La nota sulla quarta di copertina de La Cosa è di Paolo Zardi, autore tra l’altro di Antropometria e Il giorno che diventammo umani, due titoli che fanno cenno a “misurazioni” e “metamorfosi”. Zardi osserva che «Garrapa guarda al mondo con l’occhio lucido e curioso di un filosofo, e poi ce lo racconta con voce di poeta». Cedendo all’istinto di mettere in relazione in modo arbitrario (ma si sa, si resiste a tutto tranne che alle tentazioni) i “dati” fin qui raccolti, potremmo dire che il Garrapa filosofo misura il mondo, soprattutto l’estensione della follia, e il Garrapa poeta immagina un modello nuovo di zecca, un prototipo ipotetico. O forse è vero il contrario. O entrambe le ipotesi, anzi, le cose.
Sì, perché non è ignorabile la consistenza scabra del titolo di questo libro, ulteriormente rafforzata da un’altra raccolta di racconti dello stesso Garrapa, battezzata con un nome più esteso, quasi un verso, sia in senso poetico sia come esclamazione di fronte ad un senso di oppressione, acustica e morale: Un ronzio devastante e altre cose blu. La cosa, quindi, è il centro dell’interesse. Non la cosa da un altro mondo, ma da questo. O meglio da questo mondo e da tutti i mondi, reali e immaginari, saggi e pazzi, belli e orrendi che questo nostro folle folle mondo racchiude.
La follia è una formidabile navicella per esplorare universi. Per attraversarli, crearli, distruggerli, esserne distrutti a nostra volta e creati, mutati, senza essere mutanti. Garrapa lavora in ambito scolastico e psichiatrico come counselor a orientamento psicoanalitico e conduce laboratori ludico-creativi e di scrittura ‘desiderante’. Tutto ciò potrebbe anche non avere alcuna influenza diretta sulla sua narrativa, ma il parallelismo tra la natura ludico-creativa dei suoi racconti e ancor più l’attrazione dell’etimologia della parola “desiderante” sono troppo potenti, sono magneti che ci conducono a caccia di meteoriti. De-siderare indica la “mancanza di stelle”, di buoni presagi, di buoni auspici. Quindi per estensione questo verbo ha assunto anche l’accezione corrente, intesa come percezione di una mancanza e, di conseguenza, come sentimento di ricerca appassionata.
In una biografia semiautobiografica Garrapa si definisce, tra le altre cose, “descrittore cromatico”. Quindi questo libro potremmo definirlo come il de-siderio del de-scrittore. E l’aggettivo “cromatico” si ricollega, forse, anche al cenno alla “poesia” a cui ha fatto riferimento Zardi. La poesia colora il mondo con occhi liberamente folli, e quindi saggi, penetranti. Una mia amica pittrice, Susanna Barsotti, anche lei poliedrica artista, colora i limoni di blu. Garrapa colora le cose del mondo con una gamma cromaticamente libera ed assolutamente fedele al vero, a quella verità che va altre il confine, il limen. L’autobiografia semiseria e semivera dell’autore prosegue così: «Ama la bicicletta e da due settimane si è riscritto in palestra, ma non durerà molto. Crede nell’esistenza degli extraterrestri». Forse anche gli extraterrestri credono nell’esistenza di Garrapa. Sì, perché, nel “ludus” di Garrapa, anche nelle parti più esplicitamente bizzarre o surreali, c’è sempre un rigore quasi chirurgico, una precisione che conserva anche nel riso un’attenzione al dettaglio millimetrico. Che la comicità sia una cosa serissima, l’autore di questo libro lo ha capito, anzi lo ha metabolizzato da tempo. Il suo è uno sguardo alla Buster Keaton: la gag è comica, il mondo inciampa, si ribalta, anche per effetto di un singulto esilarante, ma la faccia è immancabilmente, rigorosamente, potremmo dire necessariamente tragica. Il regista William Asher disse di Keaton: «I always loved Buster Keaton. He would bring me bits and routines. He’d say, ‘How about this?’ and it would just be this wonderful, inventive stuff.» Il primo film girato da Keaton per la Metro-Goldwyn-Mayer fu “Il cameraman”. Ecco, potremmo dire che Garrapa è un cameraman alla Keaton, osserva il mondo reale e quello possibile, quel pianeta popolato da extraterrestri che è la psiche umana. La cinepresa narrativa si intrufola in ambienti disparati, a volte disperati, ma sempre con quel filo di salvifica ironia a cui aggrapparsi. Modula, Garrapa, anche il ritmo dei dialoghi a seconda delle situazioni. A volte si ha un taglio di montaggio breve, immediato, come nel racconto “La siepe”, caratterizzato da un incipit fulmineo: «Mio fratello morì prima di mezzanotte». In altri casi, al contrario, c’è un indugio esteso, diluito, deliberatamente estenuante: «Oltre il muro di cinta aguzzo in cima di sbreghi di cielo capovolto desiderio di nebbia che scivola insinuante tra le fessure inconcludenti della coscienza che non sa mai dove finisca lo sguardo e l’oggetto che preme sui sensi, avvolgendo di pregnante fragranza di tiglio, all’inizio d’estate, la percezione del limite tra dentro e fuori – esiste ancora lo scheletro di un albero di fico parsimonioso ormai di rami e foglie, che violentemente tenace rimanda a un confuso e ubertoso periodo della mia esistenza nel villaggio dei morti. Il corteo funebre, uno degli ultimi, passò di lì, lento e silenzioso, i figuranti mimavano il loro cordoglio».
Oppure mima gli errori, le imperfezioni colorate imitandone il linguaggio: «Un adesso che dura adesso, perché dopo non e più così. Lui prima cera e adesso non ce più. Ma però non e giusto questo». E ci ricorda, che niente è più vero di ciò che è lontano, in apparenza, e che l’altrove, e l’altro, sono già qui, sono già tra noi, anzi, siamo già noi: «Mentre costruiva il suo ennesimo diorama, il bambino, il marziano, come lo chiamavano i compagni delle elementari non per via della sua conoscenza nettamente superiore a quella di qualsiasi adulto laureato (parlava 12 lingue, dipingeva come Michelangelo, calcolava la radice cubica di numeri a 9 cifre con l’efficienza di un computer quantistico), ma per la sua non comune generosità, l’empatia che spesso diventava potere telepatico e un’intelligenza emotiva tale da costringere i genitori degli altri bambini a escluderlo spesso dalle feste di compleanno, borbottava, senza ovviamente comprenderle, le parole di un brano che sarebbe diventato questo racconto.» Autoritratto di una storia o de-scrizione di un de-scrittore? Ai posteri l’ardua sentenza, potremmo dire, se non avessimo già avuto la netta impressione di essere noi i posteri a noi stessi.
Non resta allora che osservare lo specchio del mondo, ossia noi nelle facce degli altri, e cambiare idea, e stile, con toni e modi plasmabili, duttili, e una gamma di variazioni sul tema, come fa Garrapa, quando, ad esempio, si ispira alle Centurie di Giorgio Manganelli: «La donna che dovrà incontrare è una persona di cui non conosce il nome. Egli l’aspetta sotto casa, indossa un impermeabile nero e un completo dello stesso colore, gli occhi spiritati, a dispetto dell’esteriore eccessiva calma, equivocabile per apatia. Ma adesso, pomeriggio di pioggia odoroso di ricordi e premonizioni, egli è agitato».
Non ci resta che seguire la colonna sonora e danzare al ritmo, serissimo e grottesco della follia, immaginando, con Garrapa, l’esistenza di un Istituto di Bruttezza e seguendo i discorsi di Narratovov (nome tutt’altro che casuale): «La riserva degli indiani disposta a strategia difensiva – considerava a sua volta Narratovov che osservava con scrupolosa dovizia nevrotica, rispondendo al pensiero delle cose, mentre ascoltava vagamente la sua Alexia, come stesse leggendo un libro davanti a un televisore senza decoder, con attenzione fluttuante, in sottofondo, piatto, essendo altrove il pensiero ossessivo».
Scrupolosa novizia nevrotica è una mirabile sintesi di molti dei temi di questi racconti. È una specie di concentratissimo e coloratissimo succo del suo senso e dell’assenza di senso, un po’ come la vita.
Ognuno di noi, in fondo è un supereroe con gli extrapoteri craccati: «E riesco ad arrivare in cima ai grattacieli… senza scale o ascensori, intendo, e senza lasciare impronte sui vetri delle finestre… veloce e leggero come un Uomo Ragno – dice il giovane lavavetri, scostando dalla fronte una ciocca di capelli ossigenati con un leggero movimento del capo, e srotolandosi il pacchetto di Chesterfield avvoltolato nella mezza manica della t-shirt.»
I racconti de La cosa sono anche un modo, per Garrapa, di descrivere il pianeta che egli pensa e immagina, ciò che vede e ciò che non vorrebbe vedere. Anzi, no, non c’è nulla che non si possa vedere se lo si sa cogliere dalla prospettiva giusta, calcolando con esattezza la consistenza e la misura dei materiali per poi scordarla e riforgiarla, ritrovandola alla fine mutata e uguale, assolutamente reale.
In questo libro si parla di quella “cosa” chiamata vita, o forse sogno, o magari poesia. Ma la sua forza è proprio in quel “forse”, nello spazio sospeso tra tenerezza e nitidezza, riflessione e gesto esatto, tagliente, necessario alla speranza della metamorfosi: «Qualche giorno fa, sabato 12 marzo, ero in treno e pensavo di scrivere un racconto usando penna + carta, e detto così sembra che, se un marziano decerebrato o sub-intelligente leggesse quello che andrò a battere sul PC – perché è lì, come la morte, che vanno a finire tutti i corpi verbali, e in fondo è la morte che dà valore alla vita – questo marziano potrebbe pensare che carta + penna sia una lega metallica, un modo di mescolare, quasi che scrivere sia una scultura o una pittura che mescoli acqua oppure olio e tempera e colori per il vetro, ecco, preciso che non è casuale il riferimento alla pittura perché, se mi capita, espongo i miei quadri che io chiamo DESCRITTURE CROMATICHE e invece significa semplicemente cambiare gesto, è una questione di gesti».
“Fino a ora abbiamo detto, da un punto di vista storico, che esistono due tipi di registi nel mondo: quelli che sono stati in guerra e quelli che non ci sono stati. La diversa esperienza porta a una diversa comprensione della natura umana e della società. Forse, tra molti anni, potremmo dire: ci sono due tipi di registi nel mondo, quelli che hanno vissuto la pandemia COVID-19 e quelli che non l’hanno vissuta. (…)
In questi giorni ho realizzato un cortometraggio commissionato dal Salonicco International Film Festival. Era un’opera in isolamento, intitolata Visit, filmata con un telefono cellulare. Dura solo 3 minuti, una storia banale nei giorni della pandemia. Quando ho guardato di nuovo il mondo attraverso la cornice della telecamera, mi sentivo come un bambino che impara ad alzarsi e camminare – difficile, ma allo stesso tempo emozionante.
Mi ha fatto pensare che dovremmo resistere a questa pandemia, continuando a camminare per il bene del tempo che abbiamo vissuto, per affrontare il mondo onestamente e con coraggio. Spero che potremmo tornare presto al cinema, seduti insieme, spalla a spalla.
Questo è il gesto più bello dell’umanità.”
Jia Zhangke
“Un film è un viaggio. Ci spinge verso diversi punti drammatici. Lungo la strada per questi punti ci sono riempitivi che funzionano come mini-destinazioni. Più un cineasta riempie il percorso senza soluzione di continuità e fa dimenticare al pubblico il tempo, più si avvicina all’ “arte” del cinema. Al centro, il cliente, il truccatore, il boomman, il team di illuminazione, il montatore, il musicista e così via, lavorano tutti duramente per portare il pubblico verso queste destinazioni.
A differenza di un film, la destinazione di questo viaggio Covid-19 è vaga. A differenza di un viaggio, non ci stiamo muovendo. Molti di noi rimangono nelle nostre case. Guardiamo fuori dalle nostre finestre verso lo stesso panorama e … continuiamo a guardare.
Sentiamo la vulnerabilità della nostra mente e del nostro corpo. Siamo a conoscenza dei nostri orologi: interni ed esterni. (…)
Dopo aver sconfitto il virus, quando l’industria cinematografica si sarà destata dal suo stupore, questo nuovo gruppo, come gli spettatori, non vorrà intraprendere lo stesso vecchio viaggio cinematografico. Avrà appreso l’arte di guardare: dai vicini, ai tetti, agli schermi dei computer. Si sarà allenato grazie a innumerevoli videochiamate con gli amici, grazie a cene di gruppo catturate con un angolo di ripresa continuo. Avrà bisogno di un cinema più vicino alla vita reale, in tempo reale. Vorranno il cinema dell’Ora, che non possiede riempitivi né destinazioni. (…)
Un Covid-19 Cinema Manifesto (CCM) verrebbe redatto per il cinema con il fine di liberarsi dalla sua struttura e dal suo viaggio.”
Apichatpong Weerasethakul
Una spinta, che potremmo chiamare emergenza di immaginazione, respira in ogni parola impressa su questi estratti presi da due lettere, inviate da Jia Zhangke e Apichatpong Weerasethakul al magazine tedesco Film Krant. Non l’impulso maggioritario di “ritorno alla normalità”, di voglia di amnesia che annega le responsabilità, quanto un’occasione, quella di questa stasi, di ribaltare lo sguardo da parte di chi crea, ma anche, e simultaneamente, da parte di chi guarda.
Non siamo di fronte a un proposito che unisce la visione a un’azione programmatica, a un dictat morale che usa l’arte come canovaccio, quanto piuttosto a uno spronare gioioso rivolto agli spettatori e ai cineasti, per diventare coscienti di costituire un’unica entità, oltre la politica degli autori e oltre le divisioni di genere. Nello specifico proprio le parole di Apichatpong fondano la loro ragione su una rivoluzione che possa liberare, quasi pasolinianamente, il cinema dal cinema, l’arte dallo spettacolo e dalla sua endemica e pervasiva dislocazione in ogni aspetto del presente, con specifico riferimento alla velocità. L’osservazione del reale che confluisce nella sua estensione ontologica, per conservare sincerità oltre il suo addolcimento e il suo consumo, potrebbe in futuro compiersi a prescindere dalla durata delle inquadrature, contro il rifiuto della contemplatività, in cui per altro ci siamo trovati a vivere in questi mesi, e smettendo di ricercare spasmodicamente il ritmo in ogni frame.
Lungo questo confine dell’umano non umano, della cosa e dell’immagine della cosa, Carlo Righetti su Officine Filosofiche sembra fornire una risposta alla domanda riguardo al rapporto tra umanità e immagine, nella crisi pandemica di quello spettacolo teorizzato da Debord cinquantatre anni fa.
“Il virus che porta lo spettacolo all’estremo, lo mette in conflitto con se stesso. Lo spettatore cerca dallo spettacolo le stesse risposte rassicuranti che ottiene normalmente dalla sua messa in scena , ma non le ritrova. (…) La società spettacolare ha raggiunto ogni luogo accessibile e inaccessibile. Si è fatta interna al nostro sguardo così come alle nostre parole e ai nostri pensieri. Non solo quindi non si può più essere realmente una minaccia per nessun regime al punto da esserne esclusi, ma il regime si è installato in noi, abita le nostre tasche, condivide le nostre mutande, riprende in streaming ogni nostro movimento perché lo condiziona secondo il messaggio trasmesso. Chi se ne crede fuori non recita che la parte dell’escluso senza poterlo veramente essere. Ma se questa è la condizione dello spettacolo, una condizione in cui ogni alterità è sempre allo stesso tempo il medesimo e l’occhio vigile del suo guardiano, è solo l’avvento di un’alterità effettivamente imprevedibile e imprevista che avrebbe allora il potere di spezzare questo incantesimo spettacolare: di incrinare il gioco degli specchi, il miraggio delle merci insieme al loro riflesso desiderante, il codice unico di funzionamento dello spettacolo generale.”
Una dislocazione nata da un’immagine-merce che brucia, la cenere come traccia di un fuoco fatuo, più autentica delle fioche scintille da cui proviene. L’auspicio di una liberazione da un immaginario stantio e sempre uguale e se stesso, perché figlio della società reazionaria del “no alternative” tatcheriano, trova davanti a sé un vuoto come conseguenza del virus che, utopisticamente o forse no, vorrebbe sorpassare finalmente l’illusione di vivere dentro un contenente, in questo caso un’immagine cinematografica, seriale, video, che vuole distruggersi per poi rinascere: morti i vecchi miti, cessare di produrre come se ancora ci fossero.
Una rinascita sfilacciata, quella di questi mesi, che ci ha portato a entrare più in contatto con l’immagine-movimento e l’immagine-tempo, ma per la prima volta nella storia dell’Occidente contemporaneo la nostra vita diventava costantemente più lenta della sua estensione. Il paragone obbligatorio quindi ci porterebbe a pensare che il cinema, abolita definitivamente l’alleanza con lo spettacolo, possa una volta per tutte compiersi come un paradosso (παρά- δόξα: al di là dell’opinione), altro dalla narrazione, ma vicino ai corpi, e allo stesso tempo mosso da quella sottile differenza che prende atto del non poter arrivare veramente a un’origine, ma che nella sua ricerca compie tutto se stesso.
Un nuovo corso che si compie tornando alla premessa di Jia Zhangke, osservando e riproducendo sgombri dal proprio passato, come eterni bambini che imparano di nuovo a camminare, unendo e non dividendo artisti da pubblico, rendendo la creazione di un’immagine (e del suo κίνημα) un’esigenza di ognuno, riprendendo i boschi in cui poi si abbandonano i film, come nelle pellicole sottoesposte del filmmaker neozelandese SJ. Ramir (In This Valley of Respite, My Last Breath…, Departure, Man Alone), mancanti di soggetto e rinate come evento, rifutandosi di indicizzare il proprio sguardo sulla narrazione come contenuto.
Abolire l’arborescenza per una visione più rizomatica dell’audiovisivo, speranza per un nuovo manifesto di intenti, realtà che rimarrà forse sogno, ma le cui basi sono state, nella catastrofe, tracciate dal sacrificio.
Questa nuova rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe
Il Franco destino
di
Isabella Borghese
La mia adolescenza racconta gli anni in cui ho iniziato a confrontarmi con la malattia mentale. Gli anni in cui ho iniziato a conoscere mio padre prima di tutto come un individuo a sé, un essere umano. Mi sono scontrata con la mia incapacità di accettare il suo bipolarismo, con quella forza, anche, che mi ha portata per anni a odiarlo, a combattere contro i suoi mostri, contro tutto quello che di male accadeva alla sua vita e inevitabilmente al modo in cui noi in famiglia subivamo ogni suo comportamento, figlio di eccessi – fasi up e fasi down – difficili da affrontare. Scappare da e tornare a casa era la mia abitudine. Nell’anno più complicato della mia vita personale, rispetto al mio rapporto con lui, un evento specifico mi mise davanti a una scelta: o mi faccio del male o cerco aiuto. O cerco di salvaguardarmi o mi distruggo. Il contesto sociale in cui vivevo mi aiutò molto; le mie amiche del cuore di allora e i miei amici, sono i miei congiunti di oggi.
Così, grazie anche a loro, cercai e parlai con uno degli psichiatri che seguiva mio papà e fui affidata a una psicologa – affidare è il verbo per me più adatto – e intrapresi così il mio percorso terapeutico più importante, di certo il più incisivo nella mia vita. Quello che oggi, direi, mi indicò la direzione migliore, quella della cura. Prima della mia, poi di quella che io potevo avere per lui in una condizione di consapevolezza e accettazione della sua malattia. Ho avuto la fortuna di interfacciarmi ed essere accolta dai medici che negli anni lo hanno curato ogni volta che un dubbio o una paura mi assalivano con forza. A volte, mi rendo conto, di avere avuto quasi la pretesa di essere aiutata, e solo perché volevo e dovevo stare bene. Ma stare bene non è sempre facile. È spesso frutto di una profonda volontà, di un percorso che si sceglie di intraprendere con metodo, rigore, e guidati dalla ragione, perché se essa la si abbandona è più facile che l’istinto ci porti a crollare, a perdere la lucidità.
Se non ci fosse stato Franco Basaglia mio padre sarebbe finito in un manicomio e non avremmo potuto lottare, ciascuno da solo, e anche insieme per la sua vita e quella di noi tutti familiari. Non avrei potuto confrontarmi con gli psichiatri che lo seguivano e con cui avevo spesso colloqui, non avrei familiarizzato con la sensibilità e la fragilità diversa con cui ciascuno è chiamato a vivere. Quando è morto Guido Martinotti, uno degli psichiatri che lo ha avuto in cura e in clinica per molti anni, a periodi alternati, ho sentito di aver perso un altro padre, perché chiunque si prende cura dei nostri cari e di noi con la dedizione che sapeva metterci Martinotti, è una guida. Un riferimento. Ma tutto questo senza Franco Basaglia, non ci sarebbe potuto essere. Dobbiamo a lui il grande merito di riconoscere il valore di ogni essere umano. Anche per questo, grazie a Franco Basaglia, a 42 anni dalla Legge che porta il suo nome, i suoi ideali, la sua umanità.
Le innumerevoli videoriunioni cui siamo tutti più o meno convocati in questi giorni di quarantena hanno un’implicazione interessante per quanto riguarda il tema della rappresentazione del sé e del proprio habitat. Si tratta infatti di trovare a forza, all’interno dell’ambiente domestico, uno spazio che sappia descriverci ma dove si possa al contempo comunicare con tranquillità. La dialettica è tra contingenza e rappresentanza, tra bisogno di rifugiarsi in una stanza riservata (riparata dal rumore e dalle intrusioni degli altri abitanti della casa) e volontà di inserirsi in un contesto valorizzante. Ci tocca dunque assumere una posa, l’ennesima dramatis persona richiestaci dalla rivoluzione digitale e dalla vita.
Essere inquadrati in primo piano dentro uno schermo è come salire su un palco. E ogni palcoscenico ha bisogno di una scenografia. Nel caso delle videochiamate la distinzione tra scena e retroscena passa per la linea della cintura, che divide il corpo in due: il soggetto è vestito bene dal busto in su; in pigiama, tuta, ciabatte o addirittura in mutande sotto. Molti strumenti di connessione, fra i tanti esistenti (Zoom, Teams, Skype, Meet, etc etc etc) offrono sfondi virtuali. Ma dopo essere stati scoperti da tutti sono subito e molto velocemente passati di moda.
La soluzione classica al problema dello sfondo rimane la libreria, secondo il modello “collegamento da casa con esperto” derivato da un medium precedente, la televisione. La volontà comunicativa è evidente: sapere per imposizione. La presenza dei libri effonde capitale culturale sul soggetto inquadrato. La riproducibilità tecnica di se stessi conta su questa forma di aura. Il piano b, quasi altrettanto auratico, è il poster o il quadro. Ci si piazza davanti a un muro bianco e si attacca a quel muro bianco qualcosa di incorniciato che possieda un un’allure culturale (quadri, riproduzioni di quadri, poster di film o di mostre d’arte).
Ma le librerie sono di solito collocate nelle stanze nobili della casa (il soggiorno), talvolta occupate da figli o conviventi. Ci si rifugia quindi spesso in camera da letto, in stanze simili a soffitte, in angoli della casa sotto-illuminati. Le videoriunioni sono un mosaico di inquadrature mal fatte. Le guide o tutorial su come posizionare la webcam, uscite qua e là durante la quarantena, non sembrano aver attecchito. Non si contano i controluce, le inquadrature dal basso verso l’alto, ovvero la tipica ripresa del portatile con lo schermo piegato ad angolo di 100°. Le regole fotografiche su come inquadrare (regola dei terzi, “aria sulla testa”, illuminazione, difficoltà a sostenere un primissimo piano…) sembrano saltate o trascurate.
Dietro le persone emergono presenze spettrali, passaggi di gatti o bambini, riflessi sui vetri del forno, piccole accelerazioni di persone non coinvolte nella videochiamata che tentano con uno scatto di uscire fuori quadro. Non si può non sentirsi intrusi: di solito si entra in casa di qualcuno che si conosce bene, altrimenti ci si incontra in luoghi pubblici.
La presenza del fuori campo è suggerita anche dagli sguardi degli interlocutori, indirizzati a punti che non sono esattamente la videocamera. Gli occhi sono spesso distratti da interessi collaterali. Perché si alza? Dove va? Cosa sta facendo ora? Controlla Whatsapp? Perché ha staccato il microfono? Perché, peggio ancora, ha staccato il video? Come nelle satire sulla seduta psicoanalitica, il paziente parla, ma non è detto che il terapista ascolti. Rimane sempre il dubbio che stia pensando ai fatti suoi, e che i fatti nostri siano francamente noiosi.
A causa di questa intimità forzata, la comunicazione via Zoom è costretta ad assumere una forma confessionale, anche nella specie derivata del Grande Fratello televisivo, dove si parla in camera e ci si “confessa”. È un registro particolarmente apprezzato dai social media che nascono nelle camerette, quali YouTube e, ora, TikTok. Quello che la pandemia ha prodotto in termine di rappresentazione è una specie di tiktokizzazione degli adulti, obbligati a mostrare la loro faccia e i loro spazi privati, a rendere performanti le loro apparenze digitali. Il Grande Altro incarnato da Zoom è una summa dei potenti dispositivi di cui ci siamo circondati.
Seconda parte di un testo pubblicato ieri su L’Ordine. La prima l’ho condivisa la scorsa settimana, qui. G.B.
di Gianni Biondillo
A un livello di ragionamento più serio e profondo c’è chi si è chiesto se un ritorno ai borghi abbandonati fosse una soluzione di fronte a una pandemia che ha tenuto in scacco le nostre città, paralizzandole. Ovviamente pensare a una corrispondenza biunivoca – svuotare le città per riempire i borghi – può apparire un po’ troppo semplificatorio. E le soluzioni semplici non esistono. Pensare che si possa ancora contrapporre città a campagna è un modo vecchio di interpretare il territorio. A ben vedere i primi focolai del Covid19 non sono esplosi a Brescia, Padova o Milano. Questo perché abitiamo in una rete di relazioni. Lodi, Alzano, Cremona, Codogno, Vo’ Euganeo, sono parti della rete, elementi della metropoli a scala macroterritoriale. Non è un problema di distanze ma di altimetrie. L’Italia spopolata è quella che sta oltre i seicento metri d’altitudine. Ma è anche quella più complicata da raggiungere e da mettere a sistema nella rete di relazioni sociali ed economiche. Non è pensabile di trasformarla semplicemente in un bacino di decantazione di seconde case per cittadini spaventati. Occorre, insomma, pensare a questi territori come luoghi di sperimentazione da integrare, e non contrapporre, col resto del territorio.
L’idea che questa pandemia cambierà in modo radicale le nostre città scaturisce dallo sgomento contingente che ci fa dimenticare come questa non sia la prima epidemia che è venuta a bussare alla nostra porta. A ben vedere, ad ogni morbo, influenza, pestilenza che fosse, le soluzioni sono sempre state le stesse: isolamento e attesa. Così come le reazioni di insofferenza. Dalle crisi impariamo sempre meno di quanto ci si augura: Tucidide ci racconta di come la peste del V secolo a.c. avesse scatenato istinti nichilisti e dilapidatori negli ateniesi, Boccaccio di donne fiorentine che di fronte al morbo si abbandonano a comportamenti disonorevoli, Samuel Pepys, nella peste londinese del 1665 (giusto per non citare il solito Manzoni), di gente che aveva perduto la ragione disattendendo volontariamente le norme della quarantena. Eppure, non ostante l’apparente crollo di ogni remora e la prospettiva di un futuro dove l’anarchia dell’homo omini lupis avrebbe regnato suprema, non ostante vagheggiamenti di vite campestri e sogni bucolici, non si è mai smesso di abitare le città.
