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Grazie Frederika

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di Giacomo Sartori

Grazie Frederika per avermi scritto una mail il diciotto di marzo di cinque anni fa, chiedendomi il permesso, dandomi del lei, di tradurre una mia poesia. La poesia sbarazzina si chiamava Se muoio prima io, e il tema era appunto la morte. L’avevi letta su Nazione Indiana e ti era piaciuta molto. Ti eri quindi comprata il mio primo romanzo, di molti anni prima: finisce pure lui nella morte. Cominciavamo insomma con la morte, che è sempre il miglior modo per celebrare la vita. (La tua traduzione è bellissima, alla baldanza del tono aggiungi un fermento frizzante di trillo, tutto tuo.)

Grazie per la tua delicatezza di anima che ha conosciuto la sofferenza.

Grazie per esserti battuta con indefessa testardaggine, senza mai mettermi al corrente delle sconfitte (intuivo qualcosa a cose fatte) per pubblicare i miei testi nella tua lingua.

Grazie per la tua sensibilità fragile e temeraria di uccello, tu che amavi tanto gli uccelli.

Grazie per aver prolungato anche nel nostro rapporto, basato sul nostro rispettivo lavoro nella letteratura, sul nostro amore per le parole vere, quella purezza che trovo nella scrittura.

Grazie per la tua umiltà e per la tua devastante timidezza in pubblico, che come sempre accade erano anche consapevolezza del tuo valore, impaccio a maneggiarlo.

Grazie per tutte le tue mail sempre frementi di timore di prendere troppo spazio o invadere, sempre sul chi vive, sempre necessarie, perfino nella lievità di materia o urgenza, sempre gaie, grazie per quel tuo nome un po’ duro – che si addolcisce nel cognome più evocatore – che appariva nella mia casella.

Grazie per la tua intelligenza.

Grazie per la benevolente e concentratissima attenzione con cui consideravi ogni mia singola parola, anche quelle che mi venivano fuori nella leggerezza. Il tuo ascolto era uno scanner che cerca di carpire il più possibile e non giudica, non fa trapelare incasellamenti, non presume. Le mie parole si portano dietro adesso quel tuo rispetto intriso di penetrante intelligenza, le mie parole adesso fanno attenzione a essere il più precise possibile.

Grazie per l’ironia sugli altri e su te stessa, su quel tuo spazientito non riuscire a prenderti davvero sul serio.

Grazie per la benigna gravità con cui consideravi qualsiasi cosa scrivessi o avessi scritto. I miei scritti si portano dietro adesso quel rispetto, sanno che possono meritarselo.

Grazie del tuo sguardo su di me, lo percepivo come un rassicurante (ma anche disincantato) recinto di affetto.

Grazie per non avermi mai parlato male di nessuno, grazie per non aver mai oltrepassato la soglia di qualche svolazzante e ironica allusione a questa o quella meschineria nei tuoi confronti.

Grazie per il supporto in questi cinque anni nei quali nella mia vita sono crollati bastioni e sono apparse inattese radure. Appena potevo esprimevo la mia gratitudine, su questo non ho rimorsi, ma non mi rendevo conto della forza che mi dava la tua presenza lontana. Lo ho provato quando ho saputo che te ne sei andata, lo provo ora.

Grazie per le abissali confidenze con le parole dette e anche dandomi accesso alle tue parole scritte (negli ultimi tempi). Erano oggetti di vetro soffiato che appendevo dentro di me, regali preziosi che non dovevo rompere.

Grazie per avermi detto tante volte la tua riconoscenza, certo nata anch’essa nelle pagine dei testi, che faticavo sempre a accettare e capire (il che è una forma di stolida chiusura).

Grazie per avere sempre tenuto fuori dal nostro orto tutte le tue numerose relazioni, tutte le persone che conoscevi, gli altri autori che traducevi, i tuoi altri affetti, i frutti della tua insaziabile curiosità intellettuale. Solo adesso mi rendo conto che eravamo sempre solo io e te. E’ una lezione che cerco di fare mia. (Ma certo tener fuori non è la parola giusta, si trattava piuttosto di non tirare in campo se non era strettamente necessario, di non mescolare.)

Grazie per la tua gaiezza appena marezzata di mestizia (gli spettri li tenevi per te), grazie per avere accettato il minimissimo supporto che ho provato a darti quando ne avevi bisogno, perché è provando a curare che si cura se stessi.

Grazie per l’esempio di come si possa convivere con i malanni fisici, di come li accettavi senza volergliene (a patto che ti lasciassero coltivare la tua passione per le parole giuste e i gorgheggi perfetti), senza volerne a te stessa.

Grazie per la benedizione (aspersa anch’essa di gaiezza) che hai dato al mio nuovo amore. Già prima di incontrarlo, dall’idea che te ne eri fatta dalle mie parole, e poi mentre lo l’avevi sotto gli occhi quando ci siamo visti a dicembre, e dopo.

Grazie per il tuo pudore, che mi suscitava condiscendente tenerezza, grazie per questa prossimità distante che non so definire, che sfugge a ciò che posso capire.

Grazie per le tue aperture al sacro (che è semplicemente ciò che non conosciamo, quello che le parole dei grandi scrittori sanno evocare), tu che ti consideravi impenitente (e storicista) miscredente.

Grazie per i tuoi tormenti, che nell’alambicco delle tue traduzioni diventano merletto leggero, sonorità fragranti che travestono i miei testi.

Grazie per avere dedicato le tue forze residue a tradurre un mio racconto, ben sapendo, e dicendomelo, che era la tua ultima traduzione (volevi però tradurlo tu). Grazie per essere resistita alla spossatezza e al dolore fisico. (E’ stato – vedo adesso – il tuo modo di salutarmi.)

Grazie per la tua certezza che le mie cose avrebbero finito per essere prese in considerazione.

Grazie per lasciarmi adesso solo con le mie forze e con la mia fragilità (alias con il culo per terra), che è un modo perché io utilizzi quello che mi hai dato e sia sempre cosciente di quello che ti devo.

Grazie per farmi capire adesso che avrei potuto darti di più: ne terrò sempre conto con le persone che mi sono care.

Grazie per il messaggio di una settimana fa, l’ultimo che ho ricevuto da te. Nell’ultima riga mi chiedevi se potevo togliere la parola morte (E’ PROPRIO NECESSARIA LA MORTE?) dall’ultima riga dello stesso. Secondo me ci stava bene, ma per farti piacere l’ho tolta. Sia l’ultimo mio pezzo che traducevi che il tuo ultimo messaggio finivano con la morte. E’ rimasta solo quella del tuo messaggio, la tua.

Grazie per non commentare adesso tutte queste parole, che certo ti danno parecchio fastidio, o insomma imbarazzo.

Grazie per lasciarmi questo dolore e questo vuoto, ma anche quel senso di pienezza e di gioia che danno le cose belle e senza macchia. Mi trascinerò dietro ovunque quest’ombra fresca e benefica.

Aspetta Primavera, Mancini

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di Laura Mancini


There will be time to murder and create,
And time for all the works and days of hands
That lift and drop a question on your plate;
Time for you and time for me,
And time yet for a hundred indecisions,
And for a hundred visions and revisions,
Before the taking of a toast and tea.

T.S. Eliot

Lei è in fila? Da trenta, trentacinque anni, la nostra risposta è sì. Chi è l’ultimo? Noi, la generazione dell’attesa. Scendete alla prossima? No, finché i nostri progetti resteranno irrealizzati, i sogni inesauditi, i risultati mancati, continueremo a fare solo ciò che ci riesce meglio: aspettare.

Il sistema del tatto

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di Alejandra Costamagna

Avrebbe dovuto farlo tanti anni fa, pensa Agustín. Quando aveva trovato sua madre stesa sul letto, con la bava alla bocca, lo sguardo perso e il boccettino vuoto sul comodino. Quando Aroldo era andato a consegnare il lievito a certi clienti fuori Campana. Quando non c’era nessuno in casa e aveva dovuto chiamare un’ambulanza e aiutare a caricarla e vedere come la portavano via e raccogliere un paio di arance da terra per inerzia, solo per fare qualcosa che lo distraesse, e andare a chiudersi in camera a battere a macchina solo per battere a macchina, come se i tasti fossero pallottole che potevano perforargli il petto. Prendere il manuale dell’emigrante o qualunque altro documento dal baule di sua madre e battere a macchina. Colpire qualcosa con le dita, lasciare una traccia, lettere come proiettili. Copiare frammenti del manuale di dattilografia o parole isolate, in mancanza di meglio. Viaggiatori, rabbia, bravo, cavare. E l’arrivo di Aroldo e cos’è successo a Nelida, che cos’hai fatto a tua madre, e il ricovero in ospedale e il divieto di farle visita e le giornate da solo con suo padre, la casa non ventilata, le persiane chiuse, la radio che parlava per nessuno, la cucina un deserto, la cannuccia del mate come unico contatto fra loro, due fantasmi senza nessuno a cui manifestarsi, spettri del presente senza un passato di cui inorgoglirsi o un futuro da venire ad annunciare, e finalmente andare a farle visita in qualità di apparizioni e accorgersi che la mente della donna si è riempita di pelucchi di polvere che la stanno consumando; è polvere viva e affamata che le tritura la mente, la chiude in sé stessa, tanto che il mondo di fuori alla fine è molto meno pericoloso, Tinito, di questi pensieri ormai senza freni di tua madre. Il medico aveva consigliato di lasciarla andare in Italia, a trovare i suoi genitori. Questo poteva guarirla, aveva aggiunto con un’espressione dubitativa. Aroldo non voleva, caso mai le sue origini la inghiottissero e non si potesse più recuperarla. Ma aveva finito per cedere. Avevano venduto dei mobili, avevano chiesto dei soldi in prestito ai parenti, si erano indebitati con tutti fino a mettere insieme una somma sufficiente per il biglietto aereo. Agustín si era accorto che prima della partenza sua madre ritrovava l’entusiasmo: si era cucita dei vestiti nuovi, aveva fatto riparare gli occhiali, era perfino meno strabica. E poi aveva mandato cartoline dall’Italia, fotografie con i suoi, con sua sorella, con il cognato, con i nipoti vivi (non un accenno al nipote morto davanti a lei, tanti anni prima). Avrebbe dovuto risponderle, pensa Agustín, obbligarla a rimanere là. In qualità di unico figlio io ti obbligo, ti ordino, ti supplico di non tornare in questa terra che non è la tua. Lasciarla libera, questo avrebbe dovuto fare. Un’immagine in bianco e nero che non gli si cancella dalla mente: sua madre con una chitarra in mano, raggiante come se dovessero incoronarla il giorno dopo. Dietro la foto, un messaggio nella sua calligrafia rotonda, perfetta: «Questa è la tua mamma con i capelli corti e la chitarra. Ho già sentito tanti dischi di Elvis Presley». Sorrideva troppo, pensa Agustín, esagerava una felicità nuova. Come se non esistesse il rancore. Come se di colpo avesse deciso di rinascere e di non rinfacciare più nulla; di diventare la persona che avrebbe sempre dovuto essere; di non venire in America, di non sposarsi, di non avere lui, Agustín. Quell’immagine gli si era conficcata come un paletto nel cuore. E non gli si cancella dalla mente l’impressione di quando l’aveva vista tornare. Era diversa: adesso era una donna che aveva visto suo padre. Ma era stata una specie di parentesi nella sua mente già malridotta. Pochi mesi dopo aveva ricominciato a perdersi e ad affondare sempre più in un mondo al quale solo lei aveva accesso. Sua madre non era più sua madre e nessuno poteva riportarla indietro. Qualcuno se l’era presa, Agustín lo aveva capito allora. E pensò di aver avuto qualche responsabilità. Forse quel giorno suo padre non si era sbagliato. Che cosa aveva fatto? Che cosa diavolo aveva fatto a Nelida fin da quando era nato? Forse se quella mattina non l’avesse consegnata ai medici, ma al capitano di una nave che la portasse lontano da Campana via fiume, per sempre. Forse se avesse organizzato una fuga di nascosto. Ma come poteva fare, se non sapeva guidare nemmeno una moto? Avrebbe potuto portarla via con la bici di Gariglio, un figlio che fugge pedalando con sua madre sulla canna. O forse non era stato lui a farla uscire di testa, ma suo padre e sua madre tanti anni prima. Mandandola a forza in queste terre quando aveva poco più di vent’anni, obbligandola praticamente a sposare Aroldo, suo cugino di secondo grado, l’unico scapolo della famiglia. Un uomo giovane, non molto bello, dicevano, ma giovane e disposto a sposare quella ragazza del suo stesso sangue. Volevano salvarla e l’avevano condannata, invece. Adesso Agustín avrebbe bisogno di parlarne con qualcuno, ma con chi? Avrebbe bisogno che qualcuno gli spiegasse l’origine della disgrazia.

 

NdR: questo passo è tratto, per gentile concessione dell’editore, dal romanzo della scrittrice cilena, di origini argentine, e prima ancora piemontesi, Alejandra Costamagna, “Il sistema del tatto” (“El sistema del tacto”, Anagrama, 2018), pubblicato ora da Edicola Ediciones, nella traduzione di Maria Nicola.

Pandemia: lo stato dell’arte

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Per Alfonso Benadduce. Il passo oscuro

di

Giuseppe Cerrone

 

Sarà il nero a dare il senso della tragedia.

Ecco il colore che amerete, raggiungerete, meriterete.

Il colore che bisognerà guadagnare.

Jean Genet

 

Si creeranno in sostanza degli uomini senza memoria;

uomini in continua estasi violenta, in partenza sempre da un punto-zero.

Giuseppe (Pinot) Gallizio

 

 

foto di scena: Mauro Milanese

 

 

Ho visto Passo Oscuro nel 2019 al Teatro Mercadante di Napoli. Tornato a casa ne ho scritto, ostaggio di una violenta scossa che ho cercato di tradurre in discorso. La meraviglia, lo stupore si riversarono in appunti frenetici che il tempo ha delimitato e strutturato. Quanto segue è il tentativo di dire della ‘sostanza’ Alfonso Benadduce, al di là dell’inesorabile fluire fenomenico. Ecco, se vi è altezza nella quarantena, essa risiede, credo, nel crollo dell’attuale, il cui volto irriconoscibile sembra essere quello della stasi, della cenere dopo gli ultimi fuochi. Autore, attore, pittore, Alfonso Benadduce opera enunciazioni senza enunciati, sospensioni. In teatro come in pittura si leva in ondate sediziose, sulfuree, in vapori malarici che ci spingono altrove. Da segnalare Libercolo dell’onta, finalista al premio Viareggio 2006 e Agogno la gogna, film sperimentale, finalista al premio Riccione TTV 2008. Espone i suoi dipinti in Italia e all’estero.

 

 

 

La notte dei mistici è l’ultimo passo prima del nulla. Chi osa tanto giunge dove non c’è consolazione. È forse la grande notte quella di Alfonso Benadduce. Con Passo oscuro ha conquistato il sacro regno dell’ignoranza. Dove si conduce con la Nona di Bruckner, dove ci porta? Al buio della danza. Una danza che avanza nell’interdizione dei sentieri, che si fa continuum inaccessibile e arresto. La misura del fare e del non fare è colma, Benadduce la soppianta. E giunto a danzare offre combustioni tonificanti – un teatro che colpisce il sistema nervoso e va oltre, nel vuoto della notte, in un respiro ultimo che potrebbe essere l’assunto di ogni santo: andare è donarsi. Benadduce come Cassandra, non creduto, malvisto, incede noncurante in una danza che è esercizio della fine e spasmo. Marcia sul posto. Dedizione persino. Presa del mistero fin dentro la cecità. Passo che si accalca al passo e insegue ciò che non procede. Non vi sono orizzonti, non vi sono paesaggi. Solo lampi di colore che un messo, dalla consistenza di ectoplasma, attraversa da un indistinto all’altro. Nessuna traccia dell’uomo, nessuna persona, piuttosto detonazioni, rombo della fine. L’animale indomabile si fa follia-sensazione, elettricità, ebrezza. E quando affiora un microfono, egli lo elude, sconfessando l’altissima caduta delle parole di cui da sempre è mago. Il mito greco bacia il Butoh, le fughe di Rothko abbracciano Decroux, la musica danza con la dépense e Anton Bruckner accompagna l’acrobata che si destreggia sulla soglia. Avanguardia è inversione, sconvolgimento. Benadduce, ascetico flâneur, si stacca inarrivabile: ha cime inafferrabili da avvinghiare.

Dal canto di Nietzsche alla danza di Genet. Tramontata la parola, è nel passo oscuro – colpo che scuote il mistero e lo espugna – che il teatro abita la notte. Danzare è sapere interamente l’inconosciuto. Dissolversi col dissolversi di ogni legge. Processo che odora di morte e respira. Giravolte, cadute, false piste, nella danza esausta di Alfonso Benadduce che tormenta la stasi e la percuote, fino a cancellare l’impulso alla misericordia. Quando, sul suono martellante e terrificante dello scherzo, siede inappuntabile sull’apocalisse. Nessun pensiero, nemmeno un resto. Solo potenza che si scatena in preversi che non conoscono contegno, qualcosa per cui Benadduce non sa di argini e Bruckner con lui. Siamo di là da Wagner. La fine degli istanti è per i pochissimi che si disfano di ogni traccia, smemorati, abbattuti, atterriti, eppure eroi. Benadduce è tra loro, con il piede che misura l’inutile, le movenze che riformula e che dissipa. Non ha bisogno di vestire Sigfrido. Ha Bruckner e tanto basta per condurci all’inesprimibile, affrontando la scena, là fuori, dove lui è, come il funambolo la corda. Infine, sul quarto movimento appena abbozzato da Bruckner, una delle innumerevoli ultime apparizioni, danza imperterrita come se il sipario non si fosse mai aperto.

 

Immaginate una scacchiera senza pedoni, attraversata da una regina cieca e perduta. Provate a pensarla, a desiderarla persino. Allora la partita non avrà inizio, non ci sarà epilogo. La sorte dovuta alle cose che si distinguono. Onde senza mare tra siccità perenni. Il miracolo è compiuto.

 

Sonia Caporossi – Taccuino dell’urlo (Marco Saya Edizioni 2020)

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Prefazione di Maria Grazia Calandrone

La scrittura di Sonia Caporossi è mossa dalla necessità di comprendere filosoficamente il mondo, che si dà silenzioso nei suoi nessi, lasciando a noi il compito di decifrare la mappa di una realtà fatta di persone e cose che si muovono (e vengono mosse) stando in relazione.
Uno dei modi possibili di interpretare la realtà è infatti seguire il filo di una relazione, come nel caso di questo Taccuino, un segugio di parole sensoriali tenute a terra, a fiutare le tracce di un rapporto che disorienta, perché procede per contrasti e contraddizioni, non fornisce la bussola per orientarsi nella solitudine del mondo. Anzi, confonde, mente, lascia ancora più soli, continuamente abbandona.
Lo scarto tra ciò che esiste e quello che invece potrebbe essere, la distanza inguaribile tra desiderio e risultato, ci rende la misura dell’errore. E allora, anche la lingua con la quale la relazione racconta sé stessa deve simulare il disordine della ferita, il dolore che scaglia fuori da sé, mentre l’amore ci terrebbe saldi e sicuri al centro di noi, ci farebbe lettori intelligenti del mondo.
Raccolto dal caos, venuto dal caos, mimetizzato con i crolli improvvisi del cuore e con la confusione e lo scompiglio, il lessico attinge da campi semantici diversi: scienza, critica d’arte, psicoanalisi, cartomanzia, musica e, naturalmente, filosofia.
Caporossi mette in bilico le parole, i suoi versi – spesso frantumati – sono frasi sul punto di spezzarsi e cadere nel verso successivo, più che andare a capo, duplicando i geyser del tutto involontari della memoria, che interrompono la superficie di una dimenticanza desiderata.
L’odore, le parole, le promesse, le rivendicazioni rimaste da fare, vengono infine emesse tutte d’un fiato, in due pagine di flusso di coscienza senza respiro, simili ad appunti presi mentre nel sonno si è premuti dal dolore e non si dorme davvero.
Il protagonista, colui che emette l’urlo, è impegnato nell’opera della dimenticanza, è un operaio della dimenticanza, che si muove tra veglia e stato onirico, perseguitato dai sogni, combattente sul campo di battaglia di lenzuola ormai fredde e infine arbitro di sé stesso, per stare nella bella metafora calcistica conclusiva, che ricorda il quadrato del ring amoroso di Carlo Bordini.
Ma qui si tratta di rettangolo: il rettangolo d’erba dei campi di calcio, il rettangolo del letto. Qui si tratta di un lato più lungo, di un uscire da sé per protendersi verso la menzogna di un altro, che deve essere reciso, potato, amputato, anche con spargimento di sangue, per ritornare interi nel quadrato della propria persona e richiudersi nel fortino dell’io, per il tempo necessario a cicatrizzare, a non volere, a non desiderare, non cercare, non urlare più.
Perché tanto l’amore poi torna.

Maria Grazia Calandrone

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Il posto di Felìcita

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di Melania Ceccarelli

Camminava spedita, i muscoli delle gambe brune e forti in rilievo sotto i corti pantaloncini elasticizzati. Alta, lunghi capelli neri e ricci; il seno fasciato in una maglietta rosa scollata, ingigantito da una gravidanza al quinto mese che portava come se non ci fosse. Camminava dritta, a testa alta, sulla terra rossa polverosa di quella strada alla periferia di Rio Branco, Brasile, una delle città più lontane del mondo.
Aveva vent’anni. Il suo nome, Felìcita.

