anche lui alla finestra. Fiona avvertì il calore della sua pelle umida e profumata, e provò il desiderio di togliergli quell’asciugamano che gli cingeva la vita e fare ancora l’amore. Non poteva dire che lui fosse, tecnicamente, un amante perfetto (per raggiungere l’orgasmo, infatti, lei sapeva come muoversi, e cioè come contrarre i muscoli del suo utero), ma era un uomo taciturno e affascinante e aperto al mondo, ed era il primo uomo della sua vita recente che non l’aveva fatta sentire miserabile per via della sua condizione di donna quarantenne affittuaria di un appartamento in condivisione con un ragazza ben più giovane di lei.

Non lo so. Penso che siano la stessa cosa, stessa sostanza. Dai, muoviti ché ho fame.

E lui si voltò e iniziò a rivestirsi.

Sono certa che non sono la stessa cosa. Però neppure io so la differenza, non me la ricordo più.

Fiona chiuse la porta alle sue spalle e non girò la chiave. Il bagno era piccolo e i sanitari ingialliti dal tempo ma in fondo, pensò mentre faceva la pipì, non era così importante; l’importate era stare bene insieme, fare scorta di ricordi belli per i giorni a venire che non avrebbero potuto passare insieme. Si pulì, tirò lo sciacquone e andò sotto la doccia.

Quando Fiona uscì dal uscì dal bagno, lui si era già messo il giubbino.

Sono davvero affamato, vestiti così andiamo a mangiare qualcosa.

La porta principale dell’Hotel dava su di una strada stretta e molto trafficata, ma l’aria leggera e fresca della primavera arrivata in anticipo era piacevole. Lui mise le mani nelle tasche del giubbino e lei si aggrappò al suo braccio. Ripensò alla stanza dell’Hotel che si stavano lasciando alle spalle: era davvero squallida, la peggiore tra tutte quelle in cui erano stati nel corso di quelle settimane, e si disse che avrebbe fatto in modo, per la prossima volta, di mandare fuori casa per una giornata intera la sua coinquilina. Le avrebbe parlato, era disposta pure a pagarle un soggiorno presso qualche località termale. Qualsiasi cosa pur di avere uno spazio di normalità amorosa prima della partenza di lui.

Hai fame anche tu?

Adesso che mi ci hai fatto pensare, ho molta fame.

Vediamo che troviamo.

Più avanti c’è la metropolitana. Posso portarti in un posto speciale.

Fiona conosceva un buon ristornante cinese che distava solo quattro fermate di metropolitana. Poi avrebbe potuto portarlo al parco a fare una passeggiata. Era un bel parco, il più grande della città. Ma continuò a camminare appesa al suo braccio senza svelargli i suoi piani: voleva sorprenderlo, voleva condurlo verso tutto ciò che c’era di bello in città, voleva dargli in regalo dei ricordi belli.

Quando hai detto che parti?

La settimana prossima.

E ritorni?

Ancora non lo so, non dipende da me.

Poi lui si fermò. Qui facciamo prima, disse, e la trascinò dentro a una piccola pizzeria al taglio.

Hai detto anche tu di avere molta fame, no?

Fiona sorrise e rispose sì, certo, sì. Pensò che sì, aveva ragione lui, anche lei aveva molta fame e in fondo ciò che contava era stare bene insieme. E per un attimo le sembrò di essere tornata una ragazzina in pausa pranzo con le compagne di università. Sentì che c’era posto per la spensieratezza.

Il locale era piccolo ma non troppo pieno. Trovarono due posti su degli sgabelli alti, in prossimità di uno specchio grande quasi quanto tutta la parete.

Tu quale vuoi?

Margherita va bene, ma con doppia mozzarella se è possibile, e con le olive.

Fiona vide una smorfia di irritazione nel suo viso, ma le sembrò buffa e perciò la fece sorridere. Dal grande specchio, poteva vedere il riflesso delle sue spalle chiuse nel giubbino e ripensò alla costellazione di nei ed ebbe la sensazione di esclusività, di conoscere qualcosa che nessuno lì dentro poteva sapere. Decise che gli avrebbe anticipato i suoi piani – la metropolitana a pochi passi, la passeggiata nel parco tutto da scoprire – e che gli avrebbe fatto una sorpresa ben più grande.

Lui tornò con le pizze fumanti nei piattini di plastica; il rosso del pomodoro era vivo e luccicate del succo e dell’olio. Fiona addentò il primo boccone ma si scottò. Aprì la bocca e rise e con la mano fece il gesto di farsi aria. Nel riflesso dello specchio vide un gruppo di ragazzine divertite: erano belle, vivaci, e anche Fiona si sentì un po’ come lo loro e quasi felice.

Sei davvero goffa.

Senti, la metropolitana è a pochi passi da qui. In cinque fermate siamo a un parco molto bello. Te lo faccio scoprire io, è davvero bello e antico. Per fare una passeggiata, dico, poi potremmo stenderci un po’ al sole. È davvero molto bello, uno dei miei luoghi preferiti.

Poi decidiamo.

E magari la prossima settimana potresti venire da me. Alla mia coinquilina antipatica dico di lasciarmi la casa libera.

Pensavo che l’Hotel andasse bene. Avevi detto anche tu che l’anonimato era meglio, così non dovevi chiedere a nessuno. Siamo più indipendenti, no?

Se lei non c’è siamo liberi. Non ti preoccupare, ci penso io. Tu non ti devi preoccupare di niente. Fidati.

Lui addentò un altro boccone e masticò un po’, e si portò il tovagliolo alla bocca e non aveva finito di deglutire che:

Con te invece è difficile, sai?, rendi le cose complicate.

Fiona abbassò lo sguardo sul suo trancio, e portò la pizza alla bocca e strinse i denti e sentì il bruciore scavarle la bocca e poi la gola, lo sentì scendere; l’allegria delle ragazzine rimbombava come un’eco nella sua testa e tutt’attorno e non c’erano più altri suoni né spazi. Non esisteva nient’altro.

Giovani al comando, rivoluzionari

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di Luca Gorgolini

(Pubblichiamo un estratto da Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, di Luca Gorgolini. Salerno Editrice, pp. 296. In libreria dal 30 gennaio 2020)

Nel corso del biennio «multiforme e multicolore», in cui si sovrapposero «spinte democratiche, rivoluzionarie e autoritarie», che precedette i due appuntamenti congressuali del gennaio 1921, durante i quali vennero sancite la fondazione del Partito Comunista d’Italia e la trasformazione della Federazione giovanile socialista nella Federazione giovanile comunista, non prese forma alcuna rivoluzione e la stagione di lotte animata dalle classi popolari terminò con la sconfitta del movimento operaio e l’affermazione delle forze reazionarie.

Il Partito Socialista che nel marzo 1919 aveva approvato la propria adesione all’Internazionale comunista si trovò paralizzato, costretto tra gli attendismi dei riformisti, che continuavano a credere nella necessità di ottenere in Parlamento l’approvazione di un programma di riforme parziali che consentisse la trasformazione dell’Italia in una moderna democrazia, e i massimalisti che credevano nella possibilità di innescare un moto rivoluzionario ma non fornivano indicazioni chiare sui modi e sui tempi di attuazione dello stesso.

Per quel che riguarda la Federazione giovanile, con la conclusione del conflitto, essa si dimostrò capace di assumere un ruolo di guida nel processo di ricostruzione degli organismi del movimento internazionale, fortemente indebolito dalla stretta repressiva messa in atto dai governi nell’ultimo anno di guerra al fine di arginare le proteste che stavano minacciando ovunque la tenuta dei fronti interni: nel maggio del 1919 i dirigenti italiani rivolsero un appello ai giovani socialisti e proletari di tutti i paesi in cui si parlava di «armamento del popolo», «sciopero generale rivoluzionario», «dittatura proletaria»; a settembre Luigi Polano, segretario della Federazione italiana, venne nominato fiduciario dell’Internazionale per molti paesi, tra i quali la Francia, gli Stati uniti e la Spagna; a novembre egli partecipò al congresso di fondazione dell’Internazionale giovanile comunista che si tenne a Berlino, entrando a far parte del Comitato esecutivo. A quell’appuntamento il dirigente italiano si presentò forte di un’organizzazione che contava ormai 35.000 iscritti, seconda, tra le 14 federazioni nazionali rappresentate, solamente alla potente compagine russa e ai suoi 80.000 aderenti.

Sul versante delle dinamiche interne, le posizioni si cristallizzarono attorno a tre gruppi che si confrontarono per tutto il 1919: il gruppo astensionista (guidato dal bordighiano Giuseppe Berti), il gruppo ordinovista (rappresentato da Umberto Terracini) e il gruppo massimalista del segretario Polano che nella primavera del 1920 prese però le distanze da Serrati, leader dei massimalisti del PSI, il quale si era dichiarato convinto che in quel momento storico fossero venute meno in Italia le condizioni per portare a termine un moto rivoluzionario e che fosse necessario salvaguardare l’unità del partito, allontanando in questo modo la minaccia dell’espulsione dei riformisti. Al contrario, il Comitato centrale della Federazione credeva che fosse venuto il tempo di operare attivamente alla costruzione di un partito nuovo, rivoluzionario e su base comunista. Un percorso che subì un’accelerazione sotto la spinta delle decisioni assunte nel corso del II congresso dell’Internazionale comunista che si tenne a Mosca nel luglio agosto del 1920, durante il quale vennero approvate le 21 condizioni poste da Lenin e che i partiti socialisti avrebbero dovuto accogliere per aderire al Komintern. Il 20 ottobre a Milano il gruppo dei “comunisti puri” sottoscrisse il manifesto programma della propria frazione che prevedeva l’espulsione dei riformisti e l’«azione insurrezionale del proletariato» sia con mezzi legali che con mezzi illegali. A firmarlo furono Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano e Terracini.

Le indicazioni di Lenin avevano dunque favorito il superamento delle divisioni e tracciato un percorso comune su cui tutti si ritrovarono. Seguirono l’incontro di Imola (28-29 novembre 1920) e la riunione del Consiglio nazionale della FGSI (Genzano, 5 dicembre 1920) con cui il movimento giovanile dichiarava di aderire «incondizionatamente alla frazione comunista». Così a Livorno, nella seduta inaugurale (15 gennaio) del XVII Congresso nazionale del PSI, Secondino Tranquilli (alias Ignazio Silone), direttore dell’«Avanguardia», nel portare il saluto dei giovani invitò i congressisti «a bruciare il fantoccio dell’unità»; a seguire, il 21 gennaio, resi noti i dati della votazione delle mozioni che assegnarono la maggioranza ai comunisti unitari di Serrati, Luigi Polano prese la parola per comunicare che da quel momento la Federazione giovanile socialista dichiarava sciolto il proprio impegno di adesione al Partito Socialista siglato tredici anni prima, nel 1907.

Il passo decisivo era ormai compiuto. Nella stessa giornata la frazione comunista riunitasi al teatro San Marco diede vita al Partito Comunista d’Italia, il cui gruppo dirigente risultava composto quasi per intero dalla generazione di militanti che aveva svolto la prima parte del proprio tirocinio politico negli anni che andavano dalla guerra di Libia allo scoppio della Grande Guerra e che avevano spinto la Federazione giovanile lungo la strada del massimalismo rivoluzionario: tra gli altri Bordiga, Gramsci, Fortichiari, Grieco, Terracini. Il Partito Comunista Italiano nasceva presentando il profilo di un «partito di giovani»: l’età media dei componenti il Comitato centrale era di soli 36 anni.

Alcuni giorni più tardi, a Firenze (nella città dove nel 1903 si era costituita la Federazione nazionale giovanile socialista), i congressisti intervenuti all’VIII congresso della FIGS approvarono a larghissima maggioranza l’adesione al neonato PCd’I e la nuova denominazione del movimento che diventava: “Federazione giovanile comunista”. Nel suo gruppo dirigente, composto da giovani formatisi negli anni della guerra, comparivano alcune personalità destinate ad assumere un ruolo di primo piano nella storia del PCI, come nel caso di Luigi Longo e Pietro Secchia.

Internauti – day one

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di Francesco Forlani & Andrea Inglese

[Ieri cominciava il nostro primo giorno di quarantena in Francia, in quanto sospetti di aver passato la frontiera dall’Italia con il Covid-19 in corpo. Naturalmente è una quarantena dal lavoro, essendo noi insegnanti, ma purtroppo non di 40 ma di soli 14 giorni. In ogni caso, ognuno da casa propria, vi manderemo stralci del nostro giornale di bordo di espatriati al confino. FF e AI]

La stanza senza fine

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di Giovanni De Feo

Nico non riuscì a distinguere il momento esatto in cui il racconto del Mastro si insinuò a tal punto nel suo sonno da spaccarlo, come un cuneo di ferro in un ciocco di legno, penetrando in profondità nei suoi sogni. A un certo punto però si trovò a camminare dentro di essi.

Era un sogno, e insieme non lo era. Intanto perché era consapevole di stare sognando, e questo era inusuale. E poi perché era tutto molto netto, come se la tenebra fosse stata sbozzata dalla luna. Nel bosco innevato il ragazzo sentiva il crocchiare dei suoi piedi nudi. Era notte, e avrebbe dovuto fare un freddo cane ma il ragazzo lo accusava appena. Sotto la palme nude dei piedi, la neve non scottava. Pian piano dal sentiero illunato lo raggiunsero i rumori di una lotta.

Al di là di uno schermo fitto di betulle, bianche e slanciate come schiene, il ragazzo sentiva un suono di mani su mani, di braccia su braccia, un rotolar di corpi in terra. Sembrava di udire una folla di lottatori in un’arena; ma il ragazzo sapeva che i lottatori erano solo due.

Proprio quando stava per superare lo schermo degli alberi, nel bosco risuonò un grido.

Il ragazzo raddoppiò il passo. Quando sbirciò dentro la radura – uno spiazzo nevoso nelle cui strisciate di neve e fango si leggeva la storia della lotta – il ragazzo sapeva già cosa avrebbe visto: un uomo in piedi e un uomo in terra. Non due uomini, lo stesso identico uomo.

Nico si arrestò in tempo per vedere quello in piedi –vestiva una divisa grigio-verde– girarsi. Pur imbacuccato di scialli incrostati di ghiaccio, lo riconobbe. Era più magro del Farmacista, ed entrambi gli occhi scintillavano al chiarore lunare. Ma era il tenente, Bencivenga. L’uomo lo fissava; l’ansito bianco del suo fiato dilagava nella notte come latte.

Solo allora Nico riuscì a parlare, e nel sogno disse: «Perché lo hai fatto? Perché lo hai guardato in faccia?».

«E tu?» chiese l’uomo, secco. «Perché hai inseguito il tuo doppio a casa tua?»

«Dovevo sapere» disse Nico.

E annuendo, come a dire: “anche io”, il tenente si chinò per trascinare via l’altro corpo.

«Aspetta!» disse Nico avanzando un passo, «che vuol dire che gli hai rubato “uno sguardo”! Che sguardo?! Cosa vuole lui davvero da te?!»

Il tenente rimase di profilo contro la luna; poi voltò il capo. Il ragazzo sentì un rumore come di rametti spezzati, quando le vertebre del collo gli si frantumarono: la testa del tenente aveva fatto un giro completo e ora gli mostrava la nuca. Con la faccia che gli formicolava per lo choc il ragazzo guardò l’uomo ai loro piedi, nella neve. Quello, era il vero Bencivenga.

Il freddo cominciava finalmente a raggiungerlo, gli allagava i polmoni come un silenzio liquido, il gelo immemore che vive tra le stelle più lontane.

