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Barbari in Campidoglio: cronaca di una telecronaca

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di Andrea Inglese

 

Proprio un afroamericano ci aveva insegnato che non avremmo visto la rivoluzione in TV (Gil Scott Heron), ma un colpo di stato magari sì. Se poi il colpo di stato riguarda niente popò di meno che gli Stati Uniti d’America, che di colpi di stato se ne intendono parecchio, soprattutto nel caso in cui avvengano fuori dalle loro frontiere, allora vale proprio la pena di restare incollati davanti alla TV come sono rimasto io la sera del 6 gennaio. Non vorrei sembrare cinico, anche perché sono morte ben cinque persone durante l’assalto dei trumpisti al Campidoglio.

L’oscuro magnetismo delle cose

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di Stefano Lazzarin

Ezio Puglia (1982) fa parte di quella che vorrei chiamare la “scuola bolognese” del fantastico. Perché è un dato di fatto che, da un quarto di secolo a questa parte, i migliori libri sulla letteratura fantastica – e sul fantastico italiano – pubblicati in Italia siano venuti tutti da studiosi che o si sono formati a Bologna, o vi hanno lavorato per lunghi periodi, o entrambe le cose. L’elenco non è lungo, e vale la pena di compilarlo: penso ai nomi di Remo Ceserani (Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996), Vittorio Roda (I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1996; Studi sul fantastico, Bologna, CLUEB, 2009), Ferdinando Amigoni (Fantasmi nel Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2004), Angelo M. Mangini (Letteratura come anamorfosi. Teoria e prassi del fantastico nell’Italia del primo Novecento, Bologna, Bononia University Press, 2007), Luigi Weber (curatore insieme a Mangini dell’opera collettiva Il visionario, il fantastico, il meraviglioso tra Otto e Novecento, Ravenna, Allori, 2004 e poi 2006). Ho citato libri che risplendono di fulgida luce nel campo degli studi sul fantastico; alla lista viene ora ad aggiungersi Il lato oscuro delle cose. Archeologia del fantastico e dei suoi oggetti di Puglia (postfazione di Angelo M. Mangini, Modena, Mucchi, 2020, pp. 320), degno erede di quella che può essere descritta, per l’appunto, come una tradizione di studi consolidata e caratterizzata da tratti comuni – uno fra tutti, il rigore storico, teorico, metodologico.

Ma c’è un altro filone critico in cui possiamo inquadrare Puglia, e che va menzionato prima di oltrepassare la soglia del suo libro. Alludo a quei teorici “esclusivi” che, nel dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa Introduction à la littérature fantastique di Tzvetan Todorov (Paris, Éditions du Seuil, 1970), si oppongono nettamente ai teorici “inclusivi”: i primi lavorano su un sistema complesso di categorie generico-modali, come aveva fatto Todorov (che al “fantastico puro” affiancava il “meraviglioso”, lo “strano”, il “fantastico-meraviglioso” e il “fantastico-strano”); i secondi ampliano la definizione di fantastico fino a includervi il fiabesco, la fantascienza, il fantasy, il gotico, l’horror, e alle cinque categorie di Todorov preferiscono una dicotomia vastissima e un po’ annacquata, quella tra “realistico” e “fantastico” (inteso come “non-realistico”, “anti-mimetico”, e simili). Gli “esclusivi” concepiscono il fantastico come un genere o un modo letterario, dalle radici storiche ben precise, e ne fondano la definizione su criteri tematico-formali, cercando di costruire intorno a esso una tassonomia dei modi letterari confinanti; gli “inclusivi” pensano invece al fantastico come a un sentimento, un impulso, un’attività della mente umana: perciò la loro definizione, basata su un criterio essenzialmente tematico, ha di solito carattere metastorico, e intuitivo o funzionale (viene introdotta soltanto per comodità di linguaggio). Ora in questo panorama Puglia si colloca decisamente dalla parte degli “esclusivi”, conferendo al termine “fantastico” un preciso significato storico-letterario e rimanendo in tal modo fedele alla critica intesa come esercizio razionale di comprensione della letteratura (e della realtà): cioè a quel compito che la critica dovrebbe svolgere senza eccezione.

Ma pur inserendosi nella tradizione teorica “esclusiva”, e risultando perciò familiare a chi abbia letto – poniamo – Roger Caillois e Tzvetan Todorov, Remo Ceserani e Lucio Lugnani, il libro di Puglia è al tempo stesso abbastanza sconcertante, perché quella tradizione ridiscute in profondità rivedendone molte acquisizioni fondamentali. Puglia conferisce un significato originale a una serie di rilievi, connessioni ed elementi che ormai credevamo (a torto?) fossero assodati, perfino scontati; di questi elementi muta radicalmente il senso e a volte lo capovolge. Di seguito, esaminerò alcuni esempi di quanto vado affermando.

Forse la prima cosa che si nota inoltrandosi nella lettura del Lato oscuro delle cose è la schietta prevalenza, nell’argomentazione di Puglia, delle idee e delle poetiche degli scrittori sulle teorie dei critici. Non si tratta ovviamente di un ghiribizzo del caso: il fantastico è un genere costitutivamente metaletterario, come è stato sottolineato da molti teorici (basterà ricordare R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 70: “il fantastico, fra gli altri modi e generi letterari, è uno dei più chiaramente autocoscienti”); ciò significa che gli scrittori fantastici si dedicano volentieri a giustificare le proprie scelte, scrivendo prefazioni, introduzioni, note, appunti, veri e propri saggi sul fantastico; e questo (gigantesco) corpus di testi che discutono il significato della categoria fa parte della storia del fantastico proprio come i capolavori di Hoffmann, Poe, Maupassant e Henry James: come negare che il 1830 di Du fantastique en littérature di Nodier o il 1888 di A Chapter on Dreams di Stevenson – tanto per ricordare i primi due saggi che mi vengono in mente – segnino due date decisive nella storia del genere? Se molti studiosi hanno notato l’autocoscienza del fantastico, Puglia le conferisce però una rilevanza inedita, verificandola meticolosamente sui testi con un lavoro di scavo che non credo altri abbia compiuto prima di lui; le conferisce, inoltre, un senso nuovo: studiando gli oggetti del fantastico e il loro “lato oscuro”, infatti, Puglia scopre in essi un’ulteriore manifestazione dell’autoriflessività fantastica. Come osserva l’autore della postfazione al volume, “si può dire che, nell’universo finzionale, il ‘rovescio delle cose’ svolga per il personaggio una funzione molto simile a quella che il testo fantastico intende svolgere nel mondo reale per il lettore” (A.M. Mangini, Postfazione, in E. Puglia, Il lato oscuro delle cose, cit., p. 286): detto altrimenti, è possibile riconoscere negli oggetti auratici e spettrali del fantastico altrettante mises en abyme di questo genere letterario.

La scelta di Puglia di “ascoltare il più possibile gli stessi autori attraverso le cui opere e riflessioni il fantastico, come autonomo genere narrativo, ha preso forma, oltre che alcuni critici loro contemporanei” (p. 10), la predilezione cioè per il “farsi” progressivo della letteratura fantastica, per il suo graduale costituirsi in genere letterario a mano a mano che le opere vengono pubblicate, i giudizi sulle opere formulati, le discussioni e le polemiche accese, ha un’altra conseguenza importante nel libro. Quello di Puglia è un fantastico che non assomiglia più al simulacro teorico, magari geometrico e di cristallina limpidezza, ma fin troppo astratto, dei teorici strutturalisti (Todorov su tutti, ma anche il suo più accanito avversario, il belga Jacques Finné, nonché, in ambito angloamericano, Christine Brooke-Rose: cfr. rispettivamente J. Finné, La littérature fantastique. Essai sur l’organisation surnaturelle, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1980, e C. Brooke-Rose, A Rhetoric of the Unreal. Studies in Narrative and Structure, Especially of the Fantastic, Cambridge, Cambridge University Press, 1981); bensì è un fantastico immerso nella concretezza vivace delle battaglie letterarie, delle prefazioni e dei racconti tradotti e travisati, delle dichiarazioni d’autore e degli scambi intellettuali, anche a distanza d’anni o di generazioni. Nel Lato oscuro delle cose non abbiamo più a che fare con un genere teorico, secondo l’impostazione prevalente nella riflessione sul fantastico dell’ultimo mezzo secolo a partire dalla già citata, e fondativa, Introduction à la littérature fantastique di Todorov; bensì con un genere risolutamente storico: di cui Puglia ricostruisce la vicenda complessa e possiamo ben dire avventurosa con eccezionale sensibilità per le sue connessioni con la storia, la società, la cultura, l’immaginario, il linguaggio e le idee delle varie epoche e aree geografiche. In questo lo aiuta la felice impostazione comparatistica del libro: perché l’autore è un comparatista autentico, non – come ce ne sono tanti oggi – soltanto per modo di dire.