Discorso ad una folla assente

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di Bruno Clocchiatti

“Durante i nostri anni insieme ho speso intere ore in compagnia di tua sorella, che ti somiglia molto ed è sostanzialmente muta. Al mutismo patologico, o addirittura all’autismo, tua sorella ha preferito il silenzio come se si trattasse di una pratica per così dire monastica – questa la mia valutazione –, e perfino una delle più severe in quanto a rigore ed intensità; tu ritieni che tale rifiuto a comunicare sia per forza correlato ad un trauma pregresso, un’impressione che del resto non mi sono mai sentito di condividere, e non per un’affinità di vedute con tua sorella, del cui mutismo in fondo ignoro le ragioni più intime, ma piuttosto per il piacere di contraddire la tua tesi, essendo le tue tesi generalmente basate su dati in sostanza incongrui, mi dico, aspetto che per un mio cosiddetto eccesso tassonomico ho sempre trovato odioso, spingendomi fino al punto in cui confutare ogni tua convinzione ha rappresentato, e rappresenta tuttora, il mio quasi esclusivo sostentamento, insieme a certe mele gialle che la donna di servizio ha introdotto furtivamente in cucina, mele pressoché rapprese che tuttavia conferiscono un pallido aroma ad un ambiente altrimenti inodore, se non asettico, benché i giornali e i documenti sparsi siano prossimi a macerare, rivelando così le stesse macchie ocra delle mele e della presente carta da lettera, consunta oltre ogni misura accettabile. Le mele, che tuttavia devo mangiare, mi hanno sempre disgustato. A tal proposito, non riesco a scindere l’immagine di tua sorella dal sapore delle suddette mele, pur riconoscendo a tua sorella il fascino del silenzio e di un aspetto ordinato e dignitoso, abiti sempre accollati ed un leggero sentore di lievito nell’alito, quasi un residuo di malattia nel respiro che trovo addirittura attraente, e in sostanza l’avversione che nutro nei confronti delle mele non ha pregiudicato il cosiddetto rapporto di necessità che mi lega alle mele stesse, simile all’opprimente pungolo che mi ha avvicinato a tua sorella e al suo mutismo che del resto, come tu sostieni, è assolutamente selettivo. Ogni volta che tua sorella mi ha rivolto la parola – in non più di una decina d’occasioni – ho avuto dal primo istante l’impressione di trovarmi di fronte a te e di discutere con te (o, per meglio dire, con una parte mancante di te), sebbene il tono di tua sorella fosse decisamente più piano e controllato, mai un picco nei sibili delle sue consonanti strascicate, e le parole di tua sorella in effetti sono ogni volta coincise con una rivelazione, magari non di natura pratica e forse nemmeno correlata al nostro rapporto, Ornella, eppure tali supposte rivelazioni mi hanno sempre scosso e, in un certo senso, hanno viziato la nostra vicenda per così dire dall’interno: in fondo, chi meglio di un familiare può toglierti la terra sotto i piedi rendendoti patetico o, meglio ancora, tanto vulnerabile da denudarti? In seguito agli incontri con tua sorella, assai frequenti ma nella maggior parte dei casi del tutto infruttuosi, ho sempre ottenuto non tanto un dato concreto sulla tua più intima natura, ti ripeto, quanto piuttosto una sensazione di smarrimento, simile a quella di un topo infilato a forza in un dedalo, sebbene – nelle rare occasioni nelle quali tua sorella abbia aperto bocca – ogni suo percorso mi sia sembrato all’istante lineare e del tutto scevro dalle tue consuete deviazioni, dalle tue perifrasi insensate, al punto che più volte ho desiderato la compagnia intellettuale di tua sorella piuttosto che la compagnia e la contiguità del tuo corpo, lo ammetto senza ritegno, considerato come anche gli espedienti più sordidi tramati dal tuo corpo mi avessero alla fine esacerbato e sfinito oltre ogni misura; la comunicazione esasperata del tuo corpo, come ora mi risulta lampante, era in sostanza molto simile al mutismo di tua sorella, essendo il tuo un corpo del quale non ho mai capito nulla, eppure le parole di tua sorella illuminavano tua sorella – e al contempo anche il pensiero di tua sorella – laddove tutto in te concorreva all’oscurità: ti capivo perfettamente, un’asserzione inconfutabile, ma alla comprensione corrispondeva poi quasi sempre un salto nel tuo buio, con rari chiarori che avevo artatamente disseminato nei nostri giorni assieme, quasi sempre dei chiarori che dipendevano da me o dalle illuminazioni che tua sorella mi elargiva a fatica, come sparuti e stentati indizi, quando avvertivo l’irrefrenabile impulso a sminuirti o a renderti ignobile, e posso affermare altresì, con minima approssimazione, che spesso le illuminazioni di tua sorella ti hanno letteralmente salvata dalle mie aggressioni per così dire costruttive, come ora mi pare addirittura ovvio, mettendo piuttosto all’angolo ogni mia legittima rimostranza. Avevo un’insaziabile fame di distruzione, come tu stessa hai asserito più volte, eppure la cosiddetta cupio dissolvi non ha mai inficiato, lo ravviso adesso, la qualità dei nostri giorni insieme, ciascun giorno è stato al contrario foriero di un nuovo grado di abulia, in principio camuffata dall’indolenza dei tuoi modi, ciò è chiaro, e in seguito assurta a quel genere di confidenza impudica e morbosa che rasenta l’affronto, tanto è vero che spesso ho rinunciato ad aggredirti verbalmente proprio perché mi sentivo troppo offeso o troppo ingiuriato, e quando infine sei ricorsa ostinatamente all’arma del tuo corpo, come l’ho presto definita, il legame è precipitato nel pozzo oscuro della recriminazione, ogni tua parola era del resto un insulto ed un veleno estirpato a forza dalle budella e dalle viscere, scagliato con la stessa impudenza con la quale una scimmia insozza i propri aggressori, ogni tuo discorso era in sostanza e senza scampo uno scarto dell’intelletto, eppure ad ogni scontro apparente (e questo aspetto ci riguarda entrambi) non corrispondeva mai una vera e propria animosità, un vero e proprio assalto: simile alle parole di tua sorella, anche la più detestabile delle insolenze veniva proferita col quel tono pacato che conoscevamo a menadito, forse perché entrambi eravamo stati educati – ma l’educazione ormai non mi riguarda più da tempo – come degli ingannatori e come dei bugiardi, tu in realtà sempre più abile di me nel raggirare la ragione, un’arte di confondere il pensiero e lo spirito che in principio ti ho addirittura invidiato e che adesso, al contrario, mi ripugna senza scampo. Ma ora ogni intimità è giunta ad un imprevisto capolinea; le mele che raggrinziscono e rimpiccioliscono stanno letteralmente evaporando come il pungolo razionale – così lo definisco – all’interno del nostro rapporto, un’evaporazione ed una dissoluzione rallentate ogni volta dalle parole di tua sorella: conoscere in te l’errore, l’errore per antonomasia, ha spesso inibito la mia rabbia, ha impedito che dilagasse proprio nel momento in cui le parole di tua sorella stavano rigirando il coltello nella carne, tanto nella mia quanto nella tua, in una maniera che infine ho trovato assolutamente subdola. Il dolore inflitto e la conoscenza del cosiddetto oggetto doloroso, un oggetto che ormai riconosco come un bubbone rimosso troppo tardi, si sono spesso ingarbugliati nei miei sensi fino a formare un rovello inestricabile ed atroce: metterò a tacere tua sorella, come ora mi dico, o sfrutterò volgarmente le sue rivelazioni per annientare te? E’ un quesito che non ha trovato ancora risposta, considerato come in realtà io non abbia mai annientato te né zittito tua sorella, rendendomi in sostanza sommamente ridicolo, benché tale indecisione fosse di certo frutto dell’indulgenza e del pudore, entrambi molto accesi in me, considerato inoltre come avessi saputo perdonarti giorno per giorno senza acredine, un affronto quotidiano al quale avevo risposto quasi sempre con la bonomia o col compromesso, un atteggiamento che a posteriori mi sento di giudicare fatale, arrivando al punto d’arrossire di fronte alle tue sciocche recriminazioni e alle tue insinuazioni più ignobili, pur possedendo i mezzi per stanarti e per portare alla luce le tue bassezze; l’oggetto doloroso, come ora ti definisco (o definisco tua sorella?), mi ha accompagnato nella maniera più subdola attraverso stagioni di letterale gelo, gelo che del resto si riflette nell’aspetto di questa casa e delle sue pareti scrostate, un bassorilievo d’intonaco che smotta lasciando spregevoli fregi sui muri, e poi ci sono le mele pressoché guaste e l’aroma delle mele che si confonde con quello della carta e dei documenti, ogni involto un malloppo di pagine sostanzialmente vuote, non dissimili da questa missiva che comincia a puzzare e a corrompere il mio respiro, che a tratti accelera come se stessi correndo verso una meta, eppure nessun traguardo – in particolare adesso – risulta sicuro e concreto, fatta eccezione per la scelta di tacere per sempre, un voto di silenzio che sto senz’altro perseguendo con i più solidi risultati. Per la prima volta dal nostro addio, mi sento finalmente in grado di rimuginare in maniera proficua sulle parole di tua sorella, sulle cosiddette rivelazioni di tua sorella che in fondo ti somigliava fin troppo, e che in fondo – con modi del tutto differenti dai tuoi – condivideva con te un’esasperazione ed un fanatismo per me null’altro che stomachevoli, come quel refolo di lievito nell’alito (lo stesso che prima ho amato e che ora mi appesta) il quale persiste tanto nel mio pensiero quanto nell’aria rafferma della mia stanza, prossima ad uno sfacelo che del resto avevo preventivato da tempo; venendo al dunque, tua sorella si era spinta ad insinuare che tu non mi avessi mai amato, che tu mi avessi addirittura tradito – un sospetto che non cambia affatto la mia prospettiva – ad ogni occasione favorevole e ad ogni tua crisi di nervi, perfettamente nascosta da un ambiguo e stucchevole contegno, e che tu ti fossi pentita di non avermi assoggettato dal primo istante come avevi fatto con altri, che avevi depredato o castrato o addirittura snaturato, rendendoli infine ciò che non erano mai stati prima, come tua sorella aveva sostenuto, per il semplice capriccio di stravolgere la cosiddetta realtà, la stessa realtà che ultimamente mi appare come un fragile simulacro, lo stesso genere di vuoto riflesso stampato sulla mia carta stropicciata e sporca, avrò scritto una decina di frasi scomposte e già la realtà mi tormenta, sebbene celata dietro a questa cosiddetta negazione della realtà che ti ha sempre accompagnata, al punto che nel tuo caso non parlerei di una mentitrice patologica quanto piuttosto di una menzogna patologica, l’oggetto che sostituisce il soggetto per ribadire infine l’essenza del nostro rapporto: una sequela di nudi fatti e di eventi inutili, tutti imbellettati e rivestiti di nauseante opulenza, finché l’estetica ha preso il sopravvento sulla ragione, appesantendo pensieri già gravi ed involuti con il fardello di una presunta leggerezza per così dire ludica, il peggior nemico del mio spirito senza dubbio analitico (posso dubitare della mia capacità di giocare?, annoto in fretta sul bordo della scrivania). Non desidero né mai più anelerò a qualcosa di leggero, fatta eccezione per certi indumenti estivi che ancora indosso sotto la giacca, un paio di maglie infeltrite che irritano la pelle e molestano il pensiero, eppure avverto un’afa insopportabile che contrasta con il gelo della casa, respiro con la bocca e con le nocche mi batto le tempie, ecco dunque che ciò che posseggo di leggero – seppur ruvido ed irritante – mi risulta improvvisamente necessario, mi ripeto che devo indossare la leggerezza, per un attimo mi tolgo la giacca e passeggio per lo studio, attorno alla scrivania, finché il pensiero non si schiarisce e allora riprendo il mio posto, con la testa reclinata all’indietro per rifuggire la nostra lettera, avvertendo stavolta una sensazione di gelo che finalmente si adatta all’ambiente; ho l’improvvisa sensazione di riconoscere, sotto l’intonaco smottato, un dipinto di Baselitz (un’illusione?), coi contorni neri e numerose figure attorcigliate, che ora più che a donne somigliano a dei biscotti bruciati, tanti biscotti bruciati stagliati sul muro come la radiografia di una malattia psichica, alla quale tuttavia non mi sento di soggiacere: la malattia incombe su noi tutti, ciò è evidente, ma finora l’ho respinta facilmente per via del mio fermo equilibrio, ogni aspetto ponderato con cura, tant’è vero che la lettera contiene a fatica una decina di frasi mirate e perfette, il mio piccolo quadro De Stijl in contrasto coi biscotti bruciati di Baselitz, un’intera parete imbandita di frollini scuri, gli stessi che tua sorella ha sempre servito con il tè, essendo in fondo tua sorella una foriera di bocconi amari, come l’ho più volte definita, sebbene tali bocconi mi siano stati null’altro che necessari per giungere al punto nel quale staziono ora, una scrivania infine lontana dalla folla degli ultimi anni, se non – in buona sostanza – lontana da te, cara Ornella, con una splendida visuale su un’opera mai tentata da Baselitz, un dipinto che nasce letteralmente dove le pareti stanno morendo di freddo e di solitudine, mi ripeto senza la minima pausa. E poi ci sono le mele gialle, la natura morta delle mele gialle coperte di efelidi ed immangiabili, che si uniscono alla mia piccola galleria di opere nascoste, un situazionismo involontario che ho scoperto solo ora, col capo reclinato e vuoto, in una casa che all’apparenza sembra ormai non contenere nulla, benché tutta la mia esperienza consista in sostanza in una sequela di aspetti nascosti e di dettagli insignificanti, ciò che vi è di più inutile ed al contempo ciò che più mi serve, ciò che in ultima analisi più mi si adatta: ars est celare artem, me lo ripeto più volte come se mi stessi osservando in uno specchio, nella posa dell’anfitrione che sfoggia la propria collezione privata, apparsa d’incanto su un muro scrostato e in un cesto di mele in fondo guaste, eppure ogni cosa risulta al proprio posto come nelle migliori occasioni, quantunque nella più inconsapevole delle maniere. Per una curiosa forma di transfert, improvvisamente mi sento di annoverare tra le opere a me più care anche il tuo livore, i tuoi tradimenti che fanno il paio con questi miei quadri involontari, e le tue bugie, in realtà delle bugie per così dire uniche, che a posteriori risultano essere state il miglior sotterfugio per trattenermi accanto a te, sebbene per breve tempo, e per fare di me, in un certo senso, un’opera straordinaria, simile a qualche bestia esotica impagliata che d’improvviso, come può accadere, dia l’impressione di aprire un occhio, di spalancare la bocca, e invece poi non fa nulla e non dice nulla, o perlomeno ciò che dice o che pare presagire passa inosservato o è scambiato per un’allucinazione, e tale mi appare ora questa lettera ed il ricordo che la lettera stessa alimenta: un’allucinazione protratta fino allo spasimo, finché creperò di fame o l’ossigeno nella stanza si consumerà, una delle due cose, e solo allora ti avrò in pugno, al culmine della cosiddetta sofferenza, con la testa reclinata all’indietro e il mio nome in calce alla missiva, missiva che del resto mi dà l’impressione d’essere già lettera morta, eppure mi fa sentire bene e ammazza il mio tempo come nulla in precedenza – nemmeno tu – è stato in grado di fare. Cosa si può chiedere di più, in fondo, ad un pezzo di carta macchiata e ad una stilografica rubata in edicola, con una donna nuda impressa sul fianco, quando tale donna non è nemmeno più del tutto visibile?”

La città bambina: scuole aperte

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Di seguito una proposta per l’anno scolastico 2020-2021 al momento indirizzata alla Regione Toscana e alla provincia di Pistoia, ma che potrebbe essere d’interesse nazionale. Per una scuola diffusa sul territorio, una didattica a contatto con le varie realtà locali, l’utilizzo di spazi altri, dagli spazi aperti ai locali di uso pubblico al momento inutilizzati a causa della pandemia. Il sogno è grande e realizzabile, se lo vogliamo (fm)

Per richiedere la lettera, ulteriori informazioni e il modulo di adesione contattare La città bambina:  lacittabambina@gmail.com

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/lacittabambina/

SCUOLE APERTE – PROPOSTA PER LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE NELL’ANNO SCOLASTICO 2020-2021 UTILIZZANDO AULE DIFFUSE SUL TERRITORIO

Gentilissime associazioni, gruppi, cooperative, dirigenti scolastici, enti

vi invitiamo a sottoscrivere questa proposta come primi firmatari, per comporre una piattaforma orizzontale di partenariato che si sta formando in questi giorni. Se siete interessati, aspettiamo entro domenica 17 maggio 2020 una vostra email (all’indirizzo in calce) con la lettera di adesione che trovate di seguito, da firmare digitalmente o con allegato il documento di identità. Il 18 maggio invieremo la proposta alle istituzioni (Regione, Uffici scolastici Regionali e Provinciali) a nome di tutti gli aderenti primi firmatari. I tempi sono stretti ma da ormai alcune settimane incubiamo l’idea ed è questo il momento opportuno per contribuire al dibattito su questi temi. Il 19 maggio apriremo una raccolta firme su change.org, rivolta anche ai singoli e ad altri gruppi e pubblicheremo la proposta, sui siti web dei primi firmatari, per promuovere il confronto. La trasmissione della proposta alle istituzioni sarà materialmente fatta dall’Associazione La Città Bambina, di Firenze, allegando tutte le lettere di adesione dei primi firmatari. In questo primo momento non occorre avere spazi né compilare il modello di messa a disposizione degli stessi, ma dopo il 14 maggio chi vorrà, e potrà, è invitato a trasmettere autonomamente la lettera di messa a disposizione di spazi.

In attesa di un vostro riscontro,
cari saluti
Firenze, 6 maggio 2020

Associazione La Città Bambina

lacittabambina@gmail.com

Alla Regione Toscana

segreteria.presidente@regione.toscana.it
regionetoscana@postacert.toscana.it
consiglioregionale@postacert.toscana.it

 

All’Ufficio Scolastico Regionale
taskforcecovid19@toscana-istruzione.it
direzione-toscana@istruzione.it
drto@postacert.istruzione.it

All’Ufficio Scolastico Provinciale

usp.fi@istruzione.it
uspfi@postacert.istruzione.it
usp.pt@istruzione.it
usppt@postacert.istruzione.it
 
Ai Comuni
protocollo@pec.comune.fi.it
comune.pistoia@postacert.toscana.it
 
 

Oggetto: SCUOLE APERTE – PROPOSTA PER LA RIAPERTURA DELLE SCUOLE NELL’ANNO SCOLASTICO 2020-2021 UTILIZZANDO AULE DIFFUSE SUL TERRITORIO

I sottoscritti trasmettono la proposta in oggetto, di seguito descritta, fiduciosi che le istituzioni recepiscano e sviluppino con interesse l’esigenza di organizzare modalità di riapertura delle scuole a settembre, anche attivando la disponibilità di spazi presenti sul territorio in modalità di scuola diffusa, coniugando la risposta alle esigenze di salute pubblica con la possibilità di instaurare un nuovo e migliore rapporto tra scuola e territorio.

La proposta

La Didattica a Distanza è stata, ed è, la didattica dell’emergenza, essenziale per dare continuità alla scuola e alla sua vicinanza a famiglie e alunni in un momento straordinario di pandemia. Niente oggi permette di escludere che questo momento straordinario sarà concluso in autunno, ma la didattica a distanza non può essere lo strumento principale con cui proseguire anche il prossimo anno scolastico. Dalla fase dell’emergenza si deve passare alla fase dell’organizzazione ed è necessario provare a pensare forme nuove che riportino la scuola in presenza. In gioco c’è l’inclusione di tutti e tutte, il benessere psicofisico dei più piccoli e l’idea di una società che si prende cura delle proprie istituzioni.

La scuola e gli asili sono stati chiusi durante questa pandemia, soprattutto per la difficoltà di garantire il distanziamento sociale. Gli ambienti scolastici erano già afflitti da sovraffollamento nonostante il calo delle nascite e una riduzione del numero di studenti per classe era e resta una priorità. Se l’obiettivo del prossimo futuro è garantire classi meno affollate, i fattori in gioco possono essere diversi, alcuni banali, almeno a dirsi:

1) aumentare gli insegnanti, riducendo il numero di studenti per classe,

2) intervenire sul tempo di permanenza a scuola, dividendo le lezioni in fasce orarie diverse, riducendo solo in casi estremi il tempo di lezione in presenza,

3) intervenire sullo spazio scolastico, offrendo più aule per la didattica in gruppo

Quest’ultimo punto merita un confronto aperto, in cui anche le strutture extrascolastiche possono dare un contributo al disegno di nuove politiche.

L’incontro tra volontà politica e disponibilità delle realtà extrascolastiche può dare vita alla sperimentazione di una diffusione dello spazio scolastico in strutture del territorio finora non deputate alla scuola. Spazi, chiusi e aperti, che fino ad oggi venivano utilizzati al massimo durante le gite di istruzione, o che rimanevano inutilizzati in orario scolastico, sono oggi potenziali aule diffuse. Per garantire uno spazio di crescita collettiva a bambini e adolescenti, le aule non devono restare più chiuse. Per riaprirle forse dovremo utilizzare, anche per il programma didattico ordinario i cinema, i teatri, gli spazi dei circoli ricreativi e delle parrocchie, le fattorie didattiche, i centri di quartiere, i centri socio-educativi, certi spazi di lavoro da visitare e conoscere, i parchi, le palestre, i sentieri del territorio, i percorsi sugli argini dei fiumi, i musei, le biblioteche e gli archivi, con una programmazione e un calendario che tutta la città e il territorio possono offrire a rotazione alle proprie scuole e alle scuole di altri luoghi che vorranno scambiare queste esperienze.

Già dalla seconda metà dell’Ottocento lo spazio scolastico si è trasformato, a partire da motivi di sanità pubblica: da palazzo senza luce si è trasformato in padiglione collegato a spazi aperti, permeato di aria e luce, prima per motivi di igiene e salute (per contrastare la tubercolosi), poi anche per sperimentazioni di pedagogia sociale. Dall’esperienza del movimento per le scuole all’aria aperta a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento sono sorte sperimentazioni che hanno influenzato il  movimento dell’architettura moderna e hanno cambiato definitivamente il modo di concepire gli spazi, non solo scolastici. Ma il rapporto con aria e luce ereditato dalle scuole all’aria aperta è rimasto spesso una potenzialità inespressa o sommessa, nelle esperienze vissute a scuola. Probabilmente anche il rapporto della scuola con la città e il territorio ha ancora molto potenziale inespresso. Forse oggi la salute pubblica può essere ancora una volta motivo per sperimentare e consolidare nuove relazioni tra scuola e città.

Cosa impedisce agli asili e alle scuole di provare ad approfittare degli spazi del territorio?

I costi e le modalità per l’apertura, l’adeguamento e la sorveglianza degli spazi, per la loro pulizia e sanificazione, per lo spostamento degli alunni, possono essere affrontati orientando risorse e sforzi organizzativi in questa direzione. La scuola è dotata di assicurazione che può essere adattata a coprire anche  attività fuori dall’area scolastica. Gli spazi extrascolastici possono essere adeguati per rispondere a requisiti  di sicurezza e di prevenzione.

Cosa può offrire il territorio alle scuole?

Le realtà presenti sul territorio possono essere chiamate da subito a proporre forme e modi di messa a disposizione di spazi e di offerte formative integrative, con lo scopo di consentire a ogni istituto di redigere prima di settembre un calendario e un protocollo di utilizzo delle aule diffuse.

FERMO RESTANDO LA NECESSITA’ DI UN INGENTE INVESTIMENTO NELL’ISTRUZIONE PUBBLICA, PROPONIAMO CHE LE ISTITUZIONI PREPOSTE PROMUOVANO UNA COLLABORAZIONE TRA SCUOLE E SOGGETTI GESTORI DI SPAZI PRESENTI IN CITTA’ E SUL TERRITORIO, PER CONSENTIRE ATTIVITA’ DIDATTICA CURRICULARE ED EXTRACURRICULARE ANCHE IN AULE DIFFUSE, SOPPERENDO ALLA MANCANZA DI SPAZI SCOLASTICI E SCONGIURANDO IL PROSEGUIMENTO DELLA DIDATTICA A DISTANZA INDIVIDUALE. TRASMETTIAMO A TITOLO DI ESEMPIO UN FORMAT PER LA MESSA A DISPOSIZIONE DEGLI SPAZI.