«Cosa vuoi?» disse infine il ragazzo. «Cosa vuoi dal Ciclope? E da me? Cosa vuoi da noi tutti?!» Nico vedeva il vapore dietro la sua nuca, come se la bocca dell’altro si fosse aperta.

Poi sentì che non erano più soli. Si girò.

Al posto delle betulle c’era una folla senza fine, immobile, che degradava nel bianco in tutte le direzioni. Erano le genti delle città ora deserte: donne, uomini, vecchi, bambini. Ognuno di loro aveva il corpo rivolto verso di lui e la testa torta innaturalmente all’indietro. Capì, nel sogno, che essi erano coloro che l’Effimero aveva disfatto, e che anche lui avrebbe fatto parte delle sue schiere, quando nel mondo sarebbe morta l’ultima persona che aveva memoria di lui. Dal racconto del Ciclope, tra i più vicini, Nico riconobbe Guglielmin e Scavoni, quest’ultimo ancora con la borsa a tracollo, quella della lettere. Poi l’uomo che era stato il tenente Bencivenga parlò, non solo per se stesso, per tutti.

«Noi» dissero la voci.

Testo da: Giovanni De Feo, La stanza senza fine. Le avventure fotografiche di Nicodemo, Mondadori, 2019.

inversioni rupestri (# 1)

1

di Giacomo Sartori

Intonate

le nenie
le cantilene
le ninne nanne
gli inni no
e nemmeno
le arie guerriere
le marce marziali
ne tracima
la storia
(fosse solo
il nazismo!)
mi fanno
ribrezzo

Il dottor Willi

2

di Michele Neri

Sono il padre dell’uomo con il mare dentro e, sebbene abbia fatto di tutto per evitarlo, sto per morire. Non sono spaventato, la stanchezza, la disillusione quotidiana l’ha reso accettabile: è per lui, nato dalla mia carne e che di questa ha preso solo il manto sottile necessario a rivestirlo e impedire che l’acqua fuoriesca, uno strato che non posso chiamare pelle, tanto è trasparente come la superficie del mare a riva. Ributtante, aggiungo, e meraviglioso. Anche adesso, mentre lo osservo di sottecchi, sdraiati uno di fianco all’altro sui lettini di un albergo in alta montagna, i raggi del sole fuoriusciti da cime lavanda, prima di annullarsi dentro la notte estiva illuminano ora quell’agglomerato di alghe tremolanti sotto la superficie del ventre, ora la risacca che, dal petto, monta senza un rumore fino alla base del collo.
Superata la prima infanzia, rassicurato sulla sua sopravvivenza –fu il dottor Willi di Innsbruck a dover ammettere il miracolo tangibile di una persona alimentata e riempita dall’acqua, e salata com’è al largo nei giorni in cui il mare si tende sotto un vento di settentrione –è a questo pensiero, alla sua esistenza dopo che la mia sarà conclusa, lui pupazzo fluido in mezzo alle asperità, che io dedicai angoscia e veglie interminabili. Sempre da solo perché, quando si trovò di fronte un neonato piegato in due come un pantalone sul braccio dell’infermiera, una zampogna cascante, braccine e gambette rugose a penzoloni, e che emanava quell’odore salmastro e corroborante oppure di alghe cotte dal sole e, occorre dirlo, nauseabonde, secondo che accostassimo il naso al viso piuttosto che alle numerose pieghe dove nei neonati si ferma il sudore, mia moglie scosse la testa senza dire una parola, si morse il labbro fino a far colare un rigo di sangue sul camicione bianco e, non appena fu in grado di andarsene dal piccolo ma attrezzato ospedale sulle pendici del monte Zirler, si dileguò, non dando più notizie di sé.
Ricordo che esaminai mio figlio, mentre trascorrevo la notte con lui in quella stanzetta d’ospedale dove avrei vissuto le successive 365; non dormendo, cercando di comprendere che cosa fosse accaduto e in quale punto oscuro della genesi, perché il mio bambino avesse più in comune con un aquario che con gli altri nuovi umani tra le braccia di genitori impacciati. Presto, forse quella stessa notte, l’ira o un inderogabile senso di protezione per quella creatura più indifesa delle altre, trasformò la domanda in un’altra meno oziosa e però affacciata su risposte che niente avrebbe potuto illuminare: che cosa sarebbe successo dopo.
Lo spogliai. Il sonno era pesante, l’avevano nutrito artificialmente e il latte si era fermato, creando una chiazza perlacea lì, dove un neonato avrebbe avuto il proprio stomaco minuto, per poi espandersi in bollicine pallide. Tenendolo in verticale, gli organi in miniatura si avviarono pigramente verso il basso: nuotavano dentro un liquido che opponeva una resistenza viscosa, simile –o era il primo confronto in cui incappasse la mente– alle lampade a forma di missile con le bolle di cera variopinta dei primi anni settanta, e che da ragazzino amavo tanto.
In poco più di un minuto, attorno alle caviglie e da lì salendo fino sopra al ginocchio si erano accatastati senza logica i polmoni, il triangolo rosso-bruno del fegato e altri organi flosci, uniti tra loro da filamenti che avrei voluto rigidi e di cui nessuno avrebbe capito la natura, nonostante indagini e raffronti con l’anatomia di qualunque forma di vita conosciuta.
Era una clessidra vivente: la giravo e il contenuto scendeva, oppure risaliva, sistemandosi con calma e senza che lui desse mostra di risentirne. Ribaltando mio figlio con delicatezza, gli organi ritrovavano il loro posto. Non erano troppo precisi nel ricollocarsi ma, anche di questo, non sembrava accorgersi. Il solo organo a non allontanarsi dalla sede era il cervello, più piccolo del normale, saldo nel cranio trasparente. Forse, pensai, non riusciva ad attraversare la strettoia della gola. E il pensiero ostruì la mia.
Quella prima notte tenni una lampada dietro di lui per studiare ogni corrente e anfratto di quel mare iridato. Cercavo uno scheletro, speravo che la natura avesse fornito un sostegno, ma non c’era niente che somigliasse a un osso o non oscillasse al primo urto. Mi calmai ricordando che non esiste neonato capace di restare seduto.
Arrivò l’alba; il sole, inondando il corpicino addormentato, portò alla superficie un limpido reticolo oro e turchese, per restituire poi al mio sguardo velato di lacrime, ogni sfumatura di azzurro, via via più impenetrabile in prossimità di quella che mio figlio, pur rivelandone eccezionalmente l’ideale dislocazione, non possedeva: la colonna vertebrale.
Lo girai, mi ostinai: il centro restava prigioniero delle tenebre.
Ora che siamo seduti a cena ancora una volta uno di fronte all’altro, alti uguali e protetti dal paravento che l’hotel è rapido a piazzare di sera in sera, estate dopo estate, devo riconoscere che, nonostante la mia dedizione più che trentennale, ben poco è cambiato. Nemmeno il silenzio tra noi. Nessun tentativo di comunicare ha avuto successo. Il suo aprire la bocca sembra rispondere a una necessità meccanica, o di incrementare la quantità d’ossigeno.
Non saprò mai ciò che lui pensava e se ne era capace; peggio: temeva e desiderava, perché allora sarei stato un padre, sì, non un voyeur. Amore imponderabile di padre, passione timorosa e che parla quando si è troppo lontani, per sentire. Io ne so qualcosa. Chi sono stato per lui, contenuto dall’attività immutabile che egli stesso contiene? La mia solitudine si nutriva del convincimento della sua; poi, quando nell’espressione rivedevo la consueta serenità disinteressata, tornava a soffocarmi la mia. La solitudine è mio figlio. Ha l’età che avevo quando è nato lui.
L’acqua di quel mare interiore non è più cristallina; il cibo ingerito ha posato una nebbia sbiadita, simile al plancton al microscopio o alla neve appena smossa in una palla di vetro. Il mio stupore non è però diminuito di fronte all’inusitata capacità di sciogliere i bocconi e di espellerli così da non lasciare concrezioni sul fondale, (del vetro mi verrebbe da dire accettando che l’errore riveli la mia volontà di passarci sopra uno straccio, quando si tratta del rivestimento interno della pelle); permettendomi, proprio ora, dopo che il figlio, da me accudito, ha ingerito la trota salmonata all’aneto servita il giovedì, di distinguere nei dettagli l’articolato profilo della barriera corallina principale che, negli anni dello sviluppo, prese il posto del bacino. E se un frammento di carne resta impigliato tra i denti delle madrepore, i policheti e altri organismi di cui non ho imparato i nomi si affrettano a pulire il proprio domicilio.
Talvolta essere l’unico ad aver assistito a questa come a ogni procedura del suo esistere, fa sorgere il dubbio di essermi inventato tutto; perché ho fatto in modo che mio figlio non si presentasse mai a tavola o di fronte a qualcuno, se non indossando una tunica molto più ampia del necessario, un indumento che non richiedesse la spiegazione degli improvvisi rigonfiamenti e avvallamenti sotto il tessuto. Che cosa rispondere a chi già non giustificava il suo perenne procedere sulla carrozzella, un ragazzo di cui erano visibili occhi e bocca, essendo il resto del volto fasciato, il capo coperto perché il cervello non si trovasse nudo come in un barattolo di formaldeide; per poi camminare appeso al mio braccio e, pur lento, prudente, suscitando nel corpo una concatenazione di onde proporzionali alla velocità di movimento. Mi dispiace non aver mostrato a nessuno l’incantevole braccio (curiosa corrispondenza) di mare che termina in falangi verdazzurre, con miriadi di bollicine ripiene di fitoplancton cremisi.
E’ stata una vita tormentata e soprattutto laboriosa: lo sforzo incessante di non presentarmi sconfitto davanti a lui, mi ha probabilmente ammalato. Riconoscendomi, oltre la tovaglia sparecchiata, nei suoi occhi trasognati e della trasparenza pietosa di meduse affiorate, davanti al rosa vibrante delle nostre rocce dolomitiche, io provo però fino in fondo il piacere dell’equità. L’enigma con cui ho convissuto per trent’anni e che sto per abbandonare, insieme all’incapacità di risolverlo, ha risvegliato e stretto i nostri vincoli di sangue. Il mistero si è impadronito del mio amore e non ha ceduto spazio, ma l’ha tenuto in vita fino a qui, alla vigilia del mio e suo dissolvimento. E’ stato un fatto compiuto e sono grato.
Abbiamo attraversato insieme i confini della ragione, sigillata dentro un’acqua su cui non si è poggiato cielo o vento. Avrà sognato un’isola su cui posare un’impronta? Non ho invidiato un figlio normale. Ogni strada è buona se percorsa tutta, diceva mio padre.
Ancora bambino mi costrinse al silenzio e alla segretezza. Poteva crescere per diventare l’incredibile e grottesco caso dell’uomo con il mare dentro. Preferii comprare il riserbo del personale di quell’ospedale tirolese, minacciando tutti, in caso avessero rivelato un dettaglio di quell’evento straordinario, delle peggiori ritorsioni. Il mio avvertimento fu una bottiglia scagliata contro il muro. Spaventati, ammutolirono, io calmo, un minuto per scegliere un destino. Decisione giusta e l’intuizione che il dottor Willi soltanto avrebbe potuto accompagnarci in una spedizione oltre il sistema solare della fisiologia, fece il resto. Il dottor Willi, mio testimone, spalla nell’incredulità, fu la coscienza critica, portatore di una conoscenza incapace a dare risposte. Almeno una, aritmetica, elementare. Perché noi siamo fatti per sette decimi d’acqua e lui dieci.
Lo stetoscopio appoggiato sopra un cuore che all’improvviso, anche se mio figlio rimaneva immobile, beccheggiava come un gavitello o era nascosto da un’alga che volteggiava dopo essersi staccata dai coralli che parodiavano la gabbia toracica. Il dottor Willi rinunciò, né c’era bisogno di cure: mio figlio si era dimostrato un ecosistema autosufficiente. Tornava però a trovarci ogni settimana nel nostro chalet a metà costa, battendo con le nocche sulla vetrata intiepidita dal sole pomeridiano. Con il viso ben rasato, il capello corto, il fisico compatto, regalava ore di concretezza alla nostra fragilità, alla comune deriva.
Prima di entrare, confessò il giorno in cui mio figlio festeggiò cinque anni, aveva sempre avuto paura di non trovarlo vivo. Oltre ai rischi prevedibili e che esaurivano i prontuari medici –e se una lama avesse provocato la fuoriuscita dell’acqua, sarebbe bastata una trasfusione allo stesso grado di salinità?– c’erano quelli sconosciuti. E se i molluschi che con l’adolescenza avevano colonizzato gli arti si fossero rivelati nocivi per l’organismo? Tentare con la somministrazione forzata di gamberetti famelici? Imparammo a memoria manuali di biologia marina.
Il dottore è suo padre tanto quanto me; meglio, perché avrebbe saputo dargli più risposte.
Il mare. Dentro. Tornava di continuo l’immagine di un nuotatore. Inutile. Lui stava diventando un uomo con il mare dentro. L’inversione diventò una sfida: assicurato il bambino a una routine efficace, trascorsi ogni giorno cercando l’origine di questo ribaltamento. Lo cercai lì, dove poteva trovarsi. Nella mia storia.

Omissis, di Carlo Bellinvia – con una nota di Davide Castiglione

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Nell’uovo

Persona, non ti so aiutare

non ho per te un salvagente
né altro vestito
d’emergenza

– non ho mai festeggiato un matrimonio –

ti scorgo appena
e neppure ti conosco

però ti do un nome qualsiasi,
facciamo così

ti do un nome,

Un nuovo modo di intendere il fantastico?

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di Simone Brioni e Daniele Comberiati

Una costellazione di recenti pubblicazioni sembra segnalare l’emergere di un nuovo modo di intendere il “fantastico”, segnando una rottura con la visione di tale produzione come stupore e intrattenimento. Il “fantastico”  – sembrano suggerire questi saggi – non è un mezzo per sfuggire il doloroso morso della quotidianità, ma può aiutare ad esplorare aspetti relegati ai margini della cultura dominante e non per questo meno interessanti per comprendere la nostra contemporaneità. Parliamo in particolare, ma non solo, del gotico e della fantascienza, due filoni che nel contesto italiano hanno goduto di un costante fermento creativo, ma di scarsa attenzione critica. Altri esempi potrebbero essere fatti prendendo in considerazione il fantasy, il new weird, le nuove rappresentazioni horror.

Da Kafka a Franzen: cosa leggiamo quando leggiamo una traduzione

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Cy Twombly - The Rose
Cy Twombly – The Rose (III)

di Daniele Ruini

1.

Nel 2018 l’editore Sellerio pubblicò un sublime libretto di Adriano Sofri, Una variazione di Kafka: si tratta di un avvincente studio intorno a una minima variante (Straßenlampen “lampioni” vs. Straßenbahn “tram”) che figura in quello che è forse il racconto più famoso della letteratura europea del Novecento, Die Verwandlung (La Metamorfosi) di Franz Kafka. A incuriosire della ricerca di Sofri è, oltre all’importanza del testo oggetto di analisi, anche il fatto che l’autore non appartiene –come precisa lui stesso– al consorzio dei germanisti né a quello dei filologi di professione: tuttavia è stata probabilmente proprio questa sua posizione non accademica ad avergli dato il coraggio necessario a lanciarsi in una sfida investigativa che, se non manca del necessario rigore filologico e bibliografico, si concede la libertà di farsi guidare prima di tutto dalla passione per Kafka. E non c’è bisogno di specificare quanto questo giovi al piacere della lettura.