Dal punto di vista dell’hardware urbano cambierà ben poco, insomma. L’architettura ha una sua inevitabile grevità, lentezza, farragine. Non si po’ ridisegnare tutto, abbattere tutto per ricostruire tutto daccapo, è una proposta retorica, emotiva, e sarebbe comunque una operazione inutilmente titanica. Viviamo in spazi codificati da secoli, la stratigrafia non è solo materiale (mai per davvero il passato e scomparso dalle nostre città) ma anche e sopratutto culturale (abitiamo modernamente e allo stesso tempo seguendo abitudini antiche). Quello che occorre fare è ciò che abbiamo sempre fatto: riusare in modo nuovo il già dato. Fare un aggiornamento del software urbano, per migliorare la resa della macchina metropolitana.
La forza dell’architettura sta nella sua apparente debolezza: il tempo che intercorre da quando viene ideata a quando viene materialmente prodotta. Nessuna architettura è mai davvero contemporanea al suo tempo. Nessun programma distributivo, tecnologico, tipologico, potrebbe rispondere a una richiesta immediata, urgente. C’è uno spazio di aleatorietà e versatilità che viene naturalmente incorporato dalla cassa muraria di un edificio. E una sua connaturata attitudine all’adattamento. Ciò che sembra perciò rigido e inattuale è anche capace di farsi riusare di volta in volta in modo differente. È così che riusciamo ad avere edifici che nei secoli sono nati con una funzione per poi contenerne altre, nuove e differenti: chiese che diventano auditori, fabbriche che diventano appartamenti, case popolari che diventano abitazioni di lusso, rovine archeologiche che diventano palazzi nobiliari, gasometri che diventano spazi espositivi, manieri che diventano uffici, cascine che diventano alberghi, eccetera.
Caldeggio il ripristino di due discipline nate con la rivoluzione industriale e che s’è smesso di insegnare da tempo dei corsi universitari: l’igiene ambientale e l’architettura sociale. Campi di ricerca che devono studiare e approfondire le fragilità che sono sorte con il virus sapendo che le risposte non saranno quelle massive del secolo scorso. Non è di megastrutture che abbiamo bisogno, ma di un programma di intervento capillare, parcellizzato e coordinato. Uno spazio d’intervento in realtà enorme, capace di coinvolgere nuovi creativi e piccoli imprenditori, prima ancora che grandi studi di progettazione o enormi imprese di costruzioni.
Immagino designer che studiano quali dispositivi sanitari ideare per il nostro uso quotidiano (abiti, mascherine, protezioni) che non siano punitivi e mortificanti; oppure penso a nuovi spazi di decantazione e igienizzazione condivisi, negli ingressi, atri, o ai cancelli dei cortili, che mettano in sicurezza l’abitante del condominio evitando di rubare spazio prezioso al singolo appartamento per le operazioni di sanificazione; e poi la rivalorizzazione degli spazi semiprivati, condivisi, come i ballatoi, i cortili, i giardini interni, i corpi scala, dando loro funzioni nuove e nuovi usi (camere di decompressione, spazi per le attività fisiche, luoghi di scambio, ecc.). Sperimentazioni che si riverseranno nelle nuove progettazioni alle quali, pare evidente, sarà doverosa una attenzione che prima non sembrava necessaria. Le nostre case non saranno solo covo, tana o rifugio dove escludersi dal mondo, ma cellule minime dalla geometria frattale nelle quali si riverbera e si legge la complessità urbana di cui fanno parte. Quindi balconi, terrazze, affacci urbani, giardini pensili, funzioni condivise, spazi di igienizzazione, terme, biblioteche condominiali, sedi per la consegna, la vendita e il ritiro delle merci, eccetera. Condomini come piccole comunità che riescono ad essere aperte alla città (cosa ben differente dalla gate community) e allo stesso tempo pronte a non perdere la possibilità di uno scambio sociale, in caso di nuovi allarmi sanitari, mantenendo il dovuto distanziamento fisico.
Crescendo di scala la geometria frattale non cambia forma e attitudine. Allo stesso modo della politica abitativa di “vicinato condiviso” dovremo rendere in molte funzioni autosufficienti i singoli quartieri, rivivificandoli con attività e servizi (dalla vendita al dettaglio al presidio medico). Il giardino pubblico non sarà uno spazio di risulta abbandonato, ma un punto strategico capace di fare da camera di decompressione durante le emergenze e allo stesso tempo spazio quotidiano per la socialità di quartiere. Apriremo e chiuderemo a macchia di leopardo, nel caso di eventuali nuove epidemie, via via, i singoli appartamenti, i singoli condomini, i singoli vicinati, i singoli quartieri, rendendoli comunque tutti sicuri e socialmente autosufficienti.
Perché questo accada, a scala metropolitana, bisogna saper intervenire in modo innovativo sul nodo delle infrastrutture. Usciti dalla quarantena e dal blocco conseguente è il sistema della mobilità che potrebbe avere le più forti sofferenze, capaci di mettere in crisi l’intero sistema. Per ora i numeri sono impietosi, per mantenere le distanze di sicurezza la mobilità pubblica farà fatica a svolgere il suo compito. Ma quello di cui dobbiamo avere il coraggio di fare, anche a costo di essere impopolari, è abbandonare da subito la tentazione di un utilizzo massivo della mobilità privata, che forse può farci sentire al sicuro (nel chiuso dei nostri abitacoli) ma innescherebbe una reazione a catena ingovernabile. Abbiamo già dato, in termini di inquinamento e di stress.
Il vero Moloch che dobbiamo abbattere è il codice della strada, da abbandonare al più presto per scriverne uno differente che ci permetta una nuova mobilità davvero innovativa. Rallentare la città negli ambiti di quartiere, insistere su nuove linee di mezzi pubblici, leggeri, non invasivi, ecologici, stimolare il car sharing e l’utilizzo di piccole automobili elettriche, dare centralità, nei piccoli tragitti, alle due ruote (biciclette, scooter, bicicli a pedalata assistita, monopattini, ecc.) e alla pedonalità. Una mobilità più lenta, certo, ma più ecologica, capace di stimolare l’equilibrio psicofisico della popolazione, rendendola più sana e più resistente all’eventuale prossima emergenza.
Non dico di escludere l’automobile privata, ma renderla una opzione fra le tante. Se si lascia campo aperto, per ragioni d’emergenza temporanea, alla vecchia mobilità privata si fa un passo indietro difficile poi da colmare: le soluzioni temporanee in Italia diventano, per abitudine, definitive. Sono scelte che sicuramente troveranno resistenze. Ogni cambiamento le provoca, occorre prepararsi all’inevitabile scontro, ma una politica lungimirante deve accettare la possibilità di non essere popolare.
Una metropoli inclusiva e frattale avrà a scala più larga anche percorsi più veloci, aree di grande distribuzione, ospedali d’eccellenza, centri direzionali. Ma non punterà il suo sviluppo solo su quelli. Anche perché il tema delle infrastrutture non si ferma solo a quelle fisiche, materiali, ma coinvolge, mai come ora, quelle digitali. Nei quasi tre mesi di quarantena abbiamo stressato oltremodo la rete dimostrando quanto sia necessaria e inadeguata. Abbiamo bisogno di una città iperconnessa. Ma una infrastruttura strategica (quale quella digitale) non può essere affidata solo ai privati. Così come nell’ottocento le ferrovie e nel novecento le autostrade venivano finanziate ed erano sostanzialmente di proprietà pubblica, altrettanto oggi dovremmo ridefinire i ruoli e le proprietà delle infrastrutture digitali. Fateci caso: nei giorni della quarantena gli incontri virtuali, il lavoro agile, la didattica a distanza sono state tutte attività svolte su piattaforme private. Abbiamo demandato a realtà che hanno come primario e legittimo interesse il profitto la gestione delle infrastrutture che ci definiscono come comunità: scuola, lavoro, socialità.
In fondo per queste realtà produttive tenerci a casa, nel nome della nostra sicurezza, è un’ottima fonte di guadagno. Ma da quando abbiamo smesso di essere cacciatori raccoglitori, da quando abbiamo scommesso sulle città, il contatto con gli altri è il nostro patto comunitario. Ecco perché occorre tornare ad investire sulla scuola. L’istruzione è un diritto costituzionale al pari della salute. L’utilizzo della didattica a distanza, anche il migliore e più aggiornato utilizzo, non può sostituirsi al laboratorio di socialità pubblica e di cittadinanza che è lo spazio fisico di una scuola. Alle strutture esistenti occorrerà ridefinire spazi e modalità, alle nuove, funzioni ulteriori.
E allo stesso modo, il lavoro agile (quello che viene odiosamente chiamato smart working cosicché la pillola sembri meno amara) deve essere solo una opportunità aggiuntiva, non l’unica soluzione agibile. Il lavoro (su cui si fonda la nostra stessa costituzione) resta uno dei luoghi elettivi di socialità e di presa di coscienza collettiva. Non possiamo trasformarci in monadi indipendenti, tutti chiusi nelle nostre stanze private, fragili e perciò manipolabili, dediti soltanto al “produci-consuma-crepa”.
Certo, rallentare la città e allo stesso tempo continuare a volerla fruire a tutte le scale può sembrare una aspirazione inattuabile. E lo sarà se non si metterà mano a una progettazione coordinata del nostro tempo. Oggi non è più il Piano Regolatore del Territorio novecentesco – quello che definiva lo spazio di una città e le sue funzioni – che deve interessarci, ma un Piano regolatore del tempo urbano. Non dico nulla di nuovo, in realtà. Sono almeno trent’anni che se ne parla, e alcune città hanno già previsto chi un Piano del tempo libero, chi un Piano Territoriale degli Orari. Ma sono sempre stati strumenti accessori, spesso ornamentali, quasi gentili concessioni a studiose (donne per la maggior parte) rompiscatole che della armonizzazione del tempo familiare con quello lavorativo avevano fatto una battaglia di civiltà. Oggi quel campo di studi, all’apparenza minoritario, di “genere”, si dimostra centrale.
Una città che ha bisogno di più tempo, che deve rallentare, che deve saper utilizzare tutto il suo spazio senza più rubarne altro al territorio ormai sfinito, deve ottimizzare i tempi del lavoro, dello studio, delle incombenze burocratiche e di quelle domestiche, del tempo libero (da ridefinire come concetto), degli incontri pubblici, del riposo. Ottimizzare non vuol dire irreggimentare, ma rendere più plastiche le nostre giornate, migliorando le opportunità che la città ci mette a disposizione. Fra queste suggerisco un investimento consistente sulla biodiversità (immagino aree lasciate “a maggese”) e sull’agricoltura urbana.
Insomma, cambiare negli interstizi la metropoli, per cambiarla per davvero. Perché se è vero che dopo la pandemia nulla sarà com’era prima, non vorrei che fosse però in peggio. Prima o poi un vaccino verrà trovato e raggiungeremo la tanto agognata immunità di gregge, ma il morbo più difficile da estirpare è quello che ci è stato inoculato in questi mesi. Quello che ci ha trasformati in sceriffi che davano la caccia agli untori, delatori diffidenti di tutti, spaventati persino di uscire di casa per una semplice passeggiata. La sindrome del sospetto, l’ossessione a barricarci per difenderci è un’idea punitiva e oscura della città che non posso accettare. L’idea di muoverci solo per ragioni utilitarie, solo per fare acquisti, o andare al lavoro, per poi rintanarci nei nostri bunker protetti è puro antiurbanesimo. Abbiamo bisogno anche di luoghi inutili e di perdigiorno. Lo spazio ludico, lo spazio inutile, il tempo perso, sono rigeneranti. Sono doni disinteressati di scintillante felicità.
Dove si narra di come due gruppi di animali e un manichino si misurino a morte – il primo gruppo per estinguere l’umanità, il secondo gruppo per salvarla.
C’è un puntino, al colmo della salita che dà sul Coppo, prima del gomito che forza la collina dell’Amistà ma non ancora in dirittura del Rile, sul quale una gocciolina ha raccolto come un laghetto, e dentro il laghetto dorme una salma come di ragazza alla quale un pesciolino pulitore, di acqua dolce, ogni giorno schioda un lobo di carne – e il pesciolino fa quel movimento che un gatto come me associa alle paure che vanno e a quelle che vengono, ma senza capire che sono le stesse: quelle la cui sanità è circoscritta alle pareti di un porto muto, una sola riva rotonda che è già la vacanza del girino.
Ne osservo la convulsione sotto la pellicola come di alga – ricordo Driano quand’era ancora un uomo in forza, prendeva quel movimento, introduceva un dito nel laghetto e il girino si cibava della pasta di acino che segnava il giro dell’unghia. Franci veniva di rado a trovarlo.
C’era sempre un puntino, e stava sulla schiena di Driano, basso lungo il lato della vita, in cui gli si innestava un cordone – e poi questo cordone finiva sulle colline, ed era legato al mondo. Io non cercavo la vita a Driano, mi perdevo tra le sporte d’uva. Sapevo la tana dei topolini del melo giù alla fonte di Talanca, e scendevo da loro, li difendevo dalla volpe mentre cenavano al chiaro di una lucciola lampionaia.
Spiavo Driano, tornato dalla vendemmia – presagivo l’usta della talpa, che sapevo stargli dietro per condivisione di via.
Già da allora perimetravo il mio miagolio al giardino di questa cascina – anche oggi, oggi che la nostra guerra sta come chiudendosi nel niente, osservo la superficie del laghetto e lo trovo talmente poco depresso da non nascondere nulla del fondale. Anche oggi, a tutti gli assalti lanciati ai buchini nella terra, qui sul pendio che da Vallecima traguarda il pettine di vigna dei Fitti, non ne ho saputi due malaggraziati al punto da farmi credere siano un qualche ingresso alla galleria della talpina – o una qualche uscita: forse non è uno di quei predatori pazienti, di quelli che fanno già della tana un’arma dalla quale sputare la loro bava di veleno, spandere il loro fiato incendiario, oltre la quale stendere il loro abbraccio come di scheletrino.
Nell’acqua senza movimento del lago si macera questo corpicino – e io conosco, bevendone, lo zucchero che è nella carne dell’uomo.
***
Il mio volo come d’ombrello mi dice della poca parte di collina, quella che conosco sconciata dal cascinale oramai ridottosi a un rettangolo di mattoni – dietro il quale si nasconde la cosa scomoda, fosse un desiderio di pioggia o di lotta. Mentre sono sopra una riga di vigneto imparo i colori, tutti fragili forme di nero. Su di essi rimane l’impronta della mia deformità, culmina nel grifo del cucciolo di porco che sono.
Mentre volo dalla mia talpina, rimangono l’impronta del vento che sposto, che l’approssimazione dell’occhio sa come di cerchio; la mia dentatura di aghi; il mio impigliarmi tra la tenda che Driano libera nell’aria della sera – mentre culla la sua Rita. A volte la guardo, Rita, con i miei occhi tutti ciechi. Appena chiesta al mondo.
Poi rimane questo pendio, questo muro di fronte la pianura, dove c’è un puntino su cui riposa una zanzarina, una esuvia come di cicala – la mangio, e conosco il sapore dell’insetto fuori dall’insetto. Anche oggi che non è più in forza, nell’ora d’estate che piega al nero, l’ora mia, del barbastello e del serotino, Driano coglie qualche esuvia sporgendosi dalla sedia a rotelle – e mi mette dentro una tenerezza. Poi Agata lo chiude nel niente della casa.
Rimane un raspo al quale mi aggancio nel buio – mentre la faina, la volpe e la strega cacciano l’uovo nella paglia; ne bevono, l’unto sui baffi.
***
Ho educato la terra alla galleria, ho lavorato la mia tana per sottrazione: per farlo mi sono piegata alla percezione del tempo, poi ho dimenticato cos’è il tempo. Non sono l’unico animale a scavare il suolo né ad abitarlo, sono però uno dei pochi a fare dello scomparire una forma come di tana. Dentro il buio guardo la mia zampa, lo faccio con i miei occhi ciechi, e la so nera. L’immagino, Driano, camminare ancora, coprire ancora quell’infinita distanza che la mia mente non sa neppure concepire – ne immagino il passo in alto sulla mia testa, lungo la superficie. Eppure lo so vivere nel niente del suo mondo fermo, dentro la cameretta.
La mia testona sterra in rare occasioni, mai che lo veda: in quei momenti percepisco senza errore d’approssimazione la forma di vita che si alza oltre il filo del suolo. E non è mai la sua. E neppure quella di Stefano. Sottoterra ho allestito strutture simili al periscopio. Ne ho sfruttato l’angolazione per correre tutta la collina con il mio occhietto cieco – ma loro due non li so mai, per non dire di Franci. Ho nascosto nelle mie gallerie il sogno di un bottoncino, quello di una levetta. Pochi giorni fa a tornare era stato proprio Francesco, e teneva quella cartellina gialla con dentro tutti i fogli – e la sua vita e quella di Amata parevano muoversi tutte lì dentro. Allora ho creduto fosse venuto per dirmi di quando Driano mi aveva piatito di ucciderli tutti, di far crollare la strada di collina come quando c’era rimasta sotto la moglie del fornaio mentre tornava dai Fitti, e io avevo precipitato tutto il pendio – ma niente, Franci era qui per la carta e il timbro del notaio e la loro, di guerra.
Allora mi approssimo alla superficie, il musino stellato in cui termina la mia natura avverte il filo di sole che batte il suolo; so quando la pioggia bagna la terra, quando no: evitando la radice che pencola capisco di essere quasi sbucata. C’è un puntino, e sta al piede dello spaventapasseri, girato l’orto in cui Amata si ferma a guardare il corvo quando si tenta nel suo coraggio, sul quale sgronda tutta la collina, come una gocciolina in un imbuto di vita – lì dorme la capra. Se ho necessità di comandarla, sterro di fronte al suo muso – ma il mio verso è sempre coperto da un rumore lontano, quello del mondo lurco che abita la pianura. Anche la capretta, spesso, mi guarda – senza impegnare fiato, lasciando persistere tutto questo silenzio, mi chiede come fare per chiudere nel niente tutta la nostra guerra.
NdR: questo è l’inizio, o meglio quasi l’inizio, prima ci sono una notina e un prologo, nel qual ultimo spiegasi che la talpa parte all’attacco – per fare piacere all’uomo che l’ha salvata, Driano, e facendosi aiutare da altri animali -, per sterminare l’umanità, scavando e facendola sprofondare nel niente, del romanzo di Stefano Costa “Il primo giorno d’autunno al mondo”, appena pubblicato da “il Saggiatore”, che ha gentilmente concesso questo postamento
«Forse non spetta a te di portare a termine il compito, ma non sei libero di rinunciare.»
(Avot 2,21)
Un questionario, come luogo di una sollecitazione: «È ancora legittima la radice dell’inchiostro?». Non solo il come si scrive, ma lo scrivere stesso, malgrado le storture. Lo scrivere che si porta avanti per decifrare la qualità del proprio silenzio o del proprio arretramento.
Una nota appuntata altrove scompiglia ulteriormente il ciglio dell’interrogazione: «Come dimenticare la fine -della storia, della poesia-? Non soltanto la fine che è già stata decretata, ma anche quella sempre sul punto di venire, di tramutarsi in eschaton rovesciato, in buona novella liberale: “la fine della storia ad opera di Dio è diventato il progresso storico dell’umanità” (Sergio Quinzio, La Croce e il Nulla, 1984).»
Oggi la scrittura non sarebbe altro che uno stornare la necessità di una risposta a tali quesiti, e insieme un esserne già in partenza incomodati, chiamati a dire prima ancora di sapere. Citati in giudizio. Forse per questo i poeti italiani somigliano sempre più a glossatori dell’affaccendamento, come se l’andirivieni tra le cose quotidiane fosse un modo per incenerire con uno stesso rogo i sintomi del presente e l’eredità del secolo passato. Qualcosa continua a battere sulla pagina, e allora ne riporto una traccia…
Adriano Spatola, da Poesia Apoesia e Poesia Totale (1969): «Il poeta sa che la poesia è qualcosa che lo riguarda sempre meno. […] “Per il poeta, la fine della poesia come poesia è un fatto accertato”». Corrado Costa, da Alzare la gru ad alta voce (1972): «Che nome è che gridano / alle gru spaventate dal loro nome / volano via inseguite dal nome che le insegue / che vola via sta insieme con le gru / senza sapere che nome è». Emilio Villa, da quell’abiura in forma di annotazione che segnerà il suo congedo definitivo dalla letteratura (1985): «Ma, volevo dire: non si sente che io non credo alla “poesia”, che ritengo una baldracca del baldraccone che è il linguaggio … Io mi sono duramente dissociato della “poesia”, quindi perdonami, e non mi chiedere più niente».
Nulla più che righe inferme, potrebbe obbiettare qualcuno. Se non altro, questo breve attraversamento aiuterà a scamuffare le tresche dell’oblio programmato, e così a comprendere qual è il fantasma con il quale ci dobbiamo confrontare. Ogni nostra parola vigila il suo personale dirupo: sta a noi scrivere come se già custodissimo un anticipo della caduta.
Il vero lavoro del glossatore, conviene ripeterlo con Heller-Roazen, è quello di rinnovare l’incompletezza, poichè sempre precaria dovrà essere l’interpretazione del libro-mondo (e insieme sempre cercata). Proprio a partire da ciò, ho chiesto ad alcuni poeti e critici letterari di farsi alleati a una riserva di bianco. Di raccogliere gli interrogativi da posizioni divergenti, cioè di strincerarsi, e di usare questo spazio come un modo per tornare a domandare un qualche assenso alle cose nominate…
Giorgiomaria Cornelio,
dicembre 2019
SOGLIA
soltanto raccogliere. Gocce di resina, galle,
sul muschio ingiallito, stucchi, calcine,
dentro un’ampolla incrinata, crostuta di polvere,
non sarà vanto, di sapere far cernite, di velare,
costringere al meglio, scartando, la fattura,
di altre e di molte, ore che varranno, liete,
quanto il tepore del bianco, la scansione limpida
come d’albume, delle nuove parole, perlate,
in procinto di muta, da inchiostro a candide biacche,
che non trattengono il pasto, la veglia, fanno ragione,
dell’uso e del profitto, rendono l’estro, a disciogliere,
provetto, per l’armonia degli incontri, a rastremare,
a spargere il sale, prodigo, non porgere cura,
verso la fine, alla scelta: soltanto raccogliere
c’è una famosa poesia di Marianne Moore, intitolata Poetry, che in una prima versione del 1921 comincia così: «I, too, dislike it: there are things that are important beyond all this fiddle» (e credo che «fiddle» contenga in sé sia l’idea dell’imbroglio, della truffa, sia quella del perder tempo, del cincischiare). È un testo furbo, perché subito dopo Moore ci dice che in ogni caso, leggendola con tutto il disprezzo che merita, nella poesia si può trovare comunque «a place for the genuine», con tutta l’ambiguità e la scivolosità di quella parola (genuino? autentico? vero? Che in ogni caso è sempre meglio dell’«onesto» di Saba, per quanto mi riguarda). È il testo da cui un giovane poeta americano, Ben Lerner, è partito per scrivere il suo brillante e ambiguo pamphlet Odiare la poesia (Sellerio, 2016), atto d’accusa e d’amore nei confronti del genere di cui parliamo.
Spesso provo anch’io questa contraddizione, ultimamente. Scrivo pochissimo, pubblico ancora meno e quando leggo gran parte della poesia che circola vado in cerca con ansia del «genuine» di cui parla Moore, che può prendere le forme linguistiche e testuali più disparate, ma non lo trovo così spesso. Perché mi accade questo? Dipende soltanto da me? Per certi versi sì, devo ammetterlo subito: il mio rapporto con la poesia è cambiato, da qualche anno a questa parte. L’accelerazione della vita e delle relazioni sociali, l’eccesso di comunicazione, la mia professione di insegnante, l’impossibilità quasi sistemica di stare da soli e di riflettere con continuità mi hanno costretto a una postura diversa, nei confronti dei testi poetici. Se quando avevo venti o trent’anni leggevo tutto quello che usciva, rispondevo con lunghissime email (irreali, a ripercorrerle ora) a chi mi mandava qualcosa da leggere o reagiva con generosità a quello che gli avevo mandato io, ora non sono più così sistematico, così continuo. Però leggo, naturalmente. Con più lentezza, discontinuità, ma leggo. E se la poesia certe volte mi appare un fiume lutulento forse dipenderà un po’ anche da lei e dalle condizioni che la riguardano, mi dico: ovvero, credo, dalla mancanza di attrito di cui ha parlato in questo stesso spazio Andrea Inglese, dalla difficoltà di trovare campi di interesse attorno ai testi, alle opere. Si scrive e si pubblica molto, forse troppo (e troppo spesso); si legge (profondamente) e si condivide poco, e spesso tale condivisione obbedisce a logiche più da social che da comunità di lettori: i campi di interesse si formano sempre di più attorno a un nome, a un profilo, secondo quella che Gianluigi Simonetti, parlando di Bianco di Easton Ellis, ha chiamato «sindrome di Tripadvisor». Dire perché questo accade è complesso: perché la critica della poesia contemporanea è morta o agonizzante; perché l’editoria di poesia è esplosa in una galassia di sigle di pari valore (per fortuna), per cui i grandi marchi in fondo non assicurano né una leggibilità né un canone; perché questa è l’epoca del narcisismo di massa; perché scrivere, pubblicare e distribuire poesia, considerati i relativi pubblici, è più facile che scrivere, pubblicare e distribuire un romanzo, ecc.
Per tutte queste ragioni e per altre ancora, a volte faccio fatica a orientarmi, a seguire, a capire. E tuttavia, accanto al «contempt» di cui parla Marianne Moore resta sempre in me lettore – prima che scrittore – il desiderio di percepire, in un testo poetico, quella reazione che mi fa dire sì, ci siamo, qui si sta dicendo – o costruendo – qualcosa di vero (o di genuino, di autentico, di importante…). Ecco, io credo di non cercare nient’altro, nella poesia, che questa traccia di verità (con la minuscolissima), e continuo a credere, nonostante «all this fiddle», che questa forma di espressione linguistica sia una delle più forti e profonde che abbiamo. Devo chiarire però qualcosa a me stesso e a chi legge, perché io non penso che la poesia sia l’espressione di una verità: come se tutto ciò che conta fosse lì fuori, a disposizione della nostra percezione e intelligenza, e la poesia non fosse altro che una sorta di mimesi, di trascrizione, al limite di raffinamento (per carità!) di quella realtà. A me pare che la poesia sia, nei confronti della verità, sempre un passo indietro, come un asintoto rispetto a una curva, o come Achille che non riesce mai, per quanto corra veloce, a raggiungere la tartaruga. E questo perché mentre la poesia tenta di costruirla, una verità, questa sfugge, scarta di lato o in avanti, si sposta di un millimetro, si rivela diversa da quella che credevamo di avere in mano quando abbiamo cominciato a scrivere. In fondo sta qui la forza conoscitiva e persino politica della poesia: nell’accendere in chi legge e in chi scrive il desiderio di un oltre, di un di più, di un meglio, perché quello che si è letto o si è scritto magari è giusto ma non basta, non soddisfa, non conclude. Quello che dobbiamo capire o realizzare è ancora un passo più in là (qualcosa di simile, mi pare, dice anche Lerner).
Per questo apprezzo la poesia che sa accendere quella tensione, con i suoi strumenti precipui ed essenziali (il significato, il ritmo, il suono). Una scrittura che sappia vivere in un rapporto dinamico tra parola e cosa, insomma: né troppo schiacciata sulla realtà, come se questa fosse l’unica dimensione davvero importante (è la vecchia concezione di arte come mimesi, di cui accennavo sopra); né annegata nella parola, come se questa avesse un valore magico, una capacità creatrice autonoma (è la vecchia concezione simbolista). Cerco e provo a scrivere, nella mia esperienza di lettore e di scrittore di versi, una poesia in continuo viaggio tra parola e reale, tra ciò che abbiamo e ciò che dovremmo avere e non abbiamo ancora. A prescindere da tutti i complessi discorsi che potremmo intavolare sul contenuto dei testi, sull’ordine o sul disordine stilistico, sulla postura dell’io, sull’efficacia della letteratura (in termini politici o etici), questo continua a sembrarmi il nucleo incandescente e vitale della scrittura in versi, il suo «place for the genuine».