A sua volta, l’immersione nella concretezza del genere storico produce riverberi molteplici: viene da qui, per esempio, un nuovo modo di concepire il percorso storico del genere stesso. Puglia riformula il significato di due categorie introdotte nel dibattito da Remo Ceserani, che possedevano peraltro un’indubbia utilità ermeneutica: il “modo fantastico” e la “fantasticizzazione”. Quella del “modo fantastico” è una piccola rivoluzione che Ceserani lancia, nel campo degli studi sul fantastico, con il suo libro del 1996 (cfr. R. Ceserani, Il fantastico, cit.), ma già in un importante articolo uscito a metà anni Ottanta (cfr. R. Ceserani, Le radici storiche di un modo narrativo, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 7-36). Per ovviare agli eccessi teorici dei suoi predecessori – soprattutto Todorov, che aveva ristretto fino all’inverosimile il canone del “fantastico puro”: “[s]i un conte fantastique est un récit où l’hésitation entre explication rationnelle et explication surnaturelle se maintient en dernière page”, nota spiritosamente il già menzionato Finné, “la littérature universelle n’en possède pas assez pour former un genre” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 31) – Ceserani propone di considerare il fantastico non come un genere letterario, bensì come un modo: cioè una categoria più ampia e flessibile, dai confini meno rigidi di quelli del genere perché meno codificata del genere. Il fantastico avrebbe insomma il medesimo statuto del comico, del tragico, del patetico o dell’elegiaco; il modo assumerebbe poi varie forme di genere: così, per esempio, potremmo parlare di romanzo fantastico, racconto fantastico, ballata fantastica, e perfino di sinfonia fantastica (una ne scrisse il musicista francese Hector Berlioz, la Symphonie fantastique del 1830); in tutti questi casi il nome indica la determinazione di genere, l’aggettivo quella modale. Nel Lato oscuro delle cose Puglia attribuisce alla categoria ceseraniana un senso nuovo: il modo è la posterità del genere. Dopo essere “stato in auge per poco più di mezzo secolo”, il fantastico avrebbe cominciato “a decomporsi, a sgretolarsi”: nel Novecento si sarebbe diffuso “verso la periferia di un sistema letterario dominato dai modelli anglo-francesi”, invadendo tutte le letterature mondiali e contemporaneamente disseminandosi, sotto forma di “frammenti sparsi”, in tutto il sistema letterario (p. 227). Questo fenomeno, che Puglia definisce “trascolorare da genere a modo”, ci consente di continuare a “parlare di un fantastico posteriore alla crisi di fine Ottocento: il fantastico novecentesco va messo in relazione con il disgregamento e la disseminazione del genere storico” (p. 228). Se dunque Ceserani insisteva sull’origine tardo-settecentesca della letteratura fantastica, sottolineando come “[e]lementi e atteggiamenti del modo fantastico, da quando esso è stato messo a disposizione della comunicazione letteraria, si ritrovano con grande facilità in opere di impianto mimetico-realistico, romanzesco, patetico-sentimentale, fiabesco, comico-carnevalesco, e altro ancora” (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 11), per Puglia il fantastico nasce come genere e soltanto quando “il genere si esaurisce e si trasforma in altro da sé” (p. 228) assume le sembianze riconoscibili di un modo letterario. Questo spostamento in avanti della periodizzazione del modo – dalla svolta storica di fine Settecento-inizio Ottocento, su cui insisteva Ceserani, alla frattura anch’essa epocale che separa l’Otto dal Novecento – induce Puglia a collegare strettamente la nozione di “modo” al fenomeno della “fantasticizzazione”. Ceserani aveva coniato quest’ultima categoria ispirandosi alla “romanzizzazione” indagata da Bachtin: nell’Ottocento il fantastico si troverebbe, rispetto agli altri generi e modi letterari, in una posizione egemonica, simile al “dominio del romanzo su tutte le altre forme letterarie nel mondo moderno, a partire dal Settecento”, di cui parla il grande studioso russo (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 101); il successo prodigioso che arride al récit fantastique suscita un fenomeno di ibridazione nei generi non-fantastici, per cui opere appartenenti, ad esempio, al modo mimetico-realistico assumono elementi – temi, forme, strutture – che sono tipici della letteratura fantastica. Puglia riprende tale e quale questa analisi, ma di nuovo, la sposta a valle, dopo la fine del genere storico e la disseminazione o lo sgretolamento di cui si è detto in precedenza: “in un secolo che non crede agli spettri, gli spettri non si dissolvono ma si insinuano in contesti inaspettati manifestando la loro presenza nel linguaggio e nel pensiero, la loro capacità […] di coagulare e manifestare quel lato oscuro delle cose nel quale l’io coglie la rivelazione, a cui il nostro tempo ha restituito straordinaria e bruciante attualità, della propria impotenza e vulnerabilità di fronte al mondo che vorrebbe dominare, della finale inconsistenza di ogni pretesa sovranità del soggetto sugli oggetti che lo circondano e finiscono per sopraffarlo” (p. 289). Così, la “fantasticizzazione” di Ceserani diventa la chiave di volta di una nuova interpretazione del rapporto fra tradizione ottocentesca e novecentesca: una delle cruces, forse quella maggiormente problematica, della discussione teorica intorno alla letteratura fantastica.

La volontà di rimanere solidamente ancorato alla storia del fantastico otto-novecentesco induce inoltre Puglia a ridiscutere il canone del genere, al quale apporta leggere ma significative modifiche: nel campo della letteratura italiana, ad esempio, Papini si guadagna un posto di assoluto rilievo, che non molti studiosi erano stati finora disposti a riconoscergli (cfr. pp. 229-233). Una delle modifiche di cui sopra, del resto, non è tanto leggera, anzi; la torsione impressa da Puglia alle categorie precedentemente ammesse fa vacillare sul suo piedestallo nientemeno che l’autore considerato da generazioni di colleghi scrittori e poi di studiosi come il fondatore, o per lo meno il primo indiscusso maestro, del fantastico ottocentesco: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Per Puglia, Hoffmann non è fantastico: un’asserzione sorprendente, che merita qualche parola di spiegazione. Cominciamo col sottolineare che questa opinione di Puglia ne riecheggia un’altra, famosa e controversa: quella di Todorov secondo cui Edgar Allan Poe, alter ego di Hoffmann e inquilino anch’egli del cuore bifronte del canone ottocentesco, non sarebbe, in realtà, un autore fantastico. “D’une manière générale”, aveva rilevato il teorico franco-bulgaro, “on ne trouve pas dans l’œuvre de Poe de contes fantastiques, au sens strict, à l’exception peut-être des Souvenirs de M. Bedloe et du Chat noir. Ses nouvelles relèvent presque toutes de l’étrange, et quelques-unes, du merveilleux” (Tz. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 54). In nome della storia, Puglia capovolge intenzionalmente – e con piena ragione – l’opinione di Todorov: “Poe, un autore spinoso per tutti coloro che hanno cercato di elaborare una definizione teorica del fantastico […], al genere storico può essere aggregato senza problemi” (pp. 10-11). Ma poi, sempre in nome della storia (e però con un ragionamento che il recensore non si sente di approvare), lo stesso Puglia mette al bando, come si è detto, il grande predecessore dell’americano: “A rigore, la letteratura di Hoffmann, compresi quei testi che di solito vengono riconosciuti come l’incarnazione più pura del fantastico, non può essere inclusa all’interno del genere storico. La ragione è banale: il fantastico non esisteva ancora al tempo in cui Hoffmann scriveva quelle opere che erano destinate a diventare prototipi di una nuova tipologia narrativa” (p. 10). È, mi sembra, un bel paradosso: a forza di storicizzare, Puglia finisce con il raggiungere gli esiti aporetici di chi invece, della storia letteraria, faceva “cavalièrement litière”, almeno se sottoscriviamo le accuse che a Todorov rivolge il solito Finné (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 34). Laddove Todorov, cedendo a “cet enchantement que procure la radicalité” (Tz. Todorov, Devoirs et délices. Une vie de passeur, entretiens avec C. Portevin, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 112), aveva decretato l’espulsione di Poe dal canone, il giustissimo scrupolo di Puglia per i contesti storici della letteratura spinge lo studioso italiano a staccare dal muro, nella galleria di ritratti del fantastico europeo, quello che riproduce le fattezze di Hoffmann: seguendo percorsi diversi e anzi opposti, lo strutturalista e lo storicista finiscono per convergere nell’ostracismo ai danni di uno dei due maestri unanimemente riconosciuti del secolo d’oro del fantastico. Non sarebbe più sensato – questo il parere di chi scrive – lasciare entrambi al loro posto, visto che non abbiamo argomenti davvero decisivi per rettificare il giudizio di un paio di secoli di letteratura e di critica? A chiudere il cerchio del paradosso, annoto qui che il più volte citato Finné – acerrimo fustigatore, come si è visto, di Todorov, ma da una postazione di fatto interna allo strutturalismo – aveva anticipato l’opinione di Puglia su Hoffmann, definendo quest’ultimo “le moins fantastique de tous les conteurs allemands” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 185): in altri termini, il medesimo amor di storia persuade Puglia a dissentire su Poe dallo strutturalista Todorov e, viceversa, a consentire (credo inconsapevolmente) su Hoffmann con lo strutturalista Finné; i casi strani della teoria del fantastico!

Sarebbe poco opportuno chiudere questo resoconto senza accennare a un altro aspetto fondamentale e innovatore del libro di Puglia: l’attenzione agli oggetti che lo pervade in ogni pagina. Finora si sapeva, sì, che l’oggettualità del fantastico era importantissima; ma lo si sapeva quasi esclusivamente grazie al saggio di Lucio Lugnani sugli oggetti mediatori e al volume di Francesco Orlando sugli oggetti desueti: ovvero due ricerche di grande valore e due topoi assolutamente decisivi, ma per l’appunto soltanto due (cfr. rispettivamente L. Lugnani, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, cit., pp. 177-288, e F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, seconda edizione riveduta e ampliata presso lo stesso editore nel 1994). Puglia invece – pur rifuggendo dalla casistica, e avvisando il lettore che nel suo libro non si troverà nessun “elenco esaustivo delle cose auratiche e spettrali del fantastico ottocentesco” (p. 12) – ci fa discernere e apprezzare i mille volti, spesso affascinanti, delle cose descritte nei racconti e nei romanzi fantastici: oggetti inquietanti, assurdi, erotici, da collezione; feticci, reliquie, indizi, rifiuti; oggetti surreali, alieni, spettrali e auratici (secondo la bipartizione principale, abbozzata alle pp. 11-12); e via di seguito. E grazie al punto di osservazione particolare – ed estremamente fecondo – costituito dalla rappresentazione letteraria degli oggetti, getta nuova luce su molti capolavori del fantastico otto-novecentesco che ci illudevamo di conoscere a menadito.

Si sarà notato, per inciso e anche per concludere, che l’autore del Lato oscuro delle cose, parlando deliberatamente di teoria il meno possibile e soltanto quando non si poteva evitare di farlo (cfr. p. 9), giunge ugualmente a ridiscutere quasi tutti gli snodi fondamentali, e i più problematici, della teoria contemporanea del fantastico. Anche questo, forse, è un paradosso: ma ben vengano certi paradossi, che sono sintomo di vitalità.

Gli USA sempre progrediscono

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di Antonio Sparzani
questo è solo un invito a rileggere questo, ascoltando la relativa ballata di Giovanna Marini, e quest’altro e a riflettere che quello che è successo ieri a Washington è un bel progresso: il terrorismo rivolto verso molti altri stati adesso viene rivolto verso se stessi. La “culla della democrazia” è diventata la bara della democrazia. O dovremo dire “sic transit gloria mundi”?

Overbooking: Federico Nobili

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Nota

di Marco Rovelli

 

Enigma del Metodo Erodoto è un libro de-genere, non è poesia, non è un romanzo, non è filosofia, non è un saggio, ma tutte queste cose insieme, al limite (ma al limite, appunto). È prosa, questo si può dire, e, forse, si può anche dire che sia anche autobiografia, ma nei termini cartografici che diremo. Anche l’autore, dunque, è un autore de-genere: Federico Nobili depone il suo nome e si fa Fred Biondina.

Metodo Erodoto: un’indagine geografica, senza inizio né fine, una catabasi che precipita in un catapumfete (che è l’ultima parola del libro), ma l’ultima volta non arriva mai, la fine é ricorsiva e non fa che tornare, a un inizio che non c’è, é una fine che non finisce, fallisce semmai, precipita in un precipizio senza fine e resta a mezz’aria, come un will coyote che diventa munchausen, (ac)cade come sempre é (ac)caduto, resta lì, nel tempo che resta, che é quello dove non c’è tempo, ma spazio, lo spazio da indagare con una catabasi geografica.