Come racconta Sofri, la sua indagine è scaturita dallo stupore con cui si è accorto che testo tedesco e traduzione italiana (di Anita Rho) nell’edizione bilingue della Metamorfosi pubblicata dalla BUR differivano in un punto: mentre il testo originale presenta Straßenlampen (“lampioni”), la versione italiana legge «i riflessi lividi della tranvia elettrica». Il primo impulso del filologo-investigatore è, comprensibilmente, quello di pensare ad un errore di traduzione; tuttavia il prestigio della traduttrice italiana lo convince subito che le cose non possono essere così semplici:

Devo pensare che sia un errore della traduttrice. Anita Rho (1906-1980) è stata un gran personaggio della storia della traduzione e anche della storia civile italiana. Questa sua traduzione del racconto era uscita già nel 1935 per Frassinelli. Può aver preso una simile cantonata? Ma come si fa a prendere un tram per un lampione? (Adriano Sofri, Una variazione di Kafka, Palermo, Sellerio, 2018, p. 10)

Procedendo, Sofri scopre infatti che le due varianti risalgono a due diverse edizioni del testo, pubblicate durante la vita di Kafka, rispettivamente nel 1915 e nel 1917[1]; e si rende altresì conto che le varie traduzioni si sono appoggiate, senza apparente criterio, talvolta alla prima e talvolta alla seconda edizione. Tuttavia ­–ed è questo il valore aggiunto dell’inchiesta– se gli studiosi hanno normalmente attribuito la variante più tarda (Straßenbahn) ad un banale errore tipografico o all’intervento di un redattore (anche sulla base del fatto che l’edizione del ’17 presenta vari interventi peggiorativi), Sofri argomenta invece a favore di un intervento dello stesso Kafka: ritenendo che «il bagliore mobile di un tram che passa sia più pregevole della — nient’affatto spregevole del resto — luce ferma dei lampioni» (A. Sofri, Una variazione cit., p. 85), e basandosi su altri testi kafkiani (una pagina di diario; le lettere a Felice Bauer; la conclusione della stessa Metamorfosi, dove compare un tram), Sofri giunge così ad ipotizzare che sarebbe stato lo stesso autore praghese a trasformare gli originari lampioni in un tram. Questa la sua conclusione:

Kafka ha descritto la luce dei lampioni (fioca, livida, scialba, secondo i traduttori) che chiazza (si posa, si allunga, si riflette, secondo i traduttori) «qua e là» il soffitto e la superficie alta dei mobili ma non arriva al buio in cui è immerso Gregor. È una luce che viene da fuori, che testimonia che c’è un fuori e che lui non lo riavrà più. Più tardi Kafka può aver deciso ­­–l’aveva già pensato in quel brano di diario sui colori– che la luce del tram testimonia del fuori e del movimento: della possibilità di andare e venire. La luce del tram elettrico, a maggior ragione, chiazza di qua e di là il soffitto. […] Gli può essere sembrato più bello. Gli può essere sembrato un’apparizione leggera ad anticipare la fine. Gli può essere sembrato un omaggio a Felice che incredibilmente sapeva scrivere lettere sul tram, un omaggio da tenere per sé e forse per lei. Non ci sono prove scritte, dicono i bravi filologi di Kafka, e questo silenzio è un argomento per escluderlo. Mah. Per una correzione così, bastava una frase. E senza paura di disturbare o, Dio guardi, di gravare sui costi dell’editore. La composizione tipografica in piombo funziona così, che se fai un taglio, o una sostituzione che allunga, rischi di dover ricomporre e fondere un intero battaglione di righe, e magari di metterci un nuovo errore. Fra Straßenlampen e Straßenbahn c’è una differenza di appena due lettere, è presto fatto e lo spazio rimane lo stesso. Che scherzo, eh? (A. Sofri, Una variazione cit., pp. 139-140).

2.

Come si sa, la riscrittura d’autore è una dinamica che è sempre esistita (sia prima sia dopo l’invenzione della stampa); la stessa letteratura italiana ne offre esempi celebri, e per tutte le epoche: medioevo (il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio), età moderna (L’Orlando furioso di Ariosto, La Gerusalemme liberata di Tasso, i Promessi Sposi di Manzoni), ‘900 (tra i tanti: molte opere di Gadda, Se questo è un uomo di Primo Levi, Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, Di bestia in bestia di Michele Mari). Si tratta di situazioni in cui uno scrittore torna, per vari motivi, sulla propria opera, introducendo piccole modifiche (si parla allora di microvarianza) o intervenendo in maniera massiccia (e siamo allora nell’ambito della macrovarianza)[2].

Il caso di Kafka discusso da Sofri è interessante, tra le altre cose, perché, come detto, a far inciampare l’autore sulla microvarianza tra lampioni e tram è stata una traduzione, o meglio il confronto tra la versione italiana di Anita Rho e il “presuntotesto originale in tedesco. Qualcosa del genere mi è accaduto alcuni anni fa mentre affrontavo la lettura del celebre romanzo di Jonathan Franzen The Corrections (Le Correzioni), pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2001. Procedendo nella lettura tenendo sempre accanto anche la traduzione italiana di Silvia Pareschi (uscita per Einaudi nel 2002), mi sono accorto con un certo stupore di alcune discrepanze tra testo originale e versione italiana; in particolare, si trattava di alcuni dettagli del tutto secondari riguardanti la figlia di un’amica di Enid Lambert (la mamma della famiglia protagonista del romanzo), presso la cui casa viennese si reca in visita Denise, l’unica figlia femmina di Enid: per esempio, la collocazione del suo chalet di montagna (che nella versione inglese era posto a Kitzbühel, quindi in Austria, mentre nella traduzione italiana si trovava nella svizzera St. Moritz) o il cognome del marito di questo personaggio. Anch’io, come Sofri, ho inizialmente pensato –con un po’ d’ingenuità– ad un intervento della traduttrice: tuttavia non comprendevo che bisogno ci fosse di modificare quei dettagli…

Decisi allora di scrivere a Silvia Pareschi, dalla quale ricevetti molto gentilmente la conferma della corrispondenza tra la sua traduzione e il testo inglese su cui aveva lavorato. A suo avviso si trattava evidentemente di modifiche effettuate all’ultimo momento dall’autore e che la casa editrice americana non aveva segnalato all’Einaudi. Ora, i casi erano quindi due: o la traduzione italiana era stata iniziata prima ancora che uscisse la versione americana, e quindi Silvia Pareschi aveva lavorato su una redazione del romanzo che non coincideva al 100% con quella poi licenziata da Franzen; oppure quest’ultimo aveva rivisto il suo romanzo pubblicando una seconda edizione contenente alcune modifiche.

Riprendendo la questione ora, ho avuto la conferma che era la seconda ipotesi ad essere quella vera. Nell’introduzione di una monografia su Jonathan Franzen pubblicata nel 2008 da Stephen J. Burn si può leggere la seguente premessa:

I have always used paperback reprints because Franzen has consistently made corrections to each of his texts after the first printing. In some instances the changes involve relatively minor corrections. […] In the case of The Corrections, Franzen made quite extensive changes, such as the revisions made to the pages detailing Denise’s visit to Vienna […]. Along with the shift in local detail, here, come a cluster of minor changes. The name of Cindy’s maid, for example, changes from Annerl in the first edition to Mirjana in the paperback, their chalet moves from St. Moritz to Kitzbühel, and their sideboard is no longer “Louis XIV-ish” (393) but rather “vaguely Jugendstil” (390) (Stephen J. Burn, Jonathan Franzen at the End of Postmodernism, London, Continuum International Publishing Group, 2008, pp. xv-xvi).

Burn ci dà quindi conferma che la pratica correttoria è una costante nella carriera di Franzen, il quale ha spesso introdotto (piccole) modifiche in vista delle ristampe in versione economica delle sue opere. E, più in particolare, lo studioso osserva che è proprio nelle Correzioni che si sarebbe maggiormente esercitato l’interventismo del romanziere americano. Le discrepanze da me notate tra la traduzione italiana e il testo inglese dipendevano quindi dal fatto che Silvia Pareschi aveva lavorato sulla prima edizione di The Corrections (2001), mentre io avevo sotto gli occhi un esemplare della seconda edizione (2002).

Analizzando ora più da vicino le modifiche introdotte da Franzen, ci si può domandare quali siano le ragioni che le abbiano motivate. Per esempio, per quanto riguarda il cambio nel nome della cameriera di Cindy (la figlia dell’amica di Enid) da Annerl a Mirjana risulta davvero difficile pensare ad una qualche spiegazione. Una motivazione è invece forse individuabile per lo spostamento dalla Svizzera all’Austria dello chalet e per la modifica del cognome del marito di Cindy (da von Kippel a Müller-Karltreu). Circa quest’ultimo punto, la ragione sembrerebbe derivare dal fatto che Kippel è il nome di un comune svizzero: ora, avendo chiaramente specificato che il marito di Cindy è austriaco[3], Franzen dev’essersi reso conto di questa potenziale contraddizione (dico potenziale giacché, trattandosi di un cognome, nulla vieta che una famiglia von Kippel possa essere austriaca!). Notiamo anche che, una volta attuata questa modifica, nel testo è però rimasto un dettaglio che era evidentemente collegato al cognome von Kippel e che, venendo meno quest’ultimo, risulta meno coerente:

Bea’s dimwitted and unfairly gorgeous daughter Cindy had married an Austrian sports doctor, a von Somebody who’d garnered Olympic bronze in the giant slalom (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, p. 338; grassetto mio).

La stupida e ingiustamente splendida figlia di Bea, Cindy, aveva sposato un medico sportivo austriaco, un von Qualcosa vincitore del bronzo olimpico nello slalom gigante. (Jonathan Franzen, Le Correzioni, Torino, Einaudi, 2014, p. 309)

Quanto allo spostamento da St. Moritz a Kitzbühel dello chalet, immaginiamo che la ragione sia, più o meno, la stessa; ovvero il desiderio di non introdurre elementi non austriaci nel contesto della famiglia di Cindy. Tra l’altro, benché Kitzbühel non sia certo a due passi da Vienna (stando a Google Maps occorrono almeno 4h di auto), è certamente più vicino alla capitale austriaca rispetto a St. Moritz (che dista esattamente il doppio). Quindi, benché la prima versione non risultasse certo inverosimile, Franzen deve aver pensato che, dopotutto, era più credibile per una famiglia residente a Vienna possedere uno chalet a Kitzbühel piuttosto che a St. Mortiz. E l’aggiunta, nella seconda edizione, della frase «in the Austrian Alps» accanto al nome Kitzbühel («My best friend in St. Jude vacations at St. Moritz» > «My best friend in St. Jude vacations at Kitzbühel, in the Austrian Alps») sembrerebbe potersi leggere come una precisazione che svela la sua intenzione di circoscrivere al contesto austriaco, e solo a quello, tutto ciò che riguarda la famiglia Müller-Karltreu[4].

Veniamo ora all’appartamento viennese di Cindy. Nella prima edizione si insiste soprattutto sulla grandezza di tale dimora, un dato ribadito almeno tre volte:

She and Klaus have a chalet in St. Moritz and a huge, elegant apartment in Vienna

[…] and accepted an invitation to invitation to dinner at her seventeen-room

The von Kippel living room was half a block long

Lei e Klaus hanno uno chalet a St. Moritz (p. 413)

e accettò un invito a cena nel suo appartamento di diciassette stanze sulla Ringstraße (p. 414)

Il soggiorno dei Von Kippel era lungo come mezzo isolato (p. 414)

Di queste tre indicazioni, solo la prima è mantenuta intatta nella seconda edizione. L’ultima è stata eliminata, mentre la seconda è stata modificata: della casa di Cindy non si dice più che è fatta di 17 stanze, ma che si tratta di un attico (penthouse) nuovo e enorme (cavernous)[5]. Tutto sommato, quindi, non pare essere cambiato granché tra prima e seconda edizione. E lo stesso dicasi per la localizzazione dell’appartamento: dalla Ringstraße (indicazione generica che comprende un insieme di vie che formano un anello nel centro storico di Vienna) si passa alla vicina zona di Michaelerplatz (si dice infatti che l’appartamento si affaccia sulla Porta di San Michele, uno degli ingressi del complesso dell’Hofburg).

Infine, quanto all’arredamento della casa, l’intento delle modifiche di Franzen parrebbe quello di spostarne la descrizione verso un più tardo gusto ottocentesco, laddove nella prima edizione si rimandava invece alla seconda metà del Seicento e al Settecento; ecco allora che i riferimenti passano dallo stile Luigi XIV e da Watteau (pittore francese rococò morto nel 1721) a Bouguereau (pittore accademico francese scomparso nel 1905), allo Jugendstil (nominazione germanica dell’art nouveau) e allo stile Biedermeier (al quale si rifaceva l’arredamento della borghesia tedesca e austriaca nell’Ottocento). Si può pensare che l’autore delle Correzioni abbia voluto in questo modo rendere l’interno della casa viennese di Cindy più coerente con l’epoca a cui poteva verosimilmente risalire un palazzo costruito in quel quartiere della capitale austriaca.

3.

Giunti a questo punto, possiamo provare a tirare le fila della nostra riflessione, avanzando qualche conclusione.

Prima di tutto: benché si tratti di modifiche davvero minime, è lecito identificare nella seconda edizione di The Corrections lo stadio del testo corrispondente all’ultima volontà dell’autore. A maggior ragione dato l’esiguo spazio di tempo trascorso tra la pubblicazione della prima edizione e l’uscita della seconda: evidentemente, Franzen ha infatti voluto introdurre delle modifiche su alcuni punti che non lo convincevano pienamente (siamo quindi di fronte ad una fenomenologia diversa dal caso di un autore che, anni dopo, ritorna su una sua opera proponendone una nuova versione). Tra l’altro, giusta la nostra analisi delle possibili motivazioni che stanno dietro agli interventi del romanziere americano, si potrebbe pensare che per lui alcuni degli aspetti su cui è intervenuto costituissero, se non degli errori, quanto meno delle imperfezioni (benché, come si è detto, nessuno di essi inficiasse in alcun modo la tenuta narrativa del romanzo)[6].

Data tale constatazione, ci si può allora chiedere se non sarebbe il caso di aggiornare la traduzione italiana, rendendola fedele alla seconda edizione; o se, per lo meno, non sarebbe il caso di dotarla di un breve avvertimento esplicito sul fatto che essa è stata condotta sulla prima edizione del romanzo (non presentando perciò le modifiche introdotte da Franzen successivamente)[7]. Certo, si tratta di minuzie che non interesserebbero quasi a nessuno, e che perciò difficilmente potrebbero motivare un intervento da parte della casa editrice (seppur, presumo, non particolarmente esoso). Tuttavia è anche una questione di trasparenza nei confronti del lettore più avvertito, la cui curiosità merita forse di essere premiata da un’informazione del genere (a vantaggio, tra l’altro, della reputazione e della fiducia ch’egli assegnerà alla casa editrice).