Grazie dell’opportunità,
Massimo Gezzi
LORENZO MARI
B***, 2*/*/20**
Caro Giorgiomaria,
cerco di rispondere alla tua domanda intendendola come una questione radicale, nella sua offerta e richiesta di esposizione, o di strinceramento, come scrivi. Ti ritrovi tu stesso esposto e, com’è del tutto comprensibile, il primo passo è di ripiegare e prevedere già una prima reazione, in quel paradosso tra lo stornare la necessità di una risposta e l’esserne già in partenza incomodati che per molti, anche per me, è già un accenno di risposta. Di per sé non basta, naturalmente: la risposta è da verificare nella scrittura e, trattandosi di un paradosso, anche nel silenzio, nel bianco della pagina. Senza verifica, infatti, si può anche aggirare la portata radicale dell’interrogativo e continuare a parlare, non di rado in modo illegittimo: si possono anche produrre volumi poderosi cercando di analizzare con puntiglio un paradosso, uno solo…
Ma non si tratta soltanto di una verifica dei testi, si tratta anche di una verifica dei poteri, per usare un’espressione nota: se la contraddizione resta esclusivamente contra-dizione, senza misurarsi con l’ascolto, o il vuoto in cui cade, il suo destino è di cadere senza fare alcun attrito – come già rilevava qualcun altro, qui.
A questo, aggiungo che ci si potrebbe porre anche la domanda speculare: è legittima, oggi, l’abiura? Differentemente dall’esposizione – che, a dispetto dell’etimologia più facile, non ha bisogno di rapportarsi a una posizione originaria – alla radice dell’abiura mi sembra, invece, che debba esserci una qualche posizione: raggiunta, costruita o (de)negata che sia, riconoscibile o irriconoscibile, dentro o fuori, magari oltre, la letteratura. Qualcosa che si potrebbe essere tentati di replicare, senza scandalo né rischio…
E poi, se oltre l’abiura ci fosse, oggi, una nuova mistica che si bea del proprio silenzio, o della propria luce, dimenticando del tutto la notte oscura che si è attraversati o si sta attraversando?
In altre parole, per chi e in quale circostanza è legittima l’abiura, oggi, senza che sia una ripetizione epigonica, un abbaglio o altro?
Suscitare una domanda in risposta a una domanda, senza essere in grado di rispondere, mi sembra un buon modo non tanto e non ancora per motivare o legittimare la scrittura, ma per introdurre un aneddoto e, nel caso si tratti di un aneddoto potenzialmente condivisibile, per cercare di parlare di una tendenza. Da molti amici, dunque, ho sentito dire, negli ultimi tempi, che il gesto intellettuale (o, nel nostro caso, la scrittura: non mi pare che sia sempre giustificato e necessario distinguere tra questi tipi d’inchiostro) necessita di essere consapevolmente posizionato e che, al tempo stesso, questa posizione non si trova più, non è più individuabile. Ne nasce l’idea di una trincea infinita, invalicabile, popolata da quelle che sembrano essere monadi – al meglio delle nostre possibilità, è stato ricordato, ci ritroviamo nella solitudine della forma – che, però, non sono del tutto nascoste e che per questo ogni tanto si sfiorano o, perlomeno sul piano fenomenologico, si incontrano. Ci possiamo interrogare a lungo sull’incontro tra monadi ma a un dato momento, in un dato luogo, occorrerà estendere la prospettiva – immaginandola, al più, sognandola, profetizzandola, etc. – al campo di battaglia. Potrebbe essere davanti, alle nostre spalle – potremmo imporci la velleità di raggiungerlo, dunque, anche con l’arretramento… – oppure non essere qui, non esserci.
Mi sembra, insomma, che non sia possibile dare pienamente senso né alla continuazione imperterrita né all’abiura, non potendo determinare con certezza alcuna posizione. Ciò che può perdurare è l’esposizione (non siamo mai del tutto nascosti, all’interno della trincea, e a quel punto potrebbe non esserci nemmeno, la trincea, potrebbe ridursi ad esempio ad una narcisistica volontà di autodefinizione), per evitare di portare avanti in modo esclusivo l’im-posizione mortifera della parola sulle cose assenti. Potrebbe essere un’esposizione aperta alla contraddizione in quanto contra-dizione, ma anche come epifenomeno di una totalità non del tutto perduta (magari solo tralasciata, taciuta, aggirata…). Non sarebbe solo nudità, ma anche cammino, attraversamento, magari verso una nuova posizione, successiva e non antecedente all’esposizione. Ancor meglio che cammino o attraversamento, una tendenza, radicata nell’amicizia: non l’amicizia di congrega e nemmeno in quella radicata in una fraternità di per sé esclusiva ed escludente, ma in una comunità a venire.
Che sia il momento più propizio, nella distanza imposta, per immaginare, sognare, profetizzare, etc. (forse: designare e insieme disegnare) una simile comunità nella parola esposta?
Non ti dico da dove scrivo, né il giorno – non lo so – ma ti abbraccio, a colmare un vuoto sul quale dovremo poi verificare una tendenza, ossia come (ci) si (in)tende.
GIORGIA ROMAGNOLI
Non ci è dato sapere
Non occorre dire niente
non occorre insegnare niente,
è così triste e buona
la buia anima selvatica:
non vuole insegnare niente,
non sa affatto parlare
e nuota come un giovane delfino
per le canute voragini del mondo
O.Ė. Mandel’štam
(…)
Così, e con forza uguale, la più piccola cellula del corpo dell’uomo è attaccata alla parola, e viceversa.
Ma a volte un altro essere viene a violare questa tomba, se è fatta bene, e a fissarvisi al posto del costruttore defunto.
È il caso del paguro.
F.Ponge
Generalizzare parlando della storia della poesia come qualcosa di concluso e negando che essa possa sopravvivere a se stessa e all’autore, al momento attuale non mi sembra verosimile: finché scriviamo tesi di dottorato su autori contemporanei, facciamo critica o semplicemente pubblichiamo non si può intravedere un punto di arrivo.
Probabilmente siamo qui a scrivere perché altri lo hanno fatto prima di noi e continuiamo a causa di quell’attaccamento alla parola che ci è proprio in quanto esseri umani. Che sia inerzia o un giocare a render conto della nostra esistenza, la scrittura senz’altro non ci rende persone migliori – come sostiene Marilina Ciaco – ma non ci è dato sapere se resterà o meno, pur senza alcuna pretesa.
Non sarebbe forse più lecito chiederci cosa intendiamo per poesia, qual è il nostro concetto di forma, su quali riferimenti ci basiamo, quanto c’è di ancora non tradotto (anche in termini di critica)?
Inoltre – ne discutevamo tempo fa con Luca Rizzatello ad un incontro bolognese – siamo legati all’oggetto libro e quindi alla memoria; ma che fare quando l’oggetto non è più in grado di racchiudere la forma? (Mi vengono ora in mente i lavori di Nicco Furri, quelli Ophelia Borghesan o Andrea Leonessa). Può la rete darci ciò che ci dà il libro a livello di visibilità e memoria? Ma soprattutto: ne abbiamo necessità? E in caso contrario, la labilità della rete e la rinuncia al supporto fisico porterebbero a una effettiva fine della storia della poesia?
DANIELE POLETTI
Libro dell’abbandono del libro
THEMROC
{Daimonografia della citazione}
«La macchina dispotica tiene costantemente sotto controllo la messa in opera del sapere perché questa è una condizione essenziale per la sua sopravvivenza e, allo stesso tempo, essa è cosciente del fatto che non le è possibile sottrarre l’esercizio del potere dal riconoscimento automatico dell’esistenza universale dell’oppressione. […] Il primo dovere del sapere è il “non-sapere”, l’esaltazione dialettica della voluttà, i cui effetti sono fuori discussione: lo sgretolamento della macchina di produzione capitalista».
Ancora.
«La macchina dispotica esalta le rivoluzioni a sua immagine e somiglianza, come quelle, per esempio, che si danno il compito di rovesciare lo Stato o colpire a morte i rapporti di produzione capitalisti. […] Queste parodie rivoluzionarie […] sortiscono dei risultati […] come quello di prendere del potere senza prendere il potere e, soprattutto, senza distruggerlo, così, tutto si limita ad un generico controllo sulla produzione della propria sopravvivenza che quasi sempre vanifica molto in fretta».
Siamo nel 1979, Bernard Rosenthal (al secolo Gianni Emilio Simonetti) in Fine delle utopie sul buon governo.
Il 26 febbraio del 1969 “Le Monde” apriva un articolo della pagina culturale con queste parole: «Il s’agit de la première pièce d’un inconnu» => “Doux métroglodytes” de Claude Faraldo; il pezzo si riferiva a uno spettacolo teatrale, da cui Claude Faraldo prenderà spunto per la sceneggiatura del film Themroc del 1973 (goffamente conosciuto in Italia come Il mangiaguardie, titolo che oblitera del tutto la presenza anagrammatica di “Metrò” nella parola, appiattendo una sia pur indiretta – remota per lo spettatore italiano – carica simbolica e ricchezza analogica del linguaggio ingaggiato dal regista).
Themroc è un operaio, cittadino medio, schiacciato dai ritmi di vita della società di massa. Dopo aver subito un rimprovero ingiusto sul posto di lavoro, in preda a una rabbia viscerale, regredisce a una sorta di stadio primitivo. Tornato a casa, si mura in una stanza, ne demolisce la parete esterna, che dà su una corte, ricreando una specie di caverna e dà il via a una rivolta contagiosa che pian piano coinvolge sempre più persone. Le guardie cercano di intervenire, ma Themroc e la sua nuova comunità reagiscono mangiandosele arrosto. Il grottesco e sferzante film di Faraldo, che distrugge in sol colpo tutte le convenzioni del “buon governo” e della buona società – partendo dalla parafasia glossolalica di tutti i personaggi, prima del regressus di Themroc, per arrivare alla più estrema prefasia gutturale del protagonista, che risolve il linguaggio a pura funzione fàtica; passando attraverso l’eliminazione di tutti gli orpelli del vivere borghese, ma anche dei tabù più radicati nella società occidentale, come l’incesto e il cannibalismo; il tutto nella cornice di un’autoregolamentazione pseudo-anarchica, che ovviamente scardina e affonda le istituzioni – è assimilabile alla pratica della negazione di stampo avanguardista: «Tornare al punto di partenza per ricominciare dall’inizio e fondare un nuovo linguaggio sgombro dalle scorie. […] Questo perpetuo ritorno all’origine operato dalle avanguardie implica che, nel regime radicale dell’arte, il nuovo diventi un criterio estetico in sé, fondato su un’antecedenza, sullo stabilimento di una genealogia all’interno della quale si distribuiranno ulteriormente una gerarchia e dei valori» (Nicolas Bourriaud, Il radicante).
L’abbattimento di un iperoggetto (v. Timothy Morton) come il capitalismo attraverso un’ipotesi di rivoluzione, per quanto sia un argomento ancora ricco di fascino e di potenza, risulta ormai poco credibile e forse sorpassato. «La nostra epoca dell’ansia è, in gran parte, il risultato del tentativo di svolgere i compiti di oggi con gli strumenti e i concetti di ieri» (Marshall McLuhan, Il medium è il massaggio).
Distruggere il potere, quindi il capitalismo, si configurerebbe come la volontà di distruggere il capitale del linguaggio, ma rimarrebbe un’operazione specifica, all’interno del linguaggio stesso in quanto mezzo. «Se si interroga la natura della pittura, non si può interrogare anche la natura dell’arte. Questo perché la parola arte è generale mentre la parola pittura è specifica» (Joseph Kosuth). Si tratta di riflettere non sull’effrazione del mezzo, ma sull’effrazione del contesto, grazie alla manomissione => (intesa anche nella prima accezione derivante dal diritto romano) del mezzo. Tesaurizzare e prosperare o sopravvivere (come dice Rosenthal), significa sedimentare segmenti di potere che fruttano solo al potere più grande, quello inaggirabile, l’iperoggetto, per ottenere (per riconoscimento) un ridicolo potere temporaneo, esteticamente inutile, se non riprovevole. Stare dentro il contesto o fuori da esso. Oppure starci dentro respirando l’ossigeno della “disappartenenza”, unica incrinatura possibile della Tavola.
«Il fine più alto è il non avere nessun fine. Questo pone in accordo con la natura, con il suo modo di operare» (John Cage, Silenzio). Cage sviluppò la sua ricerca non tanto sul livello dell’innovazione linguistica ma, più a fondo, sulle basi antropologiche della pratica musicale e dell’arte. Mentre le avanguardie consumavano nel secondo dopoguerra una rincorsa alla dissoluzione di ogni convenzione linguistica, Cage si interrogava sul significato stesso del fare musica (v. supra Kosuth).
* «L’orecchio non privilegia nessun particolare “punto di vista”. Siamo avviluppati dal suono. Esso forma un’ininterrotta ragnatela sopra di noi. Diciamo “La musica riempie l’aria”. Non diciamo mai “La musica riempie un particolare segmento dell’aria”. […] Non possiamo spegnere il suono automaticamente. Semplicemente non siamo dotati di palpebre sulle orecchie. Mentre uno spazio visivo è un continuum organizzato di genere uniforme e connesso, il mondo dell’orecchio è un mondo di relazioni simultanee» (Marshall McLuhan, Il medium è il massaggio).
Themroc, vittima e incolpevole rivoluzionario privo di progetto, attua una rivolta radicale senza un fine preciso, se non quello della negazione delle “strutture linguistiche” (intese come strumenti di rappresentazione e controllo in senso ampio), non riuscendo a sommuovere il contesto che fonda quelle stesse strutture. Il suo è un fuoco di paglia, seppure sfavillante, una rivoluzione che utopicamente riporta la scrittura al corpo, grazie all’eliminazione della parola-cosa, del raddoppiamento che la scrittura fa del mondo e quindi dello scambio simbolico di stampo capitalistico. Themroc è l’analogon contrario di Amleto, quasi un caso di enantiodromia, entrambi criticano il potere della parola: l’uno stracciandola e rinnegandola, l’altro interrogandola e cercando di farne uno strumento di verità, ma entrambi sono destinati al fallimento, perché il medium non diventa massaggio, ma rimane messaggio.
A tale proposito non sembra essere risolutiva, ai miei occhi, neppure la “teoria dell’ipergesto” sostenuta con convinzione da Paolo Mottana, ma con mutuazioni importanti da Yves Citton e Hakim Bey. Per contrastare l’imposizione della monolingua dell’immaginazione della merce, della comunicazione della merce e del significato della merce che la nostra società ha acriticamente adottato, si ipotizza l’atto insurrezionale dell’ipergesto. «Il carattere insurrezionale dell’ipergesto, in quanto “aumento di tensione” e non “soluzione permanente”, in quanto azione che non pretende di strutturarsi in forma definitiva, ma che promuove mutamenti in divenire, che si manifesta come un appello, una dimostrazione, un esempio cui ispirarsi per affermare nuove linee di concatenamento, nuovi flussi, nuove posture sociali, economiche e passionali, fa di esso un atto regolativo e mai definitivo» (Paolo Mottana, L’ipergesto).
L’indicazione precisa è quella di muoversi all’interno della sfera in cui siamo immersi, quella mediatico-comunicazionale, e utilizzarla per la mobilitazione e diffusione di messaggi per la sovversione della narcosi e dell’appiattimento inerziale del senso critico.
«[O]rigine della scrittura è la decisione del supporto, dove la natura del supporto è la sua smaterializzazione. Il supporto è ciò che si assenta, ciò che fa un passo indietro, ciò che si annulla, ciò che si decontestualizza […] primo supporto è il corpo, anzitutto lì avviene la smaterializzazione del mondo e il mondo viene messo in prospettiva; il qui è un segno per là e io sono nel mezzo, non sono mai radicato, sono sempre nello slancio della prospettiva» (Carlo Sini, in De|Scrittura).
Se la scrittura è per biologia desostanzializzazione del mondo, in un sistema di segni che restituiscano senso, e il supporto stesso si ritrae per far esistere la scrittura – nel caso dei nuovi dispositivi tecnologici il risultato non cambia, anzi diventa esponenziale, in quanto se il foglio è metafora della sua nullità nel bianco, il supporto elettronico è nullità senza metafora) – la simbolica dell’assenza per sottrazione deve farsi parte costitutiva della scrittura come elemento di continuo differimento del senso. Volendo rimanere all’interno delle strutture linguistiche è necessario dunque un altro tipo di approccio.
«L’uomo conduce la sua vita ed erige le sue istituzioni sulla terraferma. Ma il movimento della propria esistenza cerca di comprenderlo, nella sua totalità, specialmente con la metafora del temerario navigare» (Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore).
«[Q]uando Foucault parla di resistenza parla della possibilità di creare degli ambiti nei quali ciò che il potere nega viene comunque salvato; la resistenza non è opporsi per rovesciare la tendenza, ma è invece la capacità di contenere, come in una bolla, come in un ambito separato […] ciò che va assolutamente salvato. […] Il senso in cui Foucault parla di resistenza mi pare contenga l’idea di costruire ambiti di autonomia, di indipendenza, di sottrazione, piuttosto che l’idea di far fronte e contrapporsi». Così Franco Berardi Bifo glossa il suo concetto di fuga, intesa come sottrazione dai meccanismi che soffocano la divergenza.
«Vous êtes embarqué» (Blaise Pascal). Le istituzioni della terraferma devono essere continuamente forzate per arrivare a delineare la dinamica del “naufragio attivo”: luogo in cui, non solo spettatore e naufrago vengono a identificarsi, ma dove è necessario spezzare l’eterno ritorno dell’uguale abbandonando la nave venuta costruendosi, che a sua volta diventerà relitto alla deriva per ulteriori forme di naufragio: di nuovo nuotare cercando di imbattersi in altri segmenti.
«L’immigrato, l’esiliato, il turista, l’errante urbano sono pertanto le figure dominanti della cultura contemporanea. L’individuo di quest’inizio di XXI secolo, per restare in un lessico vegetale, ricorda quelle piante che per crescere non si affidano a un’unica radice, ma avanzano in tutti i sensi sulle superfici che si offrono loro, aggrappandovisi come l’edera. Quest’ultima appartiene alla famiglia dei radicanti, i quali fanno crescere le radici a seconda della loro avanzata, contrariamente ai radicali, la cui evoluzione è determinata dall’ancoraggio al suolo» (Nicolas Bourriaud, Il radicante).
Così i contatti col suolo si riducono e la scelta, la selezione, per acclimatamento, diventa un processo di capacità di contestualizzarsi all’ambiente non appartenendogli mai fino in fondo. La disappartenenza è una condizione di sradicamento perpetuo e di ritmo eteromorfo rispetto all’habitus. Si afferma non per insurrezione, né tantomeno per rivoluzione, quanto per sottrazione dalle logiche di utilità e aspettativa. Insomma una sequenza ininterrotta di naufragi dove, per parafrasare Tim Ingold, la meteorologia sostituisce la geometria lineare – che comprime la vita in punti e definisce la linea come la distanza più breve tra di essi – in favore di una mappatura delle masse in volumi, definendo la densità come il rapporto tra gli uni e gli altri. Nello spostamento di una massa i percorsi diventano orbite o traiettorie. Per effetto del continuo re-radicamento queste orbite sono spezzate e inarginabili, provocando una deflazione del codice per inflazione di senso.
«È ancora legittima la radice dell’inchiostro?».
«Insegnamento che Reb Zalé tradusse con questa immagine: “Tu credi che sia l’uccello a essere libero. Ti sbagli; è il fiore… » (Edmond Jabés, Il libro delle interrogazioni). Per effetto della deflazione, ma quella operata dal vento portatore di disgregati, la radice dell’inchiostro può proliferare e vivere attraverso l’aria. La radice dell’inchiostro è lo spostamento di una massa d’aria. E avendo toccato tutti o quasi gli elementi che pertengono alla biosfera, in un’epoca ormai denominata Antropocene, risulta necessario liquefare i confini della semiosfera e tentare di ragionare in termini di Meteorocene. Se non altro per un’“ecologia della mente”. Altrimenti, di questo passo, l’inchiostro diventerà sempre più inutile.
ALESSANDRO MAZZI
Ogni tempo è storia di discese
«La Storia, disse Stephen, è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi»
James Joyce, Ulysses
La radice è un organismo di percezione spaziotemporale. L’albero se ne serve per distinguere l’alto e il basso. Non sono forse i rami le radici del cielo? Radice e ramo sono gemelli. Entrambi si accordano sul sopra e sul sotto. Il sopra e il sotto, che grande mistero. Ci fu un tempo dove non esistevano, e quindi non c’era tempo. Quando abitavamo le fronde degli alberi, c’era solo atemporalità. Il suolo era un grande animale dal pelo cangiante. Le brevi escursioni ai corsi d’acqua plasmarono i miti dell’aldilà. Scendere dall’albero era sempre un viaggio orfico, ogni scimmia uno Stilita tuffatore. L’acqua è quella sostanza che non risalemai. Ecco perché sollevarla è prodigioso. Poi ci incamminammo a terra, tastammo la granulosità degli eventi. Ci rendemmo conto di essere alberi. Scendere a terra, alzarsi sulle gambe, liberammo gli arti superiori e scoprimmo l’alto: ecco l’inizio della Storia. Ogni tempo è storia di discese. Come la scimmia scende dall’albero, l’uovo scende dal corpo, il serafino discende dal cielo e si mostra nella Storia. La vita, anche quella sacra, è gravità.
La gravità degli angeli. Perché l’alto e perché il basso? Si discende nella Storia, e si sale nell’Eternità. Anche in seguito la Storia mantenne sempre il senso di essere bassa. Lasciammo la foresta e i cenotafi arborei che coprivano il cielo, guardammo per la prima volta un cosmo senza fronde. Ora gli alberi non erano più l’alto. Ora gli alberi erano uno degli alti. C’era un alto silvano sorretto dagli alberi, e c’era un alto desertico sorretto dal nulla. Nasce la metafisica. Inizia il viaggio sciamanico. Irrompe l’immaginazione, le prime storie di ascesa, le scalate degli alberi. Gli alberi ora non sono più identici allo spazio, ma un passaggio, un tramite. I ponti che conducono ai palazzi d’oro, il giaciglio sui cui rami sonnecchiano felini gli dèi.
«Lascia dunque che ti parli del momento drammatico in cui la Parola non è ancora che il progetto doloroso di un rantolo muto… Riesci a pregustare questo silenzio così pregno di tuono?»
René Daumal, Controcielo.
No, la scrittura non è necessaria. Perché quello che può dire l’uomo è già gridato dall’aquila e dalla cascata. Ed è questo il punto. Nonostante tutto, qualcosa vibra. Un dito che scrive sull’acqua.
CLAUDIA ZIRONI
Fantasmi: la Poesia
E se la poesia si reggesse sull’equivoco di vite sospese?
Che solo da un certo bilico di confini potesse venire il sublime come errore.
Se fosse più vicina alla morte di un nido abbandonato nel fango di ottobre o di una spuma d’onda;
un’incomprensione della convenzionale accettazione di un transito, istintività deviata
di propagazione, difetto di visuale come un occhio dal nervo malato che sfochi i primi piani,
un orecchio sensibile solo agli acufeni tanto da confondere nel cervello la percezione del reale.
Se i poeti per ciò si riconoscessero senza potersi accoppiare, incapaci di lasciarsi in eredità,
muli sterili assediati di visioni, separati: se fosse un difetto dell’amore, come un gene zoppo,
una mancanza partorita, quest’arte?
Se fosse sintomo di un fantasma nella mente?
Assunta la domanda a postulato, superato lo iato tra poesia e prosa, riconciliato il concettuale con l’estetico, arresa nichilisticamente all’innegabile necessità individuale di produrre arte come somma manifestazione di ego, esplorato laicamente a grandi linee il lato mitico ed esoterico del verbo, passata dal letto di D’Annunzio a quello di Villa, derubricate l’ontologia e la fede a incidenti di umano percorso, escluso il bisogno ineluttabile di dare un’agambeniana forma alla mia vita, opto per un dialogo diretto con l’inchiostro e con l’amante che lo ha incarnato:
mi hai insegnato l’impotenza, l’inutilità
della parola, quanto sia vana la poesia.
la mistica del segno, un risonare di mondi
inesistenti, dare il nome alla creazione
e chiamare ad alta voce ogni pensiero
non avvicinano al divino né all’amore.[1]
Eppure scrivo. Come respiro scrivo, come mi sveglio, come sorrido e piango. Scrivo. Io sono la macchia di Rorschach – dove puoi vedere la farfalla o la testa mozzata.
La radice è ben piantata nel mio sistema cromosomico, nella mia catena evolutiva. Io sono la gemma dell’inchiostro. E la sua scoria.
[1] da “Fantasmi, spettri, schermi, avatar e altri sogni” di Claudia Zironi, Marco Saya Ed., 2016
Partiamo da una poesia o, se preferite, da un pezzo di scrittura. Una poesia qualunque. Non ha importanza (o comunque è relativamente importante) ciò che viene detto ma come viene esposto (disperso) sulla pagina. Questo non significa che ci si debba ridurre al solo aspetto (fatto, fenomeno) estetico. Forma e contenuto, in teoria, co-esistono in uno spazio la cui unità di misura (di fruizione?) è scandita da una temporalità. L’insieme di forma-contenuto/spazio-tempo produce sempre un risultato, a prescindere dal fatto che possa ritenersi, a seconda dei punti di osservazione, compiuto o incompiuto. Ciò che ne risulta è quindi un tipo o un prototipo che si potrebbe assumere a modello per una possibile reiterazione del gesto. Il fatto che gesto e gettata appartengano alla stessa famiglia etimologica, fa scendere in campo l’estensione o il dispiegamento, ovvero: un protendersi verso il fuori. È questo lo scopo precipuo di un pezzo di scrittura? Protendersi verso un fuori-di-sé? Ma il fuori-di-sé, ovvero il fruitore, cosa riceve da quel gesto? La gestalt complessiva, che va interpretata solo nel suo insieme, o una serie di tanti piccoli elementi che vanno esaminati uno per uno e a prescindere dal fatto che poi possano più o meno concorrere alla definizione di un insieme?
Sorvoleremo, per il momento, il fatto (che non si arroga il diritto di essere incluso nella categoria del dato di fatto, ma che si auspica di poter essere incluso nel registro degli epifenomeni) che i singoli elementi (o se volete le singole strofe), in quanto figure, possano depositare sulla pagina svariati rinvii perché ciò presupporrebbe una potenza significante che non può essere ignorata. Quindi, senza concedersi il lusso di guardare dentro guardiamo solo all’oggetto complessivo.
Il sogno è quello della scrittura. La risoluzione è la castrazione.
È così che si vorrebbe.
Ed è proprio questo ciò che l’altro o gli altri dovrebbero aspettarsi da lui.
Lui chi? Il Poeta?
L’indomito, anacronista scriba che ancora persiste a usare la penna e la carta?
Il pigiatore di tasti?
Se l’altro o gli altri comprendessero che l’unica via di salvezza fosse quella di accettare la sospensione e l’incompiutezza (il disastro incombente e il tragitto della caduta che non arriva mai a toccare il suolo?) forse si potrebbe qualificare il gesto del poeta come naturale.
Ma non basterebbe.
Bisognerebbe anche accettare la riproposizione seriale di quel gesto.
Ed è così che la poesia, essendo già morta da sempre, sopravvive a se stessa: nella serialità della sua incompiutezza, nel qualificarsi come un fenomeno (anti-fenomeno o, se preferite: epifenomeno) nullificante. Nancy parlava di un “fantastico fenomeno” di un’immagine in grado di rappresentare la “presenza di questa assenza […] imago di ciò che fu prima di tutto e che dunque non fu affatto, in nessun tempo né fuori del tempo in cui nulla è” (Cfr. Fantastico fenomeno, 2009).