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

[parte 2 di 4 – leggi la parte 1]

  1. ZEKE THE FREAK

Quando nell’estate del 1979 il mitico Bobby Knight, dalla cui corte Bird era fuggito qualche anno prima, si presenta a casa Thomas, mamma Mary non sta più nella pelle. Da settimane riceve decine di lettere anonime che accusano Knight di picchiare i suoi giocatori. Accuse verosimili, che venti anni dopo indurranno il rettore dell’Università dell’Indiana a bandire dal campus uno degli allenatori più vincenti della storia della pallacanestro universitaria. Black Pride? Orgoglio nero? Mettetevi nei panni di mamma Mary. L’unico uomo, Fred Hampton, che le aveva dato una speranza di cambiamento, era stato ucciso dal governo. I figli più grandi sono ormai proprietà delle gang; chi spaccia, chi si fa di eroina, chi sta in carcere. Quel bianco, Bobby Knight, rappresenta la sola possibilità di salvezza per il più piccolo dei suoi figli. L’unica clausola che mamma Mary pone è che Isiah debba avere una borsa per studiare legge. Se dovesse fallire nello sport, con una laurea in legge potrà aiutare almeno la sua gente. È una giornata drammatica. Lord Henry, Gregory e Larry, i maggiori dei sette maschi Thomas, circondano Knight appena mette piede in casa, lo insultano. Ci vuole tutto l’amore di mamma Mary per evitare che se ne vada immediatamente. Ed anche la consapevolezza di Knight che un talento come quello di Isiah non si butta via per un paio di offese provenienti dalla bocca di tre sbandati. Seguono due lunghi anni in cui il controverso coach si vendica del trattamento subito con parolacce, punizioni esemplari e minacce, ma ciò che non può fare è togliere Isiah dal campetto da basket. Il ragazzino sopporta tutto, lavora duro, più di chiunque altro. Da matricola è eletto giocatore dell’anno, l’anno successivo vince il torneo nazionale universitario ed il trofeo come miglior giocatore della competizione. Zeke, come lo chiamano i tifosi degli Hoosiers – così si definiscono i giocatori di basket dell’Indiana University -, ispirati dalla famosa canzone “Zeke The Freak” di Isaac Hayes, è pronto per la NBA. La stagione successiva viene selezionato dai Detroit Pistons e diventa a tutti gli effetti un giocatore professionista.

Non tutti sono convinti delle potenzialità del giovane playmaker. È alto solo 185 cm, la prestanza fisica non è certo la sua migliore caratteristica, chissà se l’abilità palla in mano e la velocità possano bastare a farlo sopravvivere in mezzo a questi giganteschi energumeni di due metri e passa! Basta una sola partita per sfatare ogni dubbio. Il 30 ottobre del 1981, data comunemente celebrata negli Stati Uniti come “the Devil’s Night”, la notte del diavolo, un giovanissimo demone con un sorriso da chierichetto fa il suo esordio nel basket professionistico: 31 punti ed 11 assist marcano la seconda prestazione di sempre per un debuttante.

Fin da quella notte del diavolo, è chiaro che Thomas non è Magic e Bird. Prima di tutto, i Detroit Pistons non sono i Lakers o i Celtics, le due franchigie più celebrate della lega: non hanno mai vinto nulla, vengono da un decennio catastrofico con una media di cambio allenatore ogni sei mesi. Magic e Bird sono inoltre speculari: entrambi oltre i due metri, sono i prototipi dei cestisti totali, capaci di giocare in ogni posizione. Al contrario, Thomas è un regista puro, un playmaker, un maestro nell’orchestrare il gioco della propria squadra, ma ha bisogno di compagni sotto canestro in grado di raccogliere rimbalzi e finalizzare i suoi brillanti passaggi. I Lakers, dalla loro, hanno, oltre a Magic, all stars quali Kareem Abdul Jabbar, Bob McAdoo – che qualche anno dopo approderà in Italia alla Tracer Milano -, Michael Cooper, James Worthy; i Celtics invece, oltre a Bird, esibiscono Danny Ainge, Kevin McHale, Robert Parish, Bill Walton, tutti giocatori – bianchi, ad eccezione di Parish – diventati leggendari negli anni a venire. Ad accogliere Isiah, a Detroit, c’è solo un anonimo bianco con la pancetta di nome Bill Laimbeer, più famoso per le risse in campo che per le qualità sportive. Bill ed Isiah diventano inseparabili. Mentre il primo forgia quel gioco aggressivo e cattivo che diventerà il marchio di fabbrica della squadra, il secondo si prende beffa degli avversari con una velocità d’esecuzione incredibile ed un ritmo forsennato: è l’embrione di quella squadra passata alla storia con l’etichetta di Bad Boys. Ma ci vorrà ancora qualche anno, e l’innesto di qualche altro talento, prima che la sola ombra di questi cattivi ragazzi faccia tremare gli avversari.

Isiah, le cui abilità ora sono fuori dubbio dopo avere trascinato la squadra, nella prima stagione, ad un totale di vittorie maggiore della somma delle due annate precedenti, è legato, sin dai tempi del college, da una profonda amicizia con Magic Johnson. Insieme con un altro giocatore esplosivo, Mark Aguirre, che si unirà ai Pistons di Thomas sul finire della decade, si fanno chiamare i “ghetto boys”. I tre trascorrono l’estate in tour con i leggendari Jackson Five, ammirano da dietro il palco il perfezionismo di Michael Jackson, si allenano insieme nel campetto che Magic ha fatto costruire nella sua nuova residenza di Bel Air. Tuttavia, pur essendo entrambi afro-americani, Magic è molto diverso da Isiah. Anche se non si possono definire agiati, i Johnson sono lavoratori impeccabili, non hanno mai fatto mancare il cibo o l’affetto ai propri figli. In più, Magic, sorriso largo, sguardo amabile, una sicurezza incredibile, ha il dono di trasformare tutto ciò che tocca in oro. Partita sei della serie finale 1980. Kareem Abdul Jabbar, allora il giocatore più forte dei Lakers e dell’intera lega – per molti, dell’intera storia del basket – è infortunato, non può giocare. La squadra si appresta a salire sull’aereo che li condurrà a Philadelphia per sfidare i Philadelphia 76ers di Doctor J, Julius Erving, che in quegli anni si contende con Kareem lo scettro del migliore. L’atmosfera è lugubre, è una sconfitta annunciata. La matricola Earvin è l’ultima a salire. Prende il posto di Kareem, lasciato vuoto in segno di reverenza. Si gira verso i compagni che lo fissano increduli dell’arroganza di questo ragazzino, sorriso smagliante: “Hey guys, never fear because Magic is here! – Hey ragazzi, nessuna paura, c’è qui Magic!” Risultato: Magic realizza 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assists; i Lakers vincono la partita ed il titolo, Magic è eletto miglior giocatore delle finali, per la prima ed unica volta assegnato ad una matricola.

Isiah non possiede lo stesso tipo di confidenza. La sua sicurezza è quella dell’acrobata sospeso su un filo tra due grattacieli: non credere di essere in grado di arrivare dall’altra parte significa morire. Certo, è un ragazzino prodigio, che i media descrivono come “innocente, diabolico, sarcastico e fuori di testa”, ma ciò che si porta dentro è la sofferenza e le frustrazioni che ha dovuto ignorare per guadagnarsi il rispetto. Velocità ed acrobazie palla in mano sono sempre stati gli unici ingredienti su cui poter contare per ovviare alla statura minuta ed alle botte degli avversari; perdere significa soccombere in mezzo alla violenza che da sempre lo circonda. Ma proprio per questo, quando approda nella NBA, lui, figlio di una Black Panther, prodotto dei ghetti, che ha conosciuto la fame ed il razzismo della società americana, rompe quell’equilibrio da favola instaurato dalla premiata ditta Magic-Bird. In Isiah Thomas, l’America rivede l’ombra della disparità sociale, della discriminazione istituzionale, dei soprusi della polizia, della segregazione che, 20 anni dopo la lotta per i diritti civili, ancora ghettizza ed affligge la comunità afro-americana. Una diseguaglianza che a Detroit, non sulle colline holliwoodiane che fanno da sfondo al Forum dove giocano i Los Angeles Lakers, non nella bianca e collegiale Boston, conoscono molto bene.

  1. IL PRIVILEGIO BIANCO

Tempo: una lunghissima estate del 1987. Luogo: periferia di Boston. Una donna, bianca, si trova seduta nel proprio studio. È assorta, di fronte una macchina da scrivere. I caratteri si susseguono uno dopo l’altro, l’esposizione è semplice ed efficace, sembra quasi incredibile che nessun bianco ci sia mai arrivato prima. Peggy McIntosh, questo è il nome della donna, è una ricercatrice presso il Wellesley Center for Women e si occupa di discriminazione di genere. Zoomiamo sulla pagina che pende dal rollo della macchina e leggiamo il titolo scritto a lettere maiuscole: “White Privilege: Unpacking the invisible Knapsack”. (Privilegio bianco: disfare il bagaglio invisibile.)

“Nello sforzo di raccogliere materiale di studio sulle donne, ho spesso notato la riluttanza dei maschi ad ammettere di godere di maggiori privilegi, anche quando sono in grado di ammettere che le donne siano spesso svantaggiate. Queste ritrattazioni, che appaiono nella forma di tabù, sono caratteristiche nei discorsi che riguardano i vantaggi che gli uomini ottengono dagli svantaggi delle donne. Lo stesso atteggiamento negazionista è il muro di protezione che evita che i privilegi dei maschi siano riconosciuti, attenuati, oppure, una volta per tutte, cessati. Ragionando su questo non riconosciuto privilegio maschile come fenomeno, ho realizzato che, dal momento che le gerarchie nella nostra società sono interconnesse, potrebbe esserci un fenomeno denominato privilegio bianco che viene similmente negato e protetto. In quanto persona bianca, ho realizzato di essere stata educata a considerare il razzismo come una qualche entità indefinita che pone altri in svantaggio, ma nessuno mi ha insegnato a vedere uno dei suoi aspetti corollari, il privilegio bianco, che pone me stessa in una posizione di vantaggio, di privilegio. Questo stesso atteggiamento negazionista è il muro di protezione che evita che i privilegi dei bianchi siano riconosciuti, attenuati, oppure, una volta per tutte, eliminati.”

La Stampa, 6 agosto 1967: “La rivolta n- di Detroit ha scosso più di ogni altra l’opinione americana, poiché Detroit era una città modello. Il sindaco Cavanagh era stato forse il più coraggioso amministratore d’America: grandi investimenti per la gente degli slum (bassifondi), molte scuole, una polizia moderata. La sua United Automobile Worker, a sua volta, aveva fatto in Detroit più che qualsiasi sindacato della storia americana per distribuire impieghi senza discriminazioni razziali. Detroit – si diceva – è la migliore città del mondo per la gente di colore.” Firmato, Alberto Ronchey, futuro ministro italiano per i beni culturali ed ambientali dal 1992 al 1994.