La mia segregazione (nuovi autismi # 33)

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di Giacomo Sartori

Devo confessare che adesso che sta per finire questa segregazione forzata non mi dispiace, ho quasi timore che finisca. Un po’ perché la mia vita ordinaria non è poi troppo differente, e quindi tutto questo mi è intrinsecamente familiare. Non sono un monaco di clausura, ma nella mia esistenza mi sono ritrovato a essere isolato, ne ho sofferto ma ci ho fatto anche il callo. Mi calmano le lunghe giornate di solitudine, nella concentrazione della scrittura e del lavoro scientifico, seduto al mio sbilenco tavolo adibito a scrivania. Mi appagano le azioni del vivere, la loro ripetizione fatta di minime ma vivide variazioni: prepararmi da mangiare, pulire, fare una lavatrice.
Ho un rapporto di timida e tormentata frustrazione con gli sfrontati piaceri che la metropoli in cui vivo è così brava a sbandierare. Mi inebria passare davanti ai caffè e alle brasserie con i tavolini all’aperto dove gli avventori bevono in compagnia e si divertono ostentatamente, e magari c’è anche il banchetto delle ostriche (adoro la semplicità selvaggia delle ostriche, nonostante i freni etici), e mi rapisce spiare dentro le vetrine dei ristoranti, pensando che mi piacerebbe così tanto entrarci e approfittare di quelle soddisfazioni così invitanti. Mi eccita provare desiderio, e nutrirlo con promesse a me stesso che non manterrò. Nella realtà dei fatti sono sempre stato deluso, le rare volte in cui sono passato all’atto, diciamo così: ho trovato tutto molto caro, non poi così buono, e rovinato da questo o quell’altro elemento triviale, dalla noiosità delle persone. E insomma non ho più avuto voglia di tornarci, in quel locale che mi aveva tanto attirato.
Sono quindi infinitamente più tranquillo ora che tutte quelle micidiali trappole di desiderio sono chiuse. Passeggio – ci vuole una autocertificazione valida un’ora, ma io da bravo italiano un po’ baro – e osservo le serrande abbassate, che mi danno un senso di ordine e di pace. Dentro di me so però che è qualcosa di davvero eccezionale: nemmeno durante la fantomatica Rivoluzione, nemmeno durante l’eroica Comune, e non parliamo dell’occupazione nazista, quando i locali giravano anzi al massimo regime, è successo.
Sono sparite dalla circolazione anche le magnifiche longilinee ragazze e le belle donne, della quale la città è sempre stata molto generosa, anche questo mi da molta pace. Sono probabilmente sfollate nelle loro seconde case, o trasferite in un paradiso disegnato da Botticelli, o semplicemente chiuse nei loro appartamenti, non saprei dire, ma insomma per la strada non si vedono più. Nemmeno una. Le poche persone in giro non sono belle, sono come me (oltre al fatto che mi passano lontano, cambiano marciapiede quando mi vedono, per paura del contagio). A guardarle bene, e questo era vero soprattutto le prime settimane, sono davvero vestite male, fanno pensare alla trasandatezza ginnica dei carcerati. E insomma mi pacifica non essere turbato da nessuna magnifica reginetta, che trasporta magari una ciondolante borsina con il gomito a angolo retto (alla maniera che io dentro di me chiamo “alla parigina”), guardando in avanti come fanno le sfingi, fingendo di non essere cosciente del suo letale fascino. Con l’età mi sono molto calmato, ma questa improvvisa estinzione aiuta le mie inclinazioni più spirituali.
Passeggio più tranquillo, molto contento anche che le automobili siano davvero pochissime, e l’aria sia buona. Cammino tra le case e fantastico di altre realtà e altre vite, che è quello che ho sempre più amato. Dovrei limitarmi al raggio di un chilometro da casa mia, ma pure in questo faccio l’italiano: pur restando nella parte povera della città, spazio molto di più. Quando mi salta il ticchio scatto qualche fotografia con il telefono. Relitti umani sdraiati per terra nella loro sporcizia, fragili fattorini di merci e cibi acquistati sulla rete, o precarie scritte sui muri, inebetite persone sole sedute su una panchina, piccoli ingressi di lerci albergacci, che a differenza di quelli di lusso hanno continuato la loro attività. A volte ne pubblico poi una su un social del quale faccio parte, ricevendo qualche sparuto like. Mai come in questo momento ho avuto la percezione del tirannico conformismo all’acqua di rose che domina su quel social di immagini, mai come ora l’ho percepito come la bacheca di uno sgualdrappato occidente alla deriva, con i suoi gatti e cani, foto di fiori e lussureggiamenti vegetali (siamo pur sempre in primavera), selfie, copertine di libri, immagini di vacanze precedenti al virus.
Non ci sono belle ragazze, ma in compenso ci sono tantissimi animali, e io ho un legame istintivo con le bestie. Loro non mi turbano, mi stupiscono e mi allargano il cuore. Fuori dalla finestra del mio studiolo sembra una voliera, non si è mai visto un tale via via di uccelli. Per le strade sono spuntati molti gatti, i ratti ti guizzano adesso tra le gambe, e lungo il canale non lontano da casa una coppia di cigni ha fatto il suo enorme nido proprio a lato della strada, e si danno il cambio per covare. Nel canale stesso i pesci saltano nell’aria come delfini, tutti contenti che nessuno gli rompa le scatole.
Ma intendiamo, a parte un’uscita giornaliera sto ligiamente confinato nel mio appartamento molto piccolo, dove certo molti altri soffrirebbero. Io però sono figlio di un alpinista, e da ragazzino adoravo i libri di montagna che leggeva mio padre, nei quali si trattava di resistere in condizioni estreme e tendine minuscole, e anzi questo era un modo per confrontarsi con i propri limiti e per migliorare se stessi. Adoravo anche i resoconti che leggeva mia madre delle solitarie traversate oceaniche di Sir Chichester, e anche lì c’erano spazi angusti e aperture metafisiche. Paradossalmente pure nei libri di guerra, da bravo ex-fascista mio padre ne aveva tantissimi, trovavo quella stessa tensione tra sofferenza e appagamento.
Se fosse un veliero il mio appartamento sarebbe un nove metri. E’ piccolo, ma c’è tutto quello di cui ho bisogno, e credo che in uno spazio più grande starei peggio. Nella minuscola cucina la credenza è in un cassone sospeso nel vuoto che sporge dalla finestra: bisogna aprire le ante per accederci. Mi piace fare il cambusiere di me stesso, mi diverte calcolare per quanto tempo posso resistere. Anche se in realtà mangio per lo più riso e lenticchie, quindi con qualche chilo di riserve posso andare avanti a lungo. Vado raramente al supermercato, come approderei a un porto per imbarcare acqua e farina, e poi tiro avanti per settimane. Non devo attraversare l’oceano, devo traversare questo periodo nel quale diverse persone sono all’ospedale e muoiono.
E poi non esageriamo, la solitudine di questi giorni è molto relativa, sono pur sempre accompagnato dalla cacofonia dei social, sovraffollati dalle immagini e dalle parole di tutte le altre solitudini, dalla fitta pioggia di informazioni, dalle interpretazioni che parlano e straparlano del presente, dai grafici e dalle cifre, senza parlare delle centinaia di eventi di rimpiazzo da vedere on-line, dai volonterosi surrogati di realtà sociale, le presentazioni di libri a distanza, le migliaia di filmati e concerti da gustarsi, l’immensità della rete. E ci sono soprattutto le videochiamate, che mi tolgono il disagio del telefono, mostrandomi gli occhi, e le parole dei corpi (i corpi non smettono di parlare) a cui voglio bene.
La vera solitudine l’ho sperimentata, è ben altra cosa. Molti anni fa mi sono ritrovato a vivere in una città africana che era sede della legione straniera e di altri eserciti, e che era in realtà un immenso postribolo. Le strade erano postriboli, i caffè erano sordidi postriboli, e peggio che peggio i ristoranti e il porto: non avevo dove andare. Era troppo caldo per passeggiare, ammesso che si potesse passeggiare: non c’erano vie con marciapiedi, non c’erano giardini, fuori dalle baraccopoli che delimitava quella Gomorra non c’erano coltivazioni (anche se teoricamente ero lì per quello), non c’era natura, solo un infuocato paesaggio roccioso. Avevo uno stipendio, ero lì per guadagnare, ma non avevo lavoro. Il lavoro doveva sempre cominciare, e non cominciava mai.
Avevo una villetta tutta per me, e perfino un grande fuoristrada con il quale avrei potuto andare dove mi pareva, se ci fosse stato qualche posto dove andare. Non potevo telefonare se non qualche minuto ogni tanto, perché i prezzi erano proibitivi. Internet non esisteva, e non avevo televisione. Avevo una piccola radio, che però non sono mai riuscito a funzionare. Passavano le settimane e i mesi, e c’era solo quel vuoto che mi distruggeva, quel sopravvivere senza fini e senza senso, senza contatti con altre persone. Quella di adesso non ha niente a che fare con quell’angoscia che mi stringeva la gola, è la condizione di una persona che ha bisogno di isolarsi per scrivere dei libri, che ha scelto di fare quello nella vita.
Ma certo in parte la prendo così anche perché per me è tutto sommato un buon periodo. Ho risolto dei nodi che mi hanno fatto soffrire per tantissimo tempo, ho incontrato una persona che considero un dono che mi ha elargito qualche divinità: ci parliamo ogni giorno, so che la ritroverò quando ci lasceranno viaggiare. Il mio ultimo romanzo è uscito in autunno, non è stato travolto di petto come è successo a tanti altri libri. E perfino sul piano economico non sono messo malissimo, ho qualche mese di autonomia, un contratto già firmato per un nuovo lavoro scientifico di qualche altro mese. So benissimo che per molte persone ci sono ansie economiche, anche drammatiche, e relazionali, e io stesso, in altri periodi meno fasti, penerei molto di più.
Del resto pure io per qualche settimana sono stato, all’inizio, molto turbato. Provavo una grande rabbia. E anche angoscia, sotto la quale trovavo, scavando bene, collera. Rabbia per la prevedibilità – l’imprevedibile prevedibilità – di quello che succedeva. L’imponente macchina capitalistica entrava in tilt per quei suoi eccessi e quella sua sconsideratezza che io avevo sempre criticato e vituperato, e che per la mia formazione scientifica e il mio lavoro conoscevo meglio di altri. Ora succedeva davvero, e io ero impotente, mi sentivo anzi corresponsabile. Non avevo fatto abbastanza, non mi ero impegnato a fondo, non avevo militato, e anche adesso me ne stavo con le mani in mano. E rabbia perché attorno a me vedevo solo nostalgia del passato, fretta di ritornare a quella pazzia collettiva di consumi e sprechi e materialismo che aveva causato la pandemia, e che certo, se si fosse riaffermata, avrebbe provocato in poco tempo danni ancora più devastanti, con il loro inevitabile corollario di guerre e morte.
Mi dicevo che dovevo cambiare tutto nella mia vita, dovevo militare e battermi. Non potevo limitarmi ai miei inermi studi sulla terra, per quanto potenzialmente benefici possano essere, nella loro piccolezza, per una conoscenza dell’ambiente, non potevo restare chiuso nel solipsismo dei miei testi letterari. Nella foga ho scritto e pubblicato nel mio paese di origine un accorato appello a limitare drasticamente il consumo di carne, come misura concreta per cominciare a venire immediatamente a patti con la cosiddetta natura. Nessuno lo ha appoggiato, nessuno ne ha parlato, erano tutti occupati con la contabilità dei morti e le meccaniche della malattia, le allucinanti risposte del potere, così simili nei due paesi della mia vita. In qualche settimana le libertà personali e le più elementari basi della democrazia erano state spazzate via. Ci si accorgeva che non era poi impossibile che il capitalismo affrontasse davvero un problema ambientale da lui stesso causato, come si era sempre pensato: lo faceva perdendo però per strada la democrazia. Che è un po’ come spegnere il fuoco usando il sangue delle persone. Alla luce dell’esperimento preliminare che stiamo vivendo, l’ineluttabile via del futuro sembra rivelarsi quella. Ne ricavavo altra angoscia, che a ben vedere era rabbia.
Poi un po’ alla volta ho capito che non sono il centro del mondo, non posso essere il suo salvatore, seguo anch’io quello che succede, come tutti. Magari davvero quello che sta accadendo è l’inizio dei rivolgimenti che porteranno guerra e morte, non lo posso sapere. Ho però un piccolo margine di manovra. Ho anch’io paura della morte, come è d’uso nelle nostre società materialistiche, ma posso lavorarci sopra. E a ben guardare qualcosa nel mio piccolo faccio anch’io. Nel mio lavoro ho sempre cercato di fare capire che i terreni sono fondamentali per la sopravvivenza dell’uomo, e che vanno risparmiati e trattati bene. E anche nei miei romanzi i temi dell’ambiente e delle relazioni tra gli uomini sono al centro. E’ già qualcosina, anche se certo cercherò di impegnarmi di più. Adesso so che seguirò quello che succede, e proverò a fare il mio meglio. Per il momento assaporo la mia solitudine, che è sintonia con me stesso e con la morte, e coltivo il mio giardino.

 

(nella traduzione di Frederika Randall, questo pezzo entrerà nell’e-book dedicato alla pandemia che la casa editrice di Brooklyn Restless Books pubblicherà a fine mese, con i contributi di molti loro autori di vari paesi; i ricavati di questo instant book  andranno alla Book Industry Foundation, organizzazione che sostiene le librerie in difficoltà)

 

Delirio paranoide speculare. Il tema della Guerra fredda nelle serie TV

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di Paolo Trama*

1. Paranoia speculare da guerra fredda

Psicosi collettiva del complotto, delirio persecutorio socialmente normalizzato: The Americans (FX 2013-2018) e Deutschland 83/86 (Sundance TV 2015 e 2018[i]) tematizzano l’emozione culturale di una “paranoia speculare”, costituita dalla dialettica tra l’ossessione del pericolo rosso e lo spettro del consumismo borghese e imperialista, attraverso strategie narrative e un immaginario sostanzialmente affini.

Sotto il segno di un più generale revival degli Eighties, fenomeno di cui pure in queste pagine si dovrà tenere conto, sono, forse più di altre, queste le due serie che si fanno notare per la scelta di appuntare l’attenzione su quella che Hobsbawm definisce “Seconda guerra fredda” (1997: 288), dalla metà degli anni ’70 circa. Se, infatti, fino agli anni ’70 si tratta in prevalenza di “Pace fredda”, secondo ancora la definizione di Hobsbawm (1997: 192)[ii], nei primi anni ’80 la tensione sale:

Gli scenari concitati di un attacco nucleare, che venivano previsti e propagandati dai governi e dagli strateghi della Guerra fredda nei paesi occidentali nei primi anni ’80, erano creati dal nulla. Essi ebbero peraltro l’effetto di convincere i sovietici che un attacco nucleare preventivo da parte dell’Occidente ai danni dell’URSS era possibile o perfino imminente, come parve loro in certi momenti durante il 1983. (1997: 292)

E, se i Summit di Reykjavik (1986) e Washington (1987) segnano il cosiddetto “inizio della fine” (prima della caduta del Muro), ciò non significa che la pervasività dell’emozione culturale circolante tra i due blocchi si vada attenuando.

Prendiamo, ad esempio, una di quelle che potremmo definire, rispetto al nostro ambito di osservazione (la tematizzazione della Guerra fredda), “serie TV indirette”, cioè prodotti televisivi seriali che includono riferimenti più generici a quel clima[iii]: una di queste è certamente Chernobyl (Sister Pictures, The Mighty Mint, Word Games 2019), ambientata, come è facile intuire, nel 1986. Durante il secondo episodio si assiste a una scena in cui due scienziati che si trovano in Bielorussia, dunque a una certa distanza dal sito del disastro, si allarmano per l’improvviso impennarsi dei rilevatori di radiazioni nucleari, scambiandosi battute di dialogo di tale tenore:

– 8 milliroentgen. Una perdita?

– No. Sarebbe scattato prima. Viene da fuori.

– Gli americani?[iv]

Non molti anni dopo, si entrerà in un nuovo clima di tensione determinato dalla minaccia del terrorismo internazionale di matrice fondamentalista-islamica. Interessante questo breve dialogo, presente in Homeland (stag. 2 ep. 10), dove due navigati agenti della CIA, a colazione, discettano dei diversi sistemi di regole non scritte, vigenti tra l’era della guerra fredda e quella del terrorismo internazionale:

– Mi manca la Guerra fredda.

– Preferisci la minaccia di un olocausto nucleare?

– Nooo, mi mancano le regole: loro non sparavano a noi e noi non sparavamo a loro.[v]

Dopo aver ricordato, per inciso, che ci troviamo negli anni della Guerra d’Iraq (2003-2011), qui la nostalgia del clima da Guerra fredda sembra colorarsi di un cinismo da spie inveterate: dopo tutto, a detta dei due personaggi in scena sovietici e americani hanno vissuto di una tensione costante ma, a suo modo, ‘regolata’.

E così, appare evidente, quanto meno da quelle qui scrutinate, che sia le serie che tematizzano direttamente la Cold War, sia quelle che lo fanno in maniera solo tangenziale, fanno di preferenza riferimento all’ultimo segmento temporale di quel periodo storico. Proveremo solo alla fine ad azzardare qualche spiegazione.

 

  1. Rappresentazione degli spazi e dinamiche attanziali

Nella acclamata e pluripremiata serie americana The Americans[vi], “period drama” o “period spy thriller”[vii], gli attori del conflitto sono distanti (USA e URSS), ma la serie si concentra su emissari annidati nel cuore pulsante stesso, da un punto di vista strettamente geografico, del potere di uno di quei due attori. Spie sovietiche (ufficiali del KGB) lungamente addestrate, si spacciano per americani “veri”, dopo aver sottratto la loro identità a cittadini americani morti: si tratta dei cosiddetti «illegal resident spies».

In realtà, sebbene inseriti in filoni narrativi laterali, non mancano agenti del controspionaggio dell’FBI che cercano di arruolare elementi dell’ambasciata sovietica come spie americane. Dunque, i vettori delle forze in campo sono bidirezionali, ma essi si dipartono sostanzialmente da Washington, dove risiedono Philip ed Elizabeth Jennings[viii] coi loro figli, ma dove si trovano anche l’ambasciata sovietica e il centro della counterintelligence dell’FB[ix]; non mancano peraltro vari momenti in cui l’ambientazione si sposta in URSS, sia per illuminare la gestione decisionale politica in azione dall’altra parte della cortina di ferro, cioè presso centri del potere in URSS (a Mosca, in particolare, dove si trova il “Center” operativo del KGB), sia per lasciare spazio a vari flashback circa la vita dei due agenti nei loro luoghi d’origine[x].

Deutschland 83/86 si concentra narrativamente, invece, su quello che è il punto di contatto più sensibile tra le aree corrispondenti ai blocchi contrapposti: la serie si svolge tra Berlino e Bonn: dunque, in questo caso, gli agenti del conflitto sono geograficamente contigui. Se è pur vero, ancora una volta, che il personaggio principale è una spia dell’est in grado di infiltrarsi nei gangli dell’esercito della Germania federale, tuttavia, come vedremo, sia la serie che il suo sequelelaborano in modo assai diverso la dialettica tra spazi e agenti del conflitto.

Più in generale, quindi, manifestano uno spiccato spessore simbolico le specifiche modalità con cui i personaggi principali delle due serie, sin dalle rispettive sigle (come vedremo), occupano i ruoli e abitano gli spazi-chiave del conflitto tra blocchi contrapposti e si muovono all’interno di tali spazi, modificando via via le loro dinamiche attanziali.

L’ipotesi è che, seguendo un approccio funzionale e topologico di questo tipo, non solo dovrebbe emergere la specificità dei due prodotti seriali in questione, ma dovrebbe essere anche possibile ritagliare la peculiare declinazione cui vanno incontro i due nuclei tematici dominanti comuni che scorrono sottotraccia alle strutture narrative ricorrenti: il conflitto e la paranoia.

 

  1. Un conflitto (strisciante) a scatole cinesi

In effetti, le due serie articolano la rappresentazione del conflitto in modi alquanto diversi. E l’ambientazione geografica, ovvero, la distribuzione materiale degli spazi nella rappresentazione seriale, spiega solo in parte le scelte di seguire secondo certe modalità le traiettorie che in quegli spazi i personaggi disegnano.

Partendo da questi dati materiali della fiction (rappresentazione degli spazi e traiettorie dei personaggi[xi]), dovremmo giungere a individuare i due nuclei tematici di cui si è detto, ma declinati in modo diverso e dunque fecondi anche per ritagliare le specificità formali delle due produzioni seriali.

Al di là del ritmo visivo forsennato e della musica incalzante (il tema di Nathan Barr, compositore statunitense, non a caso, presenta sottili influenze russe[xii]), la sigla di The Americans è tutta costruita su reduplicazioni speculari[xiii], col frequente ricorso alla schermata in split, oppure con immagini contrapposte collocate in sequenza. I caratteri cirillici e quelli latini, così, sono compresenti o si alternano; c’è una fitta teoria di immagini ispirate allo stesso soggetto (l’astronauta, il bambino, la donna, il ballerino, il soldato, oltre a personaggi al potere in quegli anni), che vengono però a confliggere attraverso le traduzioni ideologiche che le simbolizzano in modo differente.

Qui, infatti, il nemico è interno a plurimi livelli: non solo si incarna in un’intera famiglia di spie sovietiche acclimatate nei sobborghi di Washington, ma, nelle forme di conflitto interiorizzato, si insinua e si insedia sin nelle coscienze dei due protagonisti, dimidiati tra la cieca fedeltà alla loro missione e le illusorie seduzioni del liberalismo borghese. La struttura narrativa, insomma, viene a configurarsi come una serie di scatole cinesi abitate da forze interne contrapposte sempre più invasive, fino a coinvolgere il singolo personaggio, che risulta agitato da contrasti insanabili. Il “pungiglione”, allora, un riferimento ai tristemente famosi missili “stingers” usati come spauracchio, che danno il titolo a un particolare episodio[xiv], può assurgere a correlativo dell’intera serie: il simbolo di un conflitto continuamente rigenerantesi, che si rinnova in ogni cellula dei due organismi a contatto.

Tanto per fare un esempio, c’è una frase assai significativa pronunciata in russo da Arkady Ivanovich (l’ex direttore della Rezidentura, ormai epurato) e rivolta a Oleg[xv], anch’egli un tempo a capo del Direttorato X, un dipartimento del KGB: «L’intero Paese si sta dividendo», con evidente riferimento all’URSS. Significativo che i livelli del discorso siano due e che entrambi implichino una scissione interna ad un sistema: l’uno esclusivamente istituzionale-politico; l’altro, tanto istituzionale quanto privato-relazionale. Infatti, il piano primario del discorso riguarda il vertice di Washington per la stipula di un noto trattato sulla limitazione degli euromissili[xvi]: Arkady è seriamente preoccupato per le manovre che i nemici interni al Partito stanno ordendo contro Gorbacev, affinché il vertice fallisca. Nello stesso tempo, però, c’è un piano discorsivo più specifico relativo al conflitto matrimoniale[xvii] che si è scatenato tra Philip, ormai renitente a svolgere ogni mansione da agente segreto, ed Elizabeth, tetragona nel rispettare gli ordini che le vengono impartiti dal Centro. Oleg, a detta di Arkady, dovrà approfittare di tale dissidio per spingere Philip a spiare la moglie e scoprire chi siano coloro che tramano contro la nuova strategia “ufficiale” tenuta dal leader sovietico. Insomma, se la frase è riferita all’URSS di Gorbacev, sembra incarnare a tutti gli effetti un motto estensibile all’intera costruzione narrativa di The Americans.

 

  1. Il «circolo vizioso dei propri antagonismi»

Deutschland 83 e 86, di produzione tedesca, seguono delle logiche narrative ben più prevedibili, ruotanti emblematicamente intorno all’unico protagonista, il cui sistema assiologico – sostanzialmente saldo e coerente – propone meccanismi di identificazione meno complessi, in relazione al suo costante sforzo di indurre a un dialogo “ecologico” le parti ideologicamente contrapposte.

Fin dalla sigla d’apertura si accampa dominante l’immagine del protagonista, sebbene non manchino anche qui figure “speculari”: riproduzioni di cartine geografiche, immagini di repertorio mescolate a quelle attoriali. In realtà, qui si segue più la tecnica del puro collage che, come invece accadeva in quella di The Americans, una strategia compositiva che ruoti intorno a una struttura speculare dinamica[xviii].

Un giovane tedesco dell’est, Martin Rauch (nome in codice: “Kolibri”), viene inviato, suo malgrado, dall’HVA (agenzia di spionaggio-intelligence straniero della STASI) dall’altra parte del Muro per spiare i piani della NATO[xix]. Anche in questo caso, l’identità è quella di un ufficiale morto (Moritz Stamm); anche in questo caso, il nemico, se visto dall’Ovest, è interno e ignoto. Ma, pur seguendo alcune delle stesse logiche della serie americana, qui abbiamo un protagonista che opera costantemente per soffocare quei focolai di infezione che si aprono lungo il confine tra gli schieramenti, causati dal sospetto elevato a strategia da parte di entrambi i blocchi ideologici.

Qui a Kolibri tocca ridecodificare testi trasmessi da uno schieramento all’altro o sottratti dall’uno all’altro, inquinati dal rumore “bianco” della sindrome paranoide[xx].

Come la sigla preannuncia, dunque, Martin, il protagonista, è sempre in movimento, corre affannosamente (ben più di un fotogramma della sigla lo ritrae in questa posa) da un confine all’altro delle due Germanie divise dal Muro, nel costante sforzo di sedare la tensione pervasiva, inducendo a un dialogo “ecologico” le parti politicamente contrapposte. Il “Kolibri” volteggia, attraversando di continuo il confine, per scongiurare la minaccia di un disastro nucleare costantemente annunciato e sbandierato da regimi dominati da un reciproco sospetto paranoide: «essendo la paura del pericolo nutrita sempre dal sospetto, il potere della paura è un potere del sospetto» (Tarizzo 2007: 66). Sebbene tratta da tutt’altro contesto, si potrebbe ricorrere a una riflessione di Žižek dedicata a certi meccanismi ricorrenti nell’immaginario dei nostri tempi: «l’orrore di una società come meccanismo contingente che segue ciecamente la sua strada, presa entro il circolo vizioso dei propri antagonismi.» (2016, p. 374).

 

  1. Un dialogo paranoide-speculare

Dunque, la dialettica tra attanti e spazi del conflitto è di certo parte integrante del nucleo tematico delle due serie, ma l’altro aspetto interessante, pur sempre strettamente legato al conflitto, concerne il ricorso a un dispositivo narrativo-chiave che si fa motivo dominante in quanto “emozione culturale”[xxi], ovvero il dialogo paranoide[xxii].

Nell’episodio 7 sono sul proscenio ancora una volta due funzionari, stavolta però entrambi afferenti al Blocco est, uno tedesco e uno sovietico; ecco alcune battute del dialogo tra i due:

– questo caso RYAN è soltanto una speculazione. Se continuate così, potrebbe scoppiare una Guerra atomica. Aleksjei, e se la vostra fosse soltanto una fantasia paranoide?[xxiii]

– Pensi che sia paranoide che Andropov voglia colpire, prima che la NATO elimini il nostro comando centrale?

Visto il tema prescelto e il contesto storico di riferimento (la Guerra fredda, appunto), il più classico degli statuti nosografici della paranoia, ovvero quello dell’“io contro tutti”, viene tradotto sul piano estetico in un ben più sfumato modello psichico duale, relazionale e sociale, intessuto di proiezioni e identificazioni proiettive tentacolari, reciproche e speculari, di fantasie persecutorie e di schemi interpretativi di ispirazione e stampo complottista.