Un po’ come se la lingua fosse una forma (un segno, un’immagine, un’insegna luminosa sì ma intermittente) piuttosto che una sostanza. Visto che parleremo anche di contrari e di riconciliazione dei contrari, di un qualcosa che si origina e si edifica sul/dal suo contrario, poniamo che in quell’insegna luminosa le intermittenze siano al bianco e non al nero, ovvero che il messaggio pubblicitario (la lingua) sia leggibile solo in mancanza di luce (al nero), e che i lampi di luce (al bianco) quindi si assumano l’onere di decretare l’assenza del messaggio rendendolo illeggibile. La presenza della lingua si dà nella sua assenza di visibilità ma è anche vero che l’assenza della lingua si rende visibile nell’invisibilità della sua presenza. Una presenza che quindi c’è, esiste, persiste, ma non è decifrabile se non nella sua dispersione nel bianco. La presenza di questa assenza, con una leggera forzatura, si potrebbe spiegare attraverso le parole di Mallarmé, quando nella nota introduttiva al suo Coup de dés parla dei «bianchi» e di quanto risultino importanti e decisivi. Bisognerebbe citare un’intera pagina derridiana (Cfr. De la grammatologie, 1967), dove il nostro pensatore – partendo da Saussure e filtrando la differenza tra l’incoscienza del linguaggio e la spaziatura intesa come “origine della significazione” – arriva a qualificare la spaziatura come la “marca del tempo morto nella presenza del presente vivente, nella forma generale di ogni presenza”. Ma se la nostra presenza è l’assenza, quel tempo morto rappresenta il trait d’union che lega tra loro una serie di assenze. Il tempo morto è la casella vuota che permette alle tessere di spostarsi nel puzzle del testo. E quindi alla prima affermazione derridiana “Essa marca il tempo morto” ci toccherà aggiungere: facendolo divenire vivo o facendolo sembrare vivo. Proseguendo sulla falsariga dei supplementi, si potrebbe dire che la scrittura, come disastro e deriva, come la presenza di un’assenza, derivi innanzitutto dallo spazio morto (il tempo morto si ri-qualifica e ri-determina nello spazio, perché solo la loro intrallacciatura permette la costituzione di una figura), dai cosiddetti «bianchi». Perché solo in quel luogo, proprio là dove s’intersecano spazio e tempo (attraverso il tramite di un inchiostro, ideale e idealizzato, che per comodità d’esposizione definiremo simpatico, per l’appunto: «la presenza di questa assenza»), si può percepire il «non-percepito», si può dire il non-detto e lasciarlo decantare il tempo sufficiente per una degustazione diversamente funzionale che possa investire tutti e cinque i sensi. Ne converrete, questo tipo di avvento accade raramente, anzi si potrebbe dire che per il 95% dei casi rappresenti una mera utopia (compreso l’esemplare sopra esposto – fornito a solo titolo d’esempio – che ha inaugurato e qualificato la mia stessa fallacia). Verrà da sé che la massificazione dell’utopia equivalga alla fallacia e all’incompiutezza, al non-risolto. Resterebbe da precisare che per alcuni inchiostratori l’irrisolvibile rappresenti un punto d’arrivo, una sorta di fissaggio del paradosso, che sarebbe già una contraddizione in termini (se volete anche una riconciliazione dei contrari): si può fissare l’irrisolvibile?
No. Non può essere fissato.
Però può essere enunciato.
Allora la forma più plausibile della scrittura (ma se la scrittura è già di per sé una forma allora di cosa stiamo parlando?) potrebbe ridursi all’enunciazione. In linea teorica tutto può essere enunciato. Abbiamo fatto l’esempio dell’insegna luminosa enunciando l’ambiguità di un pensiero diversamente funzionale (anche disfunzionale, se volete). Pensiamo all’insegna come a un ricettacolo formato da una serie di figure che rinviano ad altre figure. E queste ad altre ancora. Sarebbe una pratica lecita enunciarne la struttura sovradeterminata.
È ciò che fece a suo tempo (1480-1544) un certo Giulio Camillo Delminio nella stesura, sempre incompiuta e quindi sempre fallace, di una sorta di Theatrum Mundi sovrastrutturato per stratificazioni di livelli e giustapposizione di figure, quelle che Delminio stesso definiva “insegne”, ovvero: “i segni delle visioni, le quali significano & non esprimono”. Proviamo a considerare, en passant, questa proposizione come un’arcaica definizione della differenza tra significato e significante. Delminio poi continuava così: “laonde non senza ragione gli antichi in su le porte di qualunque tempio tenevano, o dipinta, o scolpita, una Sphinge, con quella immagine dimostrando che delle cose di Dio non si deve se non con enigmi far pubblicamente parole” (L’idea del Theatro, 1985). Se proviamo a sostituire, senza nessuna intenzione blasfema, la parola (di) Dio con la parola (del) Poeta, il gioco è fatto. Il Poeta sarebbe colui che fa mostra di sé, pubblicamente, attraverso parole enigmatiche. Se vogliamo, l’enigma, se resta indecifrato, rappresenta l’immagine stessa dell’incompiutezza: non esprime un senso compiuto ma lascia ad intendere, per così dire, una potenza significante.
Da un altro punto di osservazione si potrebbe anche dire che l’incompiutezza rappresenti il limite di una lingua, e quindi ancora una volta la sua fallacia. Delminio, in un certo senso, risolve la questione in questo modo: “non potendo la lingua nostra giunger alla espressione di quello se non per cenni & similitudini, affinché per mezzo delle cose visibili saliamo alle invisibili”. Il cenno (il verso e non il periodo) e la similitudine (analogia e, per estensione, tutta la famiglia delle figure retoriche e grammaticali: metafora, allegoria, e se vogliamo anche il simbolo, ecc.) sono le armi del poeta, quelle armi attraverso il quale un testo può essere dotato di un sottotesto o di un ipertesto, ovvero quelle armi che consentono di lasciare a intendere il non detto.
Cosa abbiamo fatto fino a ora?
Abbiamo parlato di segni, insegne, visioni, figure, immagini, ovvero di tutto ciò che, anche se non manifestato palesemente, dovrebbe costituire il «pensiero» dell’inchiostratore, l’imprintig concettuale da cui si dipana (o si ingarbuglia) la matassa. Deleuze diceva che i concetti sono immagini di pensiero. Il compito dell’inchiostratore – per dirlo più o meno alla maniera nancyana – consiste nel pensare il pensiero di quell’immagine o, per meglio dire, avanzare verso la «venuta» di quell’immagine, protendersi verso l’immagine che viene verso di lui e concedersi il lusso di toccarla, di sentirla prossima-a-sé. Solo così, dopo averla, per così dire, posseduta può finalmente liberarla, può lasciarla andare per la sua strada e può concedersi l’ulteriore lusso di conservarne solo l’eco e lo scarto. La sentenza è chiara: “non basta vedere l’immagine, bisogna soprattutto «sentire» ciò che l’immagine non ci fa vedere”. Ne converrete, il compito dell’inchiostratore non può ridursi al semplice atto di affiancare parola a parola (o come diceva Malherbe di essere definiti manipolatori di sillabe [arrangeurs de syllabes]) per scrivere. Il suo compito sarebbe, o dovrebbe essere, quello di dire la scrittura e di fallire mentre compie il suo atto. Il suo fallimento, che rappresenta a tutti gli effetti una risoluzione, è la «marca» della sua fallacia e della sua incompiutezza. Si può dire la scrittura solo dopo essersi liberato dell’immagine del pensiero. Ed è così che si crea un concetto, lavorando sull’eco di un qualcosa che risuona e insieme si dissolve e sugli scarti che resistono all’esperienza e rinvengono, sebbene a tratti, disseminando una serie di segni che rappresentano, a tutti gli effetti, segnali di senso. Questi segnali equivalgono alle insegne delminiane. Sono figure. Quando queste figure, come direbbe Derrida, divengono «figure di figure» la scrittura diviene letteratura o, per dirlo proprio con una famosa metafora derridiana, l’istrice – chiudendosi a riccio e offrendosi all’urto, all’incidente – diviene il simbolo della poesia. Per divenire poesia si sacrifica facendosi investire e quindi decreta la sua morte. Ci consegna la presenza della poesia solo a condizione di rendersi assente.
La presenza di questa assenza, come diceva Nancy, è proprio ciò che fu prima di tutto. È assente perché non ci appartiene, se non attraverso l’immaginazione (attraverso l’azione che l’immagine esercita su di noi), attraverso il filtro di una presunta sfera sensibile che ci permetterebbe di riprodurla. Si direbbe un’assenza primigenia, un’assenza di radici, quelle radici che, essendo tanto lontane da noi, non consentono nessun tipo di radicamento.
Ed è proprio qui, in questo non-luogo costruito, idealmente, tra immagine e immaginazione, tra radice e radicamento, che si situa il nostro lavoro improduttivo. Quel lavoro che si potrebbe sistematizzare (e quindi vanificare), facendo rinvenire il fantasma batailleano, tra il limite dell’utile e l’inutilità del limite.
Porsi al limite non significa «essere limite».
Essere limite presuppone, anche e soprattutto, una predisposizione al superfluo che, amplificando il nulla di cui si nutre, rappresenterebbe il carattere predominante della poesia, il suo status, il marchio a fuoco che determina l’appartenenza a una tribù o a una famiglia.
La tribù degli inchiostratori?
“Quale utopia/ è mai stata così vera?/ pura emozione/ del precipite/ alla ricerca della sua levata (autocitazione)”.
Precipite e levata.
Pura contraddizione in termini o riconciliazione dei contrari?
Essere limite potrebbe significare anche questo. Nullificarsi mettendo in scena (levando dalla scena?) simultaneamente i contrari senza arrivare a una conclusione, o meglio ancora: abiurando qualsiasi risoluzione definitiva. Questa sarebbe, o potrebbe essere, la ragione d’esistenza della tribù degli inchiostratori, la presenza della loro assenza di fondo. Quest’assenza di fondo pretende un lettore diverso (quello che Mallarmé definiva il lettore avvertito e che Eugenio barba definiva il quarto spettatore) e, come dire, più articolato, disposto cioè a recepire la prima assenza per affiancarla alla propria assenza e per darle un senso.
È forse questo il sesto senso che si mescolava – a mo’ di crasi – al palinsesto paventato nel titolo? Il lettore semplice è anch’esso assente, ma solo perché non si rende partecipe dell’assenza dell’autore. Se il lettore articolato è diversamente funzionale (serve all’autore come specchio in cui riflettersi) il lettore semplice invece è semplicemente disfunzionale.
Riporto un passo di Giuseppe Zuccarino (da La scrittura impossibile, 1995): “[…] esiste una semplice lettura, oppure essa è inevitabilmente complicata da una serie di problemi e assillata da doppi fantasmatici? L’ipotesi che saremmo inclini ad avanzare è appunto quella che – se non si vuole concepire la lettura come un processo puramente subìto, che susciti in chi vi si dedica una sorta di adesione incondizionata, o magari uno stato quasi ipnotico e sonnambolico di trance – si dovrà necessariamente pensare ad una diversa e più attiva forma di coinvolgimento nelle parole scritte”. È questa la domanda che dovremmo porci. Vogliamo studiare un testo e affrontare l’ostacolo, spesso insormontabile, di un senso ulteriore nascosto nel primo senso oppure ci deve bastare la semplice lettura, per così dire, distaccata? E ancora, se l’autore in questione – così come affermava Blanchot – “riesce solo fallendo”, non dovremmo forse a nostra volta fallire? La scrittura è fallace. Il lettore più attento può coglierne la fallacia e rendersi a sua volta fallace nell’interpretarla o semplicemente mettendo sui piatti della bilancia la possibilità di una impossibilità di fondo. La serie dei significanti è inesauribile perché ognuno di essi rinvia ad infiniti altri, come ci ricordava spesso Derrida.
Conversazione da solo
ci sono delle cose che sono
di fronte a questa pagina aperta
collegate ad altre che sono dietro le spalle
ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta
che sono collegate
alle cose che mancano
le cose come le cose
al centro c’è il tuo posto
al tuo posto non c’è nessuno
(Corrado Costa, da Le nostre posizioni)
Ci sono delle cose che sono sopra le cose. Sono ad esse sovrapposte. Che siano scritte o incise è una cosa che non cambia i termini della questione, qualora ci fosse davvero una questione, qualora fosse necessario o urgente dirimerla. Le prime cose sono invisibili, vivono o sopravvivono nelle trame, negli interstizi invisibili della materia che compone la “pagina aperta”, nei punti infinitesimali che determinano la grammatura; sono in un certo senso simulacri che conservano e preservano una traccia ■ senza mostrarla. Le seconde cose, sempre più opinabili o (in)utili (con o senza limiti che determino una continuità o una contiguità), diventano visibili nel momento in cui un qualsiasi inchiostratore o un qualsiasi pigiatore di tasti compie il suo gesto, a tutti gli effetti, irriverente, forse perché incosciente dell’effetto che il suo gesto produrrà. Si pensi alla radice della parola irriverente e alle sue parentele etimologiche con l’irrilevanza (irrisorio, marginale, insignificante, ininfluente). È curioso notare come entrambi i termini siano derivazioni dal loro contrario: reverēri (avere riguardo) per irriverente e relevåre (determinante, importante, significante) per irrilevante, e di come entrambi, per così dire, si facciano scudo con un prefisso privativo ■ (in).
È un po’ come dire che il gesto di inchiostrare si fondi sul suo contrario. E anche questa è una forma o, se preferite, un’accezione della fatidica riconciliazione dei contrari. Quindi il suo radicamento ■ sulla carta potrebbe corrispondere anche a una dispersione ■ (la confusione originaria di Babel è a tutti gli effetti una dispersione, come vedremo meglio più avanti), o comunque a un’inversione ■ di senso: dalla confusione di una lingua unica, impronunciabile e incomprensibile, alla suddivisione in mille e più lingue, ognuna univoca e radicata in un territorio, ma che per essere comprese, e quindi deterritorializzate, necessitano di una traduzione (sorvoliamo sulla questione della traduzione come delocazione e trasformazione dei segni per non appesantire troppo il discorso).
Gli antichi sostenevano che relevåre corrispondeva allo sporgere in fuori. Praticamente, con buona pace di Heidegger e Derrida, una «gettata»■. Quindi irrevĕrens potrebbe corrispondere a uno sporgere in dentro (mise en abyme, invaginazione?). Ci troviamo di fronte a un doppio movimento (un vero e proprio double bind ■, in tutte le accezioni che volete, dal doppio legame, al doppio colpo, alla doppia colpa, alla doppia e reversibile obbligazione, ecc.), il primo estensivo ■, il secondo intensivo.
Pensiamo quindi al nostro inchiostro come una cosa irriverente e insieme irrilevante, come una cosa che si fonda sul suo contrario e che quindi non dice ciò che vorrebbe dire o comunque lo lascia solo a intendere, come una cosa votata alla sua dispersione. In tale ottica come dovremmo comportarci? In quali modalità potremmo pensare (pesare, soppesare) la sua pensabilità?
Forse non è possibile rispondere a tali interrogazioni. L’unica cosa possibile sarebbe quella di esplorare il registro dei possibili, o comunque, in via del tutto ipotetica e indimostrabile (l’ipotesi trasforma i possibili in eventuali, per quanto improbabili essi possano risultare), una piccola parte di tutte quelle stringhe (sappiamo tutti che il significato di string è corda, e che la corda equivale, semanticamente, a un «legame») che compongono il quanto della scrittura. Le stringhe vibrano in un doppio movimento di attrazione e repulsione, e ciò conferisce al legame il double bind di cui prima. Le stringhe sono in uno stato di perenne tensione. Da ciò deriverebbe il carattere estensivo e mobile della scrittura. Estensivo perché originariamente confusionario, e mobile perché costretto ad avanzare, curva dopo curva, per rigenerarsi.
Perché poi, al di là della nullificazione e dell’incompiutezza, una scrittura, per definirsi tale, deve comunque mettere al lavoro una serie di stati tensivi. Lo stesso Nietzsche diceva che “si deve saper danzare con la penna”. La danza è movimento, ma anche spazializzazione (ricordate i «bianchi»?). Abbiamo quindi individuato i due caratteri che dovrebbe possedere la scrittura, un movimento interno che veicoli una certa mobilità (da qui al trasferimento di energia da un uno a un altro il passo è lungo, ma se dovesse accadere non sarebbe cosa da disdegnare) e un movimento esterno corrispondente alla disposizione (dispersione?) grafica del testo sulla fatidica “pagina aperta”.
La pagina aperta è il corpo e l’inchiostro è ciò che distingue un corpo dall’altro.
Come se carta e inchiostro potessero trasformarsi in derma e sangue. Il pennino diventa allora ago o bisturi per incidere il derma e per rapportarsi col sangue. Il sangue prende il posto dell’inchiostro e può quindi parlare di morte o far parlare la morte. Il sangue parla della morte della scrittura o fa parlare la scrittura della sua stessa morte, anche in senso blanchotiano della scrittura come «disastro» e come krisis, se vogliamo. Beninteso, il regime non è improduttivo. C’è anzi un surplus di produzione, perché la scrittura che parla della sua stessa morte, nell’atto di farlo, rinnova la sua esistenza, perpetua il suo ciclo. Un ciclo inesauribile. Il rapporto tra morte e scrittura scivola sempre sui piani di un double bind, in cui ognuno dei due fattori si ciba dell’altro e viceversa. Ognuno dei due elementi trascende l’altro per rigenerarsi. Risulterà chiaro quindi che la morte della scrittura equivalga al suo rimanere in vita (l’ennesima riconciliazione dei contrari). Il paradosso è solo apparente. Come se crisi (krísis) e crasi (kràsis) non appartenessero alla stessa famiglia etimologica. Come se la crisi della scrittura (il passaggio da un sistema monosignificante a un sistema polisignificante non poteva che generare una crisi che, in un certo senso, corrispondeva alla necessità di trovare nuovi paradigmi o archetipi) e la scrittura della crisi (da Blanchot in poi il disastro viene assunto a paradigma, diviene il modello a cui riferirsi) non fossero paragonabili a una crasi (kràsis, mistura, mescolamento). La crisi della scrittura e la scrittura della crisi derivano proprio da questa mistura, da questa confusione.
Per definire la radice, l’origine di questa confusione dobbiamo ricorrere a Babele, a quella mitica torre (la cui invenzione fu forse desunta da una più antica ziggurat babilonese; del resto Babel e Babilonia sono praticamente sinonimi) in cui avviene la contaminazione delle lingue. Al di là del gioco derridiano tra des tours (delle torri) e détours (giri, curve), ciò che conta è che a ogni giro, a ogni curva si perdevano parti della propria lingua e si assimilavano parti di un’altra lingua. E così via, nella serialità della mescolanza, si arrivava ad una sorta di lingua anti-universale che non poteva essere compresa da nessuno. Una lingua fallace e incompiuta quindi. Così come la stessa torre resterà incompiuta. È la stessa Genesi a far corrispondere Babel con confusione. Per questo Derrida, nei giri delle sue perifrasi (Cfr. Des tours de Babel, 2008), confrontando diverse traduzioni (decostruendo l’univocità del segno originario con figure diversamente funzionali e più adattabili al contemporaneo), trasforma lingua e lingue in labbro e labbra, inaugurando in un certo senso il passaggio dalla scrittura alla voce o comunque l’equivalenza dei due elementi su uno stesso piano, come se dovessero, per forza di cose, coabitare nella stessa dimora ontologica e fenomenologica. Perché le labbra rappresentano l’organo deputato alla voce. Perché il labbro, al maschile, ha due plurali: labbri (sempre al maschile) e labbra (al femminile). Se il secondo si rivolge solo alla parte anatomica, il primo si può usare sia per la delimitazione di una ferita o di una fenditura, sia per evidenziare i confini di un perimetro o di un oggetto. Se si parla di confini, per esasperare la nostra dimensione complicativa, ci toccherà far rinvenire i margini. E qui ritorniamo sia alla “pagina aperta” che all’«essere limite». La scrittura viaggia quindi in simbiosi con l’oralità (inutile ricordare che la scrittura nasce orale; non è questo che qui ci interessa). Si può scrivere Babel, ma se c’è anche una voce che urla Babel ecco che qualcosa cambia nella ricezione del messaggio. La semplice lettura lascia il passo a qualcosa di più articolato o comunque permette l’entrata in scena dell’ascolto.
Ricordate l’auspicio di Zuccarino: “si dovrà necessariamente pensare ad una diversa e più attiva forma di coinvolgimento nelle parole scritte”. Porsi all’ascolto potrebbe rappresentare un’accezione di questa proposizione. Certo, bisognerebbe indagare almeno i registri della propagazione e della risonanza. Cosa che non è fattibile in questo contesto.
Proviamo adesso a raggruppare tutti quei piccoli quadrati neri che abbiamo disseminato nell’ultima parte del testo. Sono neri perché il nero rappresenta il «canone» dell’inchiostro, la sua riconoscibilità e il suo inquadramento. Sono il mezzo (non un tramite ma un segno) per evidenziare una serie di quelle che Nancy avrebbe definito «medaglie verbali». Elenchiamole, nell’ordine in cui si sono impresse (inchiostrate) su questa nostra pagina digitale: traccia, privazione, radicamento, dispersione, inversione, gettata, double bind, estensione…
Ognuna di queste medaglie verbali rappresenta un’impennata, una sorta di innalzamento del livello del testo, una delocazione dal significato al significante (ma anche il contrario perché il processo, a seconda del punto di vista [o punto di partenza dal quale si dipana l’approccio concettuale e/o filosofico] è assolutamente reversibile), una stringa volta ad evidenziare la possibilità che il discorso si diriga altrove. A solo livello nozionistico, è doveroso notare come impennare (sebbene sia un termine antico e raro) significasse l’atto (il nostro fatidico gesto dell’inchiostratore) di intingere il pennino nell’inchiostro e, cose ben più importanti, quanto inchiostro il pennino può assorbire ogni volta che s’intinge e quante parole si possono scrivere con quella quantità di inchiostro assorbita. La portata massima del pennino e la quantità di parole che possono essere gettate. Qualora non fosse chiaro si (s)parla di autonomia e di peso (sarebbe più consono estendere il concetto verso lo spessore) della scrittura. Ne converrete che l’intero discorso rischia sempre più di indirizzarsi verso una dimensione complicativa. Una scrittura non può essere autonoma perché deriva sempre da un’altra scrittura che l’ha preceduta. Non c’è cambio di paradigma che tenga il passo coi tempi. E il peso, letteralmente inteso – a partire dalle tavolette d’argilla sumere, passando attraverso i papiri egiziani (ottenuti facendo essiccare i filamenti interni di una pianta) e le pergamene (ricavate da pelle di pecora e con le quali furono scritti i primi codici), per arrivare alla carta, più o meno moderna e per finire con la pagina digitale (che non esiste fisicamente) – nel corso del tempo ha progressivamente perso spessore conclamando lo status della sua stessa dispersione. Per sopperire a questa mancanza alcuni sono ricorsi alla voce. Una scrittura detta (diktata), e quindi quantificata, può far traslare il senso da un significante a un altro significante con la sola intonazione, con la portata della sua voce che equivale, semanticamente, alla portata del pennino (così tanto per ritornare a quanto già detto sull’equivalenza tra scrittura e oralità). Così il flusso di parole che possono essere dette tra un respiro e l’altro corrisponderebbe all’intervallo tra due assorbimenti d’inchiostro del pennino nel calamaio. Calamaio (contenitore, deposito, ricettacolo), un’altra parola etimologicamente multipla e la cui potenza significante ci permette di percorrere l’asse Platone-Derrida ricorrendo non solo alla figura del porta-impronte ma anche idealizzando una sorta di terra-madre (nutrice) da cui attingere (in cui intingere?) linfa vitale. Alcuni fanno derivare la parola calamaio da kalamrk (in copto significa calamaro) per via del liquido nero in esso contenuto. Non vorrei ricorrere sempre a Nancy, ma ciò che conta nella scrittura è che “bisogna lasciar correre l’animale nel discorso” (Cfr.Corpus, 1995). Il concetto viene argomentato nella mia ultima produzione scritta a quattro mani con Sonia Caporossi: Le nostre (de)posizioni (in fase di pubblicazione per Bonanno Editore) prendendo come riferimento, tra le varie animalìe, le lepri di Mariangela Guatteri e Corrado Costa, il gallo da combattimento di Gian Ruggero Manzoni, l’ornitorinco di Lorenzo Mari, ma sviluppando anche altre tipologie di animalìe non propriamente letterali e riconducibili ad una sorta di status fenomenologico che investe la struttura significante di uno spessore a metà tra il psicologico e il patologico che, se a prima vista, potrebbe sembrare intriso di una crudeltà idealizzata a modus vivendi, non fa altro che determinare e qualificare l’ordine del discorso. Quello che intendevo, in linea generale, verte proprio su un ordine del discorso mobile e tensivo e la cui animalìa di fondo rappresenta il tramite per il dispiegamento di un concetto che altri non è, ricordando Deleuze, che un ‘immagine di pensiero, una figura che si abbandona nella figura di un qualcosa (o di un qualcuno) che corre all’inseguimento di se stessa o, per meglio dire, che insegue l’immagine di un qualcosa che corre verso la figura di un qualcosa che corre. Non è un gioco di specchi, né riflettente né auto-riflessivo, è un concetto che pretende il suo dispiegamento improduttivo. Ma la domanda è un’altra. Cosa accade quando l’animale invece di correre nel discorso si presenta a noi («viene» a noi) ancor prima che il concetto si manifesti imprimendosi su un supporto? L’animale è nella chōra (calamaio) da cui dobbiamo incamerare l’inchiostro, ci precede temporalmente, è il nostro avo che ci trasmette l’arte da sviluppare informandoci sul carattere originario del mezzo che ci apprestiamo ad usare e di cui sicuramente abuseremo trasferendo una serie di segni. Allora ciò che conta non è solo il primo animale, il serbatoio (calamaio) ma, anche e soprattutto, il supporto che ci permette di svolgere il nostro compito. Chi ci assicura che il rosso delle grotte di Lascaux non fosse ricavato anche da sangue animale? E le pergamene che venivano ricavate da pelle di pecora o di capra? Il lapis di piuma non veniva forse divelto dal derma di un uccello? Ci sono degli animali che si sono sacrificati (ricordate l’istrice derridiano?) per permetterci di lasciar correre il nostro nuovo animale nel discorso, ma……………………… (incompiuto, e quindi: fallace).
ALESSANDRA GRECO
da NT
Ci sono aperture immediate che lasciano passare con facilità altre porte vagliano nient‘altro che fili
Che fu quel punto acerbo che di vita ebbe nome? (Leopardi, Coro dei morti)
Un senso – se c’è, ora – è in questo scorcio di tetti e finestre
accese tra le ombre strette dei palazzi
quando la notte distende la città
a un dito dalle sfere dell’universo.
Ogni parola se lasciata cadere
sfonda il pavimento assorbendo il vuoto
della cantina.
Allora niente separa il dentro dal fuori,
l’espandersi degli astri sbriciola tra le pareti della casa,
nel cerchio dei gesti quotidiani.
Raccogli da terra i pezzi di un bicchiere in frantumi,
come lettere di un alfabeto,
le ricomponi in forma di voce
fino all’apparire di un volto.
Un’immagine recidiva che dice di te tacendo.
Muzio Clementi – Sonata in G Minor, Op 50 No.3, “Didone Abbandonata”
La colpa è un oggetto, una casa in cui restare per fuggire, respinge salvabile a salvabile, redime gli assoluti come fossero infiorescenze, la colpa degli antenati, le dannazioni interne, i nervi scoperti, colpevolizza gli azzerati, la colpa dei fiori che forgiano l’erba, i fiumi strappati, le forme trasversali della misericordia – e quando ci hanno dato, quanto ancora passato mi cava gli occhi, quanti occhi hai mangiato, quanto ti spinge le ossa, quando preme, come una colpa immaginata per restare, quando fai restare, la seduta dolce delle parti, la carne ricomposta come un tratto, e dicono i detti delle parti, dicono cade e non si degna, dicono non parlare, dicono studia le recite dei passanti, dicono passa e non passa, dicono riversa il lembo, dicono un verbo
Testimonianze informali riscritte e disegnate da Elena Tognoli
13 maggio Ettore (la cedevolezza della carne)
“Ha voluto abbracciarmi e mi è sembrata molle la sua pelle, pronta a cedere e a sprofondare nella carne. Dal 2 marzo non toccavo nessuno. Sento la responsabilità del tatto, la porosità che è il vuoto dentro le ossa. Mi dico che anche abbracciare qualcuno o qualcosa è abbracciare il vuoto, stringersi a nessuno.”