Da ultimo, per chiudere il cerchio: abbiamo visto come una traduzione può quindi essere utile, tra le altre cose, a rendere consapevoli di possibili varianti d’autore, ovvero dell’esistenza di diversi stadi testuali di una stessa opera. A questo proposito un caso limite è quello in cui è l’autore stesso a partecipare attivamente alla realizzazione della traduzione di una sua opera, suggerendo eventualmente al traduttore di distaccarsi di proposito dal testo di partenza: è per esempio quello che è accaduto con Il Piacere di Gabriele D’Annunzio (1889), la cui traduzione francese, curata da Georges Hérelle, è stata pubblicata nel 1894 sotto lo stretto controllo dell’autore pescarese. Quest’ultimo ha infatti suggerito al traduttore parecchie modifiche, al punto che il risultato si configura come «una versione notevolmente diversa dall’originale, con diverse varianti e la soppressione di circa quaranta pagine, soprattutto passi scabrosi o troppo evidentemente presi da scrittori francesi» (Giovanni Rangone, Introduzione a Gabriele D’Annunzio, Il Piacere, Torino, Einaudi, 2014, pp. v-lix, a p. xiii). La traduzione francese presenta, inoltre, l’eliminazione dei flashback (recuperando la normale successione temporale della fabula), così come una normalizzazione del lessico e dello stile prezioso e arcaico dell’originale, allo scopo di andare incontro ad un pubblico “medio”; infine, ad essere modificato, in senso mistico-esotico, fu anche il titolo stesso: L’Enfant de Volupté. Siamo quindi di fronte ad una traduzione-riscrittura, tale per cui la riproposizione della stessa opera per un pubblico diverso (nel caso specifico per i lettori di lingua francese) ha comportato una parziale riscrittura dell’opera stessa: è quindi una situazione molto lontana dai casi di Kafka e Franzen su cui abbiamo ragionato, e che in un certo senso richiama la pratica traduttoria caratteristica del Medioevo, quando tradurre implicava necessariamente l’adattamento – e quindi la riscrittura – del testo di partenza, senza quegli scrupoli di fedeltà alla littera che caratterizzano invece la nozione moderna di traduzione impostasi a partire dal Rinascimento.

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[1] Nella prima si legge «Der Schein der elektrischen Straßenlampen lag bleich hier und da auf der Zimmerdecke»; nella seconda «Der Schein der elektrischen Straßenbahn lag bleich hier und da auf der Zimmerdecke». Ci troviamo all’inizio della seconda parte della Metamorfosi: Gregor Samsa, ridotto a uno scarafaggio, guarda in alto verso il soffitto della sua stanza vedendo il riflesso delle luci dei lampioni (Straßenlampen) o di quelle del tram (Straßenbahn). La prima variante è anche quella che si legge nel manoscritto autografo della Metamorfosi, conservato alla Bodleian Library di Oxford.

[2] «La fenomenologia delle varianti d’autore si svolge attraverso una casistica multiforme, tra il limite minimo di piccoli ritocchi all’Originale e il limite massimo d’una pluralità di redazioni originali, ciascuna delle quali vale come opera a sé» (Aurelio Roncaglia, Principi e applicazioni di critica testuale, Roma, Bulzoni, p. 47).

[3] «Bea’s dimwitted and unfairly gorgeous daughter Cindy had married an Austrian sports doctor»; «Her Austrian son-in-law is tremendously successful» (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, pp. 338, 339).

[4] La modifica dei nomi di luoghi potrebbe costituire un capitolo a sé della filologia delle varianti d’autore. Anni fa ne avevo ipotizzato un caso per un testo mariano antico-francese, una redazione del quale si caratterizza per la modifica –rispetto al resto della tradizione– di alcuni toponimi connessi alla Vergine: Daniele Ruini, Una redazione d’Outremer della Conception Nostre Dame di Wace (ms. Tours, B.M. 927)? in «Medioevo Romanzo» XXXVII/2 (2013), pp. 296-326. Ma si veda anche il caso proustiano di Albertine disparue (capitolo della Recherche uscito postumo, ma di cui esisteva una trascrizione dattiloscritta con correzioni dello stesso Proust): ci sono infatti alcune tracce di modifiche d’autore di toponimi relativi alla fuga di Albertine: Marcel Proust, Albertine disparue, édition presentée, établie et annotée par Anne Chevalier (nouvelle édition revue), Paris, Gallimard, 2013, p. 309 (note 1 à la page 20).

[5] «accepted an invitation to dinner at her cavernous ‘nouveau penthouse’ overlooking the Michaelertor» (Jonathan Franzen, The Corrections, London, Fourth Estate, 2010, p. 452).

[6] Il caso di autori che intervengono sui loro testi per correggere dei veri e propri “errori” è ben testimoniato nella storia della letteratura; in particolare è qualcosa che è accaduto soprattutto in opere narrative particolarmente lunghe, per le quali può capitare che l’autore perda di vista un personaggio, magari facendolo inconsapevolmente “risorgere” dopo aver raccontato della sua dipartita. È quello che è successo, per esempio, nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (Au. Roncaglia, Principi e applicazioni cit., pp. 51-52; Ludovico Ariosto, Orlando furioso, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, vol. II, p. 1200, nota a LX, LXXIII, vv. 5-7). Di alcuni errori presenti nella prima edizione de Il Conformista di Moravia (1951) si parla in Paola Italia, Editing Novecento, Roma, Salerno editrice, 2013, pp. 19-20. Celebre poi il caso dell’Elegia di Pico Farnese di Montale, nella quale l’autore aveva chiamato i frutti dei kaki diàspori in luogo del corretto diòsperi: in questo caso la correzione della storpiatura è stata realizzata dall’editore (Gianfranco Contini, 1980) solo in seguito al consenso di Montale stesso (Au. Roncaglia, Principi e applicazioni cit., p. 40; Alfredo Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 2015, p. 99).

[7] Tra l’altro sarebbe anche il caso di correggere un refuso nel nome di uno dei due dedicatari del romanzo: nella versione einaudiana Genève Patterson ha infatti perso una t nel cognome.

Vittoriano Masciullo: Dicembre dall’alto o del desiderio del crollo

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di Luciano Mazziotta

È dicembre, forse, il mese più crudele dell’anno, non Aprile, se è vero che Petrarca colloca la morte della sua Laura il giorno di natale, ed è sempre il 25 dicembre, il giorno in cui uno degli eroi fondatori della modernità, Werther, decide di spararsi con la rivoltella presa in prestito dalla mano della sua Lotte. Si aggiunga che, se hanno ragione le statistiche, il periodo natalizio è quello in cui si conta il maggior numero di suicidi. Dicembre, dunque, che per il giovane Werther è stato un mese vissuto (o morto) in pieno, quello che ha avvolto e soffocato il protagonista nella sua miseria di lutto e declino, in Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo è il mese in cui il bilancio, la retorica della fine è contemplata dall’alto, a distanza, ma non senza coinvolgimento emotivo. “Tutto è presente, è qui”, chiosa non a torto Cecilia Bello Minciacchi nella postfazione.
Strutturato in tre sezioni – Inaspettata, Ueno, Nessuno spiega Chirone, già dal titolo della prima il libro ci mette in guardia su ciò che vi troveremo all’interno. Si tratta di un continuo movimento di inatteso e sorpresa, come quell’atteggiamento speculativo di chi, guardando dall’alto, in realtà non fa che aspettare il crollo. Ma come scrive Winnicot, nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto. E qui, in Dicembre dall’alto, l’altezza sembra desiderio di caduta a capofitto nei luoghi amati e nella storia, forse per scomparire.
L’inaspettato è, insomma, inscritto nella dialettica tra desiderio e paura di caduta, come, del resto, reso in modo magistrale nella versificazione. Si possono leggere, infatti, versi singhiozzanti, troncati, dove le ellissi assumono una molteplicità di significati, non ultimo quello di rappresentare sintatticamente il salto dal pieno al vuoto. Ogni verso è una conquista, ma anche un ulteriore tentativo di suicidio o di morte che non si realizza mai completamente, come la parabola degli eroi senecani.
Però si nasconde dell’altro dietro queste cadute: talvolta il procedere dei versi, la sottrazione delle parole, la sospensione subito dopo le preposizioni, sembrano non tanto “togliere”, quanto riprodurre poeticamente il fatto che, nel percorso a ritroso della propria memoria, alcune parole siano andate perse o, più precisamente, non si vogliano pronunciare. E non si vogliono dire sia per evitare semplificazioni del verso (in almeno un caso l’autore ci fa immaginare soltanto la rima, senza dichiararla), sia perché “rimosse” e “dolorose”, come quei non detti nel corso di una seduta analitica.
E di percorso analitico, di tanto in tanto, possiamo parlare per Dicembre dall’alto, specie quando nella silloge sembra che qualcuno dia del lei al soggetto: cosa inusuale per un libro di poesia, serio ma non serioso, tragico, e molto più tipico di diverse forme apparentemente autoironiche come quelle di Giovanni Giudici. Qui il lei sembra proprio quello pronunciato da un analista al paziente, mentre, per esempio, lo spinge a riconoscere che tutti i morti sognati non sono nient’altro che le varie frammentazioni dell’io disperse nell’universo («ma non è lei che piangeva/non è lei che muore dice/ma tutti suoi sé/che l’aspettano nell’universo»).
Tra analisi e racconto, così, tra analisi della realtà e racconto di sé, si susseguono le pagine, come in un “diario di guerra”, della guerra storica e privata che l’autore cerca invano di possedere.
La diaristica, tuttavia, è cosa ben differente da un libro di poesie: altrimenti a che sarebbe servito pubblicare la silloge, se fosse stata soltanto un diario privato?
Masciullo si pone continuamente il dubbio dell’utilità della scrittura, di tutto ciò che esiste e consiste, della analisi stessa che porta avanti, mettendo in crisi o abbassando sia la sua voce autoriale, sia la veridicità stessa della ricostruzione. «A che serve?», «Altrimenti a che serve?», «Salva, salva, altrimenti a che serve», ripete spesso il poeta come una sorta di refrain in testi dispiegati omogeneamente in tutte le tre sezioni della silloge.
Seppure apparentemente il discorso possa sembrare sfumato nell’ideale e nell’irreale, è bene specificare che in questa raccolta esistono continui appigli alla realtà circostante; e il non detto, sebbene resti non detto, viene comunque temporalmente e spazialmente collocato. Una conferma è offerta dal continuo rimando alla toponomastica, a vie e quartieri vicini e lontani. Se poche città vengono citate esplicitamente, il libro è tuttavia cosparso di nomi ben definiti, di date, di riferimenti a mesi precisi, oltre a dicembre, che ne collocano chiaramente il lasso temporale e il rapporto tra soggetto e storia.
Il movimento, così, è quello di una “visione” che da distante si fa sempre più vicina: dalla visione allegorica di un quartiere lontano, alle vie della città in cui l’autore vive, Bologna.
Se, del resto, la seconda sezione prende il nome da un quartiere di Tokyo, Ueno, il libro è ricco di nomi di vie riconoscibili a chiunque viva o attraversi Bologna anche per una sola volta: in sequenza troviamo via Rialto, via san Vitale, via san Michele, via Barontini, piazza Aldrovandi. Un esempio tra tutti valga il verso in cui incontriamo l’io lirico piangere da «via rialto sino alla fine della fine», un procedimento versuale che da una parte colloca precisamente l’autore in uno spazio ben determinato e dall’altro, invece, lo sfuma fino a disperdere ogni tipo di coordinata, in una schizofrenia che non lascia scampo alla risoluzione dei conflitti (storici e individuali). Ma le vie non sono vie il cui significato è soltanto privato, ovvero: non si tratta di vie in cui possiamo tracciare soltanto i confini dell’esperienza dell’io-lirico. Da una parte, infatti, c’è Ueno, la sezione in cui il quartiere giapponese è osservato dall’alto e in cui sembra non si atterri mai, dove si passa senza “disfare le valigie” e non si scatta nemmeno una foto, come se non si potesse né si dovesse fermare l’immagine nella memoria. Dall’altra parte, però, quando ci si avvicina ai luoghi familiari, nell’esperienza immanente e non passeggera, subentra con forza e distruzione anche la storia della Bologna che ha visto sia il tracollo delle esperienze degli anni Settanta, sia il barbaro omicidio di Aldrovandi.
Dopo il viaggio in aereo sulle luci del quartiere di Tokyo, ci immettiamo subito nel ritorno dettato dall’ultima sezione, Nessuno spiega Chirone, lungo la quale il conflitto è portato all’ennesima potenza, quando tutte le certezze e i dati sembrano esplodere. Chiamarlo “ritorno”, tuttavia, sarebbe consolatorio. Il termine ha necessità di essere più marcato: chiamiamo ritorno qualcosa che ricompone, che ricongiunge, nel bene e nel male. A ogni modo, si tratterebbe di un percorso a ritroso che implica un livello di maturazione e consapevolezza. Al contrario Masciullo non vuole suggerire né maturazione né consapevolezza. Questo suo libro non è un romanzo di formazione in versi al termine del quale si giunge a un qualche barlume di verità. Qui, per indicare il senso del viaggio, ci viene in soccorso il poeta stesso, suggerendo la parola adatta: ritirata.
È una ritirata quella tematizzata in Nessuno spiega Chirone, termine posto a suggerire non solo che il viaggio non è servito a niente, ma persino che il tentativo di presa di coscienza di sé non è andato a buon fine. Così come non sono andati a buon fine i tentativi di spiegare e razionalizzare la storia degli ultimi quarant’anni da Aldrovandi a Cucchi.
In questa epica al contrario, in questo semi nostos, l’autore teme soltanto i lapsus, le cadute, anche se talvolta pare che la memoria storica possa essere un piccolo conforto persino per la sfera personale. Se niente è servito a niente, almeno ci resta la possibilità di ricordare, «altrimenti a che serve aver scritto prima di». Ma il buio cosmico è sempre vicino, sempre a un passo, perché «morire […] è quando gli occhi diventano palpebre/e niente» e, nonostante tutti gli sforzi, conclude lapidariamente l’autore: «nessuno//rimane//comunque».

 

 

da Vittoriano Masciullo, Dicembre dall’alto, (L’Arcolaio 2018)

 

 

*
e continua ricordi
se riesce quel ragazzo sul lago
qualcosa mi dice era già precipitato
prima cosa se riesce e dice guardi
stia attento un filo porta da questa seconda
lettera spuria dell’alfabeto ai capricci di bregenz
e poi verso zurich e munich e
ai malori di lexington di al hoceima
e poi dove ha
nascosto il primo momento
l’attimo in cui implode madre
siderale per cui ha pianto da
via rialto sino alla fine della fine
ma non è lei che piangeva
non è lei che muore dice
ma tutti i suoi sé
che l’aspettano nell’universo

 

 

 

*
ultima preghiera nel tempio di asakusa
so per chi cosa devi
piove rientri così scrivi
ma col tempo sai anche
questi senza fine giorni
irripetibili più feroci delle spine
infragiliti dalla tosse
col tempo sai la morsa del palmo
in silenzio formicolio che non si
più al buio di quella
delle analisi del sangue o
linfa da parte terrei ti servisse
ma cresciuta non più libera
dalla luce suicida
col tempo sai
(vicino i fiori galleggiano
presto verso il bianco
che qui è l’addio)

 

 

 

*
spegni la luce tutto trova la sua lingua
anche al buio parla trova tempo
cambia il tempo delle
cose cambia infinite cose
imparare la pace dai senza pace
tornare dai viaggi dai libri
bisogna imparare altrimenti
dalle macerie di piazza dal
perdere la guerra vincendo la ritirata
anni e che parola ora dopo venti
(venti come niente) asettici
nel bere nel celare
opportune distanze ma
ricorda la sopravvivenza dei cani
il pericolo dall’alto (erano le parole di
francesca woodman o i superotto in sala
da pranzo le capriole sul prato
dicembre dall’alto) ricorda o
cosa infinisce ricordate come io
ricordo nel rizoma delle nostre
o cosa è memoria
ovunque siate

 

 

 

*
l’elioterapia degli occhi azzurrissimi
selce nel cambia la lingua al buio
delle cose finite cambia le
cose infinite senza pace
imparando a tornare
da e col tempo i suoi occhi
malatissimi nel dirmi io qui senza te penso
(e ci voleva molto a scrivermi
cose così per forza l’esperienza della
malattia in età adulta) ma elena
stanca che per tutti è penelope e tacita non
ma soprattutto queste parole adesso
foglie innervate dal sapore nostro
vedi la bicicletta il giardino davanti casa
la salvezza a portata il non odore
insegui non interrompere
ora nessun infarto il
nebivololo ogni mattina
aspettala rispettala
chiamala con le parole migliori
nella sola lingua rimasta (la prima lingua
madre) perdici la vita
nei suoi azzurrissimi
e niente.
*

Nell’immagine: Blatt Grün, di Miriam Hüning

 

 

Quello che c’è sotto

6

di Andrea Dei Castaldi

È strano dirlo, per me che sono nato a pochi chilometri da qui, ma non ho mai passato una notte a Venezia. Lo dico mentre ci stringiamo i cappotti e ci allacciamo le sciarpe attorno al collo, guardando il fiato salire come fumo contro il cielo nero sopra le nostre teste. Da San Sebastiano l’intrico delle calli deserte ci disorienta quando camminiamo svelti come a volerci lasciare dietro il freddo che ci si è aggrappato addosso all’uscita dell’osteria.