Per articolare quest’altra faccia del nucleo tematico, approssimandosi così alla modellizzazione teorica di meccanismi sociali – cioè non più e non solo individuali – dominati dalla paranoia, può essere utile provare a coniugare una teoria sul dialogo (e sul conflitto) tra culture, come quella elaborata da Lotman, con una definizione di “delirio interpretativo”.

Ma prima ripercorriamo un segmento, tratto ancora dall’episodio 7, della telefonata in cui Martin tenta disperatamente di convincere la zia (agente segreto della STASI, infiltrata a Bonn come rappresentante della cultura) del fatto che la cosiddetta “Able Archer”, nome in codice della simulazione di un’escalation globale fino allo scoppio di una guerra atomica, sia davvero tale:

– Able Archer è solo una guerra simulata.

– Sempre il solito ingenuo.

– Nooo, voi state prendendo un abbaglio!

[…]

– La simulazione è un’eccellente copertura per una vera guerra.

– Ma così rischiate di scatenare una guerra vera!

Insomma, Martin mette l’accento sul realismo dei dettagli, ma solo per evidenziare lo statuto di dissimulazione dell’evento. In questo senso, si tratta di una scena esemplare: se una simulazione dissimula una guerra vera, quale potrà mai essere una simulazione “vera”, una “vera” simulazione? Il «circolo vizioso» è ormai inattaccabile, chiuso com’è su se stesso e privo di vie d’uscita.

Partiamo allora da una definizione “individuale”, secondo la quale nel delirio vi sarebbe:

fissazione ad un certo stadio del processo interpretativo che resterebbe così bloccato su alcuni patterns immutabili attraverso i quali nuovi eventi sarebbero riconosciuti senza feedback modificatore, in modo che, a poco a poco, la distanza – l’ambiguità – tra patterns di riferimento, che servono al riconoscimento, e gli eventi nuovi da riconoscere, diventa sempre maggiore, fino al punto che il processo stesso di riconoscimento si blocca e riuscirà a sopravvivere solo rinchiudendosi su se stesso.(Atlan 1986: 128)[xxiv]

Sebbene qui ci si trovi ancora in una sfera individuale, quella, per intendersi, del “io solo contro tutti”, spicca l’opposizione «patterns di riferimento» vs. «eventi nuovi da riconoscere», euristicamente efficace. Il passaggio successivo prevede il tentativo di integrarla con una visione dialogica (e quindi relazionale-sociale) dei meccanismi di trasmissione della cultura; così, ricorrendo alle indagini di Lotman sulla semiosfera, va tenuto conto che:

il dinamismo delle coscienze ha bisogno – a qualunque livello culturale – della presenza di un’altra coscienza che, autonegandosi, cessi di essere «altra» nella stessa misura in cui il soggetto culturale, creando nuovi testi nel processo di scontro con un altro, cessa di essere se stesso. (1985a: 127)

Perché dunque ci sia dialogo, c’è bisogno di simmetria, asimmetria ed enantiomorfia: un polo della comunicazione si fa un’immagine dell’altro per assimilarlo nella coscienza; è vero sì che il testo dell’altro viene adattato al proprio codice (immagine enantiomorfa, cioè una traduzione e trasformazione, un rovesciamento del codice altrui, un doppio speculare), ma il dialogo si dinamizza quando l’altro polo, dopo essersi confrontato con tale immagine, può chiarire il suo ruolo nella dialettica relazionale. E, tuttavia, tali processi sono assai delicati:

Il doppio ruolo dell’immagine interiorizzata, a cui si richiede di essere tradotta nel linguaggio interno della cultura (cioè di non essere «estranea») e nello stesso tempo di essere «estranea» (cioè di non essere tradotta nel linguaggio interno della cultura), genera conflitti molto complessi, segnati a volte dall’impronta della tragicità. (Lotman 1985a: 125)

La dimensione paranoide della comunicazione si manifesta nella traduzione irrigidita nel proprio codice del messaggio dell’altro. I meccanismi generatori di senso si bloccano perché quello che è il normale funzionamento dei processi comunicativi, cioè la traduzione nel proprio codice attraverso l’interiorizzazione dell’estraneo all’interno del proprio mondo, perde elasticità e si blocca sul raddoppiamento speculare. Si ha sì un doppio enantiomorfo, cioè una traduzione rovesciata nel proprio codice, che però non viene ri-adeguata al contesto reale, che non ritorna a conformarsi al principio di realtà.

Rispetto alla paranoia descritta classicamente come un “io contro tutti”, qui abbiamo un dialogo a sfondo paranoide: non una psicosi classica, bensì un’emozione culturale-collettiva che circola nell’immaginario di entrambi gli interlocutori.

 

  1. Il Revival degli Eighties come emozione culturale

Infine, anche grazie all’analisi comparativa con altre serie TV, che in maniera più o meno diretta fanno riferimento allo stesso tema (su tutte, la 3a stagione di Stranger Things[xxv]), si proverà ad articolare qualche tentativo di riflessione sul perché la gran parte di esse (comprese chiaramente le due in primo piano) limiti i riferimenti storici agli anni ’80, rientrando quindi nel più generale Revival degli Eighties[xxvi], così diffuso in questi ultimi tempi. E ciò, nonostante la tematica della Guerra fredda sembri ben poco consona all’edonismo reaganiano imperante, pure evidente in altre scelte estetiche dei vari prodotti qui evocati; quasi che il tardo capitalismo che in quel torno di anni prende forma, e che a tutt’oggi perdura, abbia per certi versi bisogno di identificare un conflitto incarnato, manicheo.

Le motivazioni possono essere varie: non manca un’ipotesi, dall’impronta generazionale-economica, secondo cui l’industria culturale seguirebbe cicli trentennali; è così che i creatori dell’immaginario più attuale attingerebbero all’universo mitizzato della loro adolescenza / giovinezza: in questo caso, agli anni Ottanta, «un’epoca in cui la Guerra fredda poteva essere War Games»[xxvii].

E in effetti tale ipotesi ben si attaglia all’approccio parodico di una serie come Stranger Things: assai significativa è la scena, presente nell’episodio 3 della terza stagione, in cui due dei giovani protagonisti sono impegnati “a fare spionaggio” e devono identificare, nel via-vai di un mega centro commerciale, degli “evil Russians”, cioè dei sovietici infiltratisi in territorio americano e colpevoli di tramare un’operazione militare che sfrutta forze sotterranee malvage soprannaturali[xxviii] per sovvertire l’imperialismo americano. Il dialogo tra i due prevede, tra le altre, le seguenti battute:

– vedi niente?

– non so assolutamente cosa devo cercare.

– russi malvagi.

– sì, esatto, non so che aspetto ha un russo malvagio.

– alto, biondo, che non sorride. Devi anche cercare auricolari, mimetica e borsoni.

– capito, ok, borsoni.

Che poi a essere identificato come russo malvagio sarà un malcapitato insegnante di aerobica, poco conta: proprio questa dimensione parodica e vintage per adolescenti lascia intuire quanto diffuso sia il topos della Guerra fredda, in stretta connessione con gli anni Ottanta. Del resto, i creatori della serie hanno intenzionalmente coniugato horror e science fiction con quell’ambientazione, per una sorta di omaggio autoironico e parodico al suo immaginario.

Altro esempio: lo spunto cronachistico per la creazione di The Americans è stato lo scoppio, nel 2010, dello scandalo “The Illegals Program”, quando dieci spie russe ‘dormienti’ furono arrestate dall’FBI; tuttavia, Weisberg, il creatore della serie, dopo aver pensato agli anni ’70 perché di quell’epoca amava, come egli stesso ebbe a dichiarare, “the hair and the music”, preferì un’ambientazione nell’era di Reagan, dominata appunto dal mito dell’“Evil Empire” (Rives-East 2019: 2017).

Eppure, l’ipotesi di una ciclicità dei Revival potrebbe non bastare; a fronte di questa mitizzazione dell’edonismo incipiente, dell’inizio del turbocapitalismo, la nostalgia del conflitto potrebbe avere altre radici. L’altra ipotesi, che del resto non esclude quella appena esposta, sarebbe che gli anni ’80 segnino la fine della contrapposizione ideologica e l’inizio del post-moderno: queste serie sarebbero marcate dagli ultimi bagliori di un mondo drammaticamente immerso in un conflitto che si sta avviando verso la fine dei blocchi e il dominio del cosiddetto tardo capitalismo.

Una formazione di compromesso? Pur nelle assai differenti declinazioni stilistiche (la parodia horror adolescenziale di Stranger Things; il pop acido e libertario di Deutschland 83; il cupo pessimismo drammatico di The Americans), queste serie si muovono su una sorta di crinale rappresentativo: tra un’età al suo crepuscolo, attraverso il ricorso all’immaginario di un conflitto che si rigenera attraverso meccanismi di dialogo paranoide, e un sistema incipiente, dominato da un capitale soft ma onnipervasivo, pur sempre minacciato, sebbene da tutt’altro blocco, quello del terrorismo di matrice fondamentalista-islamica (ma questa è tutt’altra storia):

Le onde della cultura si muovono nel mare dell’umanità. Questo fa sì che i processi che si verificano siano inseparabili dall’esplosione delle emozioni collettive. […] il funzionamento del meccanismo culturale produce emozioni collettive spontanee […] Esiste un indubbio rapporto fra il rapido progresso tecnico-culturale dell’Europa rinascimentale, l’accelerarsi del ritmo della vita, il dinamismo dello svolgersi dei processi storici da un lato e l’amoralismo dell’élite culturale e il terrore che si era impossessato degli strati medi e retrivi della società dei secoli XV-XVII. […] L’andare avanti ha prodotto un andare indietro. La fiducia nella potenza dell’uomo e il timore delle brutte conseguenze di questa potenza hanno camminato mano nella mano. Fenomeni analoghi si osservano anche nel XX secolo.  Lo studio della semiotica della cultura ci conduce così alla semiotica delle «emozioni culturali». (Lotman 1985b: 144-145)

 

* Questo testo è frutto della rielaborazione di un intervento sul tema “La rappresentazione della guerra fredda nelle letterature e nelle arti (1947-1989)”, Laboratorio Malatestiano – Seminario inter artes, tenutosi presso la Rocca Malatestiana – Santarcangelo di Romagna, il 27-28 settembre 2019.

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Note

[i] Concepita come una trilogia: la terza stagione sarà ambientata nel fatidico 1989.

[ii] Si legga anche questa incisiva caratterizzazione del periodo, ad opera dello stesso autore: «conflitto oscuro tra i loro servizi segreti, ma nessuna decisione fondamentale presa dai governi» (Hobsbawm 1997: 270)

[iii] Tra le quali ci sarebbero da annoverare un po’ alla rinfusa: The Man in the High Castle (L’uomo nell’alto castello, Amazon Studios, Scott Free Productions 2016-2018); la terza stagione di Stranger Things (Camp Hero Productions, 21 Laps Entertainment, Monkey Massacre 2019), 1983 (The Kennedy Marshall Company 2018), oltre alla mini docu-serie Wormwood (Fourth Floor Productions, Moxie Pictures 2017) e all’episodio finale della seconda stagione di Mad Men (episodio n. 13 della seconda stagione, AMC 2008) in cui viene evocata la crisi missilistica cubana.

[iv] Ep. 2; «The Americans», in originale.

[v] Homeland (Showtime Networks 201-in corso); stag. 2, ep. 10.

[vi] Il creatore della serie, ambientata tra il 1981 e il 1987, è Joe Weisberg, non a caso una ex spia della CIA. Sugli aspetti strettamente storici e sulla verosimiglianza dell’impianto complessivo, si veda Del Pero 2015, pp. 656-660.

[vii] “period”, nel senso di serie TV ambientata in un preciso periodo passato (gli anni Ottanta, appunto).

[viii] Definibili quindi come Russians illegals (Nadezhda e Mikhail o Mischa).

[ix] La “Rezidentura”, al cui interno si muovono quelli che possiamo definire “Russians russians”.

[x] Su cui, cfr. Del Pero 2015: 650. Per l’incredibile ricchezza delle ambientazioni, si può consultare l’esaustiva lista presente in: https://theamericans.fandom.com/wiki/List_of_Places_Mentioned_in_The_Americans (un “fandom” è il “regno dei fan”, una parola-macedonia composta da “fanatic” + “kingdom”).

[xi] Sui personaggi nello storytelling seriale, si veda Mittell 2015: 273-sgg.

[xii]https://www.hollywoodreporter.com/live-feed/americans-composer-incorporating-80s-russian-706270.

[xiii] «The Americans è un gioco di doppi e di specchi, a cominciare dalla bellissima sigla che accosta immagini americanissime a figure sovietiche, rivelandone la sotanziale similitudine» (Cucchetti 2019, p. 97).

[xiv] Ep. 10 – Stagione 3.

[xv] Ep. 1 – Stagione 6.

[xvi] Si tratta dell’INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), stipulato da Reagan e Gorbacev a Washington nel 1987, appunto.

[xvii] Il creatore della serie ha dichiarato che, in fondo, la serie concerne appunto la crisi dei rapporti matrimoniali

[xviii] Va detto che nell’edizione andata in onda in Germania si ha una versione differente della sigla, sia dal punto di vista delle immagini che della musica; su cui, cfr. Feole 2019b: 102.

[xix] Si tratta delle note operazioni “Able Archer 83” e “RYAN”.

[xx] Si veda, a tale proposito, il paragrafo «Trionfo della paranoia» in Falanga 2012: 66-75.

[xxi] Su cui, cfr. Lotman 1985a e b, che parla di «emozioni collettive» e di «emozioni culturali» (1985b: 144 e 145), e Frasca 1996, che, per più versi, segue il percorso di Lotman. In particolare, Cucchetti  parla, a proposito dell’ambientazione storica di The Americans, di «un’epoca spietata e paranoica» (2019: 97), il che può dunque valere anche per la serie tedesca.

[xxii] Hobsbawm parla più genericamente di «paura reciproca» e di «tono apocalittico» (1997: 280); Deery, Del Pero 2011 di «visioni fobiche popolari» (1997: 11); sulla paranoia vista come chiave di analisi storica, si veda Zoja 2011.

[xxiii] La battuta, nella versione originale, recita: «nur um eine paranoide Phantasie».

[xxiv] Ma si veda, a proposito del delirio, anche questa, più icastica, definizione di Bodei: «inosservanza delle frontiere logiche in nome di una coerenza ed evidenza assolute» (2000: 35-36); per quanto concerne la dimensione più specifica del delirio paranoide, invece: «là dove la semplice idea di un pericolo assume il profilo di una realtà irremovibile, noi ci troviamo al cospetto di una struttura discorsiva di tipo paranoico» (Tarizzo 2007: 71)

[xxv] Uscita nel 2019 (Camp Hero Productions e 21 Laps Entertainment).

[xxvi] Su cui, si veda Feole 2019a.

[xxvii] Feole 2019a: 15

[xxviii] Il mostro-ombra è detto “Mind Flayer”, espressione praticamente intraducibile.

 

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Žižek 2016

  • Žižek, Slavoj, Che cos’è l’immaginario, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 2016

Zoja 2011

  • Zoja, Luigi, La follia che fa la storia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011

Storia con fotografia

1

di Andrea Inglese

[Questo testo è apparso sul n° 72 febbraio 2020 de “il verri”]

L’episodio è unico, ma vorremmo capire come parlarne. Era semplice e banale, certo, ma enormemente vischioso, e subdolo, e anticipatore, ma non sapendo di che, di quali fatti futuri. Comunque è già iniziato, l’episodio parte a tutta birra, è velocissimo, corre su binari certi, ma, per un sacco di tempo, nonostante la frenesia generale, non succede quasi nulla.

Pandemia: lo Stato dell’Arte

3

Un’idea di teatro

di Marco Gobetti

con E-Loquenze

di Paolo Musio

 

 

 

Cosa ho sognato, stanotte? Ormai lo ricordo solo a sprazzi, speriamo che serva comunque a qualcosa. Quello che è certo è che nel sogno il nuovo DPCM, per fortuna, entrava in vigore il mattino dopo e io, quel mattino stesso, cercavo al volo il nuovo modulo di autocertificazione su internet e lo compilavo con il primo indirizzo utile a muovermi al di fuori delle precedenti possibilità. Generalità e indirizzo dei miei genitori: Cimitero Comunale, Viale San Giacomo, cap…, città…, provincia (non do, qui, i dettagli precisi). Infilo l’autocertificazione in “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo – credo per dare maggiore credibilità a quanto dichiarato, i sogni son strani, si sa – e salto in macchina. Neanche un chilometro e trovo un posto di blocco dei carabinieri: mi fermano. Consegno “Dei Sepolcri” con modulo incluso: non l’avessi mai fatto! Uno dei due lo prende per una minaccia di morte e mi ficca sotto il naso la canna della mitraglietta; il profumo è inconfondibile: cioccolato fondente 70% al peperoncino. Addento, succhio e lecco la canna sino a distruggere la camera di scoppio. In mano al militare restano manico e otturatore, è basito. Il secondo militare, nel frattempo, aveva estratto la pistola d’ordinanza e saltellava dietro al collega cercando la giusta angolatura per spararmi senza farlo secco; io ingrano la marcia e parto sgommando. Dal finestrino lo vedo dilatare le gambe, puntare e sparare; ma la pistola, probabilmente tenuta in mano troppo a lungo e surriscaldata oltre misura (capita), gli esplode in mano; prima di dileguarmi scorgo chiaramente il volto del carabiniere farsi nero di cioccolato liquefatto. Salto la visita dai congiunti al cimitero per dire cosa è successo dopo.

 

Semi, spore, propaguli

Appena tornato in macchina vado sul web dal cellulare (volevo appunto chiarimenti sul significato del termine “congiunto”, metti mai che bastasse avere toccato, o dato la mano in passato a qualcuno, per potere compilare un’altra autocertificazione) e trovo la rete impazzita: incredibilmente, la presa di posizione della CEI, che ora denuncia addirittura la violazione della libertà di culto, pare avere risvegliato nella cittadinanza la coscienza di tutte le altre libertà violate… Intere categorie di lavoratori e cittadini si domandano perché per produrre “cose” e garantire il PIL, doverosamente protetti, si possa andare ovunque e perché non sia possibile praticare, doverosamente protetti, qualunque altra attività che faccia capo a imprescindibili – o addirittura inalienabili – diritti costituzionali. Tutti paiono avere dimenticato l’invito del Presidente a rimanere cittadini perbene. Tutti, a doverosa distanza di sicurezza e ben mascherati – dunque assai poco identificabili – scendono in piazza, in quantità tali che risulta difficile fare contravvenzioni o controllare le autocertificazioni; alle forze dell’ordine saltano così i nervi ovunque e i militari, nel tentativo di sparare sulla folla, si imbrattano rovinosamente il volto di cioccolato impugnato troppo a lungo.

Nel frattempo – ascolto ora dalla radio, partendo – nascono persino rivendicazioni da parte di categorie di lavoratori escluse da ogni considerazione nel discorso serale del Presidente; sento di miei colleghi attori che si sono riversati in strada a protestare e si dichiarano pronti a recitare anche sulle piazze, dove è più facile garantire le distanze di sicurezza, basta che il Governo o chicchessia garantisca un cachet. La confusione è tanta… Ma, parallelamente, pare si verifichi almeno un blackout totale dello streaming teatrale gratis et amore Dei: pare si siano tutti accorti che lo streaming suggerisce malsani pensieri in un Ministro della Repubblica, il quale comincia a scambiare i teatranti per gioiosi pauperisti, mecenati di sé stessi votati all’intrattenimento di cittadini perbene. Così, almeno, gracchia una radio libera… e allora imbocco uno svincolo e sfreccio verso la prima grande città che mi capita a tiro: voglio scendere in piazza mascherato. Anch’io. Chissà mai che serva a qualcosa. E, soprattutto, la protesta enorme e pacifica è confortata dalla natura ormai mangereccia delle armi che, sciolte come neve al sole, servono solo più a imbrattare le mani e il viso di chi tutela la sicurezza nazionale.

La protesta aumenta: mi perdonerete se, nel sogno, mi sono concentrato sulla categoria che mi riguarda, ma vi assicuro che – da ciò che leggevo online, giunto in città e sceso dalla macchina – la rivolta stava investendo ogni ambito sociale.

Ecco, accade ora che le richieste dei teatranti abbiano risposte immediate: i sogni sono strani, si sa. Ma effettivamente stava succedendo qualcosa di incredibile, che non poteva non sensibilizzare l’intera classe dirigente e quella datoriale, imprese teatrali private e teatri stabili inclusi: migliaia di teatranti (attori, tecnici, sarte, direttori di scena ecc.) – molti di loro autori delle discussioni e dei gruppi nati online in occasione dell’emergenza epidemica – si erano, in poche ore, iscritti in massa ai sindacati di categoria; pare avessero capito che tale mossa poteva servire ad aumentare la rappresentatività del sindacato e, conseguentemente, la sua autorevolezza nei confronti delle categorie produttive e del governo; e che non è mai proficuo fermarsi ai giudizi su quanto “ha fatto” oppure no un’organizzazione di categoria e, solo su questa base, scegliere di farne o non farne parte.

Un post a caso di uno di loro, online:

«Iscriversi a un sindacato significa anche – o soprattutto – potervi creare un fermento vitale, rimpolparne le fila, accrescere le possibilità future di confronto interno ed esterno; e, conseguentemente, la maturità di deleganti e delegati. Ben vengano le riflessioni di gruppo e gli spiriti associazionistici nati sull’onda esclusiva dell’emergenza attuale; ma queste stesse energie (senza assolutamente zittire il confronto eterogeneo sulle piattaforme web) potrebbero pure innervare di forze fresche un’organizzazione che garantisce una capillarità consolidata sul territorio e un’interlocuzione già avviata con le altre parti sociali. Se tutte le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo, da quelle/i al primo contratto a quelle/i di lungo corso che ancora non lo avessero fatto, aderissero a un’organizzazione sindacale, forse il primo risultato sarebbe che si cancellerebbe davvero il silenzio pesante che ci riguarda; e si fugherebbe almeno un po’ il rischio di paventate, recenti derive o immobilità. Credo che non bastino più, ora, le voci dei singoli; perché, seppur in buona fede e meritevoli di riconoscenza, rischiano di perdersi, dopo qualche giorno, nel magma della comunicazione di massa: occorre dimostrare una volontà reale di collaborazione, che superi ombre di pensieri unici e generici richiami a “bellezze” da difendere. Chissà che non possano, così, trarne giovamento in futuro anche utili “discorsi a parte”, capaci, in primis, di non prescindere dal passato e di affrontare inevitabili e proficue implicazioni poetiche; e chissà che pure le organizzazioni datoriali non sappiano, parallelamente, accogliere con sempre maggiore responsabilità l’eterogeneità della filiera produttiva. Non è neppure trascurabile, tra l’altro, la variazione di sguardo che potrebbe derivarne, nei nostri confronti, proprio da parte dei lavoratori di altri settori. La storia ci insegna quanto le reciproche sensibilità, in ambito sociale, risultino vincenti, soprattutto nelle difficoltà».

E succede, appunto, l’impensabile: proprio mentre i teatranti sollecitano a gran voce da tutte le piazze l’intervento dei datori di lavoro al loro fianco, perché premano sul governo affinché siano riaperti i teatri oppure – minacciano – reciteranno solo più in strada e solo se pagati almeno il doppio del minimo sindacale a giornata (dicono proprio così); proprio in quel preciso istante, il Presidente del Consiglio dei Ministri, coadiuvato da quattro staff di esperti (aumentati nel frattempo), accoglie la richiesta della CEI e ammette l’esistenza della violazione dell’esercizio della libertà di culto nell’ultimo DPCM: consente dunque l’apertura delle chiese per le funzioni religiose, con le dovute precauzioni sanitarie. Accade allora che tutte le associazioni datoriali in campo teatrale, a partire da FederVivo, abbandonati gli abiti perbene, invitino ad aprire i teatri per protesta: «Perché le chiese sì e noi no? Noi possiamo garantire entrate contingentate, né più che meno delle chiese!». E la CEI, ancora una volta, diventa inconsapevole motore di rivolta: le infinite prese di posizione politiche che appoggiavano la CEI si accaparrano le nuove proteste, provando demagogicamente a cavalcarle; si narra in rete, che il Presidente della CEI sia svenuto più volte nelle ultime ore.