Il 27 Aprile scompare Eavan Boland (1944-2020). Una delle più grandi poete d’Irlanda, Eavan avrebbe dovuto ritirare il premio Irish PEN 2019 proprio in questi mesi. Ci ha lasciato, ma abbiamo solo appena iniziato a considerare con dovuta attenzione il suo contributo alla cultura irlandese e alla letteratura in genere. Infatti, ricordare Eavan Boland significa anche ricordare quanto la storia della letteratura, in Irlanda come in Italia, sia stata una storia di potere e soppressione a danno della scrittura delle donne, da sempre marginalizzata, se non altro, da editori, scrittori e accademici. Le nostre letterature sono ancora monche nelle antologie scolastiche, per esempio. E se adesso si comincia a porre attenzione alla scrittura delle donne, ancora forti sono le spinte per una canonizzazione maschile persino delle voci femminili e di tutte quelle che sono considerate devianti dalla norma. Eavan Boland ha combattuto e rotto questo “canone” durante tutta la sua carriera e vita come donna. Erano i primi anni sessanta quando pubblicò la sua prima raccolta di poesie, nella quale parla della sua esistenza come giovanissima moglie, madre e studentessa universitaria.
Irish PEN la ricorda come una scrittrice pionieristica, coraggiosa, impegnata. Ma soprattutto come una scrittrice senza paura, capace di stroncare editori prominenti al Field Day della fine degli anni 80, scrittori e accademici che “dimenticarono” di includere le così numerose scrittrici irlandesi nella “Anthology of Irish writing”. Eavan, che era stata inclusa, protestò con rabbia all’esclusione delle sue coetanee segnando una svolta nella storia della letteratura irlandese.
Nel 1994, ritornerà con coraggio sullo stesso tema, con un discorso intitolato “Gods Make Your Own Importance” pronunciato sotto gli auspici della Poetry Book Society. Qui uno stralcio: “Sono una poeta irlandese. Una poeta donna. Nella prima categoria accedo con un certo angolo alla tradizione della lingua inglese. Nella seconda, accedo con un angolo ancora più inclinato alla mia stessa tradizione. Devo essere sincera riguardo a ciò perché, ovviamente, queste due identità danno forma e rimodellano ciò che ho da dire oggi. L’autorità del poeta – quel tema ampio e stimolante – è davvero, nel mio caso, una serie di istinti e intuizioni. La differenza nel mio caso è che mentre molti poeti guardano al passato per la storia stessa di quell’autorità, io non lo faccio più. Ho smesso di ascoltare quella storia che conferisce automaticamente autorità al poeta e di conseguenza automaticamente importanza alla poesia. Invece, vedo adesso solo una narrazione soppressa.”* Sulla pagina del Irish PEN, Lia Mills – scrittrice di racconti, narrativa e saggistica – ricorda A Kind of Scar: The Woman Poet in a National Tradition, una pubblicazione della influente Attic Press degli anni 80 nella quale la Boland sfida alcune delle “vacche sacre” della poesia irlandese usando la propria diretta esperienza come obiettivo di messa a fuoco. Eavan, non è stata, difatti, solo una poeta, ma una donna coraggiosa e radicale, capace di anticipare con i suoi interventi ciò che poi si è realizzato molti anni dopo in Irlanda: la sovversione e la ribellione a un punto di vista esclusivamente maschile nella letteratura dell’isola. Lia Mills ricorda anche l’Eavan Boland che “aveva un modo di perforare il nucleo delle parole e spostare il nostro angolo di percezione. Spostamenti non sempre confortevoli, ma efficaci.”
Nata a Dublino nel 1944, nel corso della sua lunga carriera, Eavan Boland ha affinato e saputo raccontare l’ordinario nella vita. Nelle sue numerose raccolte di poesie, nel suo libro di memorie in prosa Object Lessons (1995), come anche nel suo lavoro di antologista e insegnante, ha sempre sovvertito le costruzioni tradizionali della femminilità, per offrire nuove prospettive, sulla cultura, sulla storia e persino sulla mitologia irlandese.
Figlia di padre diplomatico e madre pittrice, Boland ha trascorso la sua infanzia a Londra e New York, tornando in Irlanda per frequentare la scuola secondaria a Killiney e successivamente l’università al Trinity College di Dublino. Ancora studentessa, pubblicò la sua prima raccolta, 23 Poems (1962), nella quale esplora le sue esperienze come giovane moglie e madre e la sua crescente consapevolezza del ruolo problematico delle donne nella storia e nella cultura irlandese. In una intervista sul sito web «A Smartish Pace», la stessa Boland ci descrive la “situazione difficile” dei suoi primi anni come poeta: “Ho iniziato a scrivere in un’Irlanda in cui la parola donna e la parola poeta sembravano essere in una sorta di opposizione magnetica” (…) “Volevo parlare della vita che avevo vissuto. E la vita che ho vissuto è stata la vita di una donna. E non potevo accettare la possibilità che la vita della donna non potesse, o non volesse essere, nominata nella poesia della mia stessa nazione”.
L’amica e poeta Mary Robinson la ricorda come una poeta molto pratica, “una che ha saputo fin da subito come usare un computer”. Adorava insegnare, credeva che l’insegnamento “generasse ossigeno” – ossigeno letterario. Eilís Ní Dhuibhne, drammaturga, scrittrice di racconti e romanziera, racconta di una Eavan coraggiosa, schietta, passionale e di come citasse sempre durante le sue lezioni un partecipante anonimo di un passato seminario, una donna che avrebbe detto: “Se sapessero che ho scritto poesie, la gente penserebbe che non lavo le finestre di casa.” Racconta ancora di lei Eilís Ní Dhuibhneci: “Era così intelligente, sicura di sé, eloquente, (…) Nella sua poesia, è stata rivoluzionaria: ha confermato che nutrire un bambino, tirare fuori bottiglie di latte, vivere “in periferia” può essere roba per la poesia.”
Il suo quinto libro, In Her Own Image (1980), portò alla Boland riconoscimenti e consensi internazionali. Esplorando argomenti come la violenza domestica, l’anoressia, l’infanticidio e il cancro, il libro ha testimoniato la continua attenzione e preoccupazione della Boland perché non venissero forniti ritratti imprecisi, ipocriti e ovattati delle donne nella letteratura e nella società irlandese.
Eavan Boland ha ricevuto numerosi riconoscimenti durante la sua lunga carriera, tra cui il Lannan Foundation Award, il PEN Award per la saggistica creativa con A Journey with Two Maps: Becoming a Woman Poet, la Corrington Medal per Literary Excellence e la Bucknell Medal of Distinction. Ha conseguito lauree honoris causa dalla, tra le altre, University College di Dublino, dal Trinity College di Dublino e dalla Strathclyde University in Scozia. Nel 2016, è stata nominata membro dell’American Academy of Arts and Sciences e nel 2017 è stata eletta membro onorario della Royal Irish Academy. Viveva tra Palo Alto e Dublino. La sua raccolta di poesie The Historians uscirà postuma questo autunno.
Come scrittrice e donna, vorrei ringraziare Eavan Boland, a nome di tutte le scrittrici donne, per il tuo straordinario sostegno verso le donne, le poete e le scrittrici emarginate.
Qui di seguito alcune sue poesie tradotte in italiano.
The fire gilder
She loved silver, she loved gold,
my mother. She spoke about the influence
of metals, the congruence of atoms,
the art classes where she learned
these things: think of it
she would say as she told me
to gild any surface a master craftsman
had to meld gold with mercury,
had to heat both so one was volatile,
one was not
and to do it right
had to separate them and then
burn, burn, burn mercury
until it fled and left behind
a skin of light. The only thing, she added—
but what came after that I forgot.
What she spent a lifetime forgetting
could be my subject:
the fenced-in small towns of Leinster,
the coastal villages where the language
of the sea was handed on,
phrases bruised by storms,
by shipwrecks. But isn’t.
My subject is the part wishing plays in
the way villages are made
to vanish, in the way I learned
to separate memory from knowledge,
so one was volatile, one was not
and how I started writing,
burning light,
building heat until all at once
I was the fire gilder
ready to lay radiance down,
ready to decorate it happened
with it never did when
all at once I remember what it was
she said: the only thing is
it is extremely dangerous.
L’indoratrice a fuoco
Amò l’argento, amò l’oro,
mia madre. Parlava dell’influsso
dei metalli, della congruenza di atomi,
di lezioni d’arte dove imparava
queste cose: pensaci
avrebbe detto mentre mi spiegava
come dorare qualsiasi superficie un maestro artigiano
doveva fondere oro con mercurio,
doveva riscaldare entrambi poiché uno era volatile,
uno non lo era
e per farlo bene
si doveva tenerli separarti e poi
bruciare, bruciare, bruciare mercurio
fino a quando esso volava via e lasciava alle spalle
una pelle di luce. L’unica cosa, aggiunse lei –
ma quello che disse dopo lo dimenticai.
Il suo trascorrere una vita dimenticando
potrebbe essere il mio tema:
le cittadine recintate del Leinster,
i villaggi costieri dove la lingua
del mare è stata tramandata,
frasi contuse da tempeste,
da naufragi. Ma non lo è.
Il mio tema è la parte che magari inscena
come i villaggi sono stati
fatti scomparire, come ho imparato
a separare la memoria dalla conoscenza,
poiché una era volatile, una non lo era
e come ho iniziato a scrivere,
a bruciare luce,
prendere calore finché d’un tratto
divenni l’indoratrice a fuoco
pronta a stendere luminosità,
pronta a decorare il è accaduto
con mai fatto poi
d’un tratto mi ricordo cos’era
lei disse: l’unica cosa è che
è estremamente pericoloso.
The Pomegranate
The only legend I have ever loved is
the story of a daughter lost in hell.
And found and rescued there.
Love and blackmail are the gist of it.
Ceres and Persephone the names.
And the best thing about the legend is
I can enter it anywhere. And have.
As a child in exile in
a city of fogs and strange consonants,
I read it first and at first I was
an exiled child in the crackling dusk of
the underworld, the stars blighted. Later
I walked out in a summer twilight
searching for my daughter at bed-time.
When she came running I was ready
to make any bargain to keep her.
I carried her back past whitebeams
and wasps and honey-scented buddleias.
But I was Ceres then and I knew
winter was in store for every leaf
on every tree on that road.
Was inescapable for each one we passed.
And for me.
It is winter
and the stars are hidden.
I climb the stairs and stand where I can see
my child asleep beside her teen magazines,
her can of Coke, her plate of uncut fruit.
The pomegranate! How did I forget it?
She could have come home and been safe
and ended the story and all
our heart-broken searching but she reached
out a hand and plucked a pomegranate.
She put out her hand and pulled down
the French sound for apple and
the noise of stone and the proof
that even in the place of death,
at the heart of legend, in the midst
of rocks full of unshed tears
ready to be diamonds by the time
the story was told, a child can be
hungry. I could warn her. There is still a chance.
The rain is cold. The road is flint-coloured.
The suburb has cars and cable television.
The veiled stars are above ground.
It is another world. But what else
can a mother give her daughter but such
beautiful rifts in time?
If I defer the grief I will diminish the gift.
The legend will be hers as well as mine.
She will enter it. As I have.
She will wake up. She will hold
the papery flushed skin in her hand.
And to her lips. I will say nothing.
La melagrana
L’unica leggenda che io abbia mai amato è
la storia di una figlia persa all’inferno.
E trovata e salvata lì.
Amore e ricatto ne sono l’essenza.
Cerere e Persefone i nomi.
E la cosa migliore di questa leggenda è
che posso accederle da dovunque. E averla.
Da bambina in esilio in
una città di nebbie e strane consonanti,
la lessi per la prima volta e io per prima ero
una bambina esiliata nel crepuscolo crepitante degli
inferi, di stelle bruciate. Più tardi
venni fuori in un tramonto estivo
alla ricerca di mia figlia all’ora di dormire.
Quando veniva di corsa ero pronta
a qualsiasi patto pur di trattenerla.
Le portai sorbi
e vespe e le Buddleja profumate di miele.
Ma allora ero Cerere e sapevo
l’inverno era imminente per ogni foglia
su ogni albero della strada.
Era inevitabile per ciascuno che incontravamo.
E per me.
È inverno
e le stelle sono segrete.
Salgo le scale e mi fermo dove posso vedere
mia figlia dormire accanto alle sue riviste da adolescente,
la sua lattina di Coca-Cola, il suo piatto di frutta intonsa.
La melagrana! Come ho potuto dimenticarla?
Sarebbe potuta tornare a casa ed essere al sicuro
e finita la storia e tutta l’intera
nostra affranta ricerca ma lei allungò
una mano e colse la melagrana.
Tirò fuori la sua mano e tirò giù
il suono francese per mela e
il rumore della pietra e la prova
che anche nel luogo della morte,
nel cuore della leggenda, nel mezzo
di rocce piene di lacrime non versate
pronte a essere diamanti quando
la storia fu raccontata, un bambino può essere
affamato. Potrei avvertirla. C’è ancora una possibilità.
La pioggia è fredda. La strada è color selce.
La periferia ha auto e televisione via cavo.
Coperte da un velo le stelle sono al di sopra della terra.
È un altro mondo. Ma cos’altro
può una madre dare a sua figlia se non
bellissime fessure del tempo?
Se allontano il dolore, diminuirò il dono.
La leggenda sarà la sua come la mia.
Vi accederà. Come ho fatto io.
Si sveglierà. E terrà
la sottile membrana arrossata nella mano.
E alle sue labbra. Non dirò nulla.
My Country In Darkness
After the wolves and before the elms
the bardic order ended in Ireland.
Only a few remained to continue
a dead art in a dying land:
This is a man
on the road from Youghal to Cahirmoyle.
He has no comfort, no food and no future.
He has no fire to recite his friendless measures by.
His riddles and flatteries will have no reward.
His patrons sheath their swords in Flanders and Madrid.
Reader of poems, lover of poetry—
in case you thought this was a gentle art
follow this man on a moonless night
to the wretched bed he will have to make:
The Gaelic world stretches out under a hawthorn tree
and burns in the rain. This is its home,
its last frail shelter. All of it—
Limerick, the Wild Geese and what went before—
falters into cadence before he sleeps:
He shuts his eyes. Darkness falls on it.
Il mio paese nell’oscurità
Dopo i lupi e prima degli olmi
Finì l’ordine dei bardi in Irlanda.
Solo pochi rimasero a continuare
Un’arte morta in una terra morente:
Questo è un uomo
sulla strada da Youghal a Cahirmoyle.
Non ha conforto, né cibo né futuro.
Non ha fuoco per recitare battute senza amici.
Non avranno i suoi enigmi e le sue adulazioni ricompensa.
Nascondono i suoi mecenati le loro spade nelle Fiandre e a Madrid.
Lettore di liriche, amante della poesia—
nel caso tu pensassi essa fosse un’arte gentile
segui quest’uomo in una notte senza luna
fino a quel letto miserabile che si dovrà preparare:
Il mondo gaelico si stende sotto un albero di biancospino
e brucia nella pioggia. Questa è la sua casa,
il suo ultimo fragile rifugio. Tutto questo—
Limerick, le oche selvatiche e ciò che è accaduto prima—
vacilla nella cadenza prima che lui dorma:
Chiude gli occhi. L’oscurità cade su tutto.
Quarantine
In the worst hour of the worst season
of the worst year of a whole people
a man set out from the workhouse with his wife.
He was walking — they were both walking — north.
She was sick with famine fever and could not keep up.
He lifted her and put her on his back.
He walked like that west and west and north.
Until at nightfall under freezing stars they arrived.
In the morning they were both found dead.
Of cold. Of hunger. Of the toxins of a whole history.
But her feet were held against his breastbone.
The last heat of his flesh was his last gift to her.
Let no love poem ever come to this threshold.
There is no place here for the inexact
praise of the easy graces and sensuality of the body.
There is only time for this merciless inventory:
Their death together in the winter of 1847.
Also what they suffered. How they lived.
And what there is between a man and woman.
And in which darkness it can best be proved.
Quarantena
Nell’ora peggiore della stagione peggiore
Dell’anno peggiore di un intero popolo
un uomo partì dalla workhouse con sua moglie.
Stava camminando – entrambi stavano camminando – verso nord.
Lei era malata per la febbre da carestia e non riusciva a tenere il passo.
Lui la sollevò e la mise sulla schiena.
Camminò così verso ovest e ovest e nord.
Finché sotto stelle gelide al calar della notte arrivarono.
Al mattino entrambi furono trovati morti.
Di freddo. Di fame. Delle tossine di un’intera storia.
Ma i piedi di lei premevano contro il suo sterno.
L’ultimo calore della sua carne fu il suo ultimo dono per lei.
Non lasciate che nessuna poesia d’amore arrivi mai a questa soglia.
Non c’è posto qui per l’inesatta
lode alle facili grazie e alla sensualità del corpo.
C’è solo tempo per questo impietoso inventario:
La loro morte insieme nell’inverno del 1847.
E quello che hanno sofferto. Come hanno vissuto.
E cosa c’è tra un uomo e una donna.
E in quale oscurità essa può essere messa alla più dura prova.
*‘I am an Irish poet. A woman poet. In the first category I enter the tradition of the English language at an angle. In the second, I enter my own tradition at an even more steep angle. I need to be candid about this because, of course, these two identities shape and re-shape what I have to say today. The authority of the poet – that broad and challenging theme – is really, in my case, a series of instincts and hunches. The difference in my case, is that while many poets look to the past for the story of that authority, I no longer do so. I have stopped listening to the story which grants automatic authority to the poet and automatic importance to the poem. Instead, I have come to see a suppressed narrative.’ (Eavan Boland – stralcio dal discorso “Gods Make Your Own Importance” per la Poetry Book Society, 1994)
Chi ha la «cultura» ha, se non il potere, almeno una delle condizioni di esso. (F. Fortini, Dieci inverni)
Gli intellettuali nelle società del neocapitalismo avanzato sopravvivono a stento nei coni d’ombra, nelle aporie, negli interstizi delle strutture professionali e di produzione. Sebbene il fenomeno di disgregamento di un certo tipo di intellettuale (semi)engagé, culturalmente novecentesco, sembri inscriversi nella sua totalità nel quadro fenomenologico di una contemporaneità che ci appare oramai quasi astorica, esso ha origini ben più lontane. Fortini denuncia la situazione di mutamento ontologico con parole irrevocabili già agli inizi degli anni Settanta, riferendosi a un periodo addirittura precedente: «La crisi storica dell’intellettuale “impegnato” l’avevamo vista venire innanzi ben prima del “miracolo economico»>1. Pur esagerando volontariamente i termini critici dell’analisi, Fortini fotografa con grande chiarezza un dato problematico fin da allora evidente e che negli anni a venire avrebbe prodotto una delle più gravi sfaldature tra cultura e realtà: la capillare settorializzazione e parcellizzazione del sapere, non solo nelle accademie, nei poli universitari, nei programmi scolastici, ma nella persona stessa dell’intellettuale, incapace poco a poco di riattingere a quell’interezza, a quel pluriprospettivismo di conoscenza e visione ch’era eredità diretta del Rinascimento, dell’Illuminismo, del positivismo ottocentesco. Bisogna però subito chiarire i concetti in gioco e fare una considerazione che è al contempo premessa generale ed epitaffio: ogni categoria o prassi di pensiero che ha avuto spazio di riflessione, applicazione e discussione nella seconda metà del ‘900, specialmente tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni ’70, non esiste più. Questo accade non perché quelle categorie, quelle ideologie o quegli strumenti critici che venivano utilizzati per provare a scardinare i perni attraverso cui si teneva insieme la società – e che erano anche e soprattutto atti d’amore e di odio, di devozione qualche volta – sono spariti, ma perché non esistono più istituzioni capaci di veicolarli. E con istituzioni intendo dire Politica e Cultura. Una volta si rifletteva costantemente sull’indipendenza della Cultura dal fatto politico, sulla legittimità di considerare la Cultura una ramificazione della Politica o viceversa, alcuni urlavano a gran voce che Cultura è Politica, altri che non c’è Politica senza Cultura. C’era il gusto dell’affermazione assertiva, ma anche del dubbio, dello scetticismo, della decostruzione. La decadenza assai repentina di entrambi questi fondamentali poli dialettici, di questi due ordini di azione e speculazione, ha di fatto esautorato l’intellettuale inteso come figura ontologicamente ben delineata, agente nella società e per la società, nella cultura e per la cultura, nelle arti e per le arti, lo ha privato del suo campo d’azione privilegiato. Venuta meno la tensione costruttiva che alimentava il fervore e il dibattito, all’intellettuale di oggi non è rimasto nient’altro che il silenzio di un ufficio, il vociare di un salotto televisivo, un’aula universitaria, tutti luoghi solitari o autoreferenziali. Ci sono state ovviamente varie e numerose fasi di peggioramento, andate di pari passo all’affermazione dell’industrializzazione culturale, della massificazione dell’arte, della società dei consumi. La fine della Politica è cominciata con il lento depotenziamento dell’egemonia culturale dei partiti, soprattutto quelli di sinistra. Incapaci di continuare a indirizzare i cittadini verso una certa idea di mondo e società – giusta o sbagliata che fosse –, di decriptare e interpretare i segnali emergenti, di allargare le maglie delle proprie categorie d’analisi e di lettura, essi hanno abdicato, rinunciando con eccessiva arrendevolezza al loro consolidato ed abituale ruolo di guida e di riferimento per accontentarsi della gestione del potere, dell’amministrazione spicciola, della politica senza futuro. Chi ne ha più sofferto è stato paradossalmente proprio l’intellettuale e non il prototipo dell’uomo medio, proiettato verso i fasti della pubblicità e dei quiz show. L’intellettuale, già ormai notevolmente scisso, ha visto sparire davanti ai suoi occhi il terreno di caccia a lui più congeniale, l’amico o il nemico di tante battaglie di penna, di missive, di citazioni, di tesi e antitesi. È venuto a mancare sotto i piedi l’unico spazio di manovra e discorso in cui sentirsi totalmente legittimato, riconosciuto, considerato partner preferito di confronto, a prescindere dalla condivisione o meno degli argomenti e delle posizioni. Ciò ha gravato soprattutto sui “battitori liberi”, coloro che non si riconoscevano totalmente in una determinata forza politica, ma che gravitavano intorno a certi punti cardine, attratti e respinti allo stesso tempo, fedeli ad alcune convinzioni ma sempre critici, sempre eretici, sempre combattivi. L’intellettuale funzionario, quello assoldato nelle fila del partito, mimetizzato ed espropriato delle proprie originarie peculiarità, diventato altro, burocrate o portantino, non ha subito il colpo con pari intensità. Egli ha accettato con passività e arrendevolezza la fine del partito e dunque la morte della Politica e dei luoghi dialettici in cui era fatta perché ha partecipato attivamente al processo di ammazzamento, era sul luogo del delitto e vi sostava con gran piacere. L’intellettuale costantemente eterodosso, curioso e lunatico, il più fervente utopico e idealista si è ritrovato invece isolato, defraudato, incapace di accettare proprio quella solitudine che un tempo invocava ad ogni angolo, seduto ad ogni comizio, nel bel mezzo di ogni discussione. Ha provato prima di arrendersi definitivamente a rivolgersi all’Industria, a farsi ammettere nelle sue corti, tentato dai richiami fatui di un neoumanitarismo più apparente che reale, in un periodo molto limitato di tempo in cui il manager d’alte vedute è sembrato assumere le vesti del mecenate di stampo rinascimentale, felice ed entusiasta di contornarsi di artisti e pensatori. Il momento però è durato davvero poco, sia perché lo pseudo-principe impegnato e di simpatie riformiste è stato sostituito ben presto da consigli dirigenziali spersonalizzati più efficaci e meno interessati, sia perché l’Industria che poteva essere allora ancora struttura a sé stante, organica, lontana dalla finanza dei faccendieri, centrale nella vita di una città e di una comunità è diventata nel giro di qualche inverno un nostalgico ricordo. Egli è allora ritornato tristemente al proprio cantuccio, al proprio studio, alle proprie opere, rimuginando fra sé e sé, quante occasioni perse. Nella nuova condizione di nomade sprovvisto di meta si è reso ben presto conto che nel deserto circostante andavano scemando anche i luoghi fisici a cui un tempo apparteneva per fisiologia, le strutture grazie alle quali perpetuare ed esternalizzare ancora una piccolissima parte del proprio acume critico, intellettivo e conoscitivo. Le riviste chiudono o mutano di forma e contenuto, le case editrici entrano in crisi, la tv nascente fagocita tutto il resto. La cultura è sempre stata minoranza, inutile negarlo. Anche allora era minoranza. Eppure, era una minoranza capace di incidere, di lasciare profondi solchi, di interrogare e porre quesiti che i politici, per cecità o incapacità o convenienza, ignoravano. L’intellettuale aveva compiti d’intraprendenza teorica, di avanguardia del pensiero. Rimaneva inflessibile, armato del proprio bagaglio di studi e di letture, Hegel, Marx, Engels, Lukács, Gramsci, i francofortesi oppure Mill, gli illuministi, Dewey, Croce e tuttavia sempre pronto a sfrondare, a rivedere, a illuminare nuovamente certi passaggi logici, certe vie intraprese. Soprattutto non si collocava né fuori dalla storia, né fuori dalla realtà del mondo, della nazione, della città. Agiva con la coscienza critica di chi è partecipe attivo del farsi delle cose, dei mutamenti in atto, tentando di mediare le altezze filosofiche e di riflessione pura con i bisogni pratici, le richieste di cambiamento pragmatiche della gente, dei cittadini, cercando di modificare, entro i limiti delle proprie possibilità di azione, la realtà stessa, le sue strutture sotterranee e contingenti, i suoi accidenti. Non si trattava semplicemente di fare arte o cultura per il popolo perché «l’arte non si porta, si fa o si sente, è cosa grave, seria; e rara»2; ma di rivestire pienamente un ruolo prestigioso, se non per effettività almeno per retaggio, che si esplicava sempre un po’ più in alto delle cose e sempre un po’ più a lato. Oggi non avviene più nulla di tutto ciò. Con un moto d’intenti e posizionamenti paradossale, proprio quando sono venuti meno i tentacoli eccessivamente totalizzanti di alcune imposizioni di partito che poco o nessuno spazio lasciavano all’arbitrio personale, l’intellettuale non solo non è riuscito ad occupare quello spazio lasciato libero e scoperto dalla ritirata delle parole d’ordine, degli slogan sempre efficaci, dei codici di comportamento di politici e partiti, ma – soccombendo alla più classica reazione “uguale e contraria” – si è ritirato sul pianerottolo, ha cessato di reclamare la propria indipendenza costitutiva, la propria autorità somma, il proprio essere-nonostante-tutto. Su quelle praterie lasciate indifese e incolte hanno poi seminato e raccolto consenso nuovi agenti, nuove figure professionali, nuove manifestazioni della contemporaneità, i falsi miti del neocapitalismo, la pubblicità, la tv, l’industria culturale. Sopraffatto da fattori endogeni – come il dissolvimento di un chiaro orizzonte culturale a cui ancorarsi – ed esogeni – come la marginalizzazione imposta dai nuovi standard di vita, dai nuovi media, il depotenziamento degli istituti di conoscenza, la delegittimazione delle intermediazioni – si è lasciato contaminare impotente dai processi del contemporaneo, di cui non ha assecondato i pregi e le potenzialità inscritte – l’apertura degli orizzonti di studio, le connessioni trasversali con nuovi campi del sapere –, ma unicamente i difetti, l’approssimazione, la superficialità, l’orizzontalità delle relazioni, il multitasking. Intrappolato suo malgrado tra le maglie di un efficiente sistema produttivo, l’intellettuale cede infine «alla pressione che la realtà economica esercita su di lui e all’obbligo di soddisfarne le mutevoli esigenze»3. Poiché con i diritti si dissolvono anche i doveri, anche lo studio è cessato. Per usare le parole di Adorno: «La pressione del conformismo, che grava su ogni produttore, abbassa ulteriormente le sue esigenze verso sé stesso. È il centro stesso dell’autodisciplina intellettuale che appare in procinto di dissolversi»4. L’intellettuale ha dunque rinunciato progressivamente alla propria eredità storica, facendo pian piano a meno di tante opere, tanti autori, tanti concetti, tanti armamenti critici. Non riconosce più le sue prerogative, non sa più difenderle, a stento saprebbe definire la propria fisionomia. Se tutto diventa cultura e la cultura diventa merce, venendo spogliata d’ogni carattere originario interrogativo e inquietante, l’intellettuale rinuncia a farsene interprete, per incapacità personale e perché non c’è più alcun enigma da interpretare, alcun messaggio da veicolare, si limita a frequentare i ristretti circoli ancora sporadicamente aperti, dove si parla soltanto agli amici. L’intellettuale è oggi fluido per vocazione antropologica, privo d’ogni forma di consapevolezza di sé e dei propri indeboliti mezzi, meno preparato, con un bagaglio di conoscenze assai limitato. Non ci sono più referenti privilegiati, la Politica è morta e sepolta, forse non c’è mai stata davvero se non nei libri di filosofia politica, quella di oggi è certamente parodia, i giovani sono obbligati a pensare al profitto e alla sopravvivenza, il popolo è interessato a guardarsi nelle tasche; eppure gli input, le domande e le previsioni irrisolte rimangono urgenti, oltre tutti e oltre ogni specificazione. Un perimetro potenziale di pensiero, prassi e ascolto si ripresenta – seppur limitato – ad ogni nuovo grande quesito che il mondo (spazio + tempo) pone oltrepassando le categorie e i recinti, sottendendo e trascendendo in un sol colpo d’ala gli eterni colossi: Economia, Scienza, Etica, Arte, Religione. I nemici-amici da incolpare sono sepolti, l’ignoranza dei più poco conta. Recuperare la totalità è utopia, inseguirla no
1 F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, Macerata, Quodlibet, 2018.
2 F. Fortini, Dieci inverni, op. cit.
3 M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Torino, Einaudi, 2000, p. 92.
4 T. W. Adorno, Minima moralia, Torino, 1979, p. 21.
Ti riscaldi con le parole dei poveri
nei secoli dei secoli. Nel pieno di
un silenzio pieno risorgi e palpiti e
io brillo: tu dall’incarnato borghese,
io dal sudore speziato.