All’inizio del XX secolo la modesta città di Detroit si trasforma nella capitale mondiale dell’automobile. Qui stabiliscono i propri quartieri generali le “Big Three”: Ford, General Motors e Chryslers. La necessità di operai favorisce un incredibile flusso migratorio, soprattutto di afro-americani in fuga dagli Stati del Sud, dove ancora vige la segregazione razziale. Detroit passa da 285.000 abitanti nel censo del 1900 ad un milione e 600.000 del 1930. All’inizio degli anni Cinquanta, la città è considerata la mecca dell’economia americana. Non per gli afro-americani. Fin dall’inizio del flusso migratorio, la popolazione bianca fa scudo boicottando l’affitto o la vendita di case. Un sistema semplice ed antico: quando un afro-americano si presenta per vedere un appartamento, il prezzo triplica o quadruplica. Se riesce ad avere la casa, allora si comincia tirando i sassi alle finestre, poi si passa ai pestaggi per strada, e, se proprio non basta, gli si brucia la proprietà. A supportare la causa, il facoltoso Ku Klux Klan locale. Nonostante le difficoltà, la comunità afro-americana riesce a stringersi attorno ai quartieri di Black Bottom e Paradise Valley, dove sviluppa una vivace, variegata ed intraprendente vita sociale ed economica. Paradise Valley ospita alcuni dei più famosi night club del Paese; qui si esibiscono regolarmente Billie Holiday, Sam Cooke, Ella Fitzgerald, Duke Ellington e Count Basie. Ma non solo. La prosperità di questo piccolo miracolo afro-americano conta su ospedali, farmacie, studi professionali, scuole, alberghi di lusso famosi in tutto il mondo, come il Gotham Hotel, il primo hotel stellato gestito e dedicato a clientela afro-americana. In una piccola chiesa in fondo ad Hastings Street c’è poi un reverendo con una voce portentosa i cui sermoni, in un misto di recitativo e canto, accusano la discriminazione contro i neri da parte del potente sindacato automobilistico cittadino: si tratta del reverendo Clarence Franklin, e se avete la pazienza di aspettare la fine del sermone – tra quelli oggi raccolti in formato audio presso la Libreria del Congresso Americano -, potrete udire il gospel intonato dalla magnifica e sensuale voce di sua figlia, Aretha Franklin, la futura regina della soul music. Qui intorno, tra i tombini di Black Bottom, si dice che sia nato quel suono a metà tra gospel e pop che conquisterà le discoteche di tutto il mondo grazie ad una etichetta indipendente che ha sede in West Grand Boulevard, la Motown. Creata nel 1959 da un geniale produttore afro-americano, Berry Goddy, l’etichetta in pochi anni produce locali artisti quali Diana Ross, the Supremes, Stevie Wonder, the Temptations, Marvin Gaye, the Marvelettes, e molti altri ancora.

Mother, mother

There’s too many of you crying

Brother, brother, brother

There’s far too many of you dying

You know we’ve got to find a way

To bring some lovin’ here today, eh eh

(Madre, madre

Ci sono troppe di voi che piangono

Fratello, fratello, fratello,

Ci sono troppi di voi che muoiono

Sai che dobbiamo trovare il modo

Per portare un po di amore qui oggi…)

In un certo senso, Alberto Ronchey ha ragione. A vederla da fuori, da bianco, che non ha mai ragionato o fatto caso ai propri privilegi, la città doveva sembrare un’isola felice per gli afro-americani, o per lo meno per una sparuta parte di loro. Ma allora perché Rosa Parks, la leggendaria attivista che, con il suo boicottaggio degli autobus segregazionisti di Montgomery nel 1955, aveva dato il via alla stagione della lotta per i diritti civili, trasferitasi a Detroit nel 1957, descrive la città come l’ultimo avamposto del Sud ultra-razzista?

Alla fine degli anni ‘50, le Big Three sono in crisi: dopo decenni di dominio del settore, registrano per la prima volta una diminuzione di vendite a discapito dell’emergente industria automobilistica europea ed asiatica. Gli amministratori decidono di spostare la produzione nel Sud degli Stati Uniti, in Canada e Messico, di chiudere gli impianti nell’area urbana e di trasferirli in periferia. 150 mila persone perdono il posto di lavoro. Non è certo la popolazione bianca la più colpita: la percentuale di disoccupazione tra gli afro-americani sale al 15.9%, nel resto della popolazione si attesta intorno al 6%. Il sindaco Cavanagh ha, inoltre, un piano preciso per evitare la fuga della popolazione bianca dalla città: la giunta comunale ordina un’ispezione di Black Bottom e Paradise Valley, fa classificare l’area come degradata – “slums”, come li chiama Ronchey, per intenderci -, ed in virtù di un decreto governativo che permette la sostituzione di aree impoverite con progetti autostradali, procede alla demolizione dell’intera zona ed alla sostituzione con aree residenziali con entrate ed uscite preferenziali sull’autostrada che conduce direttamente ai 25 nuovi stabilimenti aperti in periferia. Alla fine del 1964, 2800 sono gli edifici spazzati via nei quartieri di Black Bottom e Paradise Valley. Uno dei primi è il Gotham, che viene chiuso dopo una retata della polizia. Parte restante dell’area viene trasformata nel moderno e facoltoso Lafayette Park Residence. I mutui per i nuovissimi appartamenti vengono assegnati in base alla classificazione del quartiere residenziale di provenienza: la comunità afro-americana, che aveva popolato queste strade fino a qualche giorno prima, viene quindi relegata in palazzine-ghetto, i famosi “projects”, a nord, lungo la 12esima strada.

  1. VIOLENZA AL CONTRARIO

È il 14 febbraio 1965 ed un uomo alto, con lo sguardo stanco, sale sul palco del Ford Auditorium. L’uomo è cresciuto non molto lontano da qui, a Lansing. Suo padre, Earl Little, è stato ucciso dai militanti della Black Legion, un gruppo suprematista bianco, quando aveva solo 6 anni. Quell’esperienza traumatica ha contribuito a renderlo l’uomo che è ora, e che il mondo intero conosce come Malcolm X. Indossa una giacca stropicciata: “Innanzitutto vorrei chiarire di essere molto felice di essere qui, questa sera, a Detroit.” Non si tratta di nostalgia. “Ieri sera mi trovavo in una casa, la mia casa, ad Harlem, New York, quando è stata fatta saltare con dell’esplosivo. Questa roba che indosso è l’unica che ho potuto tirare assieme prima di mettermi in salvo.”

Malcolm è appena tornato dall’Africa e dal Medio Oriente, dove ha conosciuto un mondo diverso da quello in cui è cresciuto: “In Asia, o nei Paesi Arabi, oppure in Africa, se trovate qualcuno che asserisce di essere bianco, tutto ciò che sta facendo è usare un aggettivo per descrivere qualche cosa che è accidentale, una caratteristica casuale; niente altro, è semplicemente bianco. Ma quando vi confrontate con l’uomo bianco qui in America, e vi rinfaccia di essere bianco, egli intende qualche cosa d’altro. Potete sentire il suono della sua voce: quando asserisce di essere bianco, intende dire che è il capo. (…) Ora, la stampa, in risposta alla nostra auto-difesa contro una società ed un governo che ci opprime, ci chiama razzisti e persone con un’attitudine alla “violenza al contrario.” Questo è il modo in cui si prendono gioco di voi. Vi fanno credere che se provate a fermare il Ku Klux Klan dal linciarvi, allora praticate una sorta di “violenza al contrario”. Pensateci bene: ho sentito parecchi di voi spappagallare ciò che l’uomo bianco vi ha detto. Vi ho sentito ripetere, “non voglio essere una sorta di Klux Klan al contrario.” Vedete, l’uomo bianco sta usando uno dei suoi trucchi su di voi. E, nel frattempo, senza che ve ne accorgiate, continua ad indossare la divisa del Ku Klux Klan ed a scorrazzare per la campagna spaventando i neri. Ora, io vi dico, è arrivato il momento per la gente nera di riunirsi ed organizzare quel tipo di azione, quella unità, che è necessaria per strappare il cappuccio bianco da questi individui! Solo così la smetteranno di spaventare la gente nera. Badate, è proprio questo quello che vi sto dicendo ora. Ma quando noi sosteniamo questi concetti, la stampa ci chiama “razzisti al contrario.”

Annotazione storica, questo è l’ultimo discorso pubblico di Malcolm X; 21 proiettili gli perforeranno il petto una settimana dopo, il 21 febbraio 1965, presso l’Audubon Ballroom di Harlem, New York.

La Stampa, 24-25 luglio 1967: “Una rivolta di n- di straordinaria violenza è scoppiata a Detroit (nel Michigan), la quinta città in ordine d’importanza qui negli Stati Uniti, con oltre due milioni di abitanti, di cui il 30% di colore. Incendi, devastazioni, saccheggi e violenze di ogni genere sono continuati fino a questa sera. (…) Poliziotti e soldati hanno arrestato più di milleduecento persone. La lotta più dura è quella contro i cecchini n- appostati sui tetti delle case. (…) Il governatore del Michigan George Romney ha telegrafato al presidente Johnson sollecitando l’invio di truppe federali.”

Annotate, “cecchini n-”, ne sentiremo parlare più avanti.

Non è ancora sorto il sole quando, la domenica mattina del 23 luglio 1967, in un locale sulla 12esima strada, si sta festeggiando il ritorno a casa di due reduci della guerra del Vietnam. La polizia irrompe ed arresta tutti gli 82 afro-americani presenti. Fuori dal locale montano le proteste. Quando i poliziotti cominciano a caricare gli arrestati sulle camionette, comincia a volare di tutto; lattine, sassi, sedie. Dall’altra parte della strada vengono incendiati due cassonetti. Le forze dell’ordine circondano il quartiere, ma alcuni residenti riescono a sfondare il blocco. Le proteste si espandono a macchia d’olio per tutta la città.

Il secondo giorno della rivolta, Isiah McKinnon, uno dei 40 afro-americani tra i 4000 poliziotti in servizio a Detroit, sta tornando a casa dopo 16 ore di pattugliamento per le strade. Ha ancora la divisa addosso. Lo ferma una pattuglia di colleghi bianchi: “Where are you going, n-? Dove stai andando, n-?” gli urla il collega. McKinnon fa vedere il distintivo, pensa ad uno scherzo. L’ufficiale gli punta la pistola in faccia, a denti stretti: “Questa notte morirai, n-!” Sta per premere il grilletto, McKinnon d’istinto si getta in macchina, aziona il motore d’accensione, sgomma via, mentre i “colleghi” gli sparano addosso. Appena arrivato a casa, chiama il proprio superiore, che lo esorta ad andare a letto, di dormirci sopra: nessun provvedimento verrà mai presa contro i responsabili.

Corriere d’Informazione (sussidiario del Corriere della Sera), 28 luglio 1967. “Difficilmente la rivolta si acquieterà con la fine dell’estate. Il “POTERE NERO”, secondo alcuni osservatori, sognerebbe una guerra civile, lunga e disperata, senza esclusione di colpi. I leaders dell’ESTREMISMO N-, che PREDICANO L’ODIO E LA CACCIA AL BIANCO, coverebbero un piano che prevede il crollo dell’economia e delle attività del “potere bianco”, e la creazione di una società di 22 milioni di N-, separata dal resto della nazione americana, anzi in lotta con essa.(…) L’opinione mondiale è profondamente turbata per gli eccessi che sconvolgono l’America e guarda ai giorni ed alle notti dell’ira di Detroit, di Chicago, di Nuova York, con la convinzione che il problema riguarda tutti coloro che si preoccupano per un avvenire ORDINATO e GIUSTO dell’umanità, di CONVIVENZA LEALE fra i popoli e le razze. Addolora che una prova tanto amara divida sanguinosamente una grande nazione come quella americana, che ha un così vivo e concreto sentimento della libertà.”