Hanno dovuto sbatterci fuori che eravamo gli ultimi ma abbiamo mangiato e bevuto bene, dice Luca con quel suo modo soddisfatto di scandire le parole e di ascoltarsi la voce, e nel silenzio perfetto i passi sul selciato ci inseguono come un’eco. Le nostre donne, aggiunge allora beffardo, lanciando un’occhiata veloce dietro di sé e poi cercando la mia complicità con lo sguardo che il vino e l’ora tarda hanno reso un poco fosco. Anch’io mi volto appena a cercare le sagome esili delle ragazze che camminano un po’ discoste da noi tenendosi a braccetto. Quando se ne restano indietro e parlano fitto con quell’aria buia sulla faccia vuol dire che stanno parlando di noi, dico. Non ci si può fare niente, dice lui ridacchiando. Come in quella poesia di Borges, aggiunge, sono come tutte le altre, ma sono loro. Anch’io ci faccio sopra una risata, ma mi esce stonata, come fasulla, e per un attimo mi guardo indietro colpevole. Tra poco è Natale, mi ritrovo a pensare, ed è già passato un anno da Buenos Aires, dalla vita che credevo sarebbe stata e non è mai cominciata.

Usciamo da sotto un portico e quasi ci sorprende il vuoto smisurato di Piazza San Marco. L’hai mai vista così, mi chiede Luca, senza un’anima? Io scuoto la testa mentre l’attraversiamo, sentendomi piccolo e forse più solo di prima. Ci si fanno attorno archi e colonne e cornici e pietre scolpite come fantasmi bianchi e sdegnosi, e la quinta dorata della Basilica si staglia sontuosa e incerta quanto un fondale dipinto. Pensa che qui c’era solo il mare, dico ammirato e insieme perplesso. Questo è l’uomo, dice soltanto Luca, che sembra d’un tratto a corto di parole. Qualcosa si muove poco lontano da noi nel mezzo della piazza. La sagoma di un grosso gabbiano increspa il buio in brevi sussulti. Ci avviciniamo fermandoci a pochi passi, finché mettiamo a fuoco il profilo affilato dell’uccello, fiero e ritto sulle zampe, ora immobile come fatto di pietra. Il becco è una lama ricurva da cui pendono sfilacciati brandelli rossastri. Per un istante ci fissa dal nero del suo occhio vuoto e selvaggio, furioso nel suo vederci come traguardandoci, per poi tornare implacabile a straziare la carcassa di un piccione che giace informe sulle pietre come un involto di stracci. Nemmeno quando ci raggiungono le ragazze riusciamo a distoglierci dal guardare ammutoliti la bestia che fa ciò che deve fare. Vedo Chiara stringersi a Luca e aggrapparsi fiduciosa al suo braccio, e sbadigliare senza chiedersi troppo. Cristina invece mi si fa accanto, e qualcosa le impedisce di annullare la breve distanza che ci separa. Le guardo la linea della fronte e le sopracciglia che si accartocciano sopra allo sguardo scuro, negli occhi sgranati qualcosa di simile alla paura. D’un tratto tutto ciò che ci sta intorno mi pare posticcio e traballante, c’è qualcosa che stride e che scuote i paraventi e le impalcature e la piazza intera. È quello che c’è sotto, qualcosa con cui dovremo fare i conti. Da stanotte non ci s’inganna più.

 

La siepe

0

di Gianluca Garrapa

Mio fratello morì prima di mezzanotte. Mi avvertì il gatto, miagolando e strusciandosi tra le mie gambe mentre ero seduto in veranda, nell’attesa angosciante dell’agonia che si protraeva nella stanza in cui i miei genitori vegliavano e di cui potevo scorgere solo una flebile luce. Mio fratello è morto nella stanza dove sta il pianoforte, quella più vasta, era bravo mio fratello a suonare. La sera prima il gatto si era messo lì, sotto la finestra spalancata, con la testolina rivolta in alto a scrutare l’anima di mio fratello fluire dalla casa come il denso fumo di un incenso invisibile solo a occhi umani.

La stanza si affaccia su una veranda conclusa da una ringhiera rettangolare dipinta di verde ficcata nel basso muretto di piastrelle marroni nell’intrico di una siepe di pittosporo che si interrompe all’angolo ovest; lì cresceva l’albero di mimosa slanciato e gonfio di gialle infiorescenze, quando era il periodo, smorte dal fulgore ultimo del tramonto che scende oltre i campi coltivati a tabacco, in direzione del cimitero dove accompagnammo il feretro di mio fratello il giorno successivo, dopo la messa delle tre e mezza, prima di quella canonica delle sei della domenica. Il cancello della veranda mi dava l’idea d’un primo livello di conoscenza, superato il quale ci si poteva considerare parte della famiglia e non semplici estranei il cui viso noto non rendeva più del tutto forestieri ma nemmeno ancora abbastanza intimi. Il mio sguardo interiore cadde sull’immagine di mio fratello, sulle sere d’estate davanti casa a parlare e sparlare di sé e degli altri, mentre famiglie di gechi, sui muri grigi imbiancati dalla luce fredda dei lampioni, scattavano sulle loro prede dopo lunghi attimi d’immobilità, estenuanti per me che osservavo con il naso all’insù in attesa del momento dell’attacco; e le riflessioni, sopraffatto dalla stanchezza di quei laceranti giorni di agonia, si tramutarono in un sogno che vedeva me e mio fratello protagonisti di una passata estate, ignari del viaggio esistenziale che imminente sarebbe volto al termine, proprio come il roseto che mio nonno piantò nell’inverno del 1960, di fronte alla finestra della stanza da cui stillava la musica che mio fratello suonava al pianoforte, e che a un certo momento smise di fiorire insieme alle rose… Fu mio padre a destarmi dal sonno e vidi l’alba affollata di estranei e parenti. La mamma pallida e assente nell’abbraccio di sua sorella. La crudeltà bianca del mattino che sanciva la definitiva verità dentro un feretro.

Sedemmo attorno al corpo, attonito io e confuso dal significato della vita, riflesso negli occhi lucidi degli amici e delle amiche di mio fratello. Poco più che ragazzi, non ancora del tutto donne o uomini.
All’uscita dalla Messa, l’applauso di centinaia di persone mi percosse sui gradini della chiesa destandomi dal torpore per un breve momento in cui abbracciai mio padre mettendomi a piangere come un bambino. Fino al cimitero, dietro al carro funebre, stretto ai miei genitori, ma ormai con la mente lontano dalla realtà che non arretra dinnanzi all’evidenza e si trasforma in delirio, mi ripetevo: è solo un sogno, è solo un sogno.

E come un sogno un’epoca era per sempre terminata. Le mimose non si coglievano più a marzo. Le rose non dicevano nulla. Desolato, io, nuvola nel proprio frammento anomico di cielo nero. I gechi sempre più rari le sere d’estate.
La luce flebile, che appena ventiquattrore prima filtrava dalla stanza del pianoforte, aveva smesso di sperare. Silenzio. Solo un grillo, nascosto tra la siepe di pittosporo, cantava incrinando la quiete della notte; e non riuscivo a prendere sonno.

 

NdR: questo racconto di Gianluca Garrapa è tratto dalla sua raccolta “La cosa”, appena uscita con l’Editore Ensemble

 

Paesino

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di Maddalena Fingerle

Anche se ci sono cresciuto, questo non è il mio mondo. Mia madre è uguale a mia sorella che è uguale a mia cugina che è uguale a mia zia che è uguale all’altra mia zia che è uguale all’altra mia cugina che è uguale alla cugina di mia cugina che è uguale a mia madre e quindi a mia sorella, a mia cugina, a mia zia e all’altra mia zia e all’altra mia cugina. È che qui si tromba tra cugini. Non che ci sia niente di sbagliato, eh, se non fosse che io di cugine ne ho soltanto due, se non si contano le cugine delle cugine e no: quelle non contano. Una è molto bella e l’altra è molto brutta. Quella molto bella, Bertrud, sa di esserlo e ha la fortuna di avere molti cugini tra cui scegliere. Quella brutta, Heidrun, sceglierà ciò che le lascerà Bertud e io dentro di me fantastico che Bertud scelga me, anche se so che non sarà così: tra i cugini io sono quello strano. Sono l’unico che non sa il dialetto e mio fratello, Bert, è davvero bello e anche mio cugino Bertfried, quello biondo, è davvero bello. In realtà siamo tutti biondi, ma di un biondo tendente al castano, mentre lui è biondo biondo. Le donne invece sarebbero come noi, ma si tingono di un colore finto ed ecco: sono tutte uguali. Berthold invece è meno bello di me, ma ci sa fare e quando si vanta delle mucche che ha né io né Bert né Bertfried né gli altri cugini abbiamo la minima chance di gareggiare contro di lui. Berti invece è timidissimo e forse ci gioca su; mia cugina infatti si intenerisce quando lui diventa tutto rosso. Lo fa anche quando Berto balbetta e allora non so mica se ho qualche chance: io non sono né davvero bello né davvero misero.

Qui ci sono torte e rinfreschi, sedute infinite, discussioni su chi è morto, su chi è cresciuto, sui divorzi, e io non so proprio che dire. Finisce l’elenco dei vivi e dei morti, ed ecco il discorso sulle mucche, di cui scopro con sgomento il prezzo; un breve conto ed è ovvio che non posso competere con Berthold. Bertrud vuole Berthold, si vede, penso: che le posso offrirle io? Ho libri, sì, però qui se leggi sei solo un eccentrico con sogni eccentrici che vuole cose eccentriche, teoriche, inesistenti; un inetto che non vive nel mondo vero. Poi? Delle penne, sì, però Bertrud delle penne se ne fotte. Sì, ho pure CD e libricini pieni di scritte, però sono tutte cose che non servono. Sono invidioso di mio cugino Berthold e rifletto: forse non mi recherò lì, resterò qui e gli ruberò tutte le mucche oppure gliele ucciderò, eh, che scene! Così sì che si discuterebbe di me. Non più il cugino mediocre né scemo né sveglio. O forse no.

Quando finiamo, facciamo il solito giro, poi puliamo la tomba di famiglia. «Quando morirò voglio un’urna, non una tomba» dico io, provocando imbarazzo tra i cugini, zii, mamma, papà; tutti rossi di rabbia. «Dai, non si fa: occuparsi di una tomba, di fiori, di annaffiatoi, di un corpo morto: una cosa idiota!» Papà mi tira uno schiaffo. L’altro idiota schizza acqua santa con un ramo di ulivo: un dio. Sicuro, lui sa comportarsi. Poi mi si avvicina, mi sussurra: la nostra tomba – guarda, io una toccatina, quasi quasi – bisogna sia la più curata; sono uno stupido, non capisco la dinamica, quindi sto zitto con il capo chino.

Quando torniamo dai miei, mia cugina Bertrud, quella bella, viene con me in cameretta e mi dice che anche lei è per cremare i morti, ma qui mica lo puoi dire. È vero, ha ragione: perché l’ho detto? Il mio letto è perfetto perché mia madre l’ha fatto poco fa; mia cugina cade indietro, le coperte ripiene di penne d’oca, dice che non è vero quello che dicono gli altri: mi vede bello e intelligente e lei mi appoggia per la città e per la carriera. Dice proprio: io ti appoggio. Mi avvicino e cado anche io accanto a lei e le chiedo «Rimani qui?», lei mi guarda con l’aria dolce e quell’aria dolce mi fa finire il liceo e partire. Non mi guardo più indietro, non mi vergogno più perché quando vedo un vitello venire al mondo mi viene da vomitare e perché ho, a differenza loro, la vergogna del corpo nudo, perché utilizzo il congiuntivo quando va utilizzato e non me ne frega niente che non ho i piedi per terra, non faccio il miele e non mungo le mucche.

Qua però passo per strano uguale. Saluto la gente per strada. Che gay! Ok va bene; sono gay e arretrato, secondo loro, ok, va bene. Frequento un corso ed è un vero bordello, la gente parla strano; e sono ancora gay e arretrato. Ok, va bene: accetto e resto muto. La gente scopre però da dove vengo e ora non sono solo gay e arretrato: sono quello che deve farcela, deve assolutamente farcela perché sono qua da solo, e ora sono pure poveretto, oltre che gay e arretrato. L’esame va bene e sono contento quando prendo un bel voto, ma non lo racconto a nessuno perché va bene passare per gay e arretrato e poveretto, ma ora basta.

Al paese oggi al circolo del caffè siamo solo mio padre, mia madre, Bert e io. Deve essere successo qualcosa, credo, ma cerco di stare calmo. Mi siedo, bevo caffè e butto giù qualche morso della torta burrosa. A parlare è mio padre. Dice che Bertrud ha deciso: si sposerà. Lui lo sa dallo zio. Resta zitto, guarda mio fratello, poi me, scuote la testa e tace. Mi ricordo che Bertrud mi appoggia e sorrido, mio padre si alza, si risiede, sta per parlare, ma poi resta zitto. Mia madre gli tocca la spalla e lo guarda, lui le sorride e dice che Bertrud ha scelto me, dice che Bertrud sposerà me, ma lui come fa a dire di sì? Bert ha qualcosa da offrire, ha le idee chiare, lui sì che sa che cosa vuole, e poi si sa comportare, il dio. Io sto zitto. Pure mio fratello-dio tace, poi dice che, se voglio, posso lavorare da lui. Scuoto la testa e mia madre mi dice di essere saggio, ormai sei adulto, le dico che voglio studiare e lei mi dice basta, sempre queste cazzate, si tratta di cose serie e allora le dico che porterò Bertrud fuori di qui, la libererò, mio padre ride. La città posso scordarmela e allora dico che lei potrà scordarsi di me. Lo dico e vedo subito il terrore sui volti di mamma e papà.

«Guardate che anche lei preferisce essere bruciata.» La mamma dice un’Ave Maria e un’altra e un’altra e un’altra, sistema la cucina, mentre papà esce dalla stanza. Mi viene da ridere, Bert impallidisce. «Mi sembra che si è già bruciata» dice. Si sia, deficiente: si sia.

Foto di Ludmila Mottlova da Pixabay

Tu: la letteratura che nasce dalle prigioni kurde

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Giuseppe Acconcia

I lunghi anni di detenzione di Salahettin Demirtas e Figen Yuksekdag, co-leader del partito democratico dei Popoli (Hdp), ci ricordano che il popolo kurdo, in Siria, Turchia e Iraq, è abituato alla quotidianità del carcere. L’esempio più eclatante viene da Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), costretto all’isolamento nel carcere di Imrali. Eppure il merito di Mehmed Uzun, come di altri grandi poeti kurdi e non solo, pensiamo a “Il luogo stretto” del siriano Faraj Bayrakdar, è di trasformare in “Tu” (a cura di Francesco Marilungo, Ismeo, 2019, 214 pp, 20 euro) la cella in un luogo dove scrivere. Il suo merito è addirittura doppio perché l’autore crea così, nel 1984, la letteratura kurda contemporanea in kurmanji, fino a quel momento relegata alle diaspore e alla sola oralità.