***
Lascerei il mio corpo per un corpo
nuovo, per una voce nuova: sarei così,
di nuovo, più vicino al linguaggio dell’essere
prossimi all’origine – occhi nuovi; pochi anni
dal principio mi separerebbero. Sarei più sapiente
che filosofo. Avrei gli occhi di una scienza perfetta,
le mani piccole e i piedi piccoli piccoli.
Mio figlio sarei io: che muoio da filosofo, ero già
sapiente.
***
A un maestro
a Franco Buffoni
Io l’ho detto,
pronosticato:
il poeta del ventunesimo secolo
sarà figlio di lavavetri. O di chi
paghiamo per pulire. (Se)
avrà frequentato un buon liceo,
sarà figlio nostro – a metà;
si farà maestro,
sì: sarà satollo.
Queste ciocche mulatte
ci divoreranno.
***
Tra un millennio
o tra qualche
questa sfera si somiglierà
non sembrerà altri che se stessa
non avremo nessun altro luogo
significheranno tutti allo stesso modo
i piani
le regioni
gli arcipelaghi
i paesaggi
i grattacieli
le chiese
le macchie:
vi circolerà il medesimo senso
l’interdizione del senso
il dettato sarà taciuto
ogni voce, di ogni spazio e di ogni tempo
tra qualche millennio
resterà inascoltata.
***
Dalla casa di famiglia
Dalla casa di famiglia in cui siamo tutti morti,
la sola in cui io riesca ancora a riposare,
separata com’è dai fatti del mondo.
Percorro il paese nel tempo di questa poesia:
coglierlo in volo sub specie aeternitatis,
trovare ristoro nelle particole non consacrate.
***
Le regole di ingaggio non sono mai chiare
Le regole di ingaggio non sono mai chiare.
Un tradimento, un abuso, un pestaggio…
Un focolaio di essere umani – rilevati dai radar.
L’incendio di una tendopoli – rivela il nome comune
di un luogo. Se le regole di ingaggio non ci sono mai
chiare, queste, al contrario, risultano arcinote.
Un silenzio, un sequestro, uno sgombero…
L’infinito movimento di un corpo-lince che si smarca,
che è complementare a un movimento finito e “segugio”.
Quando stringo fra le braccia questo torace, tanto minuto
quanto vulnerabile, cerco di non guardarlo negli occhi.
Non voglio che veda il mio male, che vi riconosca
delle prove, che ne intuisca alcuna profondità.
Non perché il mio male sia speciale o abbia qualcosa in più
di un altro. Semplicemente, non voglio che ne veda ancora.
Dovrà fare i conti con vecchie e nuove regole di ingaggio.
Con l’abisso della non decisione per eccellenza.
Con la possibilità di divenire umano, di venire meno
all’umanità, di divenire qualcosa in meno dell’umano.
Occorrerà il rischio di divenire altro: altro per cui
sarà valsa la pena lasciarsi guardare, negli occhi,
da tutto quel male.
***
Presa di coscienza sulla natura
I solchi nella terra sono baratri. Dirupi, tra i blocchi. Camere mortuarie sgretolate dal sole. Un aereo piper sorvola le piaghe dei campi inclinati, inermi, intensamente mortificati.
Una barra falciante recide le dita dalla mano di un vecchio: la procedura è chirurgica, promiscua quanto un’esperienza iniziatica. La mano è monca orgogliosamente.
La sera, la terra sembra un mare, tiepido, docile, rassicurante; cumuli e incavi, le onde. A turno, il mare e la terra si contendono la conta dei morti. In questo, la terra è più accorta: i suoi corpi non riaffiorano. I suoi corpi non si avvistano.
I testi sono tratti da: Samir Galal Mohamed, Damnatio Memoriae (Interlinea 2020)
(Condivido la prima parte di un testo pubblicato ieri su L’Ordine – inserto culturale de La Provincia di Como – ma scritto oltre un mese fa. Certe cose, sopratutto in questa prima parte, sono forse troppo legate al contingente. La seconda parte, più specifica, la pubblicherò lunedì prossimo. G.B.)
di Gianni Biondillo
Stare sotto i riflettori del sistema mediatico è una tentazione alla quale pochissimi sanno resistere. Gli accigliati professori, ricercatori, scienziati, da sempre chiusi nei loro laboratori, esclusi dall’immaginario collettivo, se non come scienziati pazzi, nerd asociali, afasici e ininfluenti, si sono ritrovati d’improvviso al centro della scena durante la crisi pandemica scatenata dal Covid19. Così, non c’è stata trasmissione radio o televisiva, diretta su internet, articolo di fondo, intervista di quotidiano o settimanale che non ce li mostrasse. Santoni a cui chiedere vaticini, guru, maestri di vita e persino di stile e comportamento. La televisione è capace di banalizzare ogni cosa, di infettarla, di depotenziarla di ogni complessità. Io per primo, immerso in questo mondo di comunicazione malata, non mi sono perso una singola parola, una sola sillaba. Spesso, per eccesso di offerta, confondendo nomi, scienziati, posizioni, teorie.
Poi l’altro giorno, leggendo l’ennesima intervista all’ennesimo epidemiologo, ho avuto come una illuminazione che mi ha fatto tornare in mente un ricordo sepolto. Erano ancora gli anni delle superiori, un mio professore, un ingegnere, ci raccontò durante una lezione, di un suo viaggio fatto con un gruppo di suoi colleghi alla diga del Vajont. Il racconto dell’ingegnere era vivido e pieno d’entusiasmo. La diga aveva retto. Non ostante la frana era ancora lì, bellissima espressione della tecnologia del cemento armato. Avevo non più di diciassette anni, ora che ci penso. Eppure una cosa, mentre ascoltavo le memorie dell’ingegnere, l’avevo capita d’istinto: per me quella diga era un monumento tragico, l’emblema del fallimento, la lastra tombale sul mito delle magnifiche sorti e progressive, la materiale constatazione di una politica inetta, indifferente al contesto, l’insulto a una popolazione inerte e sacrificata insensatamente, l’ignobile pressapochismo degli interessi di parte. Eppure non una parola sulla tragedia, da parte del mio professore. Solo i suoi occhi scintillanti d’entusiasmo di fronte alla qualità ingegneristica del prodotto finito. Fu questa la lezione più profonda, e la più involontaria da parte sua, che ricevetti quel giorno. Lo sguardo competente, lo sguardo tecnico (di qualunque disciplina si parli, umanistiche comprese), chiude la visione ad un recinto circoscritto per meglio valutarlo. Ma questa forma di ottimizzazione esclude la complessità. Se non facciamo un salto di specie – dalla competenza alla conoscenza – troveremo forse soluzioni immediate alle condizioni di partenza, ad esempio quelle emergenziali, ma perdendo grandemente in complessità a lungo andare la toppa potrebbe diventare peggiore del buco.
La soluzione alla pandemia proposta dall’epidemiologo in quella intervista era a modo suo di semplice applicazione e di immediato e sicuro effetto. Non solo dovevamo restare tutti a casa (dal lavoro), e tutti in casa (c’è una bella differenza. Non andare in luoghi promiscui – quali fabbriche o uffici – non significa necessariamente chiudersi in casa), ma, nelle nostre case, ognuno di noi – genitori, figli, coniugi, nipoti – ogni singolo individuo residente in quell’appartamento, avrebbe dovuto isolarsi da tutti gli altri. Tutti, dato che nessuno aveva la certezza di essere infetti o meno, asintomatici o sani. Il virus sarebbe scomparso inevitabilmente, per impossibilità al contagio. Così, d’acchito, sembrava persino ovvio, evidente. Un po’ come da ragazzi, quando a scuola ci facevano risolvere equazioni lunghissime e complesse che a furia di semplificazioni, somme e sottrazioni ottenevano un risultato evidente, pacificante. Ma se quelle equazioni avevano una ragion d’essere prettamente pedagogica, ci hanno di contro fatto illudere che a problemi all’apparenza complessi ci fossero sempre e comunque soluzioni semplici. Ma la vita dovrebbe averci insegnato che le soluzioni semplici a problemi complessi sono sempre sbagliate. Non sto qui a dire che essere in cinque in casa non significa avere una casa con cinque ambienti separati, oltre a quelli di servizio. E anche se, forzando per assurdo, d’improvviso avessimo a disposizione interi edifici fatti a cellette dove riporci tutti separati l’uno dall’altro, avremmo forse così risolto il problema momentaneo, ma quali conseguenze catastrofiche alla psicologia collettiva avremmo innescato?
La società e la socialità sono temi complessi, occorrono perciò soluzioni complesse, non semplificate. Gli scienziati si ascoltano, così come gli ingegneri o gli astrofisici, non possiamo fare a meno delle loro competenze, ma poi se stiamo parlando di società, occorre una buona politica che sappia fare sintesi di ogni voce.
A ben vedere l’illusione di una soluzione tecnologica ad ogni emergenza, chiamando all’appello le migliori menti della scienza per eliminare ogni ostacolo che ci faccia inciampare lungo la strada a cui siamo destinati, è dal punto di vista intimamente filosofico il peccato originale della nostra specie (quella umana) e dell’economia (liberista) che ci contraddistingue negli ultimi secoli. Siamo convinti come specie di poter gestire tutte le avversità che la Natura ci oppone, quasi ci fosse nemica. Ma, Leopardi lo sapeva, la Natura ci è semplicemente indifferente. Ogni specie cerca la sua strada adattandosi al contesto. Come esseri umani abbiamo colonizzato il globo, spesso impoverendo fino allo stremo la biodiversità. Ma allo stesso tempo, in quanto esseri infestanti, diventiamo vettori perfetti per altre realtà biologiche. Che sia un batterio o un virus, nuovo, mutato o antichissimo, se trova il modo di diffondersi lo farà. Lo ha sempre fatto anzi, siamo noi che abbiamo la memoria cortissima. È accaduto e accadrà ancora.
È un tema, mi pare evidente, di chiara matrice ambientale ed ecologica. Ma quelli che oggi si inginocchiano di fronte agli scienziati per chiedere al più presto una soluzione alla pandemia sono gli stessi che non hanno mai tenuto conto del loro grido d’allarme che dura da decenni. “Ora che è passato l’allarme” me li immagino dire nel prossimo futuro “potete tornare nei vostri laboratori e nelle vostre università, lasciateci lavorare e non rompete le scatole con problemi che non si vedono. Che stanno in Amazzonia o al Polo Nord.” E, sono pronto a scommetterci, quel circo mediatico che oggi starnazza dicendo che nulla sarà come prima – dopo aver superato la Fase 2 o la Fase 3 che dir si voglia – dimenticherà molto in fretta di invitare in prima serata quei barbosi scienziati che potrebbero apparire agli spettatori come uccelli del malaugurio. Meglio una bella rubrica di astrologia.
È sempre una questione di parole. (Ricordate Nanni Moretti? “Chi parla male pensa male e vive male”). Spesso usate a sproposito, con incompetenza o, peggio, con malizia. Alcune di queste infestano il discorso pubblico da anni, altre volte le vediamo apparire d’improvviso, come una epifania. All’inizio della diffusione del virus si discuteva largamente di quarantena, poi, da quando il coronavirus è sbarcato negli USA, dall’oggi al domani non c’è stato esperto o giornalista che non abbia parlato o scritto di lockdown. Che bisogno c’era di prendere a prestito quella parola? Non bastavano blocco oppure isolamento? È solo un fatto di sudditanza culturale, oppure abbiamo creduto che usando un termine inglese il discorso si sarebbe fatto più tecnico, asettico, specialistico?
Ma la locuzione che continuo a non sopportare è distanziamento sociale, calco pedissequo di social distancing. Mentre mi sono chiare le ragioni preventive delle azioni da intraprendere, trovo pericoloso l’utilizzo della formula così com’è. Ciò di cui abbiamo bisogno, per rallentare la diffusione di una malattia contagiosa, è un distanziamento fisico, non di certo un distanziamento sociale. Detto, tra l’altro, nell’epoca dei social sembra persino contraddittorio. A meno che, l’involontario sottotesto non voglia dire che, sì, è proprio un problema sociale. Di classi e condizioni sociali differenti. Che, non ostante la retorica imperante ci abbia voluto far credere che il virus colpisse tutti allo stesso modo, una sorta di livella democratica (alla maniera di Totò), in realtà, a ben vedere, appartenere a una determinata condizione sociale cambia le carte in tavola della partita.
Avere una casa grande, con una terrazza, o un giardino, viverci comodamente con la famiglia è ben diverso che restare intruppati in cinque, sei o più persone, in un bilocale con unico sfogo esterno delle semplici finestre. Avere la possibilità di continuare a lavorare in remoto, o fare didattica a distanza, non è per tutti. Una cosa è avere i dispositivi per tutti i componenti familiari, altro è avere a malapena un computer da condividere, se non semplicemente uno smartphone. (Unico strumento che ci ha permesso il contatto costante col mondo esterno. Ciò dovrebbe farci capire perché chi emigra dal cuore dell’Africa ne ha sempre uno con sé. Non certo per questioni di vanità, ma come bene essenziale). Lo stesso lavoro agile lo è solo per chi può. Ché restare a casa è stato possibile perché molti a casa non ci sono restati: operatori sanitari, coltivatori, trasportatori, forze dell’ordine, commessi di supermarket, addetti alla consegna a domicilio, eccetera. Persone esposte al morbo affinché noi non lo fossimo. Infine i fantasmi. In una mia sporadica uscita durante la quarantena ho letto, scritto su un muro: “Stare a casa = Privilegio di classe”. Perché c’è anche questo. C’è chi non solo a casa non poteva restarci per questioni lavorative, ma anche chi la casa non ce l’aveva proprio. E ne ho visti, di fantasmi: barboni, ubriaconi, clandestini, relitti. Le nostre città vuote non sono mai state vuote per davvero.
E poi, sempre discutendo di parole, ci sono le metafore improvvide. Entusiasmanti, a sentirle, coinvolgenti, ma pericolosissime. Penso, quando è iniziata la tragica conta dei morti, alla similitudine bellica. Siamo in guerra. Questa è una guerra. Gli infermieri, i medici, sono in prima linea. Sconfiggeremo il nostro nemico. E canti patriottici dai nostri balconi e sventolio di tricolori. Non ho nulla contro il tricolore, amo l’Italia, ho profondo rispetto e ammirazione per il lavoro degli addetti sanitari. Ma una pandemia non è una guerra. È una pandemia. È un’infezione, una malattia epidemica. Nessun nemico ci ha dichiarato guerra, a meno che non vogliamo credere che la Natura sia la nostra nemica (quanta arroganza, da parte nostra). La retorica bellica può darci forza in un primo momento, creando un sentimento di unione sociale (proprio mentre si sostiene il distanziamento sociale) ma a lungo andare diventa, citando Samuel Johnson (ma io lo conoscevo grazie a Stanley Kubrick), proprio come il patriottismo: “l’ultimo rifugio delle canaglie”.
Vivo nel capoluogo di una delle regioni al mondo più colpite dal Covid19. Il numero delle vittime mietuto è impressionante, da non farci dormire di notte. Non ostante continuassimo a dirci che “andrà tutto bene” – speranza doverosa, necessaria – era sempre più evidente che le cose non stavano affatto andando bene. Che c’era qualcosa di sbagliato nella gestione dell’emergenza. Qualcosa che stava a monte, nelle scelte politiche regionali che nel corso dei decenni avevano sempre più smantellato una sanità capillare, diffusa sul territorio, fatta di piccoli ospedali, di consultori, di medicina di vicinato, per puntare tutto sull’eccellenza di megastrutture ospedaliere, sopratutto private. Quando, per capirci, siamo passati a definire chi veniva ricoverato da paziente a utente. (le parole sono importanti, non dimentichiamolo mai). Di fronte a tale disfatta – non solo qui in Lombardia, sia chiaro – è bastato vellicare l’amor patrio, dichiarare guerra al coronavirus, unirsi a coorte contro il nemico invisibile, piangere i morti caduti in battaglia. I nostri eroi. No. I medici, gli infermieri che sono morti per contrastare l’epidemia non sono eroi morti in battaglia. Sono morti sul lavoro. Cioè morti per colpa di una sanità che non ha saputo garantire l’incolumità di chi stava lavorando, proprio come i muratori che cadono dalle impalcature o gli operai che contraggono il cancro per le pessime condizioni di sicurezza delle fabbriche. Il che rende tutto più tragico e più vero.
Parlare continuamente di guerra poi, significa immaginare già il dopoguerra. L’ho sentito più e più volte: l’Italia del dopoguerra, un nuovo dopoguerra, un nuovo Piano Marshall, la ricostruzione, il boom economico… Insisto, una guerra è una guerra. Ad un certo punto finisce. Si fanno trattati di pace, si smette di combattere col nemico. Si sgomberano le macerie, si ricostruisce. Ma una pandemia, lo ripeterò fino allo sfinimento, non è una guerra. Non siamo scesi a patti con alcun nemico (che è qui, con noi, e ci resterà), nessuna bomba ha abbattuto alcunché, non c’è nulla da sgomberare, non c’è nulla da ricostruire. Nel cuore della quarantena si sentiva di continuo che questa esperienza ci avrebbe cambiato, che nulla sarebbe stato più come prima. I più avveduti, i soliti menagramo, insistevano a dire che la normalità era un errore, che non si poteva tornare indietro. Ma le resistenze al cambiamento sono fortissime. L’importante, gattopardescamente, è far credere che tutto cambi affinché nulla cambi per davvero. Il rischio, insomma, è che le soluzioni per contenere la convivenza col virus siano proprio quelle che ci hanno portato a queste condizioni di crisi ambientale: un ritorno in massa alla mobilità privata e una “ricostruzione” che è in realtà una nuova colata di cemento, nel nome del distanziamento sociale, che si spalmerà in uno sprawl infinito che chiameremo città-giardino o “borgo sicuro”, per nobilitarlo (e venderlo meglio).
Ricorderò, né potrei scordarmelo, Apollo l’arciere
lui per cui tremano i numi, se avanza alla casa di Zeus;
tutti dai troni perciò, appena si viene appressando,
sorgono allora d’un balzo, se agita l’arco fulgente.
Leto soltanto lo attende con Zeus il signore del lampo,
lei che gli allenta la cocca e gli chiude poi la faretra,
quindi gli prende fra mano da dietro le valide spalle
l’arma, per assicurarla ad una colonna del padre
suo, ad un aureo chiodo; e in trono lo invita a sedersi.
Nettare allora gli porge il padre in un calice d’oro
nel salutare suo figlio, e intanto ecco gli altri, gli dèi,
tornano allora a sedersi; ed è lieta Leto sovrana,
già, poiché ebbe quel figlio possente, il dio armato dell’arco.
Leto beata, sii lieta, ché avesti quei fulgidi figli,
lui, il sire Apollo, nonché Artemide saettatrice
nata in Ortigia costei, ma quell’altro in Delo l’impervia:
ti reclinasti vicino al gran monte, all’erta del Cinto,
sulle correnti d’Inopo, in prossimità d’una palma.
Come cantarti in un inno, se d’ogni bell’inno sèi chiaro?
Pascolo ovunque si spande per te di canzoni, o Radioso,
sul continente che alleva vitelli e sull’isole ancora.
Tutte ti sono gradite le rupi e le cime svettanti
delle elevate montagne, coi fiumi che scorrono al mare,
e i promontori che al mare inclinano e i porti sull’onda.
Forse dirò come Leto ebbe te delizia ai mortali,
nel reclinarsi sul picco del Cinto, in quell’isola impervia
Delo la persa fra i gorghi? E per tutto livida l’onda
contro il suo lido piombava per vènti di stridulo soffio:
sorto di là, sopra tutti i mortali regni sovrano.
Quelli che Creta al suo interno comprende e la terra d’Atene,
quelli che ha l’isola Egina e l’Eubea gloriosa di navi,
quelli che hanno Ege ed Iresia nonché Pepareto sul mare,
quelli che hanno Athos di Tracia e del Pelio i picchi scoscesi,
Samo di Tracia e la vetta dell’Ida ammantata dall’ombre,
quelli che ha Sciro e Focea, d’Autocane l’erta montagna,
quelli che ha Imbro la salda e Lemno ammantata di brume,
Lesbo la chiara di dèi, la sede di Macare eolio,
quelli che ha Chio, che stupenda fra l’isole giace sul mare,
il dirupato Mimante, del Corico i picchi scoscesi,
quelli che han Claro splendente e di Esagea l’erta montagna,
Samo la ricca di polle, del Micale i picchi elevati,
quanti han Mileto e la rocca degli uomini Meropi, Coo,
quelli che han Cnido l’impervia e Carpato terra di vènti,
quelli che han Nasso con Paro e Renea la scabra di rocce,
tutti raggiunse Letò, poiché dell’Arciere era pregna,
ove una terra volesse al figlio innalzare dimore.
Ma trepidavano tutte, tremanti, e nessuna ebbe ardire,
per opulenta che fosse, di offrire accoglienza al Radioso,
fino a che poi non fu giunta anche a Delo, Leto sovrana;
interrogandola, dunque parlò con alate parole:
“Delo, magari vorrai per mio figlio, Apollo il Radioso,
essere tu la dimora, fondargli un santuario opulento?
Altri non si occuperebbe di te (non dovrebbe sfuggirti),
credo che tu non sarai mai ricca o di mandrie o di greggi,
né porterai mai raccolti, né seminerai molte piante.
Se tuttavia l’avrai tu, il tempio di Apollo l’arciere,
ecco che gli uomini tutti da te condurranno ecatombi,
qui radunandosi insieme, un vapore sempre infinito
si leverà dal tuo suolo, e per mano altrui nutrirai
quelli che ti abiteranno, poiché non hai fertile zolla”.
Disse, al che Delo fu lieta, e così parlò, le rispose:
“Leto gloriosa su tutte, tu figlia d’un grande, di Ceo,
sì, dell’arciere sovrano senz’altro con gioia i natali
li accoglierei: poiché io fra gli uomini sono davvero
priva di fama, e così sarei più di tutte onorata.
Ma mi spaventa una voce, Letò, né lo voglio celare:
troppo di certo sarà un dio inesorabile, Apollo
(dicono), e grande potere otterrà sui numi immortali
e sulle genti mortali, su terra nutrice di biade.
Ecco perché nel mio cuore, nell’animo, io temo forte
che non appena egli avrà veduta la luce del sole,
l’isola mia spregerà, poiché sono impervia di rupi,
la schiaccerà sotto i piedi, gettandola al fondo del mare.
E la grand’onda così da allora il mio capo per sempre
sommergerà, verrà il dio in un’altra terra a lui grata,
per innalzarvi il santuario e i suoi boschi verdi di frondi;
talami dentro di me i polpi e le foche nerigne
si costruiranno, dimore estranee alle folle di genti.
Ah, tollerassi tu, dea, di giurarmi gran giuramento,
che innalzerà da principio quaggiù il suo bellissimo tempio,
sì che divenga per gli uomini oracolo, e allora soltanto
< vada a fondare i suoi templi e i suoi boschi verdi di frondi >
fra le altre genti, fra tutte -poiché sarà ricco di nomi!”
Disse, al che Leto giurò il gran giuramento dei numi:
“Ora lo sappia la Terra e nell’alto il Cielo spazioso,
l’acqua di Stige che scorre in profondo -ed è giuramento
questo il più grande e tremendo in mezzo ai beati, agli dèi:
sì, del Radioso quaggiù ci sarà per sempre l’altare
con il sacrario odoroso; e ti onorerà sopra tutte”.
Dopo che Leto giurò, compiuto così il giuramento,
Delo davvero ai natali gioì dell’arciere sovrano.
E nove giorni Letò, nove notti venne trafitta
da inenarrabili doglie. E intanto le dee più gloriose
erano tutte rimaste al suo fianco, Dione con Rea,
e così Temi l’Icnea e Anfitrite forte di voce,
tutte le altre immortali, non Hera la bianca di braccia:
questa rimase alla reggia di Zeus che raduna le nubi.
Unica non lo sapeva Ilitia la madre di doglie:
sotto le nuvole d’oro era assisa, in cima all’Olimpo:
per volontà d’Hera bianca di braccia, che la tratteneva
per gelosia, poiché allora Letò la graziosa di trecce
stava per dare la vita a un figlio impeccabile e forte.
Esse inviarono Iri dall’isola salda di torri,
a ricondurre Ilitia, promettendo in dono un monile
di nove cubiti grande e di fili d’oro intrecciato:
vollero che la chiamasse fuggendo Hera bianca di braccia,
che non dovesse a parole distoglierla poi dall’andare.
E non appena ebbe udito, Iri agile piede di vento,
corse, partì, compì tutto il cammino ch’era nel mezzo.
Come fu giunta alla sede dei numi, all’Olimpo elevato,
subito allora a Ilitia svelò con alate parole,
fuori chiamandola a sé dalle sale, là sull’entrata,
quello che avevano imposto le dee che hanno olimpie dimore.
Ecco che dunque a Ilitia piegò l’animo dentro il petto.
Mossero i piedi e parevano eguali a tremanti colombe.
Poi, come a Delo fu giunta Ilitia la madre di doglie,
Venne su Leto il travaglio, la dea s’apprestò a partorire.
Cinse la palma con ambe le braccia e puntò le ginocchia
sopra quel morbido prato, sorrise al di sotto la Terra,
e nella luce uscì il figlio, gridarono tutte le dee.
Là d’acqua chiara le dee ti aspersero, lieto Radioso,
in santità, con purezza, t’avvolsero in candido manto
tenue, di nuova fattura: vi strinsero un nastro dorato.
Non dalla madre ebbe Apollo aurea-spada allora il suo latte:
Temi gli diede alimento di nettare e amabile ambrosia
con le sue mani immortali, invece, al che Leto fu lieta,
già, poiché ebbe quel figlio possente, il dio armato dell’arco.