Nel distretto di Virginia Park, la sera del 25 luglio, alcuni poliziotti e militari sentono degli spari provenire dal vicino hotel Algeri, di proprietà dei due afro-americani Sam Gant e McUrant Pye. L’hotel si trova a due passi dall’allora quartiere della General Motors ed è spesso frequentato dall’esecutivo e dai clienti dell’azienda. I militari credono che si tratti di “CECCHINI N-”; circondano l’hotel, notano delle ombre ad una finestra. All’interno i pochi ospiti rimasti, dieci afro-americani e due donne bianche, rifugiati nell’hotel in attesa della fine delle proteste, stanno ascoltando della musica. Motown music, ovviamente. Larry Reed, 19 anni, e Roderick Davis, 21 anni, sono membri della leggendaria band The Dramatics, che proprio all’Algeri si è esibita qualche sera prima. Fred Temple, 18 anni, fa parte dell’entourage del gruppo.

“I wanna go outside in the rain

It may sound crazy

but I wanna go outside in the rain.

Once the rain starts fallin’

On my face

You won’t see

A single trace”

(Voglio uscire sotto la pioggia

Ti sembrerà stupido

Ma voglio uscire sotto la pioggia.

Quando la pioggia comincerà a cadere,

Sulla mia faccia,

Non vedrai più

Alcuna traccia.)

I militari sparano alla finestra, poi, in coordinamento con la polizia, fanno irruzione nell’albergo. Carl Cooper, 17 anni, è freddato sul colpo. Legittima difesa. Il resto degli occupanti viene radunato al primo piano, messo in fila e preso a calci e pugni, a turno, da ogni militare e poliziotto presente. Alle due donne bianche, Juli Hysell e Karen Malloy, 18 anni, vengono strappati i vestiti di dosso ed apostrofate come “niggers lovers, amanti di n-.” Ai prigionieri maschi viene ordinato di mettersi in ginocchio, un coltello è appoggiato sul pavimento di fronte e vengono indotti ad afferrarlo, così possono essere uccisi per legittima difesa. Non è ben chiaro ciò che avviene poi. Aubrey Pollard, 19 anni, viene portato nella camera A-3 ed ucciso dall’agente Rodney August. Legittima Difesa. Stessa sorte per Fred Temple, ucciso dall’agente Robert Paille. Legittima difesa. I prigionieri rimasti vengono liberati con la promessa che se faranno ritorno verranno freddati con un proiettile in testa. Poi anche gli ufficiali se ne vanno, senza fare alcun rapporto sull’accaduto. I cadaveri vengono scoperti due giorni dopo per caso.

Il 28 luglio la rivolta è sedata: il conto è di 43 morti, di cui 33 afro-americani, 7000 persone arrestate, 1000 edifici bruciati.

[parte 2 di 4 – segue]   Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

La caverna non è una muta

4
India. 2007.

di Mariasole Ariot  

O dovremo obbedire, e cavalcare con te fra gli annegati
Dylan Thomas

 

 
 

Cui Cesar – Preludes – Moderato assai “

 

Al mattino fuoriesce un verme dalla bocca, annodato dalla notte che è di ottone, una tomba annuncia il sangue del mattino, mi sputa nella gola un meccanismo artefatto di parole, quando non sappiamo dirci e il corpo disfa per una comunicazione interna, fondersi con l’altro, diffondersi nell’aria, e i vermi escono, uno a uno, annunciano un giorno malato, le cecità mortali delle grotte e delle gole

 

Il grembo della madre è una caverna

 

Un cordone ombelicale carezza l’animale, e gli animali non portano ginocchia con cui inginocchiarsi, pregano ferite suturate attorno al collo, la dolcezza falsa della polvere di millenni caduti addosso, l’umano con le ghirlande al collo che dimentica i fiumi e i fumi con cui è nato, tornato sempre all’origine del male, masticando un alone sulle teste rapate dei baci, quando siamo accorti e ci preghiamo di non fare, e preghiamo: non urlare l’inverno sotto la sabbia

 

Post in translation: The City Next Door

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Nota dell’autore

Rua Breathnach

The City Next Door esplora una parte di Bruxelles poco rappresentata in letteratura: Molenbeek, quartiere proletario e di immigrati.

Rispecchiando la ricchezza linguistica della città, ognuna delle dieci sezioni del poema è tradotta in una lingua diversa: irlandese, neerlandese, brusseleir (dialetto di Bruxelles), turco, lingala, tedesco, italiano, rumeno, greco e francese. Le traduzioni sono pubblicate a fronte del testo originale.

Questa scelta poliglotta s’intreccia a uno dei temi pricipali del poema: il desiderio di scoprire una città più aperta dietro le barriere che separano persone, comunità e quartieri.

THE CITY NEXT DOOR

I

The city of incredible crumbling façades The shining new city

The same old dilapidated faces

The city that welcomes you into her arms Spurns you and spits you out

The indifferent city

The city that leaves nobody indifferent The city of tenements

Gated communities Bleak prospects Endless opportunities

The grey city where even a patch of grass is hard to find The city of canal boats

Piles of scrap metal, gravel, and sand The whirr of the cement grinder Grinding out cities

 

 

 

I

Cathair na n-aghaidheanna dochreidte is iad ag sceitheadh An chathair nua lonrach seo

Na seanphusanna scriosta céanna

An chathair a deir, ‘Chugam aniar thú!’

A dhiúltaíonn duit is a chaitheann amach as a béal thú

An chathair nach bhfuil éinne ar nós cuma liom ina taobh Cathair na dtionóntán

Na bpobal geataithe Droch-bhail ar chúrsaí

Féidearthachtaí gan áireamh

Cathair liath is an brobh féir ar a sheachaint inti Cathair na mbád canála

Dramh-mhiotal ina charn, gairbhéal, is gaineamh Seabhrán ón meascóir stroighne

agus cathracha á mbrú amach aige

[ irlandais : ROSENSTOCK Gabriel ]

*

IV

The city of parallel universes Coughing heat pipes Encrusted sewer pipes Noises inside the walls

Of life going on all around

The city smudged in a layer of dirt The city covered in a layer of rust The oxidizing city

The oxygen in our blood cells The layers of meaning

The city you can never sum up The city you could never leave The city where you ended up

Where men sit on terraces drinking tea and facing the street The internal city of housewives, semiliterate women Washing and ironing clothes, taking short trips to the shops,

Feeding and changing babies, pottering around blazing kitchens The city beyond one’s horizons

Beyond the reach of any one mind The city composed of minds

The minds trying to impose themselves on the city The vain city, the city that gets too big for its boots The city that risks becoming a caricature

Trapped inside the image of itself This is not that kind of city

The down-to-earth city The down-at-the-heel city

 

This is the city that surprises you constantly

Just when you thought there was nothing else to learn

 

 

IV

Paralel evrenlerin şehri Öksüren ısı borularının

Kabuk tutmuş lağım borularının kenti Duvarlar içindeki sesler

Dört tarafta süregelen hayatın sesi Bir kir tabakasında kirlenmiş şehir Bir pas tabakasıyla kaplanmış kent Oksitleyici şehir

Kan hücrelerimizdeki oksijen Anlamın katmanları işte

Asla özetleyemeyeceğin kent

Asla terk edemediğin Nihayete erdiğin şehir

Adamların teraslarda çay içerek oturduğu ve caddeye baktıkları

İç şehri ev hanımlarının, yarı eğitimli kadınların

Çamaşır yıkayan ve ütüleyen, dükkanlara çıkan kısa gezintiye Bebekleri doyurup altını değiştiren, uğraşan alevli mutfaklarda Ufuklarının ötesindeki kent

Her aklın uzağındaki Zihinlerden oluşan şehir

Kendilerini kente kabul ettirmeye çalışan zihinlerden Nafile şehir, kendini bir şey sanan şehir

Bir karikatüre dönüşme tehlikesine düşen şehir Kendi görüntüsünde kapana kısılan

 

Öyle bir şehir değildir ya bu Gerçekçi kent

Pejmürde şehir

Tam da başka öğrenecek bir şey yok diye düşündüğünde Bu şehirdir ikide bir seni şaşırtan

 

[ turc : YALÇINKAYA Ahmet ]

*

VII

The city outside the window:

Slices of watermelon on display in a crate on the pavement. First melon of the season. A group of men huddled around it on a hot day, the shop-owner dealing out slices. Buckets of olives drowned in olive oil, wrinkled Medjoul dates at 50 cents apiece, buzzing with flies. Toilet paper and nappies piled up under fluorescent lights. All the stuff necessary for a comfortable life with no frills.

The city where the planes fly low The thundering atmosphere

A panorama of the city

The city’s glowing embers seen from the sky The eternal city

The city as a wellhead of stories These stories imagined from above

Each one of the spoken streets containing Life and dreams and consciousness

The people of the city as actors The façades of the city as décor

The violent city just beneath the surface:

The night of the raids, packing a bag and being ready to leave If things get too hot. The neighbourhood cordoned off,

A helicopter hovering. Blackout. In the thick of it. Rubbish blowing down the empty streets.

The city that can turn on you The city as a point of tension

Running feet, hollow-sounding on the pavement The crowd of onlookers milling about Agonising

The men at the café muttering The ambulance paralysed in traffic The city of near misses

 

 

Horrific injuries

The man on the cherry picker whose arm is crushed The high-pitched yelping

The way your mind concentrates on that one sound And filters out the rest

 

VII

La città oltre la finestra:

Fette di anguria esposte in una cassetta sull’asfalto. La prima anguria della stagione. Un gruppo di uomini stretti intorno in una giornata calda, il negoziante distribuisce fette. Secchielli di olive affogate in olio d’oliva, grinzosi datteri Medjoul a cinquanta centesimi l’uno, ronzanti di mosche. Carta igienica e pannolini impilati sotto i neon. Tutto il necessario per una vita comoda e senza fronzoli.

La città dove gli aerei volano basso L’atmosfera tonante

Un panorama della città

I tizzoni ardenti della città visti dal cielo La città eterna

La città come fonte di storie Queste storie immaginate dall’alto

Ciascuna delle strade parlate racchiude Vita e sogni e coscienza

Gli abitanti della città come attori

Le facciate della città come scenografia

La città violenta appena sotto la superficie:

La notte delle retate, riempire una borsa ed esser pronti a scappare Se le cose buttano male. Il quartiere transennato,

Un elicottero in cielo. Oscuramento. Totalmente dentro. Rifiuti che volano lungo le strade vuote.