L’autore trova l’espediente letterario dell’insetto umanizzato, rispetto alla demonizzazione del carceriere turco, per iniziare il suo racconto di prigionia. Come spiega Francesco Marilungo nell’introduzione, mentre Uzun cresceva libri e riviste in kurdo non esistevano o erano proibiti, e così lo scrittore ha dovuto “creare ex novo una tradizione letteraria moderna”. Uzun ha imparato a leggere e scrivere in kurdo quando si sono aperte per lui le porte del carcere nel 1971, insieme ad altri intellettuali kurdi in prigione, come Musa Anter. L’autore, tra i fondatori della rivista, Rizgari (Liberazione), verrà arrestato di nuovo nel 1976, e al suo rilascio decide di abbandonare il paese e trasferirsi in Svezia, dove resterà fino al 2007 prima di morire dopo il suo rientro a Diyarbakir, nel Kurdistan turco.

E così negli anni Ottanta e Novanta è la Svezia la vera patria della letteratura kurda, da lì nasceranno i maestri che ispireranno di più i giovani scrittori kurdi. In Svezia la diaspora kurda ha ricostruito la sua memoria e Uzun, tradotto in turco, ha potuto far emergere un’impronta multiculturalista inclusiva di enorme rilievo. In altre parole Uzun ha avuto il merito di fronteggiare la sistematica cancellazione dell’identità kurda perpetrata dallo Stato turco. Il compito dello scrittore è stato di salvare la tradizione orale dall’oblio attraverso la scrittura.

Uzun lo ha fatto seguendo tre strade. La prima, come dicevamo, è il racconto della prigionia. Il carcere è il luogo della tortura, da dove nasce il mito della vittimizzazione del popolo kurdo. In prigione è nato anche il Pkk. In altre parole la repressione turca ha fatto germogliare la resistenza letteraria e politica kurda più di ogni altra cosa. La prigione è un luogo di educazione mentre lo spazio esterno diventa la vera prigione. L’altro elemento cardine è la natura da cui partono i racconti di infanzia dell’autore. Il popolo kurdo ha un legame speciale con le montagne, pensiamo ai combattenti a Qandil per esempio. La natura è l’ultimo rifugio: il luogo in cui nessuno, neppure il più atroce degli attacchi, potrà mai davvero scovare la resistenza. E poi c’è Diyarbakir, che con Kobane e Sanandaj, è il cuore del Kurdistan, la città da cui, come per Parigi la letteratura francese, parte la letteratura in kurdo. Diyarbakir inizialmente è raccontata come una città occupata, colonizzata dal nemico, ma poi, nei testi successivi di Uzun, diventerà una città multiculturale, mantenendo sempre le sue due anime, quella dell’oppressione turca e quella dell’identità kurda.

Tu è un romanzo storico che incarna tutti gli elementi del nazionalismo kurdo a partire dalla condivisione con i “compagni” di una condizione di repressione che coinvolge un intero popolo. Il testo racchiude poi una prima descrizione rivoluzionaria del ruolo femminile nella difesa della causa kurda. Le donne sono già la “difesa da ogni decadimento”, come sarà poi chiaro dalla partecipazione diretta nella guerra civile siriana delle combattenti kurde impegnate nelle Unità di protezione femminili (Ypj). I racconti di Uzun continuano a mantenere un piede nella tradizione, come ricordano le hadith pronunciate in gioventù, insieme ai libri di Cechov. Il testo fornisce così una narrativa straordinaria degli eventi che hanno attraversato il Kurdistan turco con gli occhi dei kurdi. Incredibili sono le descrizioni minuziose del momento dell’arresto e delle torture subite in cella. Eppure la violenza del carcere si innesta sempre in racconti fantastici di infanzia che ridanno vita anche agli spiriti (jin) della tradizione orale, fino all’invocazione della salvezza che viene dall’eroe, come Meme Alan.

Marcello Barlocco: come lucciole, bisogna accontentarsi delle stelle

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«Proprio io – ha detto l’uomo sulla cinquantina – Sono il dottor Marcello Barlocco, di Genova e ho letto sui giornali, questa mattina, che mi cercano carabinieri, polizia e agenti americani perché mi credono il corriere dell ’hashish. Non ho mai trafficato in stupefacenti e sono pronto a dimostrarlo. Sono soltanto vittima di un madornale equivoco. Eccomi a vostra disposizione.»

da Il Corriere della Sera, martedì 18 febbraio 1958

 

«Molti animali inferiori, specialmente i vermi, putrefacendosi emettono una piccola luce; gli uomini invece puzzano.»

Marcello Barlocco,  Aforismi inediti

 

Dopo Massimo Ferretti e in completa noncuranza del mercato editorale,  la Giometti e Antonello pubblica in questi giorni un altro libro difficilmente collocabile, che già dalla copertina testimonia il suo essere “sostanza forsennata”:  Un negro voleva Iole di Marcello Barlocco.

Il bizzarro ritaglio di giornale posto qui sopra basterà come introduzione alla biografia di Barlocco (Genova, 1910 – 1972), che non si presta a frettolosi “adattamenti”. Autore “minore”  è colui che continua ad indisporre ogni biografo ben intenzionato, al costo di lasciare come eredità soltanto un disordine equivoco (cioè facilmente strumentalizzabile).

Allo stesso tempo, il vero carattere di Barlocco si misura attraverso una frase che mortifica in un instante qualche decennio di letteratura consolatoria, denunciandone l’insufficienza: «Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro».

Questa frase proviene da un racconto di “amorosa protesta”, Un negro voleva Iole,  che dà il titolo al libro. Ne ho voluto ospitare qui un lungo estratto, introdotto  da una riflessione sul divenire minore che il filoso Gilles Deleuze dedicò al teatro di Carmelo Bene (lo stesso Bene aveva messo in scena alcuni “atti unici” di Barlocco, purtroppo andati perduti).

Barlocco sceglie lo sfregio del nome per mutarlo in orizzonte di fuga.

Ogni destino taciuto fa un processo a tutta l’umanità, e urla la propria rivolta alle stelle. Ma neanche loro -ci rivela il Negro-  bastano ad incorniciare lo scontento del mondo…

 

Divenire minori

«È come se ci fossero due operazioni opposte. Da un lato si eleva a “maggiore”: di un pensiero si fa una dottrina, di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. Si pretende così riconoscere e ammirare, ma, in effetti, si normalizza. […] Allora, operazione per operazione, chirurgia contro chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo “minorare” (termine usato dai matematici), in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro il dogma.  […] Non ci si salva, non si  diventa minori che attraverso la costituzione di una disgrazia o di una difformità. È l’operazione della grazia stessa. Come nella storiella di Lourdes: fai che la mia mano ridi venti come l’altra… ma Dio sceglie sempre la mano sbagliata.»

(Gilles Deleuze, Un Manifesto di Meno in Sovrapposizioni, Quodlibet)

 

 

UN NEGRO VOLEVA IOLE

 

Tra una foca e l’adolescente negro c’erano parecchi punti di contatto: la rudimentale intelligenza, la testa piccola e sferica e soprattutto un forte odore di pesce marcio. Per questo la ciurma oltre che Negro porcaccione, lo chiamava anche foca. Quando il piroscafo giungeva nelle bollenti acque della Florida, il negro diventava particolarmente utile; gli uomini lo calavano tutto nudo dentro il buio di una tanka e al collo gl’infilavano l’enorme secchio contenente la spugna, ma a volte sentivano diventare immoto dall’altro capo della fune il peso vivo e dimenante di Negro; allora tiravano su in fretta perché era segno che c’era ancora del gas e il negro si stava asfissiando. Lo stendevano, rigido come una trave, sopra la coperta; con violenti getti di acqua accompagnati da qualche colpo nelle caviglie lo facevano rinvenire. Dopo un’ora ritentavano la prova, e il negro per la seconda volta minacciava di asfissiarsi. Allora interveniva il comandante e diceva: «Gas o no, caro il mio negro, ho assoluto bisogno che prima di stasera mi cominci a spugnare queste tanke maledette. Siamo già nella Florida, fra pochi giorni si arriva e con le tanke sporche non ci lasciano entrare in porto. Capito?» Quando il comandante aveva bisogno di qualcosa la sua voce era uno sparo. Negro si riprendeva come per incanto e rispondeva: «Subido gomandante». Sollevava le braccia perché lo legassero alla vita: giù di nuovo, la terza volta con il secchio intorno al collo. Respirava appena per ingurgitare il meno possibile di quel gas micidiale, riusciva a toccare il fondo. Gli uomini sentivano afflosciarsi la fune e capivano ch’era giunto. Allora quasi sicuri che «per quella volta non sarebbe morto tutto di un colpo» si rifugiavano sotto coperta a fumare o masticare salame di tabacco. Il piroscafo deserto come un vascello fantasma tagliava le acque della Florida diretto verso Baton Rouge, in un’ansa del fiume Mississipi. Intorno un’atmosfera opprimente: nei mesi più caldi 40 gradi all’ombra. Da un lato, sulla bassa costa americana, le case di Miami e Key West sotto il riverbero parevano pezzi di alabastro; dall’altro, dentro un cumulo di vapori rosa e arroventati, s’intuiva l’isola di Cuba: giù nel ventre della tanka, Negro, al buio, in ginocchio nella poltiglia di ferro corroso e benzina, la spugnava dentro il secchio. Le macchine non riuscivano ad assorbire sino in fondo ai concavi paglioli, e Negro con quel mezzo rudimentale doveva sostituirle. Poco a poco i suoi polmoni si abituavano al gas. Egli riprendeva una respirazione quasi normale. Respirava aria, gas, incubi, vertigini di tutti i colori, e aveva paura di morire. Ma i negri adolescenti non hanno paura della morte in se stessa. Della morte in se stessa questi ragazzi negri non hanno paura perché i misteri troppo grandi non arrivano a colpirli: essi sono come i grilli che non hanno paura dei grandissimi rumori ma ne hanno molta del fruscio che fa l’erba quando cresce. Negro aveva paura di svenire, di cadere col viso dentro la poltiglia, ed annegarvi, continuarne a bere anche dopo morto, empiendosene il ventre come un otre. Temeva solo questo, non di morire. La paura si trasformava in una crisi di terrore ed egli gridava: «Aiudo, uomini, aiudo». Gli uomini erano lontani a masticare tabacco. Al negro urlante, resi lugubri dalle tenebre e dal rimbombo della tanka, rispondevano i colpi del mare sotto la chiglia. Poi la crisi, raggiunto il massimo, si dissolveva e per reazione Negro entrava in una serie di incubi buoni e patetici al vertice dei quali c’era sempre il palpitare luminoso delle lucciole sugli alberi e le case del suo paese. Vedeva lucciole palpitare intorno a sé con una tale vivezza che talvolta agitava la mano per scacciarle.

Quando gli uomini supponevano che egli avesse finito una tanka tornavano: dopo averlo estratto da quella lo calavano subito in un’altra e fuggivano al fresco. Tre, quattro giorni durava quell’affare, ma Negro non odiava i bianchi uomini: anzi li ammirava per la meravigliosa prerogativa di saper sempre immaginare qualche cosa da volere da lui. Quando volevano qualcosa, le loro voci sparavano in maniera entusiasmante. Le esplosioni più entusiasmanti erano quelle del comandante: erano musica guerriera: eccitanti come una fanfara. Negro non odiava gli uomini bianchi ma l’invidiava un poco per quella loro voce e l’inventiva dei desideri. Il fatto d’essere così negro e loro tanto bianchi non gli appariva umiliante, ma si sentiva inferiore per non saper anche lui inventar qualcosa da voler da loro. Avendolo saputo fare e sparandolo poi con quella voce era certo che lo avrebbero ubbidito. Fra gli altri suoi sogni leggeri come bolle di sapone c’era anche questo: salire un giorno sul ponte col berretto messo alla guappa e di lassù gridare agli uomini una cosa da volere. Pensava che si sarebbero fatti in quattro. Non aveva desideri; cercandone uno la sua piccola testa per la pressione minacciava di esplodere. Solo una sera stando seduto a poppa sopra una bitta con mezza lingua fuori (la lingua fuori, pur non intervenendo direttamente nel meccanismo del pensare, glielo favoriva in modo incredibile) vide una stella e gli parve di desiderare intensamente le lucciole, ma vere, non quelle delle tanke, e fu sul punto di correre in plancia per gridare agli uomini che voleva delle lucciole; ma poi pensandoci bene riuscì a capire che in quella cosa gli uomini non avrebbero potuto ubbidirlo; e come lucciole, sul mare, bisogna accontentarsi delle stelle. Un giorno il comandante trafficando con una lamiera si era quasi segato una vena sul polso. Gli uomini in quella occasione vollero da Negro una cosa molto strana. Estrarre il sangue ad una persona in condizioni normali con tutto il necessario è una cosa delle più facili, ma estrarlo ad un giovane negro, con il piroscafo che rolla e beccheggia come un matto, è un affare complicato.

Presto fiorirono sul pavimento garofani scarlatti, ma il secondo, che dirigeva la cosa movendosi di continuo, poi li fuse in un’unica grande chiazza. Il comandante giaceva sulla branda, bianco in volto, con gli oc chi semichiusi ed ogni tanto emetteva respiri sibilanti. Chissà perché Negro si era orientato nell’ordine di idee che, dopo averglielo cavato, il suo sangue lo avrebbero versato in mare: invece lo introdussero nel corpo del comandante. Quel giorno l’ammirazione di Negro per gli uomini bianchi crebbe a dismisura. Fosse stato lui capace d’inventare cose tanto strane e misteriose sarebbe stato felice. Quando si era rialzato dalla tavola dove lo avevano steso, aveva visto tremare tutto ed era caduto sulle ginocchia. Stranissimo! Ora che il sangue glielo avevano portato via quasi tutto, gli pareva di averne di più, e gli pulsava dentro la testa producendo una nebbia rosa e viola davanti agli occhi. Il secondo allora aveva afferrato Negro per la collottola trascinandolo in cucina davanti alla enorme pancia del cuoco. «Cuoco – aveva detto il secondo – se tu gli somministrassi doppia o tripla razione di fagioli io credo che domani sarebbe più in gamba di prima. Non credi?» «Credo di sì», aveva risposto il cuoco. «Già che ci sei dagliene quattro porzioni». «Agli ordini», aveva risposto il cuoco. Prima di andarsene il secondo aveva detto a Negro: «Nella fretta non abbiamo disinfettato proprio niente: è probabile che ti venga un’infezione, ma io ho tali rimedi che il braccio sono in grado di salvartelo». Il cuoco aveva posto davanti a Negro una montagna di fagioli imponendogli di mangiarli tutti sino all’ultimo. Negro ebbe poi la sensazione di aver dentro la pancia un elefante. Esplosa in seguito l’infezione, proprio quando Negro cominciava a reggersi sulle gambe, il secondo aveva ancora detto: «Per prima cosa incidere, poi applicare rimedi». Il braccio di Negro era iridescente di tutte le gradazioni scure dell’amaranto; solo nel punto dove c’era l’ascesso era decisamente giallo e viola. Il secondo aveva inciso abbondantemente in croce con una lama per barba ordinando poi a Negro che andasse avanti lui perché egli stava sentendosi rivoltare lo stomaco. Con l’altra mano Negro si era spremuto il braccio; e il secondo fischiettava voltato dall’altra parte. In seguito giunse un’alta febbre. La febbre era molto cara a Negro; gli pareva che immergendolo in quel bollore di sangue in cui galleggiavano le ossa tutte peste, gli accendesse nella testa una fiammata di idee. Ma purtroppo erano idee smozzicate, pensieri inconcreti; malgrado la febbre, cose stravaganti da volere dagli altri non riuscì mai ad inventarne. Ci giungeva solo molto vicino; un fenomeno un po’ simile a quello di un nome che a tratti gli venisse sulla punta della lingua e poi tornasse subito indietro. Invece gli uomini durante la sua degenza vollero molte cose: anzitutto portargli mezzi limoni già spremuti, poi innaffiarlo con forti getti d’acqua perché egli aveva sempre caldo; infine vollero che si trasferisse in un altro posto perché minacciava d’attaccare il febbrone a tutti quanti. Il posto era buio, odoroso di legno fradicio, con una sola cuccetta all’altezza dell’oblò. I piroscafi corrono di notte sul mare, con una stella incorniciata negli oblò. Una stella che nasconde forse dietro di sé spaventi eterni eppure brilla calma come la luce di un casolare. Negro fu molto contento che l’avessero sbattuto in quel posto perché di notte poteva vedere la stella senza neppure alzare la testa.