Come di cibo immortale ti fosti saziato, o Radioso,
nastri dorati non più fermarono i tuoi movimenti,
né ti trattenne legame, si sciolsero tutte le fasce:
fra le immortali esordì all’istante Apollo il Radioso:
“Sempre saranno a me cari e la cetra e l’arco ricurvo:
per gli uomini io svelerò sicuri decreti da Zeus”.
Come ebbe detto discese su terra spaziosa di vie,
il dio arciere, l’intonso Radioso, e stupore su tutte
quelle immortali discese e fu Delo carica tutta
d’oro, come ebbe veduta la prole di Zeus e di Leto,
nella letizia, ché il dio fra isole e terre la scelse
per innalzarvi dimore e l’ebbe più cara di cuore.
Essa fiorì come picco di monte per fiori di selva.
Arco-d’argento, sovrano Apollo, infallibile arciere,
ora ascendevi sul Cinto, su quel dirupato crinale,
ora solevi fra isole e popoli vagabondare.
Già, molti templi, e così molti boschi verdi di frondi,
sono a te grati, nonché molte rupi e cime svettanti
delle elevate montagne, coi fiumi che scorrono al mare:
ma più di tutto, o Radioso, t’è cara nell’animo Delo,
dove s’adunano in folla gli Ioni dai lunghi chitoni,
coi loro stessi figlioli e le loro spose pudiche.
Col pugilato in memoria di te, con la danza e col canto,
essi t’allietano quando s’inizia fra loro l’agone.
Li crederebbe immortali e per sempre immuni a vecchiaia,
chi fra gli Ioni venisse nel tempo in cui sono raccolti.
Conoscerebbe la grazia di tutti e godrebbe di cuore
solo scorgendo quegli uomini e donne graziose di cinto,
e le loro agili navi e le loro molte ricchezze.
Anche c’è un grande prodigio, di cui non morrà mai la gloria,
quelle Deliadi fanciulle serventi del saettatore
che non appena, al principio, han cantato l’inno ad Apollo,
e così a Leto nonché ad Artemide saettatrice,
nel celebrare memorie di uomini antichi e di donne
levano il canto e alle stirpi degli uomini dànno allegrezza.
E le parlate nonché le voci degli uomini tutti
sanno imitare: chiunque direbbe poi d’essere lui
che sta parlando: a tal punto il loro bel canto s’accorda.
Siano placati per noi Apollo e Artemide insieme,
e tutte voi io saluto, fanciulle: di me voi serbate
anche in futuro memoria, se qui peregrino e straniero
giunga e domandi, chiunque egli sia fra gli uomini in terra:
“Chi, o fanciulle, per voi maestro di canti più dolce
abita queste contrade? Per chi più diletto provate?”
Tutte parlando di me rispondete in piena chiarezza:
“È un’uomo cieco, ed ha Chio dirupata come dimora,
quello i cui canti saranno i migliori ancora in futuro”.
La vostra gloria a mia volta io la spanderò sulla terra
dove a città ben tenute degli uomini ci volgeremo:
si fideranno di me, poiché è veritiera parola.
Né cesserò di cantare Apollo infallibile arciere,
arco-d’argento, che nacque da Leto la bella di chiome.
Tu sulla Licia, o sovrano, e sulla Meonia gentile
domini e sopra Mileto, l’amabile rocca marina,
Tu sopra Delo sferzata dai flutti hai potere supremo.
Muove il rampollo di Leto la chiara di gloria, suonando
con la sua cetra leggera, a Pito la scabra di rocce,
con le incorrotte sue vesti odorose: e intanto la cetra
sua sotto l’aureo plettro d’amabile nota risuona.
Verso l’Olimpo di là dalla terra come un pensiero
muove alla casa di Zeus, all’accolta degli altri dèi:
subito negli immortali è brama di cetra e di canto.
E tutte insieme le Muse, scambiandosi voci gentili,
cingono d’inni gli onori eterni dei numi e le angosce
d’uomini, quante ne hanno per mano di numi immortali,
mentre continuano a vivere ignari e indifesi, e non sanno
mai ritrovare rimedio alla morte e schermo a vecchiaia;
Belle di trecce le Grazie, intanto, e le Ore benigne
ed Armonia, e Giovinezza e figlia di Zeus, Afrodite,
danzano l’una con l’altra stringendosi al polso le mani:
danza con loro non certo più vile e non certo inferiore,
anzi davvero imponente in vista e di chiara bellezza,
lei, la gemella d’Apollo, Artemide saettatrice.
Ares fra loro, nonché l’occhio acuto Uccisore d’Argo,
danzano: Apollo il Radioso a sua volta suona la cetra
muove ampi passi armoniosi, un lucore intorno rifulge
e il balenare dei piedi e del ben tessuto chitone.
Leto dorata di trecce e Zeus il sapiente con lei
provano allora letizia nell’animo grande, mirando
quel caro figlio che muove a danza fra i numi immortali.
Come cantarti in un’inno, se d’ogni bell’inno sèi chiaro?
Forse ti celebrerò per corteggiamenti e connubi,
come venisti alla giovane Azantide per corteggiarla
contro Ischi pari agli dèi, l’Elationio forte a cavallo?
Contro Forbante, semenza triopea, contro Ereuteo perfino?
O affrontando Leucippo nonché di Leucippo la sposa,
tu a piedi, lui sul suo carro -e aTriope non era inferiore?
O come tu per donare l’oracolo agli uomini prima
hai sulla terra vagato, Apollo infallibile arciere?
Giù dall’Olimpo alla Pieria tu sèi da principio disceso;
anche per Letto arenosa passasti e così fra gli Eniani
e fra i Perrebi; ben presto ti sèi accostato a Iaolco,
quindi hai raggiunto Ceneo dell’Eubea gloriosa di navi:
anche sèi giunto alla piana Lelanto, e al tuo animo spiacque
di collocarvi il santuario e i tuoi boschi verdi di frondi.
L’Euripo tu traversasti, Apollo infallibile arciere,
chiaro di dèi verde monte hai salito e presto, partendo,
a Micalesso sèi giunto, a Teumesso letto di prati.
Anche hai raggiunta la sede di Tebe ammantata di selve;
no, non ancora mortale abitava in Tebe la sacra,
non esitevano ancora sentieri e nemmeno le vie,
nella fruttifera piana di Tebe: era invasa da selve.
Quindi passasti più oltre, Apollo infallibile arciere,
fosti ad Onchesto, recinto bellissimo di Poseidone:
fiata il puledro domato di fresco laggiù, pur gravato
dal trascinare il bel carro, a terra il pur valido auriga,
balza dal carro e cammina per via; nel frattempo i cavalli
tirano via vuoto il carro dimentichi d’arte d’auriga.
E se quel carro si rompe in quel bosco verde di frondi,
badano solo ai cavalli e lasciano il carro poggiato:
tale pia usanza da sempre hanno avuta: al nume sovrano
fanno preghiere, e quel carro diviene possesso del dio.
Quindi passasti più oltre, Apollo infallibile arciere,
e nel Cefiso venisti a imbatterti, bella corrente
che da Lilea va effondendo sue acque dal limpido corso.
Lo traversasti, Saettante, e Ocalea cinta di torri
tu raggiungesti di là e ancora Aliarto l’erbosa.
Quindi giungesti a Telfusa e ti piacque il luogo felice,
per collocarvi il santuario e il tuo bosco verde di frondi.
Prossimo a lei ti facesti e così dicesti parola:
“Qui è mia intenzione, Telfusa, di porre un bellissimo tempio
sì che un oracolo sia per gli uomini, i quali per sempre
raduneranno quaggiù in mio onore elette ecatombi,
tutte le genti che stanno nel fertile Peloponneso,
quanti a dimora hanno Europa e isole perse fra i gorghi,
a consultarmi: io a tutti costoro sicuri decreti
prescriverò profetando nel mio opulento santuario”.
Come ebbe detto gettò fondamenta, Apollo il Radioso,
ampie, per tutto all’intorno estese: e però nel vederle
s’incollerì nel suo cuore, Telfusa, e gli disse parola:
“O dio arciere, Radioso, parola porrò nel tuo cuore,
se è tua intenzione di porre quaggiù il tuo bellissimo tempio,
sì che un oracolo sia per gli uomini, i quali per sempre
raduneranno quaggiù in mio onore elette ecatombi:
altro però ti dirò, tu ponilo dentro il tuo cuore:
sempre ti tormenteranno rumore di svelte cavalle,
e abbeverandosi, i muli, a queste mie sacre sorgenti:
ecco perché ciascun uomo vorrà rimirare qui i carri
solidi ed il rumorio di cavalle svelte di piedi,
più che un immenso sacrario, le molte ricchezze all’interno.
Ma se volessi ascoltarmi (e ben più potente e più forte
tu di me sèi, o sovrano, ed è la tua forza suprema),
presso le anfrattuosità del Parnaso erigilo, a Crisa.
Non tuoneranno i bei carri laggiù, non s’avrà di cavalle
svelte di piedi il rumore intorno all’altare ben fatto.
Anzi così recheranno in tuo onore doni, o Peana,
stirpi gloriose di genti, e tu ne godrai nel tuo cuore,
nell’accettare le belle offerte di genti vicine”.
Disse Telfusa e all’Arciere il cuore piegò, perché fosse
tutta per lei sulla terra e non per l’Arciere la gloria.
Quindi passasti più oltre, Apollo infallibile arciere,
e raggiungesti la rocca dei Flegi, una gente oltraggiosa,
che senza darsi mai pena di Zeus abitavano in terra
presso il padule Cefiside in una gentile vallea.
Rapidamente da lì salisti sui monti, adirato,
e raggiungesti poi Crisa a pie’ del Parnaso nevoso,
cresta che è volta al soffiare di zefiro -e sopra di quella
svetta una rupe pendente e vi corre sotto una valle
aspra: laggiù stabilì il sovrano Apollo, il Radioso,
di costruire il suo tempio amabile e disse parola:
“Qui è mio proposito ormai di porre un bellissimo tempio
sì che un oracolo sia per gli uomini, i quali per sempre
raduneranno quaggiù in mio onore elette ecatombi,
tutte le genti che stanno nel fertile Peloponneso,
quanti a dimora hanno Europa e isole perse fra i gorghi,
a consultarmi: io a tutti costoro sicuri decreti
prescriverò profetando nel mio opulento santuario”.
Come ebbe detto gettò fondamenta, Apollo il Radioso,
ampie, per tutto all’intorno estese, e così sopra quelle
posero allora una soglia di pietra Trofonio e Agamede
figli di Ergino, nonché prediletti degli immortali:
poi innumerevoli stirpi degli uomini eressero il tempio
con i macigni squadrati, che fosse cantato per sempre.
Presso era il limpido fonte in cui il sire figlio di Zeus
già trucidò col suo arco temibile la dragonessa,
grande e vorace, la bestia selvatica, quella che in terra
molte sventure arrecava agli uomini, molte per loro,
molte per l’agile greggia, poiché fu una piaga cruenta.
Prima ella accolse e allevò per Hera dal trono tutt’oro
lo spaventoso e dolente Tifone, una piaga ai mortali,
nato che Hera ebbe un tempo, per collera contro Zeus padre,
già, poiché il Cronide diede alla luce Atena gloriosa
dalla sua testa: all’istante andò in collera Hera sovrana
quindi così prese a dire fra i numi immortali adunati:
“Ora ascoltatemi tutti, o dèi, e anche voi, o dee tutte.
Come ha iniziato a oltraggiarmi lui, Zeus che raduna le nubi,
primo, da quando m’ha resa sua sposa dai probi pensieri!
Ora anche senza di me ebbe Atena, Occhi-di-strige,
quella che splende al di sopra di tutti i beati immortali,
mentre una laida presenza divenne fra tutti gli dèi
il figlio mio piede-zoppo, Efesto che io partorii;
con le mie mani l’ho preso e scagliato al mare spazioso;
pure la figlia di Nereo, lei, Tetide piede-d’argento
lo ricevé, con le sue sorelle gli diede riparo:
altro favore doveva offrire ai beati, agli dèi!
Perfido, vario d’ingegno, che altro disegno ora covi?
Non te l’avrei partorita io stessa? E mi dissero tua
sposa fra quanti immortali posseggono il cielo spazioso!
Medita ormai la sciagura che ti coverò d’ora in poi:
presto la escogiterò io la via, che venga alla luce
un figlio mio che risplenda così fra gli dèi, gli immortali;
certo il tuo talamo sacro non lo infangherò, né me stessa,
pure non frequenterò il tuo letto, ma rimanendo
da te divisa sarò in mezzo agli dèi, gli immortali”.
Come ebbe detto partì dagli dèi, tanto era adirata;
subito quindi pregò Hera occhi bovini, sovrana,
e colpì il suolo con mano distesa e poi disse parola:
“Ora ascoltatemi, Terra e tu in alto, cielo spazioso,
e voi Titani, voi dèi che abitate sotto la terra,
giù nel gran Tartaro -uomini e dèi sono nati da voi:
voi, sì voi tutti esauditemi adesso e donatemi un figlio,
senza l’amplesso di Zeus, che non sia da meno in vigore:
anzi, sia valido quanto Zeus Cronide, l’ampio veggente”.
Come ebbe detto colpì con la grave mano la terra
e ne fu scossa la terra vitale, e la dea ne fu conscia
e nel suo cuore fu lieta, sperò che venisse ad effetto.
Da quel momento così nel compiersi intero d’un anno,
no, non ascese una volta sul letto di Zeus il sapiente,
no, non sedé sul suo trono dedaleo, come in passato
già si sedeva al suo fianco, a intessere saggi consigli:
anzi restandosene nel suo venerato sacrario,
dei sacrifici godeva Hera occhi bovini, sovrana.
Ma non appena però trascorsero mesi e giornate,
lungo il compirsi dell’anno, tornarono indietro stagioni,
diede la vita a una bestia diversa da numi e mortali,
lo spaventoso e dolente Tifone, una piaga ai mortali.
Subito allora lo prese Hera occhi bovini, sovrana,
e recò e diede quel male a un male, a colei che l’accolse;
L’uno assai danno alle stirpi gloriose degli uomini inflisse,
l’altra arrecava a chiunque incontrasse giorno funesto
prima che un dardo scagliasse su lei il sire Apollo, l’arciere,
colpo mortale: da doglie terribili lei consumata
forte ansimando giaceva torcendosi contro la terra.
Fu prodigioso, infinito il suo grido, e dentro la selva
di qua e di là si torceva più volte, esalò poi il respiro
fiotto sanguigno emanando; e vantava Apollo il Radioso:
“Putrida adesso sta lì sulla terra madre di genti,
no, non sarai rovinoso flagello ai viventi mortali
ora, per quelli nutriti dal frutto di terra feconda
che condurranno fin qui le loro perfette ecatombi,
non sfuggirete alla morte amara né tu, né Tifeo,
né la Chimera dal nome sinistro, e quaggiù nel frattempo
putrida ti renderà nera terra e Iperione ardente”.
Disse così nel suo vanto, ma a lei calò il buio sugli occhi;
poi la lasciò putrefatta, la sacra potenza del Sole:
e perciò il luogo ora ha il nome di Pito, e al contempo il sovrano
Pizio lo chiamano, nome veridico, già poiché il mostro
per la potenza del Sole impetuoso è là imputridito.
Ecco che allora in cuor suo riconobbe, Apollo il Radioso,
come l’avesse ingannata la fonte di limpida stilla:
verso Telfusa s’avviò in collera, giunse lì in fretta:
Prossimo a lei s’accostò e così le disse parola:
“Tu non dovevi, Telfusa, provarti a ingannare il mio cuore,
luogo gentile serbando a effondere limpida l’acqua.
Anche quaggiù brillerà la mia gloria, non la tua sola”.
Disse e un rupe su lei gettò, il sire Apollo, l’arciere,
con un franare di rocce, così ne occultò la corrente,
poi costruì il suo altare in quel bosco verde di frondi,
presso la fonte che l’acqua ha limpida: tutti al sovrano
un soprannome, Telfusio, hanno dato in quella contrada,
già, poiché aveva infangato le polle alla sacra Telfusa.
Ecco che poi meditò nell’animo, Apollo il Radioso,
quali fra gli uomini avesse a condurre come officianti,
che lo servissero poi in Pito la scabra di rocce:
mentre pensava, avvistò sul mare colore del vino
l’agile nave che a bordo aveva assai uomini degni,
genti di Creta, da Cnosso Minoica, -questi al sovrano
celebrano sacrifici e rivelano vaticini
dell’Aurea-spada, di Apollo il Radioso, ogni cosa che dica
per le vallee del Parnaso, dal lauro emanando responsi.
Sopra quel nero vascello in cerca di beni e commercio
voltisi a pilo Pilo arenosa, agli uomini stirpe di Pilo,
essi viaggiavano: a loro andò incontro Apollo il Radioso:
di mezzo al mare arrembò, sembrando in aspetto un delfino,
l’agile nave, e vi giacque, un mostro temibile e grande:
chi fra i Cretesi pensava nell’animo di sogguardarlo,
di qua e di là lo sbalzava, squassava il fasciame alla nave.
Dentro la nave essi muti sedevano in preda al terrore,
e non scioglievano fune alla nera nave ricurva
e con le vele drizzate così con ritorte bovine
sempre viaggiavano: a poppa il rapido noto spingeva
l’agile nave: da prima passarono il capo Malea,
oltre la terra laconia a una rocca cinta dal mare
vennero, presso un sacrario del Sole letizia ai mortali,
Tenaro, dove le greggi lanose del Sole sovrano
pascono sempre -quel luogo amabile il dio lo possiede.
Essi volevano là fermare la nave e sbarcare
a esaminare quel grande prodigio, a mirare con gli occhi
se rimanesse sul ponte dell’agile nave quel mostro,
o si gettasse nell’onda salata, animata di pesci;
ma i governali non più seguiva la nave ben fatta,
ma continuò anche oltre il fertile Peloponneso,
per la sua rotta, col vento il sovrano Apollo, l’arciere
la indirizzò facilmente; e questa compiendo il suo viaggio
fino ad Arene nonché ad Argifea amabile giunse,
poi anche a Trio, un passaggio d’Alfeo, anche ad Epi la salda,
e fino a Pilo arenosa, agli uomini stirpe di Pilo:
quindi passò superando anche Crune e Calcide e Dime,
poi lungo l’Elide splendida, ove hanno dominio gli Epei:
quando anche a Fea arrivò, superba del vento di Zeus,
d’Itaca a loro apparì fra le nebbie l’erta montagna,
quindi Dulichio e poi Same e Zacinto verde di selve.
Poi non appena passò tutto quanto il Peloponneso,
e così a loro apparì l’infinito golfo di Crisa,
quello che i termini chiude al fertile Peloponneso,
venne per fato di Zeus un gran vento, Zefiro chiaro,
prese a soffiare impetuoso dall’etere, sì che al più presto
svelta la nave passasse il salato flutto del mare.
Ecco che allora al contrario e rivolti al sole e all’aurora
essi viaggiavano: a guida il re Apollo, il figlio di Zeus;
dunque raggiunsero Crisa assolata ricca di viti,
e la marina, toccò le sabbie l’ondivaga nave.
Lì dalla nave discese il sovrano Apollo, l’arciere,
simile di mezzoggiorno a una stella: molte faville
si sprigionavan da lui, ne salì nel cielo il chiarore.
Nel penetrale il dio venne fra i tripodi ricchi d’onore,
dove egli accese una fiamma, facendo brillare i suoi dardi,
e quel chiarore riempì tutta Crisa: ruppero in grida
tanto le spose crisee che le figlie belle di cinto,
al balenio del Radioso: destò fiero orrore in ciascuno.
Poi alla nave tornò precipite come un pensiero,
e somigliava però ad un uomo giovane e forte,
di primo pelo, le chiome distese sull’ampie sue spalle:
e dispiegando la voce parlò con alate parole:
“Chi siete, ospiti? Dove correte le liquide vie?
Forse per vostro guadagno, o senza una meta vagate,
simili a quei razziatori sul mare, che vanno vagando,
pongono a rischio le vite e recano a estranei sciagure?
E come mai atterriti sedete e nemmeno prendete
terra, e nemmeno allentate alla nera nave le funi?
Altra davvero è l’usanza degli uomini seme del grano,
quando s’approssimano con la nera nave dal mare
ad una terra e fatica li vinca, e d’un subito allora
il desiderio di cibo soave li prende nel cuore”.
Sì, così disse e instillò dentro i loro petti coraggio.
E il capitano cretese rispose e gli disse di contro:
“Ospite, certo non tu somigli alle genti mortali,
non di bellezza o figura, ma ai numi immortali, piuttosto.
Io ti saluto, sta’ sano, ti diano ricchezza gli dèi.
Dimmi però veritiera parola, a che io sappia bene,
Quale il paese, che gente v’è qui? Che mortali vi sono?
Noi con ben altra intenzione oltre il grande abisso andavamo,
dritti su Pilo da Creta, di cui ci vantiamo progenie.
Ora fin qui con la nave arrivammo senza volerlo,
desiderando altra via al ritorno, un altro cammino;
nostro malgrado però ci condusse qui un immortale”.
Ecco che a loro diceva in risposta Apollo l’arciere:
“Ospiti, voi che dimora avevate in Cnosso alberata,
prima, ma adesso non più di ritorno ancora verrete
alla sua amabile rocca, alle belle case ciascuno
alle dilette consorti, ma qui l’opulento santuario
mio, venerato da molti fra gli uomini custodirete;
io sono il figlio di Zeus e mi vanto d’essere Apollo,
e vi condussi fin qui per il grande abisso del mare
non meditando alcun male: ma qui l’opulento santuario
mio venerato da molti fra gli uomini custodirete,
degli immortali saprete i piani e per loro volere
sempre in eterno sarete onorati giorno per giorno.
Ora suvvia a quel ch’io dirò conformatevi tutti:
prima di tutto ammainate le vele e sciogliete le funi,
poi questa rapida nave traetela in secca sul lido,
e di tesori e d’attrezzi vuotate la nave librata,
quindi erigete un altare qui lungo il frangente del mare,
fate che il fuoco vi bruci e ardete la bianca farina:
incominciate a pregare ergendovi intorno all’altare.
E poiché io da principio sul pelago cupo di nebbie
assomigliando a un delfino balzai sopra l’agile nave
come Delfinio dovete pregarmi; e così quest’altare
delfico sempre sarà chiamato e superbo di gloria.
Poi gusterete la cena alla nera ed agile nave,
e liberete agli dèi beati che hanno l’Olimpo.
Quindi placata la brama di cibo che al cuore è soave,
camminerete con me, canterete intanto il peana,
fino a raggiungere il luogo in cui avrete il ricco santuario”.
Sì, così disse e gli diedero ascolto, obbedirono pronti:
ammainarono prima le vele sciogliendo le funi,
l’albero nella forcella calarono, i cavi allentando,
quindi venivano tutti sbarcando al frangente del mare,
l’agile nave dal mare la trassero in secca sul lido,
sopra le sabbie ben alta, vi misero sotto gran trave,
lungo il frangente del mare eressero dunque l’altare,
fecero il fuoco bruciare e ardere bianca farina,
come il dio volle pregarono ergendosi intorno all’altare.
Presero quindi la cena alla nera ed agile nave
e poi libarono ai numi beati che hanno l’Olimpo.
Ma non appena placata la voglia del bere e del cibo,
mossero: li conduceva il re Apollo, il figlio di Zeus,
e fra le mani stringeva l’amabile cetra e suonava,
con ampi passi armoniosi: andavano a tempo i Cretesi
dietro di lui verso Pito, cantavano intanto il peana,
come ne sanno peani i Cretesi, ai quali la dea
Musa nei petti ispirò il canto soave di voci.
Per la collina indefessi salirono, giunsero in fretta
presso il Parnaso, nel luogo amabile dove doveva
lui, il dio onorato da molti degli uomini, giungere a stanza.
Egli indicò i penetrali divini il santuario opulento.
Ne fu sconvolto però dentro il petto l’animo loro;
lo interrogò il capitano cretese e gli disse di contro:
“Sire, poiché via dai cari, ben via dalla terra dei padri,
tu ci hai condotti (così fu infatti gradito al tuo cuore),
ora in che modo vivremo? A ciò ti esortiamo a pensare.
Ricca di viti e di prati non è questa terra gentile,
tanto da viverci bene, che d’uomini poi ci si curi”.
Ma sorridendo rispose Apollo, quel figlio di Zeus:
“Stolti, gravati d’affanni, voi uomini, che concepite
cure nonché dolorose fatiche e tormenti del cuore:
facile a darsi è la mia risposta, e da porvela in mente.
Sempre ciascuno di voi nella destra impugni il coltello
per macellare le greggi: infinite a voi ne verranno,
quante le stirpi gloriose degli uomini ne condurranno:
voi custodite il santuario, degli uomini qui radunati
voi accogliete le stirpi per mia volontà, sopra tutto
se ci dovesse mai essere azione o parola avventata
o tracotanza, com’è costume fra genti mortali.
Altri in futuro su voi s’imporranno per comandarvi
altri di cui subirete i voleri giorno per giorno.
T’è rivelata ogni cosa: tu serbala nella tua mente”.
Ecco che io ti saluto, o figlio di Zeus e di Leto,
e mi ricordo di te e così d’un’altra canzone.
Ho letto “Arruina” (il Saggiatore, 2019) in un bar del mio paese, quasi sempre all’alba. Leggerlo è stato come passare al mattino presto dinanzi a un dipinto di Bacon, a una vetrina di macelleria, l’acciaio cupo delle onde nell’isola dei matti di Goya. Ora io non sono un critico. Non ho una formazione accademica. “Non è mai con intenzioni critiche che mi avvicino ad un’opera d’arte”, scrisse Rilke. Lo hanno già detto altri: la lingua di Francesco Iannone o il suo linguaggio, la statua nella sua essenza o l’ornamento che fa la bellezza, per Walter Benjamin, se considerato un involucro necessario alla custodia dell’essenza. L’artificio, lo choc che Benjamin vide in Baudelaire, le interruzioni sulla linea del cerchio e della ripetizione: a questo serve l’ornamento. Se non ci fosse ornamento, non ci sarebbe nulla da togliere. E noi quando parliamo di Francesco Iannone parliamo di un cammino più letterario che umano o forse umanamente lacerato, ma così in profondità da non trasparire.
Iannone ha un’espressione che poggia sull’eccesso, è un espressionista. Prende materiale dalla storia e lo traduce in materiale inventato, in paese dell’immaginazione.
I nomi geografici di “Arruina” hanno una matrice antropologico-fiabesca, ed è indubbio. Ma Roccagloriosa o Acquavena sono città arroccate, raggiungibili ma lontanissime, tanto da far pensare ad un santuario dei miracoli. Non a caso in questa allucinazione dantesca chi deve passare per la grande porta di Roccagloriosa dovrà essere in possesso di un miracolo. Si chiede un’ostensione. Ci sono paganesimi che interagiscono con una liturgia paleocristiana ben definita. Iannone sa che le Nerissime sono necessarie quanto la Sperduta che vogliono distruggere. Interdipendenza tra soggetto e oggetto, tra due soggetti, bene e male, buio e luce, la dissociazione mentale dell’Occidente, la scissione interiore. Se la psicoanalisi ha ravvisato nelle fiabe una simbologia arcana e remota, Iannone invece vi scorge una drammaturgia, una rappresentazione del sé nella sua interezza. In questo libro non si fa torto a nessuno. Il male viene fatto camminare per queste nostre strade e lo si cerca di interpretare come fosse il sole, lo spirito, l’uccello rapace, la vetta di ogni mitologia, Anubi, dio cinocefalo, quanto la regina vergine Cibele. E perché non la mater dolorosa? Si respira il lutto delle lamentatrici funebri, l’escrementizio del denaro e una stupenda “trauerspiel”, una rappresentazione del lutto. Il latte, il sangue, lo sperma, l’acqua. Il coacervo degli elementi diviene un globo differenziato internamente. Ogni personaggio è portatore di un’archetipia. Materia e teleologia. Niente si aziona gratuitamente. Gli anelli si ingranano vicendevolmente creando questa catena che va districandosi e scorrendo sul pendio della narrazione come un destino, un’inesorabilità, una botte che si sgretolerà sul fondo del mare “Arruina” venendo dai fianchi di una rupe, è la catastrofe. Dopo c’è l’interregno.