La città che può rivoltarsi contro

 

La città come punto di tensione

Passi di corsa risuonano sordi sull’asfalto La folla di astanti brulica

Angosciata

Gli uomini al bar mormorano L’ambulanza bloccata nel traffico La città delle tragedie sfiorate Ferite orribili

L’uomo sulla gru a cestello con il braccio maciullato Le grida acute

Il modo in cui la mente si concentra su quell’unico suono Tagliando fuori il resto

 

[ italien : SPINELLI Francesca ]

pezzo yule

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Mots-clés__Motivetto

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Motivetto
di Oriana Scarpati

Gino Paoli, Senza fine -> play

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Da Dino Buzzati, “Le precauzioni inutili”, in Id., Sessanta racconti, Mondadori, Milano, 1958

Ora che lui è partito, e non si farà vivo più, scomparso, cancellato via dal quadrante della vita esattamente come se fosse morto, a lei, Irene, non resta che armarsi di tutto il coraggio che una donna può chiedere a Dio e sradicare tutti i rami per cui quello sfortunato amore si è attaccato alle sue viscere. È sempre stata una ragazza forte, Irene, questa volta non sarà da meno.
È fatto! Meno tremendo di quanto lei pensasse; e meno lungo. Non sono passati neanche quattro mesi, ed eccola completamente liberata. Un poco più magra, più pallida, più diafana, però leggera, col languore soave della convalescenza dentro cui già palpitano vaghe illusioni nuove. Oh è stata brava, eroica è stata, ha saputo essere crudele con se stessa, ha respinto con accanimento tutte le lusinghe dei ricordi, ai quali sarebbe stato pur dolce abbandonarsi. Distruggere tutto ciò che di lui restava nelle sue mani, fosse pure uno spillo, bruciare le lettere e le foto, buttar via i vestiti indossati quando c’era lui, sui quali forse gli sguardi suoi avevano lasciato una traccia impalpabile, sbarazzarsi dei libri che anch’egli aveva letto e la comune conoscenza stabiliva una complicità segreta, vendere il cane che ormai aveva imparato a riconoscerlo e gli correva incontro al cancello del giardino, abbandonare le amicizie che erano appartenute a entrambi, cambiare perfino casa perché a quel camino lui una sera si era appoggiato con un gomito, perché un mattino quella porta si era aperta, e dietro era apparso lui, perché il campanello della porta continuava a dare lo stesso suono di quando lui veniva, e in ogni stanza le sembrava così di riconoscere una misteriosa impronta. Ancora: abituarsi a pensare ad altre cose, gettarsi in un lavoro massacrante per cui di sera, quando il pericolo si ridestava più insidioso, un sonno di pietra la atterrasse, conoscere nuove persone, frequentare nuovi ambienti, cambiare anche il colore dei capelli.
Tutto questo lei è riuscita a fare, con impegno disperato, non lasciando sguarnito un angolo, una fessura, da cui il ricordo potesse farsi strada. L’ha fatto. Ed è stata guarita. Ora è mattino, con un bel vestito azzurro che la sarta le ha appena mandato, Irene sta per uscire di casa. Fuori c’è il sole. Lei si sente sana, giovane, tutta lavata dentro, fresca come quando aveva sedici anni. Felice addirittura? Quasi.
Ma da una casa vicina viene una breve onda di suono. Qualcuno ha la radio accesa o fa andare il grammofono, e una finestra è stata aperta. Aperta e poi subito chiusa.
È bastato. Sei o sette note, non di più, la sigla di un vecchio motivo, la sua canzone.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Francesca Marica – Concordanze e approssimazioni -con una nota di Bruno di Pietro

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La storia si ripete e lascia andare.
Non trattiene perché quella è la vittoria
incisa tra lo scheletro e il cielo
dove neanche tu sai, neanche tu puoi.
Bisogna camminare accanto per capire.
Come la parte migliore,
la forma assoluta e vicino allo zero,
un’isola che non è gelo ma nube,
la possibilità di una danza tra i larici ingialliti.

L’inverno è spostare il bianco con la mano,
per andare giù nel profondo, con le dita.

* * *

Tra le clavicole,
la casa rifugio di ieri,
con la terra nella bocca e le braccia sospese.
Non è più tempo e le nostre parole
finiranno, finiranno a breve.
Ci guarderemo da lontano,
come si guardano le cose che ci hanno attraversato
senza lasciare un segno.
Ma poi bisognerà alzarle le braccia,
alzarle in sengo di resa, anche dopo.
Alzarle in modo visibile che non resti dubbio.

Stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza,
rimpiangeremo il rosso intorno>:
urlerà la sera dentro le forme e saranno incompiute.

* * *

Basterebbe il silenzio rotto della sera,
la materna pazienza dell’acqua,
una veglia che tenga a riparo le polveri.

Non è una terra straniera
quella che ti asciuga gli occhi
nell’istante della confessione che cade
e non c’è rumore che sappia farsi sordo
intorno a questa stanza senza più illusione.

Riparo lo spazio con la calma della parola,
maneggio gli eventi con cura.

* * *

C’è il morso della sera
dentro ai giorni in cui si compie l’anno
ed è una marcia di ritorni.
Non conosco l’ordine delle mani
il loro tentativo di esistere.
Si può spiegare tutto
anche l’approssimarsi di una bocca
il suo preciso mormorare
con i sensi in caduta intorno.

Tutto chiaro mentre sale.
Ma domani non sarà più qui
e ci vergogneremo dell’attesa.

Batterà la testa sul tempo un poco mosso
batterà la lingua. Tutto previsto, senza sosta,
senza sapere dove.

* * *

Disimparare il buio per colpa della luce
è l’istinto di precauzione a suggerire
il tratto dove andare ma la memoria trema
e un passo avanti l’altro
segna il respiro da ascoltare.

L’impronta della nascita che si fa umana
a ogni strappo
mentre intorno si continua a dire
noi ci siamo, noi siamo qui.
Quasi fosse la prima volta.
Quasi qualcuno potesse rispondere.

* * *

Avevano perso attrito le parole
era il tempo del loro scivolare.
Come quella mattina a piede a Rue Polonceau
dove gli orli si erano fatti casa,
rifugio in un modo di là fuori.

Dici che stai, che ti fermi,
non importa di avere ragione.
Hai sembianze di animale.

I luoghi come le persone sono un odore,
da dire, forse quasi, esattamente.

* * *

Come sempre è restare
tra gli spazi risparmiati dal silenzio.
Bisogna essere fatti per la luce
esserne in qualche modo imparentati.
Tu mi raccomandavi di spezzare il ritmo,
abbandonarmi in una corsa verticale
confinando la prudenza un passo indietro.
Abbandonati dicevi, Abbandonati e poi vai.

Io pensavo alla metafora della polvere,
alla misura esatta della presa.

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Nota di Bruno Di Pietro

Ciò che subito si manifesta, nella scrittura poetica di Francesca Marica, è l’esaltazione del visibile di tutto ciò che è generato (“natura” o physis). La visibilità sembra quasi vi prevalga sulla parola. Il seme vitale della verità è il vivente, il colore, lo scambio e la fusione di tutte le elementarità naturali, che segna così l’ingresso di Eros. Lo stupore, il corpo, l’amore vi si ritrovano vincolati in semplici tracce o spie morfologiche nella trama della scrittura.

È come se in questi versi al poeta fosse stata data parola dal creato, ma in una prevalente assenza del soggetto. Tuttavia il sacrificio del soggetto, il suo non essere sempre vigile, resta solo presunto, come la semplice apparente indifferenza nello svelare al lettore la meccanica della natura oggettiva. L’assorbimento avviene attraverso l’espediente del colore, nei giochi interni ed impercettibili di scansioni cromatiche con una sintassi senza vuoti o angoli di privato consumo. Il soggetto poetico risulta non perduto per mezzo di una identificazione esatta dell’essere con una sorta di “mondità” intesa non come categoria in senso ontologico ma come dimensione esistenziale del/nel mondo. In tale dimensione, il rapporto di prossimità della materia fatta essa stessa visibile avviene nella assenza di compromissione ed è rivelazione percepita con stupore dell’autonomia dell’oggetto, e il mondo funziona e vibra di una pulsione erotica in un paesaggio abbagliato, affamato di sale.

Molteplici sono i livelli del libro e le chiavi di lettura per entrarvi; crediamo tuttavia che la chiave giusta per appropriarsi dell’interezza dell’opera, sia quella dell’eros, che si sottrae alla trappola tripartita del tempo, mettendo in mora e in fuga Khronos, per rintracciare una sorta di sincronicità nella bellezza del mondo, nella sua esperienza visibile e vivibile qui ed ora.

L’indagine poetica di Francesca Marica verte sul paradosso del vivente nel suo proprio, indipendente da chi osserva. La singolarità del vivente è qui tutta nel suo “giacere nel mondo”, non nell’ “essere-gettati-nel mondo”, che postula poi un ancoraggio a un fondamento e alla fine, se si vuole, si risolve o si rifugia nel sacro. Assistiamo in questi versi a una ricerca della fisica dell’origine, di cui è essenziale momento il colore.

Fondale di tutto il libro è il bianco: il bianco della neve: L’inverno è spostare il bianco con la mano,/ per andare giù nel profondo, con le dita.” (pag.19). “È la neve che misura. È la neve la salvezza degli invisibili./ Un legame di piccole mani bianche.”(pag.22). Un diverso connotato simbolico porta con sé la matrice chimica della neve, l’ acqua: “Sapevamo di terra e di pioggia/ con l’istinto del lupo/a farci bambine selvatiche…/ C’era il balzo della vita a divorarci/ e l’aria che in faccia scendeva/ a imitare il gesto dell’acqua.” (pag.26) Si definisce così, in questi testi, un sistema di coordinate visive e materiali: “neve” > “acqua”- “bianco” > “nero” Ma da dove emerge il nero?

Questo riferirsi ai colori e ai chiaroscuri come struttura dell’esperienza richiama la visione di Empedocle, di colui che prova a conciliare la fissità dell’essere di Parmenide con il divenire e la dialettica di Eraclito, immaginando un ingresso del “plurale” e del “complesso” nella mescolanza armonica degli elementi. Di Empedocle ci interessa in particolare un aforisma, che rivela il suo pensiero sulla natura del colore: si tratta del frammento 71 DK , dove si afferma la relazione tra gli elementi che formano le cose e i colori delle cose stesse. In particolare, due dei quattro elementi fondamentali, il fuoco e l’acqua, sono colorati. Il colore del fuoco è il bianco/chiaro, il colore dell’acqua è il nero/scuro. Il sole è fuoco e produce la luce che è chiara, dunque al fuoco è assegnato il bianco. La pioggia, invece, è acqua, ed è presentata come scura, dunque all’acqua è assegnato il nero. Così, per esempio, l’arcobaleno, che è formato dalla luce del sole e dall’acqua della pioggia, è il risultato della combinazione di fuoco e di acqua, e dunque di bianco/chiaro e di nero/scuro.