Paesaggio con figura

Per quanto riguarda il teatro, la situazione si fa incandescente: almeno metà dei manifestanti dichiara che la riapertura dei teatri non basta e che non abbandoneranno le piazze, unico luogo in cui d’ora in avanti reciteranno, pretendendo con ogni mezzo la debita retribuzione.

Incredibilmente, il direttore di un Teatro Stabile dichiara di volere intrecciare l’attività su strada degli attori ribelli a quella in sala, intravedendo la possibilità di trasformare l’ostacolo in una opportunità di rinnovamento. Mentre corre voce che il direttore in questione sia stato sottoposto a un TSO forzato e portato in un luogo sconosciuto, compare un suo nuovo post sui social, in cui afferma:

«Il teatro ha il dovere di “conquistare” il suo pubblico, stimolandone la sensibilità, non attendendolo solamente nei luoghi deputati e ibridandosi con le più svariate sfere delle arti e della conoscenza e con ogni area della socialità. Per fare questo, occorrerà che armonizziamo le ragioni produttive con quelle ragioni avventurose, “irregolari”, che sono espressione irragionevole – mi perdonerete l’ossimoro di ritorno – e imprescindibile della natura più profonda del teatro, riconducibile all’ancestrale specifico teatrale. Il problema è a monte. Sono convinto, infatti, che occorra appunto guardare alla crisi precedente del sistema teatrale, di cui la situazione attuale favorisce l’aggravarsi. La “produttività” non può escludere la provvisorietà e l’apertura verso una produzione e una programmazione che interpretino un reale “movimento” culturale. So che questo inciderà sulla natura stessa degli spettacoli, ma lo si potrà fare contaminando la produzione “normale di spettacoli”, non necessariamente sostituendola. Si potrà preservare qualunque forma, moltiplicandone i contenuti per calarli in nuove forme; sino a portare a uno, cento, mille “travasi di genere” paralleli. In questo senso – lo scrivo a mo’ di esempio – un unico attore, con il “Teatro di riciclo” (esperimento interessante di cui ho letto in rete), potrà fare vivere uno spettacolo imponente, che non c’è più, semplicemente evocandolo in un’ora tramite la narrazione e la locandina mostrata. E lo potrà fare ovunque. Ciò potrà essere fatto anche da un musicista, un pittore performer, un danzatore, un medico, un letterato (a seconda della natura dello spettacolo e delle scintille culturali che lo costellano); ma dirò di più: potrà essere fatto anche per uno spettacolo che contemporaneamente venga tuttora realizzato in teatro, dove, per i posti limitati a causa del distanziamento, necessariamente sarà replicato sino a quattro volte al giorno, in orari anche inconsueti. Il “teatro di riciclo” di quello stesso spettacolo, portato in bar, librerie, strade, piazze, biblioteche da bande di attori, artisti o studiosi che agiscano singolarmente, in simultanea ai turni delle repliche in teatro, potrà creare volano per le repliche stesse, generare interesse inedito (garantito dal “travaso di generi”) e addirittura diventare stimolante mezzo di approfondimento per chi quello spettacolo avrà già visto. Ecco che in questo modo la crisi epidemica avrà almeno una ricaduta positiva, incoraggiando un movimento culturale nuovo, o almeno rinnovato; favorirà inoltre l’accrescimento culturale dei singoli artisti e della cittadinanza; oltre che la nascita di nuovi linguaggi che non prescindano da un tessuto culturale eterogeneo, fucina di proficue discontinuità. Creiamo un decentramento che, pur non radicato, faccia leva su quel bisogno che è il minimo comune denominatore culturale della cittadinanza: il bisogno di tornare a scoprire, praticandoli, i meccanismi della nascita del pensiero e dell’emozione, belli o brutti che siano (valgono le infinite gradazioni intermedie). Mi rivolgo ai miei colleghi, direttori di Stabili e di imprese private: assumiamo gli attori ora ribelli per impegnarli nelle azioni teatrali (parallele alla programmazione in sala) in ogni luogo della città, calmieriamo e armonizziamo i costi di produzione, quadruplicando, almeno, le quote di denaro da fondi pubblici destinate all’assunzione degli attori; chiediamo ai registi di scendere eccezionalmente a patti immaginifici con il pubblico, che, comunque, già dovrà farsi una ragione della mascheratura degli attori. Distribuiamo agli spettatori il prologo dell’Enrico V di Shakespeare insieme agli abbonamenti e ai biglietti e, per un anno, usiamo solo materiale di recupero per realizzare le scenografie. Con i soldi risparmiati, assumiamo disoccupati per praticare un trovarobato sfrenato e giovani attori per creare doppi cast per ciascuno spettacolo prodotto, così da garantire le quattro repliche giornaliere per ogni tenuta su piazza. Chiediamo poi alle istituzioni di pareggiare, almeno, l’incidenza dei parametri poetici con quella dei parametri economico-produttivi negli indici di valutazione di ogni bando di sovvenzionamento; e di implementare o creare ex novo sostegni mirati al teatro amatoriale, per creare spazi di ricambio e di confronto reale con il teatro professionistico ed eliminare il limbo di compagnie e attori senza un’idea di teatro, nati solo per scimmiottare un professionismo a sua volta spesso svuotato di ogni profondità culturale. Ritroviamo noi, un’idea di teatro».
E ora che alzo gli occhi e fuori albeggia, mi rendo conto che non ho sognato proprio niente, perché non ho preso sonno, nella notte fra il 26 e il 27 aprile 2020.

E corro a cercare informazioni sul web, per raccapezzarmi: il nuovo DPCM è già in vigore o dovremo aspettarlo una settimana?

Marco Gobetti, 27 aprile 2020

Cattedrale nel cielo

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di Dario Valentini

Serge Yudin, Flying City

La Tempesta” Frison sospirò. Guardò fuori dalla finestra della sala prove. Era impossibile distinguere il paesaggio. In inverno la nebbia pareva inghiottire la campagna. L’avrebbe riconsegnata solo qualche mese dopo, previo pagamento di riscatto da parte dei contadini locali. Sudore nella vigna. Ingrassare le bestie. Prosecco sacrificale al bar del paese. Rampino stringeva il bullone di un piatto. Sistemava le aste. Riposizionava il doppio pedale.
“Sul serio voi volete che ci chiamiamo La Tempesta?
Boscolo e Ballerini si guardarono.
“In fondo sarebbe una bella citazione ai La Quiete” fece Boscolo lanciandogli un’occhiata languida. “Come dici sempre tu, forse il più influente gruppo Hardcore Punk italiano di tutti i tempi.
“O una paraculata di dimensioni sconvolgenti” ribatté Frison. “E poi io dico il più influente gruppo italiano, di tutti i tempi.”
“Esatto quella cosa lì.”
Frison sapeva che Boscolo preferiva comunque i Raein ai La Quiete. I due gruppi condividevano alcuni membri, l’origine romagnola e la paternità di quella particolare scena “Screamo” europea. A sua volta genia storpia e colta di altri padri: Il primissimo Emo e l’Hardcore di stampo anglofono. Era un Portmanteu sfortunato. Spesso utilizzato erroneamente per identificare generi più commerciali e derivativi. Impostori lebbrosi che avrebbero dovuto girare con una fottuta lettera scarlatta sul petto. Per questo Frison preferiva dire Hardcore Punk e basta. E in ogni caso, per loro, quello era il “vero” Punk. Fanculo ai Ramones e ai Sex Pistols, le più grandi operazioni di marketing degli anni 70. Schifose boyband. E fanculo alla New Wave che si era lasciata fottere dal Pop pur di vendere. Moderato rispetto invece per le varie scene Metal e HC underground degli ultimi Ottanta e i primi Novanta. Rozze, forse, ma erano state un passaggio necessario per approdare a quelle nicchie contemporanee che sapevano ancora portarti dove da solo non saresti arrivato. Che erano ancora disposte a spaccarsi la faccia sulla tua pur di combinare qualcosa di serio. Un brivido lo percorse. Eppure lui ci credeva ancora. La discussione su chi fosse più rilevante tra i due gruppi si perdeva nelle sabbie della loro amicizia. Quante sere attaccati entrambi alla bottiglia di gin e ognuno al proprio parere. Finite le argomentazioni erano passati a elemosinare pareri a terzi riluttanti.
“Frison ma tu non la smetti proprio mai di parlare di queste cose?” aveva biascicato la morosa di Boscolo in un raptus alcolico. “Comunque a me fanno schifo entrambi.”
“Lo vedi che non capisce un cazzo?”
“Come ti permetti” gli aveva dato un coppino Boscolo. “E tu Giulia, non capisci proprio un cazzo.”
Erano seguite scenate isteriche. Lanci di oggetti. Suppliche. Abbracci rappacificatori. Giulia invece era collassata sul divano. La tv accesa sul quarto episodio di Neon Genesis Evangelion. Per l’ennesima volta Frison aveva organizzato una proiezione dell’intera serie. Senza grande successo.
Fortunatamente le loro opinioni convergevano su gruppi Post-Hardcore più moderni tipo Touché Amore, More Than Life e La Dispute. E sui quei juggernaut contaminati da sonorità più metalliche come Gallows, Comeback Kid e Misery Signals.
“Ma poi come vi viene in mente? Noi non c’entriamo neanche tanto con i La Quiete. Siamo troppo Metal per essere Punk.”
“E troppo Punk per essere Metal” sospirò Ballerini storcendo il naso.
“Troppo poco Jazz per essere Jazz” si infilò Rampino.
I ragazzi gli lanciarono un’occhiata. Paralizzati. Se come band fossero andati male, Rampino poteva sempre riciclarsi come un cazzo di oracolo. Si ritrovarono ad annuire lievemente. E il movimento stereotipato riverberò come un’onda finché si preparavano. Ballerini finì la sigaretta e la lanciò fuori. Verso il cielo bianco sporco. Frison accese gli ampli e si mise a smanettare con l’equalizzatore. Boscolo finì una lattina di birra e se la schiacciò sulla fronte. Accartocciandola lentamente come per aiutarsi a pensare.
“Ok, ok” sbottò. “Forse con i sostantivi non ci azzecchiamo molto, ma con gli aggettivi andiamo fortissimo!”
“Siamo totalmente Math” sorrise Rampino battendo un 5/4 sulla spalla di Ballerini. Tempi dispari.
“Totalmente Prog” aggiunse Ballerini muovendo le dita su una tastiera immaginaria. Riff epilettici suonati da instancabili ragni al litio.
“Totalmente Post” specificò Frison con veemenza mimando il gesto di dilatate melodie che si perdevano nello spazio. Strinse le mani come un direttore d’orchestra che si esibiva davanti a un pubblico di sagome nere e bizzarre.
“E anche un po’ cantautorato oscuro” sibilò Boscolo assottigliando gli occhi.
“Che non è un aggettivo.”
“Ma tornando a noi, ci stai?”
“Beh onestamente mi pare un po’ generico.”
“Direi minimale semmai” intervenne Ballerini. “Potremmo fare qualsiasi genere con quel nome.”
“E di fatto facciamo roba un po’ avantgarde” si succhiò le labbra Frison. “Però siamo in democrazia” continuò pungendo Boscolo con lo sguardo. “E ogni voto conta come un altro.”
“Abbiamo deciso allora” sorrise soddisfatto Boscolo. “La Tempesta sia.”
“Ma come?” esclamò incredulo Frison.
“Eh si! Io e Ballerini siamo d’accordo. Rampino non vota. Qualsiasi cosa voti tu, sei in minoranza.”
“Ma come sarebbe a dire Rampino non vota! Cos’è interdetto?” Frison lo fissò mentre questi si grattava la faccia sui triangoli fonoassorbenti alle pareti.
“Boscolo questo è barare! E poi tu Ballerini, quoque tu! Come fai a dargli corda?”
“A me piace” concluse Ballerini strofinandosi i calli sotto i polpastrelli.
“Siete disonesti cazzo.”
“Ma ti fa così schifo?” Boscolo era piccato. Aveva alzato di un semitono la voce. Come faceva sempre quando qualcuno lo contraddiceva.
“Non ho detto questo, è il modo che mi da sui nervi.”
“Anche a me piace La Tempesta” esclamò Rampino dal fondo della saletta. Finalmente al passo con il discorso degli altri. Senza spostare di un millimetro gli occhi acquosi dal bordo cromato del rullante. Il riflesso sembrava averlo tenuto ostaggio per qualche minuto.
“Vedi” fece Boscolo alzando i palmi al cielo.
Che avesse pianificato tutto fin dall’inizio?
“Se non puoi batterli” sospirò Frison. “Sarà meglio che iniziamo a seminare sto vento.”

Frison strinse la cinghia del Precision. Se lo portò più vicino al petto per raggiungere meglio i tasti. Queste tracce nuove lo facevano sudare. Richiedevano un posizionamento così preciso. In questo modo però, il basso gli copriva totalmente il logo dei The Ghost Inside sulla maglia. A quel concerto si era lanciato sulla gente a cavallo di un coccodrillo gonfiabile. La marea umana l’aveva tenuto su per trenta secondi buoni prima di lasciarlo sprofondare. Era parecchio ubriaco e manco aveva sentito la botta. Per inciso, il suo non era stato neanche il gonfiabile più strano a navigare sul pubblico quella sera.
“Così ti sta anche meglio” fece Ballerini scoccandogli un bacio. “Spezza il look all-black.”
Frison sbuffò e lanciò uno sguardo alla Telecaster del chitarrista tenuta quasi ascellare. Macchia solare nell’oscurità. Tanto a lui stava bene qualsiasi cosa.
“A me invece sembri mona” lo stuzzicò indicandogli lo strumento.
Ballerini rispose con un paio di sweep pulitissimi. “Prova a farli con la chitarra bassa.”
“Dovresti farti crescere i baffi” li interruppe Rampino. Frison non ci badò. Boscolo lo
stava guardando fisso.
“Vuoi qualcosa?”
“A pensarci bene non c’è quasi nessuno che è più figo con i baffi, eppure mi sa che proprio tu scoperesti di più così” sentenziò lui pulendo la griglia del microfono sul bordo della livrea nera. Una t-shirt degli Architects con le maniche amputate. Gilè tattico per il combattimento ravvicinato. Rampino annuì con forza. Lo sguardo fisso sulla parte bassa della sua faccia. Comunque qualcuno doveva dirglielo che certe volte faceva paura.
“Cosa cazzo starà guardando?” mormorò Frison.
“Il futuro” rispose Ballerini con un sorrisetto.
“Futuro peraltro molto lontano perché il muso di Frison è senza un pelo” concluse Boscolo sghignazzando. Ballerini si accarezzò la barbetta bionda.
Sì sì, lo sappiamo che sei bello, stronzetto compiaciuto.
Frison finì di accordare. Drop C. Fece suonare un paio di note. Così gravi che avevano densità propria. Così forti che le pelli del drum kit ronzarono. I corpi vertebrali di tutti si separarono di qualche millimetro. Correzione ernie attraverso le vibrazioni. Deflusso migliorato della linfa.
“Abbassa” vociò Ballerini.
“Sei la solita prima donna.”
“Il basso è perfetto quando non ti rendi conto che c’è!”
“Avete finito?” ringhiò Boscolo. Fece un cenno al batterista provando a prenderli di sorpresa.
Anita era senza dubbio una bambina molto bella, aveva preso le parti migliori dei loro genitori. I capelli rossi della madre e gli occhi verdi del padre. Lui invece, non sembrava. Eppure lei si incantava a fissarlo e poteva stare ore a tormentarlo. La gioia in quel viso paffuto quando li mettevano finalmente vicini. Tra i momenti passati con la famiglia al completo i suoi preferiti erano stati i lunghi spostamenti a bordo della jeep militare del babbo. Ascoltando e canticchiando qualsiasi canzone dessero alla radio. Vi prego vi prego alziamo ancora un po’. Non è prudente, il papà deve sentire il rumore della strada. Allora incollava il culo al sedile e si aggrappava per sentire le onde emesse dell’impianto. Quando arrivavano chiedeva di poter rimanere da solo in macchina per un po’ ad ascoltare la musica in garage. Solo dieci minuti. Si metteva al posto del guidatore, chiudeva tutte le porte, accarezzava la pelle del volante, si allacciava la cintura, ruotava la manopola del volume al massimo e…
“2-3-4” Rampino attaccò. Batteria di missili a puntamento laser. Una contraerea. Frison e Ballerini scivolarono nella traccia ad occhi chiusi. Comodi come piloti che entravano nel familiare cockpit. Le luci delle pedaliere e delle testate lampeggiavano come quelle di computer di bordo: All Systems Online. Frison rivolse un sorriso acido a Ballerini. Spiegarono le ali e schizzarono fuori dalla traiettoria dei razzi con una manovra acrobatica. Dopo il massacrante addestramento a gravità aumentata cui Boscolo li aveva sottoposti sapevano la partitura a memoria. Nota. Corda. Tasto e dito con cui schiacciarlo erano numeri ingurgitati da enormi calcolatori. Levette tirate su e interruttori premuti senza un secondo di ritardo. I manici degli strumenti erano cloche. Inclinate all’angolo perfetto. Sfrecciarono. Dentro al tornado. Il basso era grosso, incubava la traccia come un immenso utero rotore. Al battere del quarto fecero una giravolta all’unisono. Manovrando con precisione gli shuttle. Si girarono verso Rampino e Boscolo. Frison sparò un occhiolino al frontman. L’inseguimento esplose. Velivoli ostili iniziarono a rincorrersi. Chitarrista e bassista facevano headbanging furiosamente, sincronizzati con la cassa. Nel momento in cui avevano due quarti di pausa in un riff lanciarono gli strumenti all’indietro facendoli roteare sul corpo. Virate a mach3 che torcevano le fusoliere fino a renderle incandescenti. Li ripresero saldamente e riattaccarono a suonare perfetti sulla nota successiva. Lo strattone delle cinghie di sicurezza li frustò di rimbalzo. Fu Boscolo ad essere colto alla sorpresa. Frison gli lesse nella testa un dubbio: Si erano trovati senza di lui per fare pratica? Sembrava innervosito dall’iniziativa. Oh com’era bello vedere una crepa in quel suo sorrisetto del cazzo. Le aeronavi erano folgori. Anomalie geometriche nel cielo notturno. Frison e Ballerini erano in vantaggio ma Boscolo e Rampino gli stavano incollati alla coda. La doppia cassa mitragliava senza sosta. Altro che Refused. Quelli erano fanti della prima guerra mondiale con le baionette. Falciati da un’arma che non avrebbero potuto neanche immaginare. Colpi precisissimi nel mirino. Per schivarli si misero a saltare su e giù durante i breakdown. Prima in sincrono, poi alternati. Le facce violentate dai repentini cambi di angolazione. I capelli lunghi e lisci di Frison schizzavano dappertutto. Raggi di luna nera, come li aveva chiamati Anita, la prima volta che l’aveva visto suonare dal vivo. Per un momento era tornata a guardarlo con lo stesso stupore di quando era bambina. “Comunque una figa che ti adora a scatola chiusa ce l’hai Frison, peccato abbia quattordici anni e sia tua sorella.” Aveva commentato in quell’occasione Boscolo, scendendo sudato dal palco e lanciandole un’occhiata famelica.
I due facevano two-step. Vorticavano. Si esibivano in avvitamenti spericolati. Lanciavano calci in aria e inarcavano la schiena in un modo che avrebbe spezzato le ossa di un essere umano normale. Il g-negativo lo sentivano adesso. Il dolore li avrebbe aspettati solo l’indomani. Saltavano sforbiciando con le gambe in aria e chiudendole sbattendo sul pavimento. Tonneau che perforavano la linea dell’orizzonte. Looping fuori di testa che avrebbero torto le budella persino ai Converge. A un certo punto Frison lasciò il manico del basso e sferrò un pugnò all’aria con tale violenza che quasi perse l’equilibrio. All’impatto divaricò le gambe. Perni idraulici sottoposti a pressioni furibonde. Lo strumento ondeggiò e verso destra e poi tornò indietro. Lui lo riprese. Riguadagnò il controllo del propulsore impazzito. Boscolo scoppiò a ridere. Così forte che tralasciò una linea del testo. Colpito, cazzone. Quella mossa l’avevano vista fare insieme al bassista dei Counterparts a Milano. Frison grondava sudore, guardò Boscolo raccogliere la sfida, alzare l’asticella. Colpito ma non affondato. Salì sulla gran cassa e si erse in tutta la sua sinistra altezza. Le braccia aperte come sintetiche, membranose ali nere. Saltò al centro della saletta atterrando come un fottuto gargoyle d’acciaio alieno. Tiranno levogiro. Morte dall’alto. Si allineò ai due, al centro del triangolo. Toccò appena Frison e Ballerini con i gomiti tenuti alti. Un gesto di violenta complicità marziale. Il microfono impugnato come una lama che vibrava ad altissima frequenza. Il ferro sibilava. Feedback affilati. Boscolo iniziò a muoversi avanti e indietro e a menare frustate con il cavo. Si sincronizzò ai salti dei due. Le teste si muovevano su e giù come quelle di un cerbero meccanico. Erano mech in formazione. Esoscheletri di oscuro metallo organico. Pericolosi rivali, ora alleati. Isometria balistica. Squadrone d’assalto. E al centro di tutto un motore nucleare in grado di generare energia perpetua. Kernel di uranio rovente. I ragazzi saltarono, saltarono e saltarono ancora. Decollarono. Presero quota. Schizzarono dentro al buio ostinato dello spazio. Viaggiarono attraverso lo sconfinato per tutta la durata della canzone. Si addentrarono negli spazi limacciosi tra le stelle, sfuggendo ai campi gravitazionali dei corpi celesti. Dita ostinate di raccapriccianti golia invisibili. Ogni membro dell’equipaggio alla sua postazione: Ai sistemi di propulsione. Rampino, felino anemone da un’altra dimensione. Ballerini. Strigo androide. Armamenti. Boscolo. Corvo divoratore di mondi. Sbraitava gli ordini dalla plancia di comando. E infine lui, unico umano, geneticamente aumentato per resistere al viaggio. Pretoriano necessario per tenerli a bada. Al timone. Erano uni e quadrupli, monadi contrapposte a diadi. Tetragono perfetto di sculture grottesche. Infine, mentre la traccia finiva, iniziarono le procedure di atterraggio. Si lanciarono verso il basso bucando l’atmosfera. Precipitarono come una lancia orbitale. Nera e lucida torre di ossidiana. Urlante grattacielo bellico. Penetrarono la crosta terrestre. Il terreno si crepò e ululò agonizzante. L’onda d’urto incenerì la vita organica per chilometri. Il pianeta fu terraformato dall’impatto della Maelstrom mark 2. Una balena di longaroni. Centinaia di pinne bianche. Oblò come occhi. La carena iridescente come la pelle di un pesce titano guizzato fuori dall’oceano alla fine dello spazio.
Si tolsero il casco e piantarono i piedi nel terriccio che sembrava polvere di vetro. Lacrime impietose gli gocciolavano dai denti, il sudore spurgava grumi di catrame e sangue. L’aria puzzava di fuoco nero, giavellotti di luce variabile perforavano il cielo buio. Erano pronti ad uscire dalla saletta.