Perché penso alle sante prostitute che si rifugiavano penitenti nel deserto? E se Roccagloriosa fosse l’antro di Maria Egiziaca? E se Acquavena fosse la caverma non di Platone, ma una risorgiva baccante del Cilento? Cibele e Attis il cui tempio fu soppiantato dal primo insediamento cristiano qui a Montevergine? È un cerchio religioso. C’è religiosità non teologia, forse la multiforme teologia dell’io, l’individuo derealizzato, incarcerato in una mitologia personale. “Arruina” è concentricità fiabesca, metaromanzo, parola che cerca, costante, il fuoco assoluto per purificarsi e tornare a sporcarsi tra i lebbrosi, tra coloro che venivano scacciati fuori dalle mura di cinta della città, i lebbrosari.
Non c’è un tono orante, non ci sono mani giunte. L’enigma ha un preludio, un intermezzo. E quindi “Arruina” è un’opera musicale. Filastrocche rimate, il dialetto, la lingua più vicina alla verità, anche sub specie poetica. Salmodie, giaculatorie. In questo libro, è un cammino verso la guarigione. La Sperduta è lo sblocco dei trombi di sangue. Ritrovarla è ricucire le due parti che insieme costituiranno il sacro: il bene e il male. Il sacro non è Dio, non è solo il Bene Sommo. Il sacro, in origine, è bene e male uniti, è questo banchetto sponsale dove si celebra solennemente, col sangue, un sacrificio e “sacrificio” etimologicamente vuol dire proprio “fare il sacro”. Iannone scrive che la verità è “oltre la lesione”. Occorre inginocchiarsi davanti alla fessura da cui sgorgherà materia vivente e vitale, una crepa piena di zolle fertili, una crosta e sotto lo spreco di sangue. Francesco ha un terrore dentro. Questa è una “favola oscura” perché è la favolosa, momentanea via di redenzione di un terrorizzato. Cosa spaventa Iannone mentre scrive? Iannone è spaventato dalle sue guerre intestine. La sua interiorità è un campo rupestre dove avvengono battaglie fratricide, tra due sé. È ancora un romanzo sul male, il male atavico, ancestrale del nostro Occidente, guerriero e mendicanti di aghi che ricuciono la spaccatura, il dualismo, così atrofizzato. Iannone mette in bocca ad uno dei suoi personaggi stralunati la frase: “ogni parola per me è una sofferenza, una fatica”.
Ecco descritto con l’io, e seccamente, l’atto di creazione, come lo chiama Deleuze, il parto con le sue atroci doglie. Non finiamo nella concezione sfibrata e sfibrante dell’artista come “sibilla” o “posseduto”. È vero, Iannone ha ricevuto l’angelo dell’Annunciazione che gli ha messo nel corpo il verbo, ma Francesco è anche Logos. È il pensiero di una ricerca che deve trovare una via d’uscita a fargli escogitare l’attraversamento della parola, col peso del suo significato, direbbe Celan, e con le suggestioni arcaiche, materiche del suo significante. Qui vengono in mente le brevi filastrocche vernacolari lucane che l’ingegnere L. Sinisgalli raccolse sotto il titolo “L’albero delle rose”.
Usi figurati della lingua a iosa in “Arruina”: sinestesie, metafore, metonimie, allitterazioni, ossimori soprattutto. Alternanze di accecamenti da sole e black-out, accecamenti nati dal buio denso di una notte sempre più oscura dove se si profila una mistica, è sicuramente quella dell’ascesa del monte Carmelo di San Giovanni della Croce. “Arruina” è un libro che affronta una realtà grezza, grossolana perché barbara, piena di superstizioni religiose, di magiare demartiniane, ma ha un sottobosco di elementi stilistici elegantissimi, le circonvoluzioni linguistiche si corrispondono armoniosamente, echi si incontrano a distanza di pagine. Il racconto ha una sua struttura circolare, ma il tempo in cui parlano tutti i personaggi è lineare, progressivo, giudaico-cristiano: l’arrivo è la Sperduta, l’arrivo è la redenzione.
Iannone è scisso anche nella percezione del tempo e tuttavia la sua lotta mira ad una ricostruzione del filo che tenga insieme linea retta e linea curva, un solo angiporto e un labirinto.
Francesco a pag. 104 scrive: “sono le acque interiori della madre e del padre”. Ecco, questo forsennato culto della preistoria, della genitorialità, ma anche della vita fetale nell’amnio, vera acqua interiore perché primo interlocutore sociale del feto, primo avvertimento percettivo di una presenza altra. E di feti e bambini storpi o bisognosi il romanzo pullula. L’acqua è l’elemento primo. La nascita della Sperduta inaridirà la sorgente e le Nerissime/donne Tracie, pronte a sbranare Orfeo, saranno messe in pericolo.
La nascita di una bambina farà vacillare a presenza del male nel mondo. Ecco la dualità antica del nostro Occidente pagano e cristiano, l’incapacità di essere un’unità come voleva Jung, nella collimazione dei contrari o nella ieratica e serafica compresenza delle contrarietà interne. “Tutte la vita interiore rimanda l’immagine dell’acqua”, scrisse Paul Claudel, mentre Platone vide una linea d’acqua separare la veglia dal sonno, la coscienza della luce dalle fantasime dell’addormentamento di sé. Fra il buio e la luce platonicamente insorge una polluzione, una vera effusio seminis.
“Arruina” è un romanzo scritto in stato di immersio, come direbbe Celan, come certe poesie, e anche di sommersio. Alla fine, a Roccagloriosa, si assiste ad una emersio. Iannone e i suoi personaggi respirano polveri cosmiche sul finale, si ritrovano, scrive, in “una galassia calcarea”. E i bambini diventano improvvisamente creature celesti, i bambini, scrive, “partoriti in seno alle acque pure delle sorgive”. E allora la favola oscura lascia intravedere, man mano che si rischiarano le fondamenta, le colonne di una conversione evangelica, creaturale, quando in Matteo Gesù dice: “come bambini dovete diventare perché sia vostro il Regno dei cieli”. E qui il celeste si fa presente, è un’apparizione reale, una riva, un approdo dopo scorribande tra sonorità cavernose e onomatopee di origine misterica, un seguito di oracolari cantilene nelle quali è ben nascosto il segreto, la formula arcana della liberazione e della sopravvivenza.
Questo libro è stato scritto a tutela dello stesso autore, cioè l’autore lo ha scritto per tutelarsi. “Salus” ha due significati in latino, salute e salvezza. Credo che “Arruina” sia stato scritto in vista del raggiungimento della “salus”.
Se l’io è una proliferazione immaginaria, come sostiene per esempio Lacan, non si capisce fino a che punto siano giustificati tutti quei romanzi così solidamente strutturati, dalle trame così compatte, che si presentano come granitici monoliti. «Con questo libro,» vorrebbe dire un editore o un libraio all’acquirente, porgendo il maneggevole blocco di cemento armato, «puoi star sicuro che ti vendo un buon prodotto, tenuto insieme dal rigore sintattico e da una logica ferrea. Sei sicuro che non ti si sfascerà fra le mani privo di senso.» Il modello del cemento armato è probabilmente il modello con cui sono costruiti questi parallelepipedi romanzeschi che promettono la tenuta realistica di matrice ottocentesca, senza infiltrazioni o bolle d’aria, cioè senza nulla che minacci la coesione interna, neanche un piccolo dubbio. Blocchi pieni di parole tenute insieme con griglie d’acciaio, forse per far fronte all’elevata competizione: si sa, un vaso di coccio non viaggia bene in mezzo a vasi di ferro. Ecco, queste narrazioni in cui ogni personaggio ha un suo carattere definito, un suo destino inscritto nel carattere, o in cui entrano in relazione soltanto delle maschere sociali più o meno stereotipate, ci dicono qualcosa di appena un po’ diverso da un saggio sociologico. Un saggio di sociologia o di economia ha il vantaggio che può entrare maggiormente nei dettagli, può fornire risposte più precise e argomentate sul contesto sociale in cui viviamo. Ma perché anche nella prosa d’immaginazione vengono riproposti schemi rigidi, assertivi, convenzionali simili a fortini inattaccabili? Come a dire: «Non ti vendo un libro, ti vendo un piccolo fortino in cui trincerarti contro tutte le tue paure».
A parte il discorso meramente commerciale, suppongo che conti anche il punto di arresto cui erano arrivati gli esperimenti stilistici del Novecento. Afasia, incomunicabilità, rimozione, inconscio, alienazione, poliedricità… scogli pressoché insormontabili di fronte a cui si è trovato colui o colei che volesse diventare narratore o narratrice dalla seconda metà del secolo scorso in poi. Il nouveau roman o “romanzo dello sguardo” negli anni cinquanta e sessanta aveva aggirato il problema, cercando di evitare come la peste l’interiorità e decidendo di osservare tutto dall’esterno (lasciando al massimo intuire un’interiorità appena accennata, dal momento che l’oggetto che viene descritto è comunque scelto fra tanti altri e quella scelta rimanda pur a una volontà, a uno stato d’animo o a un affetto). Per chi si accontenta…
Un romanzo è costituito sostanzialmente dalle relazioni fra i personaggi, quindi il personaggio-uomo è in gioco, c’è poco da fare. Difficile metterlo fuori campo. Ma come rappresentare la sua mente (volubile, mutevole, addirittura parzialmente inconscia)?
Questa è la sfida letteraria che lo straordinario secolo che abbiamo alle spalle ci ha lasciato.
«Ma la storia non si fa con i se,» potrebbe rispondere un ipotetico scrittore marxista che desideri esporre una narrazione del mondo essenzialmente in chiave di conflitto di classe, mettendo in luce soprattutto i rapporti di forza in cui sono immersi i gruppi sociali; un marxista scrittore, che si ostini a mettere in pratica i suoi ideali fabbricando romanzi, ben conscio tuttavia che la stragrande quantità della popolazione cui intende rivolgersi non legge o, se legge, preferisce fumetti, gialli, libretti Harmony o best-seller simili ad Harmony formato gigante, con più pepe, i Big Mac degli scaffali. Questo scrittore che suppongo marxista potrebbe obiettare: «Lasciamo perdere mamma e papà, squilibri nevrotici (che riguardano la solita maggioranza della popolazione su cui è meglio gettare un velo pietoso), deragliamenti psicotici (in genere confinati nei reparti ospedalieri), roba per medici, roba per poveretti che non ce l’hanno fatta a diventare combattenti per una società migliore, che non sono all’altezza delle sfide della storia. Chi ce l’ha fatta ha il compito d’illuminare la strada. Nella storia che cosa resta delle molteplici ansie e vicissitudini umane? Una serie di fatti concatenati fra loro da cause che sono state appurate. Questi fatti vengono esposti dagli storici in modo che trapeli tutto il lavorio di attività, progetti, aspirazioni dei vari gruppi sociali. Analogamente, nelle trame romanzesche la cosa più importante è narrare alcuni fatti e lasciar emergere, dietro a questi, i rapporti che intercorrono tra figure sociali in equilibrio, competizione o contrasto fra loro.» Si può rintracciare sicuramente qualche trama in cui questi rapporti intercorrono per esempio tra un capitalista dal volto umano, coraggioso proprietario di una piccola azienda, il rampante spregiudicato e fedifrago, e il precario intelligente ma condannato a non emergere per destino di classe squattrinata e per mitezza di carattere; le donne, come al solito, in ruoli ancillari di contorno, deputate esclusivamente alla continuazione biologica della specie, cioè a fare figli.
L’autore ipotetico marxista può levarsi quindi con agilità e obiettare al mio attacco polemico (e invidioso) contro molti romanzi odierni, paragonati a blocchi di cemento armato fitti di parole e personaggi unidimensionali, che gli stessi romanzi possono essere piuttosto paragonati a esplosivi al plastico, necessariamente ben congegnati e collaudati per smuovere le coscienze dei lettori e mandare in mille pezzi i Big Mac dell’editoria!
Di fronte all’obiezione politica non mi resta che concludere: tra il discorso di Freud e quello di Marx, in Italia ha circolato di più e abbattuto le convenzioni in special modo quello di Marx…
«Ci sono delle cose di fronte a questa pagina aperta / che sono
collegate / alle cose che mancano / le cose come le cose […] »
Corrado costa
La scrittura per/di valanghe trova il suo avvio d’improvviso, quando l’irruzione di un’incontrollabile orda di immagini e pensieri riesce (finalmente) a smuovere il terreno psichico ‘squilibrandolo’ e travolgendolo in una fuoriuscita crescente di libere associazioni che si inanellano felici, provocate, in questo caso, dalla calamita-calamità del quod libet (ciò che piace).
Croissants
croissants, pains aux chocolats, pains aux raisins
ma soprattutto croissants (dal latino crescentem)
ascoltare Schubert mentre faccio gli esercizi sul materassino
ballare con le gambe per aria (andante con moto)
pensare a Joséphine Baker alle lezioni di flamenco di Anaïs Nin
Ernest che prende un altro libro in prestito a Sylvia Beach
essere poveri ma felici vivere una festa mobile
le estati nella casa in campagna
i travestimenti dall’armadio della nonna
giocare con la parrucca dell’Antonietta
le more le ortiche i balloni di fieto
Francesca Woodman per le strade afose di Roma
le geologie della Woodman e di Ana Mendieta
le querce cercare tesori nei negozi di antiquariato
le conversazioni e le avventure all’hotel alchemico
quelle dei realvisceralisti Cesárea Tinajero
i cafe con leche nel DF – ah!
usare la punteggiatura come mi pare
non usarla proprio talvolta e scrivere valanghe
trovare una scusa per usare parole come giacché o costui
la Nouvelle Vague le onde je vais et je viens – je t’aime
aprire finalmente le finestre quando inizia la primavera
spiare i vicini dalla finestra (anche d’inverno) e non vergognarmene
La bella estate di Pavese l’estate (ma più la primavera) Pavese himself
libiamo libiamo ne’ lieti calici che la bellezza infiora
continuo?
la serenata in E maggiore di Dvorák
leggerci la fronte anziché i palmi io ed Oliver
i suoi abbracci e i baci la sua pizza pronunciata pixa
fare un dottorato sui tarocchi di Emilio Villa a Dublino
spedire cartoline le statuette della fertilità Marjia Gimbutas
ricordarmi dei sogni e come se non bastasse fantasticarci sopra
Jung sull’alchimia Rrose e Coco Sélavy
croissants a volontà
Il raggio verde di Rohmer Il pianeta verde della Serreau
verde que te quiero verde (adoro il viola ma fa tanto quaresima)
le discussioni del club di Horacio Oliveira
pensare di scomporre e rileggere la mia vita come in Rayuela
considerare di scrivere un romanzo ma non farlo
invitare a un aperitivo Billie Holiday
i picnic col tramonto alla Côte des Basques
la vita in campeggio dormire in tenda dormire come un sasso
addormentarsi quando fuori piove
i fiori e Flora Tristan l’arcadia di Ermanno Olmi i trovatori
l’arpa d’or dei fatidici vati
gli amici i loro talenti le loro ossessioni
la poesia la preistoria la polisemia
l’Odissea la Medea Bob Dylan la glossolalia
i campi di lavanda e di papaveri le casette sugli alberi
Testimonianze informali riscritte e disegnate da Elena Tognoli
1 maggio Antonia (Il nuovo rumore delle gambe)
“Stamattina sono uscita a fare due passi, le mie gambe non sono più le mie gambe, sono gambe di legno, di burattino, gambe di comodino; ad ogni passo picchiettano sull’asfalto, bacchette senza tamburo.”
L’oscillazione pendolare fra sperimentalismo di rottura e ritorno all’intimismo e alle forme ricompattate, fra impegno e gioco, era già in atto nei novissimi e nel gruppo ’63. Oggi, fra scritture non assertive (o se si vuole di ricerca) e nuovi vecchi lirici (o se si vuole, tradizione), e poeti giocosi (o se si vuole, il caos), assistiamo a un permanere scisso dei novissimi e del gruppo ’63, con qualche inserzione di neo-dada (asemantici & affini), meno il potere accademico (salvo qualche caso) e meno i quadri del partito di massa (storicamente defunto). Dal punto di vista della ricezione, i meglio messi sul piano della canonicità potenziale sono quelli vicini a centri editoriali e mediali. Qualcuno dei neo-novissimi, dei primipili non assertivi e dei neo-neo-lirici, ovviamente, spicca per coerenza e competenza. Ma in ultima analisi, tutta la gamma dello xilofono poetico (l’immagine trita della tastiera stilistica suona troppo hi-tech), va dall’incomprensibilità del conestabile di Much Ado for Nothing (mai titolo citato fu più congruo) “uomo troppo profondo per lasciarsi capire”, ai baci Perugina (influencer inclusa/o). Una frangia parzialmente nuova si riconosce nella frattura epistemica di un Emilio Villa o per altri versi (è il caso di dirlo) nel gruppo ’93 (rimasto spesso inascoltato, e nato nel contrasto violento), nella poesia a vario titolo militante e nella poesia della scienza (volutamente riecheggio la locuzione “filosofia della scienza”); ma siccome tutta questa frangia, vuoi per i contenuti, vuoi per le forme, vuoi per la performance, ha connotati di novità (chi è periferico, è più libero), appunto per questo in sede pseudo-canonica rimane sostanzialmente inascoltata, al di là degli omaggi esteriori, e di convenienza momentanea. Poi ci sono i selvaggi, ma è un fenomeno più antico di quanto si creda (basta guardare i graffiti di Pompei, o leggere la satira I, 9 di Orazio, o la prima satira di Persio o la satira I,1 di Giovenale, sempre che non ne vogliamo vedere l’antesignano nei frammenti del Margite pseudo-omerico). Certo, c’è anche l’Outsider, il monstrum, che ogni tanto compare dal buio, ad abbrancare qualche compagno del re o qualche fittavolo; talora lo affronta un presunto eroe critico, ma ne esce divorato a sua volta, ed è subito riedizione spicciola del dramma di Beowulf e il drago, che muoiono entrambi, uno di figuraccia da sottovalutazione, l’altro di understatement o di conventio ad excludendum, anche perché i monstra, si sa, hanno un brutto carattere. Il tutto, in senso lato, è un coacervo neo-baconiano di idola specus, idola tribus, idola fori e idola theatri. Io aggiungerei anche, di idola speculi, fra narcisismo e cristalli spezzati -e nel caso di un noto esponente para-leghista e di un noto critico obituario intento a stilare referti di morte e a dire che la poesia annoia (tanto per fare due esempi vieti), di notte dei cristalli, per vitrea fracta et somniorum interpretamenta. Ma sono già stato abbastanza cattivo, o forse non abbastanza. Diciamo in modo più chiaro che: primo, un minimo di aria fresca in prospettiva storica tutto-abbracciante, fuori dalle officine della specializzazione di nicchia letteraria, farebbe focalizzare meglio ciò che tutti già sanno, che il nuovo è inesistente, anche sul piano della forma, nonostante lo ψελλíζειν e le esternazioni di un poeta admodum vinosus in trasferta partenopea dal basso lazio costiero qualche tempo fa; secondo, per conseguenza, il bagno di umiltà e di coscienza renderebbe tutti (in specie gli isterici, gli arrabbiati, le ineducande e gli ineducandi) un po’ meno supponenti, un po’ meno odiosi, un po’ meno fatui. Per il resto, la distinzione è fra pseudo-canone della visibilità (accademica, mediale, internautica: pauci interest) e para-canone, sia visibile sia sommerso. Nessuno se n’abbia a male, ma è oggettivamente così.
Ho vissuto anch’io, come quasi tutt*, momenti di preoccupazione nelle ultime settimane. Dati confusi, cifre non immediatamente comprensibili, esperti o presunti tali che si contraddicevano costantemente. E una paura (anche) irrazionale, per me stesso e per amici, amiche e familiari.
Poi, in un tempo che può essere sembrato breve o lungo rispetto alle condizioni di confinamento – ma in generale abbastanza lungo, anche per i più privilegiati – siamo passati, nella maggior parte dei paesi europei, alla “fase due”. E tutti i governi hanno iniziato a riflettere sui sistemi di tracciabilità dei propri cittadini. Che venga chiamata “Immuni” o in un altro modo, l’applicazione che dovrebbe “proteggerci” genera in molt* di noi una paura di altro tipo. Saremo sempre più controllati/e? La presunta sicurezza corroderà ulteriormente le nostre libertà? Ogni nostro spostamento sarà tracciato, registrato e in seguito, cosa che davvero mi angoscia, giudicato?
Mi rendo conto che potrei star esagerando. L’applicazione potrebbe essere non obbligatoria e al tempo stesso utile, se non necessaria. Oppure, più semplicemente, i dati potrebbero rimanere anonimi. Ma ne abbiamo davvero la certezza? D’altronde il binomio “bisogno di sicurezza/erosione delle libertà” è già attivo da tempo, non è stata certo la pandemia a provocarlo. Le leggi anti-terrorismo, i nuovi documenti di identificazione, le nuove disposizioni per i viaggi aerei dopo l’undici settembre, i messaggi commerciali “a tema” che riceviamo nelle nostre caselle di posta, persino i consigli di lettura vanno in questo senso. Non so, non posso sapere francamente che tipo di futuro avremo – a tale proposito una riflessione di Sergio Benvenuto (http://www.leparoleelecose.it/?p=38213), interessante anche se non pienamente condivisibile, mostra quanto poco abbiano inciso nel passato epidemie ancora più tragiche. So però che alcune delle ipotesi che possiamo fare sul nostro futuro sono già state immaginate. Forse conviene partire da lì per capire che mondo vogliamo – o non vogliamo – avere.
Mi è capitato di lavorare negli ultimi mesi, per un volume scritto con Simone Brioni, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana (Mimesis 2020), sul romanzo di Giorgio Scerbanenco Il cavallo venduto. Si tratta di un’opera particolare nella bibliografia dello scrittore. Il libro viene pubblicato postumo, nel 1963, ma è lo stesso Scerbanenco, come si legge nella biografia pubblicata dalla figlia Cecilia, a considerarlo il suo romanzo prediletto. È un romanzo post-apocalittico, che ha scritto probabilmente nell’immediato dopoguerra, una volta tornato a Milano dall’esilio in Svizzera. Scerbanenco non era nuovo ad incursioni nel genere fantascientifico: per diversi anni aveva frequentato Giorgio Monicelli, fondatore della collana “Urania” da dove per primo coniò il termine “fantascienza”, e aveva già scritto Il paese senza cielo, commissionatogli da Zavattini e pensato per un pubblico giovanile. Ritornerà poi al genere con il racconto lungo L’anaconda, che racconta, in piena Guerra fredda, la contrapposizione fra due blocchi contrapposti, Okana e Ravandia, attraverso un processo che, a guerra finita, mostra i danni ambientali, sociali e di genere provocati dal conflitto.
In Il cavallo venduto Scerbanenco descrive uno scenario post-apocalittico che sembra attraversare l’intera Europa. Il mondo che conosciamo, dopo la sua distruzione, è tornato ad una fase semi-primitiva: sparuti gruppi di uomini e donne si muovono per l’Europa devastata, alla ricerca di cibo e di un posto dove essere al sicuro. L’unico luogo al mondo in cui la civiltà sembra essersi ripresa è Milano: migliaia di profughi si accalcano alle porte della città, sperando di poter entrare.
Il mondo che descrive Scerbanenco è estremamente violento e feroce, per molti versi ricorda il contesto coloniale, italiano ma non solo. Uno dei personaggi principali dichiara di venire dalla Tripolitania – l’autore sceglie volutamente l’appellazione coloniale – e racconta che in Africa si assiste ora alla stessa violenza che è in atto in Europa: i bianchi europei vengono uccisi, discriminati o perseguitati, proprio come accadeva, a parti invertite, durante il colonialismo. L’uomo in questione tra l’altro afferma di provenire da un generico “meridione”, portando il discorso su un piano estremamente attuale rispetto all’anno in cui il romanzo uscì, in pieno boom economico e durante le migrazioni interne dal sud Italia verso il nord. I piccoli insediamenti umani ancora rimasti – sorta di micro-comunità disseminate in uno spazio ampio ma in perenne movimento, tutte protese verso Milano – vengono chiamati proprio “colonie”, come se fossero avamposti per una conquista futura e le attività commerciali incessanti, per quanto paradossali, riguardano la ricerca di fucili e soprattutto di caricatori, che costituiscono la principale tipologia di scambio economico della nuova umanità.
Di fronte a tutto questo caos, Milano rappresenta apparentemente la razionalità e la speranza che dall’ordine della città la civiltà umana possa rinascere. È protetta da mura molto spesse e l’entrata è estremamente regolamentata: all’ingresso vi sono i Guardiani, che controllano dettagliatamente le persone che vogliono entrare. Se si entra, diventa quasi impossibile uscire: alle persone vengono confiscati i beni, viene tatuato un numero, assegnato un lavoro che devono accettare per forza. La città è descritta quasi esclusivamente dall’esterno: di Milano quindi si parla, nel romanzo, ma a Milano non si entra. Dal punto di vista del senso del testo, non siamo molto distanti dallo Scerbanenco giallista di I milanesi ammazzano al sabato: una città ben organizzata, all’apparenza pulita e funzionante, che però nasconde orribili segreti.
L’azione si svolge per lo più nelle sterminate tendopoli alle porte della città, fra le migliaia di persone che attendono di entrare. L’unico che ha conosciuto Milano è una sorta di bardo, un uomo che ha vissuto nella città e che, eccezionalmente, è riuscito ad uscirne. La sua conoscenza, però, è continuamente svilita: parla a persone che non hanno nessuna voglia di ascoltarlo e che hanno già preso una decisione. Racconta loro l’eco della radio che incessantemente risuona per le strade di Milano, simbolo di una propaganda che ricorda molto da vicino le trasmissioni dell’Eiar durante il fascismo. Ma soprattutto, elemento fondamentale per uno scrittore come Scerbanenco, il bardo si sofferma sulle imposizioni linguistiche a cui sono sottoposti gli abitanti di Milano: dei militari lo hanno costretto a pronunciare determinate parole nel modo in cui volevano loro, pena la morte. La normalizzazione linguistica sembra essere un’ossessione nella città: il progetto è quello di creare una lingua omologata, più povera, facilmente controllabile e manipolabile. Una versione lombarda della neo-lingua di George Orwell. Scerbanenco aveva già scritto sui rischi del controllo linguistico da parte dei governi: nel 1943, durante la sua collaborazione con il “Corriere della sera”, aveva proposto al giornale un breve testo, Lingua morta. L’articolo non venne pubblicato, ma oggi rimane un segno tangibile delle sue idee sulla lingua. È una sorta di racconto allegorico, in cui il narratore e il guardiano attraversano un cimitero, nell’autunno del 1943, girovagando per lapidi che testimoniano la morte della lingua del regime, fra sepolcri di improbabili italianismi, epitaffi di frasi fatte e pessimi latinismi, mausolei del Voi e pietre tombali del lessico fascista.
Il bardo di Il cavallo venduto mette in guardia dall’omologazione linguistica, ma la sua voce rimane inascoltata. Appare sempre più come Cassandra: all’apparenza folle, in realtà savio. A nulla servono le sue parole, che spiegano bene il titolo del romanzo e il senso del libro: “Andare a Milano è come vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto”. Già, perché l’unica civiltà in procinto di rigenerarsi, è in realtà proprio quella che ha causato la distruzione del pianeta. Ricostruire Milano in questo modo, quindi, significa ricostruire la società che ha creato le premesse per la propria devastazione.
Quando in questi giorni parliamo o sentiamo parlare di “ritorno alla normalità” o di “nuova normalità”, pensiamoci con calma. Qual è la normalità che abbiamo lasciato? Quali aspetti ci mancano e di quali invece possiamo/vogliamo fare a meno? Quali elementi nuovi vorremmo? Il cavallo venduto di Scerbanenco può aiutarci a riflettere: non dobbiamo “per forza” tornare al mondo di prima.