Come Empedocle collega la trama dei colori alla sostanza dell’esperienza, così Francesca Marica, fin dall’incipit del suo libro, ci dice che non esiste una substantia ma solo i modi, le maniere di apparire, e che la realtà si dà in superficie, nell’apparizione di attimi irripetibili, ciascuno dei quali è uno scarto qualitativo non quantitativo di una “infinita complessità”. Una complessità che si può intuire d’improvviso, in un intravedimento della “bellezza del vivente”. In particoare il frammento 71DK di Empedocle fornisce un ulteriore spunto di analogia con la poesia della Marica, nel momento in cui precisa che “le forme e i colori dei mortali, così numerose quante ora, sono generate da Afrodite congiunte…” Eros (figlio di Afrodite) è principio generatore della pluralità”, quindi della alterità”. Questo è il senso della presenza dell’eros in Francesca Marica. Questo è fra l’altro il senso del distico di pag. 19, che abbiamo poco fa citato. L’inverno (il solstizio, i riti dell’albero e della vegetazione) consiste nello spostare il bianco (la neve, la coltre del gelo) con la mano “per andare giù nel profondo”: per cercare il germoglio, il seme che si fa vita, che “si apre” per dare vita. E questa ricerca nel profondo è fatta con le dita”, con allusione latente ai rituali arcaici di deflorazione della sposa (se ne veda la descrizione nel Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade).

L’intero libro si inizia con una iniziazione sessuale: così a pag.20 “Qualcosa fiorisce anche dentro un taglio” (il “solco” che è l’organo genitale femminile); e ancora “la pancia di piccole finestre feritoie” (pag.21); e ancora L’ “abbandono” associato alla “presa” (pag.23) e l’incompiutezza del “rimpiangeremo il rosso intorno” (l’istante della deflorazione), o dell’essere “stesi sotto il peso dei corpi di poca importanza” (pag.34); e più avanti, nella seconda sezione del libro: “Non basta l’ostinazione di un osso/che scalpita e poi esplode/ entro una fessura pronta ad ospitare” (pag.51). In tale contesto “l’acqua” (pag.26) e il “nero” iniziano la mescolanza di tutte le cose, in modo che possa arrivare “il lusso anche di amare” (pag.35) e s sente forte l’invocazione di un Eros riparatore. Non è la parola a riparare, ma Eros che mescola il bianco e il nero e genera la pluralità dei colori e del possibile, in una potente fisicità gettata nella scrittura: una fisicità” coniugata con l’alterità: “Dobbiamo raccontarci le vite precedenti/ e dirci che mancano le cose viste insieme “(pag. 79).

In questo spettro immaginativo, la Terra (il bianco) è sì madre, ma anche “grembo”, non solo materno (che contiene) ma anche matrice che si apre e accoglie. A chiarire l’essenza di questa componente erotica intervengono le nozioni di “animale” / “animalità” che sono coessenziali a Eros nello svolgersi dello scritto. Certo, la categoria dell’“animale” è una delle più maltrattate nella storia della filosofia occidentale. La filosofia occidentale pone la differenza tra uomo e animale come per legittimare la prevaricazione – violenta e spietata – dell’uomo sull’animale stesso -si pensi a come Adorno, nella Dialettica dell’Illuminismo, scriva che l’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo”. Per contrario, nella poesia di Francesca Marica “l’animalità” è invece categoria essenziale del tutto ed è connessa all’esperienza dell’alterità, e si potrebbe citare qui, a chiarimento il Derrida che a pag. 71 de L’animale che dunque sono, scrive: L’animale, che parola! L’animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare. […] Si sono dati la parola per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto: l’Animale, dicono loro. E si sono dati questa parola, accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a se stessi il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole e in breve a tutto ciò di cui sono privi gli altri in questione, quelli che vengono raggruppati nel gran territorio della bestia: l’Animale”.

L’animale nella sua insidiosa prossimità è in effetti il rimosso, il perturbante. All’istituzione del primato antropologico corrisponde il vilipendio animale. Per converso, nelle parole di Francesca, è centrale l’immedesimazione con la maschera figurale del lupo: si pensi ai versi già citati di pag. 26, che qui riprendiamo: “Sapevamo di terra e di pioggia/ con l’istinto del lupo/ a farci bambine selvatiche.” L’autrice assegna a se stessa (e nel plurale forse a una generazione di donne) “l’istinto del lupo”. Giorgio Agamben in Homo sacer (pag. 117) rileva la prossimità del bandito (colui che è messo al bando) con il lupo, la bestia, da cui la figura dell’uomo-lupo o lupo mannaro come “un ibrido mostro tra l’umano e il ferino, diviso tra la selva e la città –il lupo mannaro – è dunque , in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunitàSituandosi così in una zona di indifferenza (che è poi il regno del sacro, di ciò che può essere sacrificato) e sottraendosi alla logica dell’ inclusione/ esclusione”. Francesca Marica è dalla parte del lupo. Nello spazio del margine, del confine, negli interstizi (e forse è per questo che la terza sezione reca come titolo Interstiziale). Accantonata ogni prospettiva antropocentrica si rivela all’occhio un mondo non abitato solo da uomini, un mondo che “si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi , ai folli che lo abitano a modo loro e coesistono con esso” (Merleau-Ponty Conversazioni ,Milano 2002 p. 44).

Molta importanza assume nel discorso quanto si legge a pag. 55 di Concordanze e approssimazioni: C’erano mani impegnate a scrivere lettere d’amore con minuta calligrafia./Altre mani affogavano dentro l’onda per portare a galla visi dimenticati./Poco oltre altre mani frugavano in cerca di bocche ammalate di sale./Era l’animalità dell’istinto, la preparazione di un rituale.” (pag.55) L’acqua qui si fa lago. Il lago per sua natura riceve, accoglie le acque. Le acque degli affluenti, le acque della pioggia e delle lacrime. In quel lago mani scrivono, affogano, frugano “in cerca di bocche ammalate di sale”. Viene fatto di evocare quell’idea alla base dell’alchimia secondo cui, delle tre sostanze che compongono il corpo umano, lo zolfo rappresenta l’elemento aereo, il mercurio i fluidi, il sale le parti materiali dell’essere umano. Le mani cercano bocche ammalate-vogliose, con un istinto animale, di corpi. “la preparazione di un rituale”, una seconda iniziazione sessuale.A ogni nuovo inizio/ torniamo…” (pag.85),immagine che si chiarisce nei versi a pag. 78: “È l’atto di fede di una giovane sposa/ che non conosce la parola inganno/ col sesso dato/ e la nebbia che mima un ritorno/ tra balconi che dicono la giustizia era ieri/ e luci che fanno testamento col silenzio che c’è” (pag.78)

Tutta la seconda e la terza sezione del libro dicono di un esilio. Di una prova di resistenza in attesa. E si noti che il bianco si è fatto nebbia in una attesa carica di un erotismo che si tocca, palpabile nelle parole, fino all’invito di chiusa seguito dall’affermazione “Adesso sono innocente e non più prigioniera” luogo che andrebbe letto: sono di nuovo innocente in seguito a una liberazione. Nel discorso poetico di Francesca Marica si è condotti a un ripensare la vita come alterità, animalità e autopoiesi. Delle prime due connotazioni della vita abbiamo già detto; la terza richiama le biologie della complessità della seconda metà del Novecento, ma è già latente nelle visioni filosofiche di Merleau-Ponty e di Bergson per cui la Natura è continuo rinnovamento, creazione ininterrotta, scenario dell’eteroreferenza.

Il mondo degli animali così connotato è il mondo del silenzio, dove non c’è il linguaggio che ha fondato il dominio dell’umano sull’animale. Il silenzio è l’altra chiave di lettura fondante dell’opera di Francesca Marica, che nella sua solida formazione musicale, sa quanto “la parola” sia ingombrante per la musica e che la musica “dice” senza necessità di parola. Il silenzio si esprime in uno dei versi di maggior immediatezza dell’intero libro: “basterebbe il silenzio rotto della sera” (pag.50). Tutta questa scrittura invita al silenzio: è una scrittura fatta di schegge, luccichii, brividi, pulviscoli dorati, giochi istantanei che non esprimono più un oggetto organico, ma tutt’al più generano impressioni, allusioni simboliche, coaguli di sensazioni oniriche, reminiscenze di rituali.

Il silenzio è una conquista dell’uomo. Ma poiché la parola poetica è a sua volta una conquista, il silenzio umano è una conquista su questa conquista. Il silenzio è una contemplazione clandestina che, come la notte, sospende le occupazione ciarliere del giorno, frena l’eloquenza dei retori mette la sordina agli affari umani. Il filosofo della musica Jankélévitch cita alcuni versi di C. van Lerberghe musicati da G. Fauré (op. 106) : “Je me poserai sur ton coeur/Comme le printemps sul la mer… Je me poserai sur ton coeur/ Comme l’oiseau sur la mer” [“Mi poserò sul tuo cuore/Come la primavera sul mare… Mi poserò sul tuo cuore / Come l’uccello sul mare”] e ne argomenta: “Un’ala di uccello non ha alcun peso. Un soffio di primavera non fa rumore. Questo silenzio che l’uomo al contempo regola e ricerca è un silenzio già abitato. Più il silenzio si approfondisce più noi scopriamo nuovi segreti in questa profondità elementare; nel fondo del silenzio percepiamo un ‘mormorio immenso’ ancor più silenzioso dello stesso silenzio… Le musiche della natura popolano il fantasticare del passeggiatore solitario; umili, piccole fate animano così i deserti della vita” ((Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, Torino 2012 p. 152 s.). Queste stesse impressioni richiamano il trattamento del silenzio nel libro di Francesca Marica. La lettura di altri versi dell’autrice, al momento inediti, conferma questa stessa impressione. Fra questi, tre versi appaiono particolarmente significativi: “Saranno gli alberi il nostro aiuto alla memoria e scorrerà di nuovo l’acqua/ e scorrerà di nuovo il sale, dalla mia alla tua schiena, tra le case rosse,/ tra le ossa rotte, oltre quel confine senza più il rischio di un naufragio.

È un passo rilevante, perché chiarisce che si è alle prese con la metafora di un “essere che, come le macchie di colore di Klee, è il più vecchio di tutto e, in pari tempo ‘al primo giorno’” (Merleau-Ponty). Per Merleau-Ponty la natura è quel presentarsi sempre di nuovo di quanto c’è di più vecchio, l’origine che si configura come sempre presente; una eterna ri-creazione, un infinito ripresentarsi di un tessuto primigenio. Ne deriva “la durata” come fenomeno essenzialmente lussurioso e “culmine del possibile” (alla Bataille) del piacere e indice del fallimento di Khronos (soprattutto in un inedito dal titolo “Niente resta uguale”).

Ma meritano anche gli inediti una lettura e una meditazione a parte perché è evidente, a chi li ha appena letti, la linea evolutiva del discorso, del “senso” (“oltre quel confine senza più il rischio di un naufragio”) e della scrittura, e vanno pertanto esaminati ed analizzati in modo compiuto. A voler tirare le somme e azzardare qualche provvisoria conclusione su un’opera ancora in fase di sviluppo, si direbbe che Francesca Marica al di là di ogni dialettica o ermeneutica, guidata dalla tradizionale distinzione fra apparenza e sostanza, segno e senso, che vede negli enti una simbologia allegorica o il rinvio ad una verità trascendente, rivendica alla splendida apparenza il diritto di significare in sè. La realtà vi è tutta dispiegata nell’insistere del proprio “esserci”.