Quando Ballerini e Rampino furono andati via Frison prese in disparte Boscolo. La sala era in penombra. Gli amplificatori spenti si stavano raffreddando. Si infilarono i cappotti scuri. In lontananza il suono di una sirena.
“Non credere che non l’abbia notato.”
“Non so di cosa parli.”
La Tempesta, non è una citazione dei La Quiete. È un omaggio a una certa etichetta discografica che guarda caso ospita proprio il tuo gruppo italiano preferito.”
“Mi offende che tu pensi questo” Boscolo fece un sorrisetto. “È il mio gruppo preferito e basta.
“E allora che cazzo mi racconti?”
“Ti sbagli ancora, non ho mai dubitato che ne fossi a conoscenza. Credi che ti abbia voluto con me per il tuo bel faccino o per le tue mosse con il basso?” si era fatto serio. “Ti ho voluto come me perché sei una fottuta enciclopedia, te ne intendi davvero di questa roba. E in maniera trasversale. Se ti parlo di un disco sono sicuro che l’hai già ascoltato. Se è valido. Se c’è già qualcosa di simile. So che sarai la nostra avanguardia, non permetterai che cadiamo nel banale o in qualche altra trappola tentata da altri. Inoltre sei la memoria storica della scena di questa regione, conosci tutti, tutte le fottute band da Mestre o da Belluno con una sola traccia su Youtube. Sei una specie di custode del fuoco. Un guardiano della fede. Una sentinella”

Frison sbuffò. Boscolo gli scivolò vicino e lo abbracciò. Stretto. E La Tempesta sarà una cattedrale. Troppo stretto. Fino a mangiare Dio. Sentiva che sorrideva dall’altro lato dell’abbraccio.
“Ma non credere neanche per un secondo che non possa sostituirti con qualcun altro. Se solo provi a mettermi i bastoni fra le ruote. Ti macinerò. E prenderò al tuo posto qualcuno che suona un Jazz Bass color legno magari. E con i capelli lunghi più o meno come i tuoi.”
Frison si staccò. Fece un passo indietro ma sentiva che qualcosa faceva resistenza. Come se fosse immerso fino al ginocchio in un liquido amniotico denso e vischioso.
Boscolo era ancora li. Ghignava. “In quel caso, sono sicuro che con quel magazzino stipato nel cervello potresti reinventarti come giornalista. Per Rolling Stones magari. Ma poi qualcuno lo legge ancora? Anzi esiste ancora?” Fece un sorriso strano. Selvaggio e triste. Un prisma opaco. Gli accarezzò la guancia. La mano aguzza, bianca in maniera innaturale come quella di un feroce angelo artificiale. Frison rabbrividì. Aveva le viscere in una morsa. E voleva mandarlo affanculo. E aveva anche paura. Guardò quell’orfano alieno. Disperato jäeger ipnagogico. Tormentato dalla caccia. Dalla fame. E lui le conosceva bene entrambe. Il pomeriggio aveva lasciato spazio alla sera. Momento in cui le cicatrici smettono di distinguersi chiaramente e diventano parte delle linee dei volti. Come lacrime nella pioggia. Spiralò più in profondità in quel sogno che era anche il suo. Infine, immerso completamente nell’oscurità solida riuscì a guardare il suo riflesso oltre il filo dell’acqua nera. Aveva gli occhi cattivi. Impauriti.
“Solo io sono autonomo, fratello” sussurrò Razhiel a Metatron.
Metatron a Razhiel sussurrò “Fratello Autonomo. Sono io. Solo”.

 

La Moneta Vivente, una proposta senza troppa modestia

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di Mattia Paganelli

 

La Moneta Vivente, una proposta senza troppa modestia *

 

Adesso che ormai si sono capiti i termini della questione – si tratta di scegliere tra salvare vite e salvare l’economia – suggerisco di adottare direttamente la moneta vivente. Non si tratta qui di un investimento a fondo perduto, à la Bataille per così dire, ma di un ritorno vero e proprio, concreto, in cambio di ‘congiunti’ e ‘affetti stabili’ (i due tagli più comuni al momento).

Intervista a Giovanni Agnoloni

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In Viale dei silenzi Giovanni Agnoloni mette in scena un giovane scrittore fiorentino, Roberto, impegnato nella ricerca del padre misteriosamente scomparso, il che per finisce per coincidere con un faticoso tentativo di ritrovare se stesso attraverso le doti catartiche della scrittura. Da qualche mese è a Varsavia per tentare di concludere adeguatamente il suo ultimo romanzo. Proprio a Varsavia quattro anni prima il padre scomparve senza alcun motivo apparente, e l’assenza pesa senza sollievo ancora adesso, in giorni in cui si fa più intenso un dialogo muto con lo scomparso: Roberto tenta di rintracciarlo seguendo un labile indizio, che lo porta all’incontro, solo apparentemente fortuito, con Erin, una enigmatica ragazza irlandese, il cui destino pare debba, pur senza un motivo razionale, incrociarsi con il suo. Inizio così un pellegrinaggio sulle tracce (assai labili) del padre, che porta Roberto da Varsavia a Berlino e poi in Irlanda, non senza qualche ricordo della città dell’adolescenza, Firenze, amata ma non rimpianta.
Una conversazione di Luigi Valori con l’autore illumina aspetti utili ad una più completa comprensione del romanzo.

D: La tua produzione letteraria è parecchio variegata. Sei saggista (I giardini di Lorien, Nuova letteratura fantasy, Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei Fiori, ecc… ), traduttore e narratore. Più in particolare, la tua produzione narrativa appare piuttosto articolata. La tua quadrilogia composta da Sentieri di notte, Partita di anime, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito disegna una realtà distopica e ci consegna prospettive inquietanti su un futuro prossimo, ma, speriamo, non necessariamente venturo. Per arrivare ad una comprensione ragionata del tuo ultimo romanzo Viale dei silenzi è il caso di accennare al percorso che fin qui hai seguito, a partire proprio da questi romanzi che ti hanno imposto all’attenzione come uno dei più avvertiti interpreti del connettivismo italiano. Innanzitutto, allora, che cosa è il connettivismo e quanto ha improntato di sé la tua produzione, a partire dalla quadrilogia?

R: Sì, una prima impressione generale che si può ricavare dalla lista delle mie pubblicazioni è quella di essere molto varia. E sicuramente è vero, perché mi sono cimentato e mi cimento sempre con territori nuovi, parlando di forma letteraria (saggistica o prosa, ma anche poesia, per quanto ancora inedita) e di contenuti e generi (dalla distopia filosofica dei miei romanzi della serie della fine di internet al romanzo realistico e psicologico, con Viale dei silenzi). Credo che uno scrittore debba sempre mettersi alla prova, e non sparando a casaccio, ma cercando forme e contenuti via via idonei a esprimere la sua visione del mondo – non diversamente dai musicisti o dai pittori, per citare altre due forme d’arte –. Ciò non toglie che gli elementi di continuità tra i vari tasselli della sua esperienza esistano, sia sul piano tematico, sia su quello della “voce” narrativa, ovvero dello stile. E questo vale anche per me.

Tutta la prima stagione della mia attività letteraria, quella della saggistica e degli studi tolkieniani – peraltro, “ripresa” ultimamente con la nuova edizione in versione bilingue di Tolkien. La Luce e l’Ombra (Tolkien. Light and Shadow, Kipple Officina Libraria, 2019) – è stata segnata da ricerche sull’arte subcreativa di Tolkien, quella che, passando attraverso l’Evasione dalle catene del mondo materiale e il Recupero di consapevolezza veicolato dall’esperienza di un mondo parallelo, innesca un effetto di nuovo radicamento nella realtà (con una coscienza arricchita e uno sguardo ripulito su ciò che l’abitudine quotidiana aveva privato di qualunque sapore). Ho sempre creduto e credo ancora che lo scopo della letteratura (di qualunque genere sia, e dunque anche se realistica) sia precisamente quello di renderci maggiormente consapevoli del qui e dell’ora (che, peraltro, comprendono in sé anche una misura di Eterno). E questo obiettivo ho cercato di perseguire anche nei miei romanzi distopici. Questi, immaginando – senza profetizzarlo – un crollo di internet negli anni 2025-2029, aspirano a rendere il lettore maggiormente cosciente del rischio di deriva mentale e sociale a cui la Rete, e soprattutto i social media – sia pure, per altri versi, molto utili – ci stanno portando dal punto di vista della qualità delle relazioni umane e della capacità di osservazione del mondo, a livello intellettuale ed emotivo (al netto dell’inattesa indispensabilità che stanno rivelando, in questo momento di forzato isolamento che tutti noi stiamo vivendo).

Insomma, ho voluto dare una “scossa” contro l’ondata di fretta e superficialità cui la tecnologia, là dove non effettivamente funzionale a migliorare la qualità della nostra vita, ci espone, rendendoci più piatti, soli e incapaci di leggere criticamente la realtà, oltre che di vivere una vita emotiva piena e appagante. Tanto che, come ho sottolineato in una mia precedente intervista, a proposito dei miei romanzi distopici amo parlare di “realismo arricchito”, e non di “fantascienza” (nonostante alcuni stilemi del genere siano presenti). Del resto, questi tratti sono parte del patrimonio genetico di tutto il movimento connettivista, compagine aperta e mai impositiva di scrittori e flussi d’ispirazione risonanti tra loro eppure tutti diversi, ma accomunati dal fatto di unire a domande sul rapporto tra uomo e tecnologia una sensibilità poetica che oserei definire post-crepuscolare, legata alla sottile malinconia delle metropoli postmoderne, e soprattutto alla solitudine indotta dall’isolamento provocato dal dilagare dei social media. Proprio qui si aggancia il tratto più viscerale della poetica connettivista, per lo meno nella variante che sento più mia, e che trova espressione nei miei romanzi distopici: quello della ricerca nel profondo dell’animo umano, letto – quasi junghianamente – come un territorio in cui memoria e simbolo, emozione (spesso rimossa o bloccata) e archetipo sono strettamente connessi e intrecciati, e richiedono, per l’appunto attraverso l’intreccio narrativo, di essere sciolti per additare una possibile risposta alle domande più cruciali che nascono nella società di oggi.

D: Viale dei silenzi si discosta a prima vista abbastanza nettamente dalle opere precedenti: quelle distopiche, questo realistico; quelle rivolte al futuro, queste ad un presente orientato al passato; quelle esploranti il coté più inquietante delle tecnologie del prossimo futuro, questo maggiormente aperto ad esplorare le emozioni dei personaggi. È possibile individuare, scavando più a fondo, una linea di continuità?

R: C’è sia una misura di continuità, sia un cambio di passo. In Viale dei silenzi, che è il mio primo romanzo tout court realistico, ho spostato tutte le variabili tematiche e di atmosfera, oltre che stilistiche, cui facevo riferimento nella precedente risposta in una cornice contemporanea del tutto scevra da stilemi risonanti con la fantascienza. Tanto che non lo si può considerare un “romanzo connettivista”, ma un romanzo psicologico o – come dice il risvolto di copertina – “un’indagine nei territori della memoria”, nella quale certi aspetti della mia stagione connettivista filtrano ancora (penso alla descrizione poetica di un parco di Varsavia, che offre al protagonista lo spunto per una riflessione sul tempo ispirata a suggestioni cosmiche), ma quello che domina è una voce nuda – la “mia”, per come trasfusa nell’io narrante del personaggio-Roberto – a confronto con tre grandi temi: il dialogo con un genitore assente (e con se stesso), l’amore perduto e nuovamente cercato, e la ricerca del senso della vita attraverso il confronto costante con i luoghi del mondo. Certo, le emozioni erano al centro anche dei romanzi distopici, e così pure il mondo disgregato e che isola le persone – tanto che una studiosa dell’Università di Danzica e una sua dottoranda stanno dedicando delle loro approfondite ricerche proprio a questi tratti della mia narrativa –, ma adesso il mondo interiore è balzato direttamente in primo piano, ed è in esso che leggiamo (impresso e come “in negativo”) il peso e l’immagine della storia e delle derive politiche e sociali in atto nel continente europeo. I luoghi e la storia di cui sono portatori, cioè, sono il correlativo oggettivo delle vicissitudini del protagonista e della sua famiglia.

D: Varsavia, Berlino, l’Irlanda, Firenze: è azzardato pensare che il vagabondaggio di Roberto rappresenti una precisa geografia sentimentale, con una particolare attenzione alle implicazioni sociologiche che una permanenza consapevole in un luogo suggerisce: Varsavia post-comunista ed ancora un po’ cupa e misteriosa, Berlino nel suo continuo puntare alla modernità, l’Irlanda così proclive alla riflessione su se stessi, Firenze vista con le lenti del ricordo puntate sui suoi anni ‘80?

R: Hai ben colto l’aspetto cruciale del romanzo e della mia ricerca letteraria del momento. Ognuno di questi luoghi (che ben conosco per numerosi soggiorni e viaggi fatti, oltre agli studi linguistici) porta con sé tutta una serie di risonanze che sono il frutto del consolidamento della sua storia e della sua proiezione nel futuro. Varsavia mi interessava in modo particolare perché, girando per le sue strade, si percepisce proprio la compresenza dei drammi del suo passato (dall’occupazione e dalla distruzione nazista alla dittatura comunista) e dell’apertura a un orizzonte nuovo – oggi è una metropoli in grande fermento sul piano economico e culturale, nonostante la resistenza di un governo ampiamente illiberale – e quindi si prestava molto bene a fare da luogo di ambientazione della vicenda di un personaggio – uno scrittore ospite di una residenza letteraria – che proprio da qui inizia la ricerca del padre scomparso. Berlino, per lui, è un punto di transito nel corso della sua indagine, e di essa ho fotografato soprattutto il quartiere di Schoeneberg, dalle suggestioni cosmiche à la David Bowie (l’artista vi soggiornò negli anni ‘80), perché proprio questo elemento era utile ad accompagnare la trama in un suo snodo cruciale. Dublino e tutta l’Irlanda, poi, riecheggiano le suggestioni intimistico-meditative della prosa di alcuni dei suoi più grandi autori (penso soprattutto a James Joyce e a William Butler Yeats), ma anche l’entusiasmo vitale e la straordinaria intensità della sua narrativa contemporanea (penso ad autori come Roddy Doyle, Catherine Dunne e Joseph O’Connor), della sua scena musicale e della sua popolazione, che hanno offerto uno scenario ideale per la transizione del mio personaggio dal passato verso una nuova vita.

Quanto a Firenze, la scelta di lasciarla come immagine di sfondo – non reale luogo di svolgimenti dei fatti, ma solo dei ricordi del protagonista – è stata dovuta al fatto che uno dei primi spunti per questo romanzo mi è venuto dalla visione di tanti film italiani degli anni ‘70 e ‘80 – ricordati, peraltro, nel corso della trama – che ritraevano un’Italia, dopo tutto, appena “dietro l’angolo”, ma che di fatto non esiste più: indipendentemente dall’ambientazione (Firenze, Roma, Milano, Napoli o altre città), le pellicole – e soprattutto le commedie – di quel periodo trasmettono ancor oggi un’impressione vivida di un paese dal ritmo di vita ancora normale, a misura d’uomo, con relazioni interpersonali aperte e cordiali, senza la fretta, la nevrosi e l’indifferenza che oggi predominano. Ecco: mi pareva profondamente affascinante l’idea di ripensare (o meglio, di far ripensare il mio personaggio) a tutto questo da lontano: forse perché di Firenze e dell’Italia riesco a scrivere meglio quando sono all’estero, o forse anche per il fatto che uno degli obiettivi di questo romanzo era riuscire a rendere il senso di solitudine e sradicamento di un cittadino europeo in un’Europa che si sta lacerando.

D: Nei ringraziamenti finali neghi che il testo abbia elementi autobiografici. Su questo forse bisognerebbe intendersi. Posto che la storia non sia autobiografica, il lettore non può non essere portato a ritenere, da vari indizi, tra cui l’associare paesaggi e sensazioni, il germinare di emozioni su se stesse, cioè anche in assenza di avvenimenti espliciti che li generino, che un fondo autobiografico, di genere essenzialmente psicologico, percorra l’intera storia.

R: Io credo che ogni testo narrativo (soprattutto quelli scritti in prima persona) utilizzi elementi personali della vita dell’autore, dunque, in questo senso, ogni testo è autobiografico. Il discrimine sta nella misura in cui lo scrittore ha voluto raccontare la propria vita – che non è il mio caso – o invece usare singoli “pezzi” della propria esistenza per dare corpo, insieme a elementi del tutto inventati, a una vicenda che non ha niente a che fare con lui – ed è precisamente quello che ho fatto io. Da questo – e dall’intenzione di non far pensare ai lettori che i genitori di Roberto fossero sotto sotto i miei – la mia precisazione nei ringraziamenti finali.

D: C’è una qualche particolare attenzione alla musica, nella tua scrittura, o è il fascino del continuum narrativo a trasmetterne la suggestione?

R: Sono vere entrambe le cose. Tutta la mia scrittura è sempre stata percorsa da una suggestione musicale, e non solo per i riferimenti sparsi a vari musicisti contenuti nei miei romanzi, e anche in Viale dei silenzi, ma per lo snodo musicale, come hai ben sottolineato, delle vicende e delle parole usate per raccontarle. Molto, negli ultimi quattro anni, su di me ha influito la ripresa degli studi di chitarra classica con il Maestro Ganesh Del Vescovo, uno dei massimi compositori ed esecutori per questo strumento e un cultore della timbrica del suono. Rientrare in questo universo con la sua guida mi ha permesso di affinare moltissimo la ricerca delle parole che non solo per il significato, ma per la stessa sonorità delle lettere che le formano, veicolano meglio l’emozione e il concetto che un certo passo narrativo vuole trasmettere, al contempo legandosi alle altre in un fraseggio scorrevole e pervasivo. Insomma, uno dei miei “pallini” è essere al contempo profondo e “godibile”. Un libro che scorresse ma con banalità, o fosse intenso ma fondamentalmente pesante, non potrebbe assolvere alla propria funzione artistica, umana e sociale.

D: La frase di Giorgio Manganelli posta ad esergo del libro “gli assenti esentano i vivi da qualsivoglia conversazione, per cui ci si va preparando a un tempo di silenzio invernale (…)” allude al tono limbale che si percepisce di quando in quando nelle descrizioni paesaggistiche delle città del Nord (tenendo sempre conto che paesaggio e atteggiamenti emotivi in Viale dei silenzi spesso si fondono), o anticipa momenti precisi della storia, o ancora è elemento esornativo e non esplicativo della narrazione che sta per iniziare?

R: È una frase tratta dal Discorso dell’ombra e dello stemma (ed. Adelphi), e quando l’ho letta l’ho immediatamente trovata perfetta come esergo per Viale dei silenzi, e non solo perché venata dalle atmosfere fumé e velatamente malinconiche soprattutto di Varsavia, ma perché focalizza bene i temi dell’assenza (dato che non si sa se il padre di Roberto sia morto o soltanto scomparso) e del silenzio, non solo esteriore ma soprattutto interiore, come dimensione di viaggio e scoperta continua, che dialoga, come accennavo prima, con i luoghi del mondo.

D: Il romanzo ha un finale “aperto”, o quanto meno non ha una chiusura definitiva, il che non nuoce affatto, per una rappresentazione anche emozionale della realtà: le emozioni difficilmente si estinguono nel momento stesso in cui una storia finisce. È azzardato pensare ad una continuazione, o ritieni conclusa questa esperienza di narrazione?

R: Non sono in grado di rispondere oggi. L’idea è che si tratti di un romanzo autoconclusivo, ma certamente il finale lascia aperta anche la possibilità di un seguito. Quando scrissi Sentieri di notte, il primo romanzo della serie distopico-filosofica della fine di internet, non avrei mai pensato che ne venisse fuori una tetralogia. Le idee sono arrivate dopo, e mi richiamavano con troppa energia per essere trascurate. Se questo dovesse accadermi anche dopo Viale dei silenzi, certamente non potrò sottrarmi. Ma per il momento sono impegnato in altri progetti narrativi che mi attirano e mi impegnano con forza, e non ho quasi il tempo materiale di pensare a un secondo atto. Vedremo: il tempo dà sempre risposte interessanti.

Poesia & Ecologia, conversazioni con Fabio Pusterla

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a cura di Stefano Modeo

(L’articolo è apparso su “Atelier” n.97)

 

Non ti basta, lo so. Vorresti altro.

Non ti basta, fiume, il mio ascolto,

né ora per te è il momento di ascoltare,

tu non puoi ascoltare perché corri infuocato

spinto dalla violenza delle gole.

Trittico ornitologico

3

di Benny Nonasky

Partiamo dal presupposto che una qualsiasi cosa debba essere utile. Successivamente, quella qualsiasi cosa, deve anche essere fatta bene. Penso che sia sufficiente. Perché io mi interrogo sulla composizione, sulla bellezza, sull’esito positivo delle cose. Ma non tutte vengono bene. E non tutte hanno un’utilità positiva. Almeno le cose antropiche. In natura tutto è collegamento e rete. Se una cosa funziona, anche il resto ne giova e il mondo va avanti. Per fare un esempio quotidiano: se non avessimo disboscato mezzo mondo, se avessimo tenuto una determinata distanza dal mondo animale, il Covid-19 sarebbe rimasto lontano dai nostri organi e pensieri. Questa composizione è un contributo personale verso tre splendidi uccelli che ho avuto modo di vedere e studiare. Racconto il nostro primo incontro. Ed essendo principalmente un poeta, lo faccio con la poesia. Niente di più semplice e difficile. Spero di tornare presto in natura personalmente, ma intanto posso rappresentarla per iscritto e spero che anche voi riusciate ad entrarci, a stupirvi (come successo a me), a divertirvi e a pensare al dopo non come ad una riscossa, ma con attenzione e lentezza. Non credo che tutto sia ormai perduto. Non penso che la gente voglia vivere sempre chiusa dentro casa, impaurita dalla Terra e dai suoi malanni accelerati e sconvolgenti, in atto per mano umana. Come mi capita di pensare in questi giorni di quarantena, quando esco per fare la spesa, la cosa più triste è non vedere bambini per le strade. È tremendo. Solo vecchiette che si lamentano di qualcuno che passa avanti per gli affari suoi anche se non deve fare la spesa. I bambini sono quello che ci resta per andare avanti. Io non voglio un mondo di vecchiette sclerate e uomini crudeli. Penso nessuno di voi. Una buona lettura.

 

.Il Martin Pescatore1.

Stare appostato da mattina a sera
sul molo dismesso d’un ritaglio del Po
e non vederlo.

Saperlo frusciare sulla corrente
così fulmine e lampo da figurarlo
anch’esso luccichio e acqua.

Scavare con gli occhi il circostante
per osservarlo rigido su un ramo
ad attendere la preda

che comunque passerà di là
perché è il destino della preda
e non per la superficialità della materia:

nell’omicidio preciso –
per fame, orgoglio, potere e fame –
va così il mondo.

Allora anche l’amore:
un piccolo pesce come il primo bacio2,
l’esempio che per unire qualcosa si spezza;

e l’omicidio così passabile,
necessario alla sopravvivenza
e alla riproduzione.

Perché è il destino della preda –
o ciò che l’uomo ha deciso
per le sue innumerevoli prede:

addobbo per i capelli delle signore,
un cuore per i bambini epilettici,
barometro secco appeso in cucina3.

Ciò che l’uomo ha deciso
(dietro al gesto non c’è amore)
è l’omicidio così passabile,

non necessario alla sopravvivenza
e alla riproduzione:
solo per affermare che noi

possiamo tutto contro tutti
fino a una qualunque misera fine.
Va così il mondo.

Io per giorni ho trascorso ore zen
d’osservazione senza mai incontrarlo.

Avrei potuto stanarlo bruciando l’intera
boscaglia dispersa tra le sponde del Po.

Dire di averlo visto – cometa che folgora
la troposfera; niente di più profondo e blu –

e dire, sì, di averlo visto;
compreso il piromane che per un attimo

non sono riuscito a fermare.
<<Va così il mondo>>, avresti detto.

Invece ho lasciato perdere.
Invece ritornavo ogni giorno là,

il tempo di accendere/spegnere una sigaretta.
Una vita dopotutto.

Ma così si concludono le grandi storie.
Qualche settimana dopo,

l’occhio percepisce un movimento,
dita che scivolano su un do diesis minore,

ed eccolo: delicato, signore del fiume,
un Alcione4 adulto, i suoi colori come

stesi su una tavolozza ancora freschi
di Marc Chagall o Rembrandt.

Era in posa su un lampione smunto.
Io ho cancellato i minuti e le ore.

Forse mi sarei dovuto inchinare
ma uno, forse miliardi di secondi,

e già un fulmine e lampo
ormai un luccichio e acqua.

Spettava a lui fare la prima mossa.
Mostrarsi, specificare le distanze,

la mia incapacità d’osservazione.
E proteggere il territorio dalle bestie cattive,

che avrei potuto disboscare l’intera area
o diventare un tutt’uno con gli alberi,

sbandierare al vento il pollice opponibile,
tanto comunque

spettava a lui definirmi il destino:
semplicemente una preda.

 

NOTE

Questa poesia parla del Martin Pescatore (Alcedo atthis), piccolo e fantastico uccello della famiglia degli Alcedinidi. Inconfondibile per il suo lucido colore azzurro-verde, con riflessi metallizzati, e il becco lungo e nero. La poesia racconta dell’incontro avvenuto tra me e il Martin Pescatore dopo diverse settimane (in giorni sparsi) d’appostamento.

2 Il Martin Pescatore è un uccello molto territoriale, scaccia con voli rapidi e precisi tutti gli intrusi, tranne le femmine che “invita” donandogli un piccolo pesce. Se il dono viene accettato, scavano nella terra il loro nido.

3 Nel Settecento e nell’Ottocento era consuetudine per le dame indossare copricapi che brandivano corpi imbalsamati di piccoli uccelli, compreso il Martin Pescatore.