[…]

Conversazione con Paolo Zardi su “L’invenzione degli animali”

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A cura di Gianluca Garrapa

L’invenzione degli animali è l’ultimo romanzo di Paolo Zardi, uscito a settembre del 2019 per Chiarelettere nella collana Narrazioni serie «Altrove» diretta da Michele Vaccari. Protagonisti del romanzo, ambientato in un’Europa piegata da guerre intestine e governata solo dai principi dell’economia, sono quattro geniali menti assunte dalla Ki-Kowy, la più grande azienda del mondo impegnata nel grandioso progetto di plasmare un nuovo paradigma dell’umanità.

Due poesie sopra i destini delle mamme

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di Francesca Genti

 

Le mamme delle poete

le mamme delle poete si siedono sul divano,

è tardo pomeriggio e aspettano le figlie.

le vedo dalla cima di una stella;

accendersi una sigaretta, farsi un bicchiere,

incrociare e scrociare le gambe,

girare gli anelli, mangiarsi le unghie.

 

le mamme delle poete sono inquiete,

è tardo pomeriggio e aspettano le bimbe,

poete appunto, non luminari della scienza,

né capitane d’industria né avvocati,

non donne che sanno organizzarti una casa,

una vacanza, un veglione per venti persone.

poete appunto, inabili alla vita,

perennemente offese dalla durezza della realtà,

le vene azzurrate da micro apocalissi,

e una passione smodata per le ciliegie sotto spirito

(ma niente soldi per il dentista!).

 

nell’attesa che le separa dalla visita

si chiedono veloci dove hanno sbagliato,

le rivedono in stellina dentro i cieli,

quando erano soltanto puro desiderio

senza ombra di dubbio, e una felicità,

morbida e tiepida, dalla nuca profumata,

quando dicevano le cose buffe a tavola

e aspettavano sveglie i topini dei denti.

 

forse le avevano allattate poco

o lasciate troppo davanti alla televisione,

saranno stati i campi steineriani?

o la sopravvalutata pedagogia montessoriana?

più acqua? meno acqua?

 

più luce, madre mia, ancora sulla terra.

le mamme delle poete sembrano marat,

nel celebre quadro all’oldmasters,

o vecchie ofelie preraffaellite,

nel famoso dipinto alla tate gallery,

sdraiate sui cuscini del divano,

confuse con i fiori dei tessuti,

il vino rovesciato lungo i polsi,

allorché queste figlie poete,

(un tempo così brillanti e allegre,

un tempo così belle e in salute),

si mettono comode, si tolgono le scarpe

e raccontano di problemi esistenziali,

o di come si sono fatte fottere marito e lavoro

 

da qualche campionessa più giovane e furba

(qualcuna la cui madre avrà allattato meglio

e di sicuro cucinato tutte quelle torte

che nell’abbaglio delle loro giovinezze

loro mai si sono sognate architettare).

 

le mamme delle poete reagiscono

ognuna a suo modo alla cattiva sorte.

se sono di indole frivola

partiranno per un lungo viaggio,

un grand tour di shopping compulsivo,

che neanche elton john nei momenti più bui.

se sono inclini alla saccenza

chioseranno l’avevo capito da quella poesia*.

se propendono per il lugubre

si chiuderanno in un atroce silenzio

e puzza amara sarà, fino ai prossimi natali.

 

le rivedono in stellina fluorescente,

trilli subacquee sulla spiaggia,

così carine nei loro costumi di sirena,

così della vita fiduciose,

pescioline nel brillare della luna,

di ogni marea, di ogni compleanno,

di ogni adorazione del piedino

(tutti gli altari d’oro dell’infanzia).

 

forse le avevano allattate troppo,

o quella volta giù dal fasciatoio,

sarà stata la baby sitter ninfomane?

o i racconti horror della zia?

più vino? un po’ di vino?

 

più luce madre mia, ancora sulla terra.

*

(le mamme delle poete infatti,

anche se hanno condotto studi umanistici

tendono a leggere l’opera delle figlie,

con approccio gossipparo,

una sorta di inesaurita Eva Tremila).

 

 

Malgaro elettrico

mio padre, he was a country boy

in un piemonte vertiginoso e fosco.

 

nella provincia cosidetta Granda

(la Shangri-lah dei fragoloni a Peveragno)

si fece largo, tra le gambe di mia nonna.

con un suo sacchettino di plasma

con un suo pacchettino di ossa piccole

nello zaino un sasso e una ricotta

e i suoi semini da piantare per il mondo.

insomma, nacque. come tutti i bimbi.

 

alla fine di una rovinosa guerra.

 

nella provincia cosidetta Granda

(dei partigiani a vocazione GL)

nacque, bimbo bello, in questa terra.

in amarezza e luce. e abbagli e cadute.

 

e nuvole che turbano lo sguardo:

 

in baratri di nostalgie cobalto

mia nonna infatti cadde

giù nel buco, proserpina borghese,

si ruppe la borraccia della serotonina;

fantasmi di giovinezza non sbocciata

minacciarono la vita dell’infante.

 

giorni e giorni di fitto temporale

fitte al cervello elettrizzato male

mani magre non riuscivano a tenere

l’autunno sconfinava nell’inverno

e questo fagottino, bimbo bello,

diventava triste e macilento

 

non riuscivano a trovare più l’azzurro

 

ma un pomeriggio più tenero degli altri

nella provincia cosidetta Granda

(quella effigiata da pittara e delleani)

su prati dai colori psichedelici

apparve una fata in forma di vacca

“non preoccuparti” disse alla ragazza

“riposati, riprenditi l’azzurro”

“io mangio l’erba e i fiori

do il latte io a  tuo figlio”

“tu dormi, riposa nell’azzurro”.

 

e fu così che mio padre si riprese

e diventò mio padre, appunto.

oggi ancora lo è. he is, a country boy

che prende suo nipote sulle spalle

e per fargli ammirare meglio le vacche

e le loro boasse impastate di fiori

prende la scossa sul malgaro elettrico.

 

 

I due volti della corona

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ph. David Dawson
ph. David Dawson

di Marco Viscardi

Willis: "Monarchia e follia sono due stati che hanno una frontiera in comune. 

Alcuni dei miei matti fantasticano di essere re. 

Lui è il Re, e dove andrà a rifugiarsi la sua fantasia?"

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Regina: "Sì, signor Re, siamo stati felici."

Re: "E lo saremo ancora. Lo saremo ancora."

Alan Bennett, La Pazzia di re Giorgio. 

 

Nella trama magnifica e incontenibile dell’Orlando Furioso, la battaglia di Parigi è lo scontro fra la civiltà e la forza bruta. Il campo pagano, dopo lungo assedio, ha deciso di varcare lo spazio umano della città, protetto da mura secolari. Il campione degli infedeli, Rodomonte – incarnazione della pura forza distruttiva – fa strage del più nobile sangue cristiano. La città, devastata dal suo furore, sembra oramai caduta ma quando i cittadini, tutti radunati in una piazza, vedono re Carlo in pericolo, si accendono guidati da un’unica volontà. «La persona del re sì i cori accende, | ch’ognun prend’arme, ognuno animo prende» (XVIII, 12, 7-8). La moltitudine urbana si slancia contro la bestia e la sovrasta, costringendola alla fuga. Il corpo collettivo ha battuto il nemico, ispirato dalla sola presenza del sangue regale.

Questo nel testo del poema, ma l’Orlando è una terra smisurata, difficile da contenere con lo sguardo. Un continente composito di cui fa parte un arcipelago di canti, cinque per la precisione, che nessun cartografo è stato capace di collocare nella giusta posizione. Cinque canti scritti forse prima del 1521, a cui persino Ariosto non ha saputo trovare uno spazio, una collocazione. Vi si racconta una storia cupa di divisioni del campo cristiano, di lealtà tradite e fratelli che uccidono i fratelli. Si combatte sui campi di Germania e di Boemia, gli stessi in cui, mentre Ariosto lavorava al poema, si era diffuso il verbo protestante. Il mondo diventava incerto, le stelle fisse cominciavano a vacillare, nulla di quello che pareva incrollabile si sottraeva in realtà alle leggi del movimento e dell’entropia. I Cinque Canti sono il lato oscuro del Furioso. La loro conclusione è tremenda e ridicola: si vede Carlo cadere da cavallo nella rapida ritirata dal campo di battaglia, e ciascuno è così preso da sé e dal proprio destino che i vincoli sacri del dovere non esistono più. Il re dei re scivola dalla sella e nessuno semplicemente se ne accorge.

I Re sono l’ordine del mondo, ma quando cadono nessuno se ne accorge. L’edificio della monarchia è solido solo per una illusione ottica, ma le sue strutture sono deboli, possono cadere da un momento all’altro se il sovrano è incapace di conservarle e trasmettere a chi verrà dopo di lui. The Crown è la serie televisiva sul potere monarchico e sulla sua fragilità nascosta. La prima stagione era sembrata un po’ incerta, impelagata in cose già viste e digerite, ma con lo scorrere delle puntate la narrazione si è fatta sempre più stringente, i personaggi meglio delineati, gli abiti e gli arredi sempre più credibili. The Crown non è una serie sulla regina ma sulla corona, sulla sua impersonalità, sul peso e le rinunce che comporta quella vita di lusso.

Con l’incedere delle stagioni, diventa sempre più chiaro che il sacrificio imposto dalla corona è accettare un destino di impersonalità e di inazione. Il trono ordina di abdicare alla propria individualità: accettare il destino supremo di essere il primo motore immobile, con la consapevolezza che anche il sole fa parte di una meccanica celeste che non può in nessun modo alterare. È una volontaria rinuncia, una abdicazione appunto, che porta chi non la compie ad abdicare alla corona. Se esiste un cattivo in The Crown non è Mountbatten, con le sue velleitarie pretese di incidere nella storia britannica, ma il duca di Windsor: il dandy che si è svincolato dai propri obblighi per godere di un palcoscenico mondano, il predestinato che ha rifiutato l’unzione.

Una delle puntate meglio riuscite di tutta la serie è quella dedicata alla consacrazione reale, all’incoronazione che eleva il sovrano al di sopra dello stato umano. La contrapposizione fra il dovere e l’individualità, verrebbe da dire fra l’invisibilità e l’individualità, è resa dalla partita doppia della giovane principessa che prende possesso dei simboli antichi della regalità mentre lo zio, diventato estraneo, di quell’avvenimento è spettatore a distanza che segue la cerimonia in televisione commentandola per i suoi raffinatissimi ospiti nel salotto d’esilio. Era il 2 giugno 1953, non esisteva più l’impero britannico e molte delle monarchie che erano in piedi al tempo dell’incoronazione di Giorgio VI erano scomparse, ma il momento dell’unzione del sovrano, della sua elevazione sopra gli altri uomini, conservava la sua sacralità, tanto da essere sottratta allo sguardo onnivoro delle macchine da presa. Marc Bloch era eroicamente morto per la libertà francese, ma i re taumaturghi esistevano ancora. La divinizzazione della regina è privilegio solo di chi è presente fisicamente nell’abazia; gli altri, anche e soprattutto se re in esilio, non possono vederla.

Il duca di Windsor è una figura patetica, incompiuta, impotente. In questa stagione, la morte di colui che era stato Edoardo VIII, al di là delle forme, è una fine senza riconciliazione. La linea della rinuncia e del servizio e quelle della vanità e persino della vitalità non si incontrano neppure alla fine, non vengono accordare in un momento di pietas. Il bacio è un bacio mancato.

L’ultima puntata della prima stagione, solennemente titolata Gloriana, segna il passaggio dall’umano all’atemporale, da Elisabeth Windsor a Elisabeth Regina. La narrazione culmina nella formula magica della sovranità, in latino – antica lingua del potere appena sporcata dall’uso dei britanni che trasforma ‘regina’ in ‘regiaina’. Elisabeth Regiaina! Cecil Beaton, fotografo di corte uso a recitare versi di Tennynson e Shakespeare mentre ritrae i regali, pronuncia queste parole arcane mentre ritrae la giovane sovrana con tutti gli apparati del potere. La regalità è uno spazio profondo, abissale, in cui Elisabetta si inoltra sempre più, anno dopo anno, stagione dopo stagione. Ma anche cristallizzato su francobolli e monete, il profilo regale non è uno spazio bianco, non è il profilo di ognuno. Ancora una volta si tratta dei due corpi e dei due volti del re: quello mistico e quello umano, quello immortale e quello corrompibile, quello destinato a occupare la propria casella nella lunga galleria dinastica e quello su cui si deposita il passare delle ore e delle emozioni. Il volto del re non è uno spazio bianco: in quella totale rinuncia della volontà che è la regalità, si può inscrivere la propria forma. Non agire è il più pesante degli obblighi, questo la sovrana lo sa autorevolissimamente sin dalla prima stagione, e in questa ammette che la Royal Family vive nascosta al mondo pur essendo sotto gli occhi di tutti. Sembra la lettera rubata di Poe, ma non è un ingranaggio giallo, bensì un gioco di potere.

Il volto modifica la regalità e la regalità modifica il volto, ma qual è la cera e quale il sigillo? Questa terza stagione è tutta inscritta nella fuga dal volto. Prendiamo la prima e l’ultima scena della stagione. Nei primi minuti della puntata d’apertura, vediamo la nuova Elisabetta, qui per la prima volta interpretata da Olivia Colman, specchiarsi nel confronto fra i due nuovi francobolli della royal mail. In uno la giovane sovrana, il profilo romantico di Claire Fox che l’ha incarnata nelle prime due stagioni, e nell’altro il mento cadente e lo sguardo spento della sovrana consapevole. Il tempo che passa non ha clemenza. Difficile capire se sia un caso: ma in questa serie il gioco delle somiglianze si fa stringente: Tobias Meziens è un impressionante Filippo, Josh O’ Connor ed Erin Doherty sono praticamente nati per le parti di Carlo e Anna, Principe di Galles e Principessa Reale. Fanno eccezione solo Olivia Colman ed Helena Bonham Carter. La prima, più che alla regina, assomiglia al ritratto di Elisabetta fatto da Lucien Freud: è un volto sull’orlo del disfacimento, in cui si mostra tutta la fatica di tenere insieme le cose, di non cedere alla legge di dissoluzione che regola l’universo. È un volto atemporale, staccato dal fluire del tempo, cristallizzato in una mezza età che è età del ripensamento e del sospetto. La seconda è una principessa Margaret che non ha più nulla della sensualità di Vanessa Kirby, ma discende anche lei la scura china degli anni, verso solitudini più prosaiche di quelle della sorella: fallimenti umani, confusione del vivere, raggelarsi degli amori domestici e ansie di fuga. Questa stagione racconta anche della formazione intellettuale e sentimentale, nonché erotica, della principessa reale e del principe di Galles. Carlo viene qui investito, secondo antico rituale feudale, di quell’antico dominio inglese. Ma la corona su di lui, come precedentemente sul padre Filippo elevato a Principe del Regno, ha un aspetto ridicolo, è un peso troppo grave per quel giovane collo, sta quasi di traverso, come a sottolineare che non tutti la possono portare. Anzi che nessuno può portarla, salvo colei a cui immediatamente sta bene, colei che si è allenata a farlo.

Spesso il piano narrativo di The Crown si basa sulla tecnica del double plot: i personaggi hanno sempre un doppio che li segue, li perseguita, arriva dove vorrebbero arrivare. Così nella generazione dei padri – re Edoardo e Giorgio – e così in tutte le generazioni. L’annullamento di Elisabetta nella funzione regale è amplificato dalle irrequietudini di Margaret, dalla sua ricerca di una forma, dal senso della sua inessenzialità, dal piacere delle sue sperimentazioni. La corona si nutre delle antitesi, dei conflitti, delle storie che non si conciliano e che restano irrelate per tutta la vita. Vedere il proprio alter-ego vivere aumenta la gloria rancorosa della sovrana, la rassicura sulla sua importanza.

Questa stagione si chiude con l’anniversario d’argento di Sua Maestà Britannica. 1977, venticinque anni di regno. L’argento è un triste metallo, i suoi riflessi sono malinconici, il suo colore ricorda il grigio della mezza età e delle sue incertezze. Così alla fine, la regina esce di scena in carrozza, scortata dalle guardie d’onore e fra queste anche da Carlo, oramai Principe di Galles ed erede al trono. L’erede smania sempre, vuole che il mondo conosca i suoi pensieri, le sue visioni. La sua voce. Ma nello scontro più terribile che un figlio possa avere con una madre, Elisabetta ricorda a Carlo che nessuno è interessato a quella voce. Nessuno è davvero attento al Discorso del Re, gli basta che il monarca sappia occupare la sua casella, riempire quel vuoto in fondo alla scena.

Ancora una volta una partita doppia: la radio descrive la pompa e la circostanza della memorabile giornata, la camera ci mostra una incerta Elisabetta al risveglio: il tè della mattina a letto, i bisogni del corpo, il bagno caldo. Gesti lenti, per allontanare il pensiero sgradevole dell’uscita: dell’accettazione del tempo che passa. Piccole quotidianità di un giorno solenne.

La cerimonia deve iniziare e la sovrana va in carrozza scortata dall’erede al trono.  È un gioco di espressioni e di non detti: la camera passa dal volto del principe smanioso a quello della sovrana che, negli ultimi secondi, passa dalla luce all’ombra. Ombra metaforica al pari di tutte le ombre. E non solo per la tradizionale semantica della maturità come shadow line, ma perché queste ombre le abbiamo viste addensarsi nell’arco delle puntate. Abbiamo visto Elisabetta sprofondare nel ruolo, sentire la propria imprescindibilità. La monarchia porta inscritta nel nome la solitudine. Il re è solo: molos e monoch, l’erede è una funzione necessaria ma insolente, non tanto perché è un ineludibile memento mori, ma perché ricorda che, nel gioco dei due corpi, nessun sovrano è essenziale, ciascuno verrà sostituito e alla fine tutti daranno il loro nome a qualcosa, poco importa se un’età gloriosa, il taglio di una stoffa, la razza di un cane. Nessuno, neppure il re, è insostituibile.

Jacopo sul palco

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di Umberto Piersanti

Jacopo, tu non conosci
palchi,
non conosci
balconi o luoghi
che sopra gli altri
per la gioia s’alzano
o la rabbia
di chi ascolta,
tutto per te si svolge
a rasoterra,

Overbooking: L’Impero che si tace

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Nota di lettura

di

effeffe

a L’Impero che si tace di Ilaria Seclì

 

 

Seguo da diversi anni il lavoro di Ilaria Seclì e proprio su Nazione Indiana ho avuto il piacere di pubblicare alcune sue cose. Di quest’opera che ho potuto leggere nel suo farsi, disfarsi, compiersi, per un decennio, è difficile dire, scrivere qualcosa senza provare, consapevolmente, un profondo disagio formale, un’inadeguatezza da lettore e da critico per certi versi imprescindibile. È infatti possibile accogliere la parola dell’autrice solo alla condizione di rinunciare al canone, qualsiasi canone, e seguirne il passo ovunque esso conduca, senza affatto sapere il disegno che ne determinerà la parabola, il percorso, il destino. Potrebbe apparire un oracolo l’incipit, sprovvisto di titolo, quasi un’ingiunzione al lettore su cosa fare per “ricominciare”. Non abbiamo infatti un tempo definito da un prima e un dopo, scandito dai testi – poesie? prose? note?- quanto un flusso di immagini e di cose che quasi approfittando del silenzio del rumore di fondo, dell’impero che appunto si tace, lasciano apparire per pochi attimi un’esperienza importante, un nome proprio, un toponimo, un’indicazione, che nonostante la sua concreta distanza da noi, risuona in noi come familiare.

Il mito, la storia, le voci si susseguono in una sorta di passaparola da esistenza a esistenza, in un gioco di specchi tra io narranti e io senzienti, talvolta declinato nelle sue forme plurali, voi e noi. È un corpo a corpo tra parola e parola, a tratti iconografico, luci ed ombre, delicatamente poste ai margini di elenchi, inventari, cataloghi di cose ed esperienze. Un viaggio non affatto mentale che questo diario ci invita a intraprendere con lo stesso coraggio dei pionieri a ridosso dei confini dell’impero.

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La somma del tempo (Pozzis, val d’Arzino)

Quel posto che pochi vivi vedono. Tizzoni fermi, valli, estinta civiltà. 7 oblique lapidi rotte dalla neve, bianchi intatti ripetuti e ripetuti su occhi inesistenti, inesistente mano o impronta che li macchi, li corrompa.
Su nomi e lettere cadute, cadute date, resiste un petalo d’argento nero. La somma del tempo non consuma. Non consuma il tempo delle cose, della neve, vento gelido padrone, impero vuoto. La botola che narrano in città, voci e colori ingoia. Un grigio resta, un marrone incenerito, cinghiali e mufloni hanno versi, ma lontani. Uno sparo coi suoi cerchi. Il gallo è vicinissimo. Forche, ruote, zappe. Materia senza nome fatta roccia, basto che il gelo mima fioritura. All’improvviso un uomo.
Giura l’impossibile, alto bastone grezzo, polenta nel paiolo, suo capriolo a legna e fuoco. Sole avaro spento nel caffè dietro la montagna.
22 fotogrammi, passaggi umani, aperte cose oblique e il dubbio di essere appartenuti, stati vivi. Passate cose fra le cose.

 

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Venti turchi

Ci sono venti contrari ai lini che albeggiano su joniche azzurrità. Portano leggende che ingrossano letti di fantasmi e mietono amanti e morti nei pomeriggi tra fine estate e inverno quando più insolente è il cielo e lo scirocco insidia. E sopravvivere è arte di pagliacci e stregoni, se a levante voci di Babilonia e Costantinopoli arrivano da venti umettati di mandorle, fichi, caramello e cinnamomo. E lenzuola di salsa rossa hanno deposto il calice e tutto muore ben prima che negli inverni freddi ad altre latitudini, e tramonti veloci incastrano creature dentro i cancelli dei cimiteri. È tempo di stringersela l’anima sotto feltri doppi e scialli come al petto chiavi e monete d’altri tempi.
Sebbene non faccia freddo i venti compiono razzie da far impallidire i peggiori tiranni.
Ben s’intendono coi pascià turchi di cui ancora sibilano fatti a voce sommessa e guardinga.
In quei mesi il vero è fluido impasto di caotiche lingue che s’adatta ad ogni forma chiusa come acqua che trovi all’occorrenza letto e tetto. È sostanza di mare e vento. Ad altro non puoi far affidamento. Le case sono abitate da presenze inquiete mal identificate. Devi conviverci. Fuori è uguale, non hai scampo. Se la vicina per due volte ti vede senza sorriso, ti chiama, ti fa sedere, mette in un piatto l’uovo, ci spolvera un po’ di sale e ti dice di stare lontano da chi ti porta invidia. Dai domenicani non va meglio, se confidi al padre dall’orientale barba un tuo tormento, non esita a dirti che sei presa di mira da pericolose entità e ti congeda con sufficienti segni della croce, antidoto al nemico.
La porta del paese nei mesi che vi dico ha tanti cerchi di grigi vecchi attorno, ingoiati da una luce di vischio lattescente, e quando quella luce l’accompagna il vento è tutto un venerdì santo, un’eterna via crucis, un lamento che strozza. I sospiri, gli sguardi, le parole devono filtrare la solenne perturbante autorità, pregna di tutto fuorché di sola aria. Le nonne tra questi fatti segnano una tregua. ne hanno viste di ancora più terribili, teste di cavallo negli armadi, cani parlanti, bianchi vecchi su strade nere spariti in un colpo di palpebra. Le loro nenie pomeridiane biascicate in coro e rimbalzanti bocca a bocca in danze allucinate portano pace, acquietano. Auspicano – ora pro nobis – un passaggio veloce e indolore dei mesi terribili, dall’addio alla vendemmia al carnevale. Mesi colonie di spiriti ghignanti e beffardi che nessuna autorità è mai riuscita a tenere a bada né a scacciare. Questo il nostro mondo fino a ieri. Ora supermercati, super ruspe, super voragini. Divelti alberi e panchine, radici profondissime, solenni corredi di ville, dimore regali di gnomi e vari abitanti di pini, ulivi e querce secolari. Ora sapete che da qui a lì, da questo all’altro punto cardinale, è tutto uguale. Dal girotondo al mercimondo.
Ogni tanto passa un ambulante la cui voce ricorda quel vento spaventoso. Tutti ridono e gli fanno il verso compresi i vecchi nella piazza. Solo qualche bimbo e i matti, tra sonno e veglia, sentono strozzati lamenti, pianti finali e avvertimenti di guerre incombenti.
Orfane di vento ma terribilissime.

Edizioni volatili: Selected Love di Andrea Franzoni

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Nell’estate del 2019 le Favole dal secondo diluvio hanno inaugurato quella che sarebbe diventata una collana di scritture poetiche curata da Giorgiomaria Cornelio e Giuditta Chiaraluce:  “Edizioni volatili” e volanti, come quel cervo -maestro di rinascite- che portava braci tra le mandibole. Il secondo volume della collana è Selected Love di Andrea Franzoni, scritto a Brooklyn facendo “salti da scoiattolo” tra le lingue. Le partiture visive (segnalibri ed illustrazioni) sono sempre di Giuditta Chiaraluce.

In anteprima, ospito qui una selezione di alcune  pagine insieme ad una nota dell’autore –Sull’Amore Scelto– che non spiega il testo, ma ne illumina la precaria necessità: «A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare.»

ll libro verrà presentato nei prossimi mesi.

 

 

 

 

SULL’AMORE SCELTO

L’uso della lingua corrompe la lingua dell’uso – non altrimenti avviene in questa capitolazione del sistema identitario «io sono, quindi parlo». New York, per alcune settimane, in una stessa casa due italiani parlano (male) inglese e (pas mal) francese per comunicare con un’israeliana e un americano (yiddish), i quali parlano (male) italiano e spagnolo e (pas mal) francese. La lingua comune, come in tutte quelle situazioni in cui si incontrano destini esuli, non c’è. L’espressione profonda viene ridotta in queste situazioni ad un lessico basilare – necessario, e per questo fortemente poetico (dotato cioè di aderenza specifica e non generale) – che poggia principalmente sul lessico ricevuto dalla cultura generale (canzoni, film, inglese scolastico, tutto ciò che il certificatore di poeticità disprezza). Le grandi idee delle persone aderiscono in queste situazioni come uno slittino alla superfice necessaria: esiste un popolo che parla la panlingua, esiste già la panlingua (o paralingua), solo che, come in tutte le devianze, in pochi osano esporla in quanto tale. Ebbi in quei giorni la coscienza che la (mia) lingua italiana era un sottosistema di un movimento linguistico più importante. La lingua detta «nazionale» non esisteva che per i destini «nazionalizza(n)ti»

Per gli altri, il limbo. L’intristimento/rallentamento/allestimento ecc. formale delle produzioni nazionali mira forse alla tradizionale stagionatura del prodotto, ma credo avrebbe grande giovatura ad alimentarsi della lingue correntemente in uso in neuropa e altrove. Il cambiamento storico della lingua non è nazionale, ma trans-nazionale (anche i dialetti sono trans-nazionali). Esiste un popolo di locutori che già parlano la-lingue. Perché dunque non portarne avanti una corrispettiva letteratura?

Altra questione fu quella del senso. Andava in me un discorso violento, rotto ad ogni confronto con il senso. L’unità significante era già allora meno della frase (ogni frase si svuota con l’altra), ma non si accontentava per questo dell’uso poetico delle spezzature, né del doppio-polisillabo epico o rappizzato o teso di altri versatori. A tutti gli effetti, non avevo lingua (o non mi bastava) e non avevo un sistema-verso in cui impiantarla. E tuttavia, avevo pezzi d’orfanezza da raccontare. Ogni lingua o linguaggio che parliamo, ha una memoria propria, e un proprio modo di pensare. Non c’è il gestore unico della memoria, ma tanti ripetitori, ognuno con le informazioni che gli sono arrivate (spesso, come gli impiegati nelle biblioteche, nessuno sa cosa ha fatto l’impiegato del turno precedente). Non posso ricordare in italiano una cosa che la mia mente ha recepito in francese. Posso tradurla (rappresentarla), ma il ricordo (con quella sua caratteristica ambiguità manipolatoria) non può prodursi che nella lingua in cui l’esperienza si è originata. Tolto il freno inibitorio (il «ma che sto dicendo»), questi pezzi si sono ritrovati così a conversare secondo le proprie naturali caratteristiche. Perché tanti sforzi per diventare qualcuno, se sia il senso che l’identità che ne deriva non sono altro che frutto di dialogo tra le parti (testo-contesto, casa-paesaggio, io-tu)? Ogni dialogo ha genuine necessità di comunicazione (finzione), e un proprio ritmo direttamente orale, non oralizzato. Pas d’oeuvre, giusto un’ascrittura della sfuocatura del cuore. Un ritmo rilassato per dire quello che la mia lingua mamma e la mia lingua amante non riuscivano a dire. Eliminare il significante, osare restituire la perdita (e non colmarla con nuova accumulazione), canalizzare in circuiti linguistici sostenibili la migrazione lessicale e la dispersione annessa, fare la musica dello sbaglio, cioè dell’uso. Letterratura = raccontare la storia che vivi a coloro con cui la vivi, non come la vivi, ma come la vive chi resta immobile in ciò che tu muovi, e che se non incanti con i canti del divenire, ti narrerà domani la stessa storia, ma ripulita, nel bagno delle esigenze degli altri. Una grammatica adatta ad una lingua disadattata esiste già, non va dunque cercata: va detta.

Andrea Franzoni