Altro uso inutile, già dal basso medioevo, era quello di uccidere il Martino e utilizzare il suo piccolo cuore come amuleto, allo scopo di guarire i bambini colpiti da epilessia.

In Italia, e soprattutto nella Romagna, forse fino agli anni cinquanta del secolo scorso, girava una strana tradizione: usare il corpo del Martino come barometro. Veniva appeso solitamente in cucina con una corda di violino e quando volgeva il petto verso Nord, in base al periodo dell’anno, poteva esserci bel tempo o neve; quando lo volgeva a Sud, arrivava invece la pioggia.

4 Il suo nome viene dal greco halkion (colui che genera sul mare). Gli Dei amavano molto questi uccelli da calmare le acque quando nidificavano. Nella mitologia greca, Alcione, una delle Pleiadi, andò in sposa a Ceice figlio di Espero, la stella della sera; quando Ceice morì in un naufragio essa pure per disperazione si gettò in mare, tanto che i numi impietositi dalla loro sorte li trasformarono in Martin pescatori.

**

.Miuuu1.

Sole allo zenit e in quota salendo,
ali tese su ascensionali correnti,
il grido d’armi e tormento per il resto:
cala il silenzio dentro il firmamento2.

Così, dalla montagna ferita dal fuoco
dove Rea3 cade per denaro e sorge
comunque tra le macerie umane,
la Poiana scende incontro al mare.

Così è scesa pure la mia gente
a sostituire l’ulivo al cemento4.
Divorare il mare per poi inveire5.
Quello che avevano. Quel che sono.

Cani abbandonati. Pali elettrici. Resilienza6.
Quando la Poiana lascia la montagna
c’è un certo eccitamento nell’aria.
Una regina attraversa la miseria terrena

e le rondini sono silenzio sui tetti
e ancora una volta invidio quel grido –
che è dolore e rivoluzione,

tra lo scudo e la spada,
le macerie e la misericordia umana –
percepire che il mondo ti sta a sentire.

 

NOTE

1 La poesia parla della Poiana comune (Buteo Buteo), splendido rapace della famiglia dell’Accipitridi. Animale molto comune in Italia, lo si può trovare sia in aree boschive che antropizzate, ha una piumaggio bruno-marrore sulla parte superiore, più chiaro e macchiato su quella inferiore. Il titolo è l’interpretazione del suo richiamo, come un fischio miagolante; imitato molto bene anche dalla Ghiandaia. La poesia racconta di una Poiana che ogni estate, verso l’ora di pranzo, arriva dalla montagna (una parte dell’Aspromonte) e si spinge per qualche ora verso il mare, passando sopra la mia casa. Succede qualche giorno dopo il mio rientro, a fine luglio. È come se mi venisse a salutare. <<Bentornato>>.

2 Ho notato che quando la Poiana è in volo (come descrivo in poesia: plana, sfruttando le correnti calde ascensionali), nel cielo si espande un gran silenzio. Se prima le rondini tagliavano l’aria come motovedette con le ali, improvvisamente il vuoto. E giustamente direi: più che una grande vista, le Poiane hanno un ottimo olfatto (oltre che cacciatori, sono saprofagi) e non disdegnano altri uccelli come prede.

3 Rea, nella mitologia greca, è la figlia di Urano (Dio del Cielo) e Gea (Dea della terra) e sposa di suo fratello Crono (Dio del tempo), dalla quale avrà sei figli. Cinque verranno divorati dal padre. Si salverà solo Zeus: la madre fa mangiare a Crono un sasso avvolto in una tela. Rea è, come sua madre, Dea della terra. Inoltre, secondo i mitografi greci, si reincarna in Cibele, “la Grande Madre”. Il suo potere comprende l’intera natura, di cui ella personifica la potenza della vegetazione.

4 Come in tutt’Italia, negli anni cinquanta e sessanta, anche Caulonia (mio paese natio) è stato soggetto a quel fenomeno urbano detto gemmazione; cioè l’espansione del paese collinare o montano verso le zone limitrofe al mare. In alcuni contesti si sono creati nuovi comuni, come un’entità territoriale autonoma o solo come estensione urbanistica, spesso con la sola aggiunta del toponimo “Jonica” o “Marina” dopo quello del vecchio comune d’appartenenza (es. Gioiosa Jonica, Siderno Marina, eccetera). Altre volte sono stati abbandonati interi paesi (anche per fattori ambientali come terremoti o alluvioni) dove tutta la popolazione è stata costretta a spostarsi in una nuova sede a ridosso del mare. Caulonia è uno dei più grandi paesi, per estensione territoriale, della provincia di Reggio Calabria. Negli anni cinquanta comincia a spargere cemento sulla costa senza alcun piano regolatore (altro fattore tipico della gemmazione). Viene ridotta la battigia e distrutta buona parte della macchia mediterranea che lambiva la costa cauloniese (ma questo evento è valido per tutta la Locride). In un decennio Caulonia Marina diventa un centro abitato a tutti gli effetti. Con case non finite e un lungomare distrutto dalle continue mareggiate, dal costante innalzamento del mare e dall’evento naturale di subduzione.

5 La genialità la si può riscontrare dentro al mare. Oltre ottanta metri di blocchi di cemento, in linea verticale a partire dalla spiaggia, dispersi nell’acqua marina di Caulonia: fanno parte di un vecchio muro costruito per difendere le case dalle devastanti mareggiate invernali. Inutile. Come è inutile ogni difesa umana contro la natura. In poco tempo il muro è stato distrutto e trascinato in acqua. Ora non desidero dire che intelligentemente il muro è stato di nuovo costruito e di nuovo frantumato, che sono stati spesi milioni di euro per costruire un lungomare con le palme senza occuparsi del moto delle correnti, quindi delle mareggiate, installando dei massi frangiflutti sul lato est della spiaggia. Non voglio dire. Ma è simpatico sentire la gente del luogo, i paesani, inveire contro il porto costruito dal paese vicino, a cui viene addossata tutta la colpa delle sciagure del lungomare, o direttamente contro il mare, invece di pensare di aver totalmente costruito senza controllo proprio sopra quel maledetto mare.

6 Resilienza è un termine che viene utilizzato in diversi campi (dalla psicologia alla tecnologia). In questo contesto riguarda quello ecologico. Quindi la Resilienza è la capacità di un ecosistema di resistere ai colpi, di attutirne gli effetti devastanti, di ritornare al suo stato iniziale, dopo una perturbazione ambientale o antropica che l’ha allontanata da quello stato.

**

.Nella casa del Tyto alba1.

Leggevamo già Lovecraft ed Edgar Allan Poe
e le giornate le passavamo tra vampiri e D&D2.
Prendevamo decisioni con un lancio di dadi.
La vita procedeva carta dopo carta, Grandi Antichi3;
nel cuore Morella4, disperato amore all’E. A. Poe.

Forse psicosi, delirio perfetto o surrealtà
io quella sera rincasavo leggero,
di stelle e luna neppure uno sguardo,
e solo nei miei passi la rotazione del mondo;
la nostra convinzione di essere centro del mondo.

La storia inizia qui. Improvvisamente
come un richiamo, mi volto e la notte
catramosa tra sterpaglia e una casupola,
tegole insanguinate e finestra spezzata.
Mi fissa. Io allungo il passo.

Improvvisamente qualcosa si stacca,
ombra e luna, cuore alato5 che stride
nella notte catramosa – e io allungo il passo.
Volteggia, mi fissa e sintetico precipita
bombardiere tra sterpaglia e le stelle.

Mi lancio fuori dal riquadro ed è già giorno.
Rifletto. Racconto e decidiamo di seguire
il paradigma fondamentale della specie umana:
ignorare. Ma la vita ci vuole esploratori –
e poi non è che abbiamo tutto questo da fare.

Il Barbagianni prese ad appollaiarsi con noi6.
Il Barbagianni ci aveva scelto.
Il Barbagianni è il guardiano della notte catramosa
quando di stelle e luna neppure uno sguardo.
Il Barbagianni è una specie sinantropica7,

predatrice selettiva, volo e Spirito Santo8,
sofferente nel rombo esploso dal traditore,
nel cemento imperante per il rombo dei motori,
nel mais e il rombo degli habitat decaduti9.
Nel cuore Morella10, disperato amore all’E. A. Poe.

La storia inizia qui. Riflettemmo e decidemmo
di compiere una delle azioni più stupide dell’umanità:
concedersi all’orrore. Entrammo nella casupola.
La porta cigolò giustamente. Dentro:
fieno. Borra11. Il ronzio di mosche sopra

una volpe e il suo odore nero di morte.
Un baule. Dentro: vestiti, coperte e foto
bianco nere. Erano foto d’un funerale.
C’era tanta gente e la bara era aperta al cielo.
Un signora possente regnava

in quel pezzo di legno aperto al cielo.
Io scattai delle fotografie. Improvvisamente
come un richiamo, un avvertimento.
Il suo stridio alba nei territori del Sud.
Noi fuori dal riquadro ed è già giorno.

Alla luce del sole tornammo e il fuoco
aveva arso sterpaglia e una casupola.
Paura. Ora la casa del Tyto alba
era stata violata da uomini e fuoco.
Bruciate risultarono anche le foto scattate

e il cuore, che fa allungare il passo
a quest’uomo che rincasa troppo leggero,
in una vita programmata da dati e scadenze,
ignorando l’orrore – da quel momento io
di Barbagianni ne ho visti solo in tivù.

 

NOTE

1 Questa poesia parla del Barbagianni (Tyto alba), incredibile rapace notturno appartenente alla famiglia dei Titonidi. È presente in tutt’Europa, prediligendo ecosistemi agro-pastorali; spazi coltivati, aperti, boschetti o semplici filari d’alberi. Volto e petto bianco (più scuro nella sottospecie europea, Tyto alba guttata), occhi neri e un piumaggio principalmente rossiccio-marrone. La poesia racconta di un fatto veramente accadutomi nell’adolescenza.

2 Sono due giochi di ruolo e di carte (Vampire, The Masquerade; Dungeons & Dragons, abbreviato D&D) molto in voga tra noi ragazzi (nerd) tra gli anni ottanta e i primi duemila.

3 I Grandi Antichi sono creature semi divine sparse sulla Terra, extraterrestri di enormi dimensioni, creati dallo scrittore H. P. Lovecraft. Il più famoso è il potente Cthulhu, essenza blasfema che giace in uno stato di semiveglia, in attesa che la giusta congiunzione astrale lo possa risvegliare. Essa è adorata da popolazioni degenerate, selvaggi e folli, connessa ad incubi e il cui culto prevede atroci sacrifici umani.

4 “Morella” è un racconto (1835) dello scrittore e poeta E. A. Poe. Leggetelo. Capirete il significato di questo verso.

5 Il disco facciale del Barbagianni ha la forma di un cuore con la parte inferiore arrotondata.

6 Ciò che intendo in questo verso è verità e non ne comprendo ragione: dopo il primo incontro, il Barbagianni (perché era quel Barbagianni) cominciò ad appollaiarsi la sera sui nostri balconi. Io lo vidi due volte su quello della mia camera da letto.

7 Il termine sinantropico, in biologia, sta a specificare quelle specie animali e vegetali che si rinvengono in ambiti alterati da una persistente attività umana. Come già scritto in precedenza, il Barbagianni predilige gli ambienti agro-pastorali. Ma con la macchinazione del lavoro dei campi e i nuovi sistemi di raccolta e stoccaggio delle colture, quindi col progressivo abbandono dei fienili e dei silos agrari, lo si avvista anche in contesti più urbanizzati come campanili o case abbandonate.

8 La tecnica di caccia “Spirito santo” viene chiamata così per via della capacità di alcuni rapaci di rimanere fermi in aria, battendo velocemente le ali o sfruttando il vento (come il Barbagianni, la Poiana e il Martin Pescatore).

9 Questa nota si riferisce ai tre versi che trattano i fattori principali che minacciano la specie Tyto alba. Quando parlo di traditori, intendo i cacciatori che per divertimento e collezionismo uccidono senza ritegno, solo per scopi edonistici o per soldi. Un esempio lampante è la totale scomparsa in natura a Malta, negli anni cinquanta, del Barbagianni; anche se Malta è uno dei paesi con il più alto numero di Barbagianni in cattività al mondo. Il cemento invece riguarda la continua urbanizzazione di zone prima rustiche e rurali; case, centro commerciali, strade, viadotti e ampliamento delle ferrovie. L’ultimo rombo riguarda, come già descritto nella nota precedente, i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nell’agricoltura. Tutti questi fattori sono una minaccia per la sopravvivenza della specie. In Italia la comunità di Barbagianni è in forte calo, quasi scomparso in molte regioni del Nord e del centro. Rimane stabile al Sud.

10 Il Barbagianni è monogamo; ha una/o compagna/o per tutta la vita. Qui l’amore è inteso in tal senso.

11 La borra è il residuo delle prede non digerito (ossa, penne, pelo), di forma tonda o ovoidale. I Barbagianni, come gli altri Strigiformi, non hanno il gozzo e ingurgitano la preda viva direttamente nello stomaco. La selezione di ciò che mangiano avviene nello stomaco. L’espulsione invece con un rigurgito

Bei Dao e i poeti menglong

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di Lorenzo Pompeo

 

Alla loro apparizione, con la pubblicazione nel 1978-1980 della rivista indipendente Jintian (in it. “Oggi”), un gruppo di poeti contemporanei cinesi venne ribattezzato dalle autorità letterarie cinesi con un nome che intendeva essere denigratorio: menglong. Il termine, che di solito viene tradotto come “oscuro”, e che altro non era se non una accusa di “incomprensibilità”, veicola in realtà più sensi contigui, tra i quali prevale quello di una “semioscurità in cui si vela una luce”. Il termine menglong è, paradossalmente, rimasto, sia in Cina che fuori, il nome più comune per indicarli. Per analogia, i poeti più giovani apparsi verso la seconda metà degli anni Ottanta sono stati chiamati “post-menglong[1].

Scrive Gu Chen, uno dei maggiori poeti di questo gruppo: «La poesia contemporanea cinese si differenzia dalla poesia straniera contemporanea, come pure da qualunque altra poesia della storia cinese. Anzitutto in Cina c’è stata la Rivoluzione culturale: è stata un’epoca davvero vuota, isolata da tutto  come un vaso di ferro; ciascuno ne ha sofferto la pressione, senza poter ricevere alcun aiuto dalla cultura, dalla storia o dal mondo esterno. In questa situazione la gente voleva ancora esistere, e tra costoro un piccolo numero non ha potuto che dissetarsi con le proprie lacrime, con la propria voce o con i propri sogni; la poesia è diventata praticamente l’unica forma della loro esistenza. In questa solitudine alcuni sono morti, altri sono impazziti, altri ancora scrivono tuttora, sono conosciuti, sono diventati i poeti contemporanei. (..)

Ancora oggi non siamo in grado di stabilire se la Rivoluzione culturale sia stata una punizione del Cielo o solo una verifica involontaria, ma possiamo chiaramente vedere che la poesia nasce della vita in sé, nasce dagli anni intollerabili della vita»[2].

Per Yang Lian, che fu tra i redattori di «Jintian», la nuova poesia cinese nasce da una rottura con tutta la “lingua e la logica” della poesia cinese, che la fine fallimentare della Rivoluzione culturale ha portato a completa saturazione, esaurendone ogni possibile verità. Non si tratta però, egli sostiene, di una poesia “politica” , o di una “critica sociale”, benché la politica indichi una certa coloritura del “contesto esistenziale” nel quale essa è sorta. Le caratteristiche più profonde sono invece per lui “un severo senso dell’esistenza” (e soprattutto di una modalità d’esistenza “non socializzata”) e la capacità di trattare una difficoltà radicale: nulla, egli dice, garantisce che il “saputo” sia realmente “esistito”. «Fin dall’origine della poesia cinese contemporanea v’è l’abbandono di tutto il lessico, nonché della  logica, delle menzogne politiche in Cina. La politica è solo un certo colore del contesto esistenziale nel quale si genera questa poesia. Perciò i problemi socio-politici non sono mai diventati il tema della poesia cinese contemporanea (..). La modalità fondamentale con cui la poesia cinese esprime l’esistenza è individualizzata, non socializzata, è concreta, non astratta. Infatti la tonalità poetica fondamentale è permeata dalla sofferenza, dal dolore, dalla disperazione, dalla fluttuazione, dalla morte e dalla predestinazione»[3].

La Rivoluzione culturale resta ancora, agli occhi dei cinesi, un enigma soggettivo, ma è chiaro che ciò che essa interrompe definitivamente è il credito intellettuale di tutta la “cultura rivoluzionaria”. Dal punto di vista che qui ci interessa, ovvero per quel che riguarda le questioni poste da questi poeti, ciò che la Rivoluzione culturale porta irrimediabilmente a esaurimento è un determinato nodo fra “fedeltà artistica” e “fedeltà politica”.

La recente silloge di Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008)[4], ripropone i versi di  quello che è forse più celebre tra i poeti menglong, noto anche al di fuori della Cina (attualmente vive a Hong Kong dopo aver vissuto a lungo in Europa e negli Stati Uniti). Addentrandomi nel libro e nella biografia dell’autore, mi sono reso conto che, pur non avendo alcuna nozione sulla lingua cinese,  ero in possesso di alcune chiavi per entrare nella sua creazione poetica. Si tratta di un autore che è ha vissuto sulla propria pelle le più nefaste conseguenze delle scelte derivate da una intransigente interpretazione dell’ideologia comunista. Secondo quelli che erano i dettami della cosiddetta “Rivoluzione culturale”. Appena sedicenne, Bei Dao (al secolo Zhao Zhengkai, il suo pseudonimo si traduce come “Isola del nord”), che proviene da una famiglia di quadri del partito, abbandona la scuola e si unisce alle Guardie rosse, rispondendo agli appelli di Mao che chiama i giovani alla lotta per cancellare la vecchia cultura. Nel 1966, appena ventenne, viene mandato in una zona remota a trecento chilometri dalla sua Pechino, per svolgere lavoro manuale, vi rimarrà per quasi tredici anni, lavorando come operaio prima e poi come fabbro in un cantiere edile. In questi anni la censura mise al bando la quasi totalità dei libri che non fossero classici del marxismo e opere di Mao (tuttavia Bei Dao aveva avuto la possibilità di leggere alcuni libri “proibiti” come classici della letteratura dell’inizio del ‘900 che aveva trovato nella soffitta della sua casa).

Paradossalmente proprio questo “grado zero” dal quale l’autore è dovuto partire lo rende in qualche modo decifrabile anche per chi, come me, non ha alcuna familiarità con la tradizione letteraria cinese. Bei Dao tenta di discostarsi dalla poetica del realismo, unico indirizzo consentito e promosso dalle autorità, ma deve farlo in modo molto accorto. Non può nemmeno rifarsi a una tradizione culturale che è stata completamente cancellata. Fin dall’inizio i suoi versi venivano considerati incomprensibili, e quindi anche non molto pericolosi, da parte delle autorità preposte alla vigilanza in campo culturale. I messaggi lanciati nelle sue poesie sono per lo più cifrati (e anche l’uso degli pseudonimi è nato per eludere il controllo delle autorità). A volte si riesce a intuire facilmente il bersaglio della sua poesia, come ad esempio in Risposta, nella quale scrive: «Sono venuto in questo mondo, / portando solo carta, corda  e ombra, / per proclamare prima del giudizio, / la voce giudicata: // lascia che ti dica, mondo, / io – non credo! / se mille sono gli sfidanti sotto i tuoi piedi, / considerami allora il millesimo e uno.»[5].

Tuttavia non bisogna fare l’errore di inquadrare quella di Bei Dao come una semplice “poesia di protesta”. Lo stesso autore, in un’intervista citata nella Introduzione della curatrice del volume, Rosa Lombardi, in merito alla sua poesia dichiara: «Ho cominciato a scrivere poesia all’età di vent’anni (..) Ma quando ripenso a quel momento, cercando di individuarne le ragioni, provo sentimenti complessi e resto confuso: come iniziai a scrivere? Da dove venne l’impulso originario? È il cosiddetto destino che ci porta a scrivere, oppure è scrivere che determina il nostro destino? (..) questo mi ricorda i primi tempi da fabbro, quando ero frustrato dai primi oggetti che producevo. Mi accorgo che un poeta e un fabbro sono molto simili: entrambi inseguono un sogno di irrealizzabile perfezione»[6].

Scrive la curatrice della silloge di Bei Dao Speranza fredda Claudia Pozzana: «Quello di Bei Dao è innanzitutto un mondo di pensiero, come rivela la calibrata astrazione dei suoi versi. Ciò che egli condivide con gli altri autori della configurazione cinese contemporanea – di cui “Jintian” costituì l’evento fondativo – è principalmente la visione della poesia come singolare forma di razionalità: spazio d’intellettualità capace di proprie procedure di pensiero indipendenti»[7].

La tradizione poetica cinese è onerosa sulle spalle del poeta quanto “la montagna, che nei manuali di storia sale e scende”, come si legge nella lirica A proposito della tradizione. Nel confrontarsi con essa, la poesia, precaria “candela che sprofonda nel buio”, flebile luce nella notte, “cerca reperti tra gli scisti del sapere ( dalla lirica Stagione movimentata). Il pensiero della poesia non può esimersi dai saperi filologico-letterari, tuttavia cerca alimento nelle loro discontinuità – gli scisti – piuttosto che nella loro integralità, e in definitiva tende a istituire con i saperi un rapporto analogo a quello che stabilisce con la lingua, nella quale cerca di far brillare fessure ed interstizi.

 

D’altra parte la poesia non può fare a meno dei saperi letterari, problema che come s’è detto è cruciale per l’intera configurazione poetica contemporanea. La soluzione che propone Bei Dao è una riappropriazione diretta dei saperi letterari, saltando inevitabilmente, almeno per ora, la mediazione educativa. E tale soluzione è praticata da tutti gli altri autori menglong, i quali, pur essendo profondi conoscitori della loro tradizione letteraria, sono tutti degli autodidatti, e comunque hanno svolto la loro formazione poetica e letteraria al di fuori delle istituzioni educative.

In L’arte della poesia, Bei Dao tratta esplicitamente fin dal titolo di questa esigenza di reinventare lo spazio di una sapere della poesia a partire dall’odierna indigenza:

 

versione di Rosa Lombardi

 

Nella grande casa cui appartengo
resta solo un tavolo, intorno
è una palude sconfinata
da ogni parte la luna splende si di me
il fragile sogno di uno scheletro ancora in piedi
in lontananza, come un’impalcatura non smantellata

e impronte di fango sulla carta bianca
la volpe nutrita per tanti anni
con un colpo della sua coda fiammeggiante
mi lusinga, mi ferisce

naturalmente, ci sei anche tu, seduta qui davanti
i lampi a ciel sereno che brillano nelle tue mani
diventano legna da ardere, mutano in cenere”

 

Versione di Claudia Pozzana, in: Speranza fredda, p. 37

Arte poetica

 

 

Di quella enorme dimora di cui appartengo

resta solo il tavolo, intorno

sterminate paludi

il chiarore lunare mi illumina da angoli diversi

il sogno dalla fragile ossatura sta lì come sempre

in lontananza, come un’impalcatura non ancora smantellata

 

e ci sono impronte di fango sulla pagina bianca

quella volpe allevata per tanti anni

agitando la coda fiammeggiante

mi loda, mi ferisce

 

e poi, certo, ci sei tu, seduto di fronte a me

le scintille azzurro cielo che ostenti nel palmo

diventano legno secco, si trasformano in cenere

 

 

Non resta nulla di quell’enorme dimora a cui la soggettività poetica appartiene (letteralmente: “è subordinato”). In questa indigenza, nella condizione di degrado dello spazio culturale della poesia, per essere nuovamente poeta, anche se circondato dall’immensa palude, basta quel tavolo, e il “chiarore lunare”, che anche in, come in Domande al cielo, è la luce rarefatta di una tradizione poetica, capace ancora di illuminare “da angoli diversi”. La precarietà congenita dell’esistenza della poesia appare in questo reticolo di luci dall’ossatura fragile come un sogno, orizzonte di riferimenti lontani, ma persistenti “come un’impalcatura non ancora smantellata”. Come nota giustamente la curatrice dell’edizione Einaudi Claudia Pozzana: «La meditazione sulla lingua, ricorrente nei versi di Bei Dao, costituisce un ampio orizzonte problematico, peraltro intensamente esplorato anche dai migliori poeti cinesi contemporanei (..). Essi hanno messo a fuoco, fin dalla fine degli anni Sessanta, una “questione della lingua” in Cina, tuttora investita con prospettive teoriche originali e trattata, con un crescendo di riflessioni intrinsecamente poetiche, come “questione” propriamente politica, che riguarda infatti le difficoltà soggettive dell’essere-insieme cinese, a di là dei simulacri comunitaristici che dominano la scena pubblica del paese.»

È inevitabile che le tracce della sterminata palude riappaiano come macchie sul foglio, ma la posta in gioco è riuscire a ripulire la scrittura poetica da quel fango, o forse a trasformarlo in materia prima della poesia stessa.

Ma per quanto difficili siano le condizioni esterne c’è anche una difficoltà interna alla soggettività poetica: “quella volpe allevata per tanti anni” che è, in contesto cinese, oltre che figura dell’astuzia, anche figura della seduzione, come attestato dalle “donne-volpi” della favolistica, fantasmi del desiderio femminile. Qui la volpe appare nella prima accezione, come una qualità interiore, a lungo coltivata come positiva, e pur sempre seducente per l’immagine di sé, ma nel momento in cui sembra appagare un desiderio di riconoscimento (“agitando la coda fiammeggiante / mi loda, mi ferisce”), infligge l’angoscia del misconoscimento: le lodi feriscono. La “coda” che la volpe agita – che che essa non riesce mai a nascondere interamente – in cinese idiomaticamente equivale al “vero volto” che prima o poi si svela.

Nel “tu” del finale convergono due figure possibili. Potrebbe essere rivolto al “tu-lettore”: se tratterai questa poesia come occasione per esibire abbaglianti opinioni costituite, vedrai quelle “scintille” trasformarsi in cenere. Ma potrebbe anche essere la poesia stessa che rivolgendosi al “tu-poeta “, lo ammonisce sui rischi di nullità dell’esibizione di scintillanti virtuosismi.

 

[1]Si veda Claudia Pozzana, Alessandro Russo, Introduzione, in: Nuovi poeti cinesi, Einaudi, Torino 1996. p. VI-VII.

2 Ibidem p. 214

3Ibidem, p. 209.

4 Bei Dao, La rosa del tempo. Poesie scelte (1972-2008), a cura di Rosa Lombardi, Elliot (Lit-edizioni), Roma 2018

5Op. cit. p. 45

6Op. cit. pp. 33-34

7 Claudia Pozzana, La distanza della poesia. Introduzione a Bei Dao, in: Bei Dao, Speranza fredda, Einaudi, Torino 2003,  p. VIII.

 

 

 

 

 

 

Overbooking: Valentina Maini

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Dalla parte della bambina

di

Monica Battisti

Gorane e Jokin, protagonisti del romanzo La mischia, sono due gemelli di venticinque anni. Come tutti i gemelli letterari che si rispettino, hanno tra loro un rapporto viscerale, morboso, complementare, irrisolto. Presentano alcuni tratti caratteriali in comune – tratti che agli occhi della gente li fanno apparire impenetrabili, alternativi, borderline, sociopatici –, ma sono poi le differenze a portare almeno uno dei due (Gorane) a una decisiva quanto imprevista evoluzione. Tra i fattori che li accomunano, inevitabilmente, il milieu in cui sono cresciuti: a Bilbao i loro genitori, attivisti dell’ETA e protagonisti di numerosi attacchi terroristici ai danni del governo spagnolo, hanno infatti applicato un rigido protocollo educativo: non avere protocolli, se non quello di aderire, incondizionatamente, all’ideologia che loro stessi hanno abbracciato e che hanno portato avanti fino alla morte con ammirevole coerenza, o forse con bieca incoscienza. Un’educazione, quindi, non priva di contraddizioni: educazione ad una libertà senza limiti, alla violenza se necessario, alla sofferenza come forma di immunità. «La storia di ogni infanzia è quella di un bambino che fa rumore per essere trovato».

Più eventi traumatici inaugurano i tentativi di affrancamento dall’interiorizzazione del modello genitoriale: la morte dei genitori, dopo la quale Jokin decide di fuggire a Parigi (2007); la sparizione di Jokin, in seguito alla quale Gorane, spinta dalla lettura di un libro, si mette alla ricerca del fratello, trasferendosi a Parigi (2008); la scomparsa fisica, letteraria e simbolica di Jokin, dopo la quale Gorane inaugurerà una nuova vita (2008-2015). Ciascun evento è reso possibile grazie a entrambi i personaggi, che continuano a cercare, a mantenere una connessione nonostante non abbiano tra loro contatti di nessun tipo.

Nella seconda parte (“Primo movimento”, “Secondo movimento”, “Terzo movimento”), però, è Gorane a conquistare maggiore spazio narrativo: è lei la protagonista di una moderna quête, più che di un’enquête (quella sì, piuttosto fallimentare), incentrata sul suo doppio, e quindi su di sé: «io i piedi staccati dal suolo li ho dalla nascita e ciò che desidero più di ogni altra cosa è atterrare, mettere radici e sprofondare nella terra fino a non muovermi mai più». È una quête circolare, in cui il vero oggetto del desiderio si rivela essere, in ultima istanza, sé stessa: il vero esito è il ri-trovarsi, il re-inventarsi. È una quête, ancora, in qualche modo ratée – per usare un termine caro alla psicanalisi, altro elemento centrale nel romanzo –, dato che Gorane e Jokin non riusciranno più a incontrarsi, se non mediante un tertium, una nuova vita che “purifica” quelle precedenti. Il verbo d’altronde non è casuale: tutto il romanzo sfoggia un lessico afferente al campo della contaminazione e del contagio («virus», «malattia», «inquinamento», «infezione», «sporco esterno», «sporca», «immune»), in riferimento a tutto ciò che di esterno può penetrare ed essere iniettato all’interno.

Felice la scelta adottata da Maini per comporre il suo romanzo: una struttura polifonica, ben orchestrata, con strumenti narratologici diversi nella prima e nella seconda parte. La prima, suddivisa in tre sezioni, dà voce rispettivamente a Gorane, Jokin e i genitori dei due (che parlano post mortem come un’unità plurale), permettendo al lettore di accedere direttamente ai loro mondi, senza mediazioni o filtri; nella seconda, al punto di vista di Gorane si alternano con un preciso espediente degli inserti che hanno lo scopo di dar voce ai personaggi minori, incontrati via via nella prima parte. La struttura non poteva essere più azzeccata, a conferma dell’incompatibilità tra la rappresentazione che si ha di sé e quella che di sé hanno gli altri, e della necessità di rimodulare continuamente, come in una ricetta alchemica, le due componenti per trarne un’immagine plausibile; pone inoltre l’accento sull’ineludibilità del fattore sociale. Non vi è mai, quindi, una vera e propria focalizzazione esterna o zero, e i riferimenti alla realtà (come quella terroristica) sono citati quasi per sbaglio, afferrati di sguincio, filtrati dalla realtà dei personaggi a volte disorientante per il lettore: la realtà sembra scorrere ai loro lati e fare da sfondo a un mondo di allucinazioni, correlazioni, casualità, ossessioni, analogie poetiche – fino a quando piomba, con agghiacciante crudeltà e aderenza alla storia, nelle ultime tre magistrali pagine del romanzo.

La «mischia» è anche questo: un mescolarsi di piani narrativi e psicologici, nonché una promiscuità di corpi desiderata o rigettata (Jokin: «Sognavo di mischiarmi a lei, a mio padre, a mia sorella, in una specie di ritorno a un’origine sconosciuta»; Gorane: «Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla veglia, l’infanzia dall’adolescenza dall’età adulta e dalla vecchiaia, l’essere figlio dall’essere genitore, la giustizia dalla brutalità» etc). Nell’espressione figurata ‘buttarsi nella mischia’, infine, è anche prendere posizione, decidere di sporcarsi le mani – l’incubo di Gorane – per contendersi violentemente qualcosa: quello che non fa lo scrittore Dominique Luque, «che non vuole mischiarsi con la nostra roba, la nostra gente».

I caratteri si esprimono, di preferenza, mediante una scrittura ossimorica, di contrasto, di associazioni contraddittorie, entro blocchi di testo compatti e periodi brevi e schietti, marcati dall’uso insistito del punto fermo: «come se la carta fosse fatta di sassi, buche e montagne», per riprendere una similitudine impiegata nel romanzo. Due esempi scelti a caso: «Volevo di più. Non volevo niente»; «Ero senza personalità. Avevo troppa personalità».

Tra romanzo familiare e Bildungsroman (con una protagonista che è una bambina mai cresciuta, o cresciuta troppo in fretta), La mischia tratteggia quindi in modo efficace due personalità complesse, per certi versi marginali ed emarginate, sfruttando con grande abilità l’alternanza tra focalizzazioni e punti di vista, senza forzature retoriche; ma soprattutto, La mischia induce una riflessione profonda sul ruolo genitoriale, sulle conseguenze di un’educazione squilibrata e l’indottrinamento dei valori, sul rapporto tra patria e lingua madre, sull’arbitrarietà delle relazioni umane, sui limiti della libertà e sui pericoli dell’amore nelle sue numerose forme ed eccessi.

 

 

 

 

 

 

Dia Logue: stop making sense

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Rivista è cosa mai vista (effeffe)

Bruciare a Roma e a Lione.

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di Viviana Fiorentino

 

 

 

17 ottobre (1973-2019)

A Ingeborg Bachmann

 

Nell’appartamento di Roma ti fermi almeno un’altra settimana. Il tempo che lui, il tuo Ivan, torni dal viaggio. Poi andrai da tuo padre in Austria, non puoi rimandare. Perché, invece, vorresti restare con Ivan.

Sai che, adesso, si starà svegliando. Sentirà lo squillo del telefono poggiato accanto. I messaggi. Controllerà la posta ancora sdraiato a letto. Sei ore di fuso non sono tante, ma quanto basta per sembrarti ogni meridiano un’enormità. Te lo dico, sei incastrata nel tempo, come sempre del resto. Lui si sveglia ed è mattina. Tu, pomeriggio e ancora imbozzolata nel letto. Ivan che si alza per il caffè. Accende la radio. La voce nasale del cronista. Luce bianca dalla finestra. Cielo plumbeo. La moquette pure in cucina. I suoi piedi nudi davanti ai fornelli. Lo sportello accanto alla cappa lasciato aperto da ieri, che socchiude con un’aria di ribrezzo verso se stesso e un fastidio per la maglietta sudata. Digita cose sullo schermo.

Tu ti accendi una sigaretta. E guardi la moviola di lui distante sei ore di fuso a mezz’aria, tra il soffitto bianco e la parete grigia davanti a te. Le cose attorno le sai sfumare. Uno vuole uccidere quando il tradimento è insanabile. Quando il danno è troppo grande. Non si tratta di poligamia. Si tratta semmai di doppie personalità. Più esattamente di non adempiere le promesse. Violare i patti.  A questo segue il desiderio di distruzione. Ti girano le frasi attorno, come un sottotitolo della moviola. Lo stai uccidendo, mentre si fa il caffè, ti rendi conto? Il diavolo, o come lo chiami, il male, se non lo puoi scacciare da te e dal mondo, è motivo di suicidio. Uccidere. Il deserto insomma.

Fumi l’Hashish nel sebsi che ti ha regalato Kif… il marocchino, il dio dalla pelle colore ambra-hashish. Sono passati anni da allora, ma non importa, perché ti ricordi anche adesso che sei a Roma, comunque, ogni istante di quel giorno di tanta tempo fa, in Marocco. I ricordi non emergono mai per caso.

Kif era uscito a procurarsi la canapa ed era tornato a casa con un pezzetto minuscolo. Lo aveva sfracellato sul tuo comodino, davanti al naso. Tu lo guardavi dal basso. Appoggiata sul lato del letto, le gambe distese, i giornali e i fogli degli appunti di lato. Non metterci i piedi di sopra, li avevi scostati. Ma non serviva quell’attenzione, non se ne sarebbe mai fregato un tubo delle cose che scrivevi. L’amico, Abdu, aveva subito tirato via un pezzetto di Hashish e l’aveva mescolato al suo tabacco. Poi era uscito nell’atrio e si era addormentato lì. Vivevate tutti e tre insieme nell’appartamento. La notte asfittica di Marrakech. O adesso ti sembra tutto bello e tremendo? Non serviva stare nudi in casa. Sembrava anche peggio. Solo il tè caldo aiutava. Alla fine ti eri abituata al sapore di rame dell’acqua. Kif non aveva detto nulla. Si era disteso su di te. E avevate fatto l’amore, lì per terra, sui tappeti punzecchianti, perché tra le lenzuola faceva troppo caldo. Poi avevi ripreso a fumare e a bere, con quel suo odore di sudore ancora appiccicato alla pelle. Kif si alza e va alla finestra. Lo guardi da dietro e ti sembra di odiarlo. La muraglia delle spalle ti divide dalla Medina e dal mondo. E lui guarda fuori, immobile davanti alla notte di Marrakech. Si alza il fumo dalla sua bocca. Kif scosta la tenda; intravedi la luce arancia del lampione sull’altro lato della strada. Non c’è altro. Bene, l’Hashish comincia a fare effetto. Nella risalita dalle gambe fino al petto, aspetti che ti arrivi al cervello. Guardi l’ombra di lui: parla di spalle con quell’accento arabo francese. Ti piace questo, la solitudine in comune. Kif si scosta dalla finestra e viene verso di te. La sigaretta spenta tra le dita e la fronte contratta. Già pensa ai suoi affari di domani. Si gratta sotto la gola. E tu, Ne vuoi altra? Gli offri un pezzetto che ti eri conservata per dopo. Un frammento minuto che avevi riposto nel cassettino del comò.  Non è gentilezza, è amore. Anzi, è il desiderio di averlo. Tre sigarette e si dimentica di domani. Ma tanto, non puoi più neanche parlare. Intravedi l’ombra di Kif distendersi al fianco. Ti sposti nei tuoi polmoni, tra le gambe. Ti giri, la faccia di Kif assorta chissà a cosa. Hai paura, perché non ti riallacci a niente. Alla terza sigaretta, rinunci a tutto. Sei nel deserto. Quello dove lui ti ha portato in gita. Con gli europei si fa così. In cammello. Mentre tu piangevi per la corda che tirava il muso del povero quadrupede. E gli anelli che bucavano le larghe narici sanguinanti della bestia da soma. E lui che lo chiamava ora rumba, ora latino ora chachacha. Perché in un albergo di lusso aveva fatto l’animatore per turisti e aveva imparato i balli. Non ci torni più nel deserto, sotto quel sole asfissiante. La luce a rovesciarsi addosso, come vomito dal cielo. Lo temono tutti il deserto, lo temono tutti quanti. Ci vivono qui come se non fossero nel deserto, come se non fosse niente questa muta distesa di granelli. Lo scintillio di sabbia. Il catafalco delle promesse della tua vita. Lo temi. Niente, il deserto non è niente. Muri, case, cammelli. Poi, siete tornati a casa. Tu la turista, il corpo del suo amore. In Marocco, hai perso venti chili.

Le cinque del pomeriggio romane. Basta, ne hai abbastanza. Ti sei già alzata con il solito dolore alla schiena. La luce che entra da fuori non ti fa senso. Dunque, pensi di presentarti così all’appuntamento. Possibile, non saresti la prima. Ti trascini al bagno. Il solito lercio dappertutto. Non pulirai. Anzi, domattina. Il freddo delle piastrelle lo senti appena. Ti appoggi al lavandino, anche troppo, e la tua faccia bianca si appiccica allo specchio tra gli schizzi di dentifricio induriti. Lavarsi il viso con l’acqua fredda è ancora una gioia della vita. I capelli ti sono rimasti belli. Il disordine attorno di collane, le tue cianfrusaglie orientali, i vezzi del ventunesimo secolo. Per non parlare delle saponette profumate. I sassolini che un tempo ti eri curata di poggiare sul bordo della vasca. Acciuffi la vestaglia dal disordine di asciugamani e accappatoi accavallati sul retro della porta. Bisognerà attaccare un altro appendiabiti. Prima che questo crolli. Ti affanni ancora nelle metafore – perché tu parleresti così di te stessa – in questa idea dell’assassinio, nella pulizia dei rapporti – quali? Insomma, vai a prendere i vestiti dall’armadio prima che si faccia troppo tardi. I pantaloni di cotone, scuri; del resto è ancora settembre, fa addirittura caldo. Quindi metti una maglietta sopra. Bianca. E nient’altro. La cinta di pelle finta. Quella sì. La scorri attraverso i passanti dei pantaloni; i polpastrelli ti fanno male. Ti bei di sentire questa sensazione, ne senti poche. La pelle ingiallita dal fumo ti ha sempre fatto schifo. Dunque, lo incontri al bar. L’amato di Ivan; non pronunci neanche il nome. E cosa gli dirai? Tutte le storie sul tradimento. Lo sapevi che a Ivan piacessero gli uomini, però non te lo aspettavi. Sarebbe ridicolo spiattellargli questa storia. Annuisci e accartocci uno scontrino che avevi lasciato in tasca. Tiri su la cintola. Nullifichi quel pezzo di carta nel cestino di paglia accanto alla porta. Cammini su e giù sulla moquette. La moquette a Roma: solo una padrona di casa vissuta in Inghilterra poteva farsi venire in mente un’idiozia del genere. Parlerai, invece, del muto trionfo del sesso. Fai quasi un piccolo sobbalzo all’idea che ti è appena venuta. Guardi la gente scorrere in file sulla strada di fronte. Gli occhi ti luccicano. Un’intuizione geniale. E il verde vivo dei platani, le foglie larghe manomesse dal vento. Quindi, oggi si respira. È stata una buona idea l’appuntamento nel pomeriggio.

Allora esci di casa e trotterelli come un cagnolino. Percorri via Bocca di Leone e imbocchi via del Corso. È una bella camminata fino a Testaccio. Lo incontri lì, all’amato di Ivan, a un bar che conoscevi. Le auto ti scivolano attorno e il rumore della città ti sembra piuttosto ingannevole. Perché tu pregusti solo l’incontro. La tua vendetta. In fondo la vita, triste o allegra, è comunque degna di essere vissuta. Si capisce, certo, da questo via vai che ti sferraglia attorno. Una tabaccheria aperta è sempre possibile trovarla, anche al crepuscolo. Un pacchetto di Muratti di rinforzo aiuta. Decidi di deviare e tornare in via Arenula. Lì i gatti rasentano i muri e ti fanno sorridere con quelle code arricciate a chiedere cibo. La vita degna di essere vissuta. La scena perfetta per un assassinio. Ma tu non hai intenzione di uccidere. L’arma è sempre rivolta verso di te. Passi la Basilica, scendi lungo il Tevere e lì non ci pensi neanche. Lo sai già che bisogna camminare lungo il fiume. Non è un fiume bello, tutt’altro, specie dai ponti. Arbusti ed erba. Acqua verde argilla e bionda da qui giù. Anche lui è biondo. C’è stato il tempo dei tre corpi avvinghiati. Della soddisfazione del divergere e convergere. Tu e lui una cosa sola. Ivan il mondo divergente. Lui poi non ha saputo che fare di te. Un giorno, si è voltato nel  letto dall’altra parte. Loro due lì, chiusi in un guscio di schiene lisce. Accanto a te il portacenere e il puzzo delle sigarette spente.

Prosegui lungo Trastevere. Sei quasi arrivata a Testaccio. Quante volte dalla tua finestra hai guardato dal cimitero protestante fino al Testaccio. Ci sono tanti cocci al Testaccio, avevi letto, sotto la terra tra le tombe e i fossi. Una volta lui, l’amato, ti aveva detto che Ivan e tu sembravate felici. Lo direbbero tutti. L’ultima telefonata con Ivan era di qualche giorno fa. Il ricevitore gelido. La tua notte. Il suo tardo pomeriggio. Non aveva tempo. Non potresti spiegarti un po’ meglio? È la linea che non va. Ti scivola la cornetta sulla tempia. O ti abbandoni al gelo. Riattacchi, in ginocchio sul pavimento per cinque santi minuti. E poi basta. Ti trascini sulla sedia  e rimani sveglia fino all’alba color cielo ermellino.

L’appuntamento a un bar qualunque. A uno snack bar con i tavolini anonimi. Di solito ti fermi lì per un caffè al banco, quando sei da quelle parti. Stasera prendi un tè. Entri, sei in anticipo. Quindi esci. Ti appoggi al muro. C’è chiasso. Ma il deserto ha una grandezza che è niente. Ti pervade come Kif ti rimaneva dentro quando avevate finito il piacere. Kif e il suo corpo sudicio. Perciò grandezza è perenne eccitazione. Ogni giorno e ogni istante. Diventa niente, come le ombre che ti passano davanti.

Insomma rientri, si è fatto l’orario. Ti siedi a un tavolino di finto marmo. Ti rialzi, esci. Accendi una sigaretta. Ti riappoggi al muro, scansi un’erbaccia che sbuca tra i sampietrini. Succhi il filtro. Schiacci la cicca sul muro. Rientri. Ti siedi. Di nuovo il tavolo di finto marmo bianco. Le venature nere si aprono come fiumi che portano non si sa dove. Una mappa dei nervi, pressata su PVC. Guardi l’orologio. È chiaro, non verrà. Pronto, sì, sono io, avevamo un appuntamento, sì, perché non sei venuto, potevi avvisarmi, scusa, non è niente, lascia stare ti dico. Invece, non hai alcuna intenzione di chiamarlo, all’amato, perché l’arma è girata verso di te. Afferri il quotidiano poggiato sulla sedia accanto. Lo apri e lo distendi sul piano, togli tutte le pieghi e ripeti il gesto dieci volte. Signorina le serve niente? Guardi il cameriere con la testa incassata nelle spalle. Non vuoi niente. Il mondo è pieno di assassini del resto. Non hanno sulla coscienza alcun cadavere, solo uno stuolo di vivi che allegramente sgambetta per la città. No, grazie, nessun caffè. Sei stata fin troppo in pericolo di morte. Il biondo non lo aspetti più. E neanche Ivan. Lo sapevi da prima di entrare nel bar. Troppi anni. No, grazie, finisci qui. Del resto, non potresti più dormire accanto a un uomo. Troppo orribile, troppo pericoloso.

La notizia di stamattina ancora lì in prima pagina. È lo stesso quotidiano che avevi sfogliato a letto. Ecco, adesso che la guardi stirata sul pianale di nervi in PVC capisci la congiura. Il tranello. Quale idea ti ha mandato il deserto.

Lione, studente francese si dà fuoco e accusa Macron.

[LIONE  Uno studente francese di 22 anni versa in condizioni critiche dopo essersi dato fuoco davanti ad un affollato ristorante universitario a Lione. Poche ore prima del drammatico gesto il ragazzo ha scritto su Facebook delle sue difficoltà finanziarie incolpando espressamente il presidente Emmanuel Macron e i suoi predecessori Hollande e Sarkozy, ma anche la leader dell’ estrema destra Marine Le Pen, l’Unione europea e i media, di «averlo ucciso».]

A te sembra ovvio: collaboriamo alla società di domani. E ovvio è che lui e tu siete nello stesso deserto di promesse infrante. Il giornalista non ha capito. Dev’essere della stessa stazza del cameriere che ti è venuto a chiedere cosa desiderassi e ti ha mostrato il menù come un coltello. Ti alzi; lui non verrà all’appuntamento. Del resto non ti serve più.

A casa affondi nel letto. L’alcova che ti dà ombra come le mura aureliane attorno al cimitero. Hai ingurgitato i sonniferi. Parecchi.  Ormai ogni suono è ovattato e lontano. Hai scolato tutto quello che avevi in casa. E adesso fumi. Hai finito i pacchetti e ripreso la pipa stretta e lunga per l’hashish. Non c’è altro da dire per te. Andarsene e non sentire il male. Fumi ancora. Getti le cicche sul letto. Bruciare e non sentire dolore. Venga la morte, dalle lenzuola a larghe falde di fuoco. Corrodere la pelle in fumo nero. Fiamme sulla moquette, che si accende come nulla. Non punite più nessuno. Ardere fino alla grandezza. Essere amati da tutti.

La mattina ho chiamato Maria. È accorsa. Con la mia amica, è arrivata anche l’ambulanza. Mi hanno incoraggiata, trascinata tra le bende. L’aria fresca bruciava. La vita bruciava. Distesa sul lettino, fuori dal portone, il cielo trionfante di Roma mi lacerava di azzurro. Ho capito subito che me ne sarei andata via presto, io che sono con te, dentro di te e te stessa. Ce l’hai fatta, mi hai trascinata giù, nelle tue piaghe di fiamme e d’inferno. Mi sono opposta fino all’ultimo. Ho resistito. Ma anch’io, come te, conosco il mio assassino. Eri tu. È troppo tardi. Resterà altro.