Insomma, la meraviglia di una onnipresenza simile alla magia caleidoscopica di una danza di colori affascinanti. Del resto è quanto accadeva in epoca barocca: se si concentra l’attenzione sull’effettivo movimento del reale, ci si accorge che esso – al pari dei giochi d’acqua e pirotecnici (ricordiamo tutti le stupende musiche di Haendel) – ci offre lo spettacolo di costruzioni instabili e fugaci, dicreature che appaiono e dileguano , simili a riflessi nell’acqua, miraggi, nebbie. Ma – ed è qui il punto decisivo – dietro questo gioco di forme non c’è nessuna sostanza che lo fondi, nessuna causa che lo spieghi. Esiste per se stesso. Il reale dispiega le sue forme e i colori a partire solo da sé . E proprio per ciò è mistero. Il suo fascino inquietante -ciò che può chiamarsi, senza timore di eccedere, la bellezza del vivente, la bellezza del mondo- è quel che ritroviamo gettato nei versi, talora onirici, di Francesca Marica.

Editori da 1000 copie

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di Romano A. Fiocchi

Il 26 novembre scorso è apparso in rete un bellissimo e malinconico post di Giovanni Turi dal titolo Convivere con la paura del fallimento. Ovvero la responsabilità di pubblicare un’opera letteraria. Turi è un ex editor che ha fondato una casa editrice coraggiosa. Si chiama TerraRossa Edizioni. TerraRossa pubblica romanzi di autori italiani con l’obiettivo di proporre testi che non siano mero intrattenimento ma che lascino il segno, che cerchino un loro spazio, che ambiscano – come scrive nel post – “ad allargare fosse anche solo di un millimetro l’orizzonte della letteratura”. E TerraRossa, da lettore posso garantirlo, fa Letteratura. Lo fa con penne di alto livello, quali Ezio Sinigaglia e Cristò, puntando poi su nomi nuovi o poco conosciuti che in primo luogo sanno cosa sia la scrittura e l’invenzione narrativa.

Post bellissimo, dicevo, per la descrizione del suo sogno di editore, dei suoi affanni, della sua ricerca, delle sue paure, prima fra tutte quella che il proprio lavoro, ossia l’opera messa sul mercato, finisca prematuramente dimenticata.

Quando accade – scrive Turi – a bruciare non è solo il danno economico e il monito degli scatoloni accatastati in magazzino, ma è anche l’impressione che in realtà quel libro non abbia mai avuto modo di essere valutato: i giornalisti ne ricevono troppi e ne leggono talvolta meno di quanti sono tenuti a recensire per restituire un favore o per non esser da meno dei colleghi di altre testate che hanno già scritto di qualche ‘opera di tendenza’; i librai sono costretti a star dietro alle proposte dei distributori, alla burocrazia dei resi e all’impersonale concorrenza degli store online; il pubblico sta perdendo la voglia di cercare qualcosa di diverso, di farsi spiazzare dalle novità editoriali, né si fida più di chi parla di caso-editoriale, opera-imperdibile, libro-necessario, scrittura-originale, capolavoro – definizioni che tutti abbiamo contribuito a svuotare di significato”.

Alla complessità di un mondo editoriale in continua evoluzione, dove i colossi si contendono il mercato lasciando ai piccoli soltanto le briciole, si è dunque aggiunto l’aggravio di quello che Turi chiama “questo anno assurdo”. Nonostante il mare in tempesta, l’editore di TerraRossa non ha fermato la sua programmazione e ha fatto uscire due romanzi: La casa delle madri di Daniele Petruccioli e Binari di Monica Pezzella. Un azzardo? Un gesto di ribellione verso il destino? Un atto di caparbietà, motivato dal proprio ideale? Con la malinconia di cui dicevo più sopra, ma anche con signorilità, Turi si giustifica:

Non posso prevedere quanto l’emergenza in corso, l’assenza delle fiere editoriali e dei cicli di presentazioni influenzeranno le vendite; non so quanto le pressioni dei grandi gruppi editoriali, che sono ancora più esposti alla crisi, condizioneranno l’operato dei librai e le scelte della stampa; non so quanti lettori raggiungerà questo post e quanti crederanno che valga la pena dare un’opportunità a questi due romanzi e ai loro autori; non do per scontato che chi li leggerà proverà la stessa emozione che hanno suscitato in me. Se non altro, mi resta però il privilegio di guardare con orgoglio anche questi nuovi titoli del catalogo TerraRossa e ho imparato che con le paure tocca purtroppo conviverci, senza dargliela vinta, senza smettere di fare del proprio meglio, finché se ne ha la forza”.

Sento, tra le righe, le stesse parole scritte da Gaetano Colonnese, l’editore e libraio napoletano prematuramente scomparso nella primavera del 2004. Colonnese citava Gobetti, Formìggini, Ricciardi, Scheiwiller. Piccoli editori, diceva, che si sono sforzati di mantenere vivi i migliori aspetti della tradizione editoriale, la qualità e gli aspetti artigianali soprattutto. Alcuni di loro per le loro idee hanno dato la vita, come Piero Gobetti, perseguitato dagli squadristi del regime, o Angelo Fortunato Formìggini, suicidatosi dopo la schiacciante oppressione delle leggi razziali. Colonnese li chiamava editori di mille copie (ed era sottinteso che nell’elenco includesse se stesso):

Editori di mille copie, che hanno indicato nuovi campi di indagine e nuovi sentieri culturali. Editori che intendevano la tipografia come architettura: un alternarsi di pieni e di vuoti, un gioco di proporzioni dove basta un nulla, qualche millimetro più su o più giù, un carattere più piccolo o più grande, per rovinare l’armonia della pagina stampata. La società della globalizzazione appiattisce tutto, anche i libri. Esistono, per fortuna ancora oggi, dagli Appennini alle Ande, editori grandi e piccini di notevole progettualità culturale e senso estetico. Al contrario dei colossi, preoccupati soprattutto a confezionare scoop e best-seller, immessi sul mercato con estrema prepotenza, che sottraggono spazio ad altri libri che i lettori vorrebbero e farebbero bene a leggere. Tutto questo mette in pericolo non solo la cultura, ma anche la democrazia”.

Questo, Gaetano Colonnese. Per chi volesse leggere per intero il post originale di Giovanni Turi, qui il collegamento.

 

 

Il consolatore

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di Michele Neri

 
Sono tornata di corsa, per strada non c’era nessuno e non vedevo il tempo che accelerava di fianco a me. Sono quasi le nove: è tardi. 

Il mio vicino di casa ogni mattina bussa alla porta. Insiste, dice che un giorno sarà impossibile ascoltare quei suoni che rimandano la nostra fine. 

Io sono la donna più popolare e senza aver fatto niente di speciale; hanno detto la salvatrice del pianeta, di ciò che resta, milioni di persone però. 

Tra poco il vicino busserà, chiama prima l’ascensore, io mi affaccio e, con la cortesia di cui sono capace, risponderò grazie non m’interessa, non scendo; se l’incanto non si produrrà, ripete il vicino, noi moriremo. 

Non avevo superato l’esame di procuratore, per cui avevo lasciato la famiglia, il mare di quella mia città azzurra che ormai sognavo per non accettare che nulla più valesse la pena. E ho lasciato un appartamento troppo grande per me, ho chiesto altri soldi a mio padre e mi sono trasferita qui, al piano terra di una casa borghese, in un monolocale con le inferriate alla finestra, l’ultima tra i primi. Finché si sono accorti di me. Oggi sono davvero in ritardo. Aspetterà. 

Era un giovedì. Non avevo dormito bene e stavo uscendo. Spingo la porta d’ingresso con il piede, e mi fermo sotto il colonnato. E’ un rumore a fermarmi. Penso a un animale, a una suoneria che muore, a un uomo che pulisce i vetri con un giornale. Smette e riparte, trova un ritmo, scompare e quando riprende, è umano, qualcuno soffre, non può chiedere aiuto, ma dov’è, chiedo. Trattengo il respiro, i suoni diventano due, si mordono tra loro: uno è un raschiare doloroso, sommerso da un gemito svelto; sembra stringere il primo per il collo, ogni tanto lo libera. Non è una nota triste o allegra, cambia, è la voce di una bestia che agonizza accucciata e non è un animale, anche se tendo le mani per cercare un bastone. Non ascolto con le orecchie, è il corpo a reagire. Perdo il controllo di una fetta ingombrante di me e che vorrebbe essere nuda. Forse perché non faccio domande, vedo il suono e inizio a seguirlo, tirandolo con la gentilezza con cui porterei la torta con le candele accese a un bambino in una sala buia. Riduce gli intervalli di silenzio e sale, sono nella direzione giusta, mi fermo davanti alla finestra sbarrata dell’appartamento a piano terra, un angolo triste. Quando sono a un metro, i lamenti esplodono gradualmente per placarsi, prima quello sordo che accelera strappando qualcosa di caro ormai inutile, per riavvolgersi su di sé spegnendosi; poi l’altro che, da un canto stridulo scende a terra schiudendosi in una risata sarcastica interrotta da parole volgari, per ripartire in una cascata di richiami, cose da piccoli mammiferi o uccelli tropicali. E’ una congiunta espressione di meraviglia. Ma non finisce e anzi occupa il mio corpo, lo sfamo creando un catalogo di pose della donna che vive in quella casa, con lenzuola su un corpo ignoto, mi stupisco della mia immaginazione che aggiunge e chiarisce, inventa la contorsione inebriante, le gambe salde, dal cui vertice si era propagata la scossa tradotta in musica convincendomi che aspettasse soltanto me, per scappare insieme, a mia volta suono. E non erano volume o durata, non un compiacimento osceno. Somigliava a un fiore nella neve, al bisogno di cadere di una spada alzata. L’immaginazione fa difetto. Rimase l’estinzione dei peccati e delle rinunce. E la nostra nuova onnipotente madre paura, per il tempo in cui restai in piedi, smanioso di correre a raccontare ciò cui avevo assistito, si era zittita, il cielo era tornato esplorabile, la terra grande sotto i piedi. 

Quando Alberto perse il signor Gilberto e si mise a cercarlo

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di Davide Orecchio

(Piccola storia per l’anno che va e per l’anno che viene)

Alberto e il signor Gilberto vivono assieme e si prendono cura l’uno dell’altro. Quando se lo ricorda, il signor Gilberto fa la spesa e cucina, paga le bollette, bada a che in casa non manchi nulla. La pensione del signor Gilberto basta appena perché i due ne possano vivere, e Alberto ricambia col suo affetto e calore. Il corpo di Alberto è caldo e accudisce più di qualsiasi coperta o cappotto. La sera, quando nel condominio i termosifoni si spengono e dalle mura umide, e sotto agli infissi negletti, entra il freddo dell’inverno, al signor Gilberto non resta che il tepore di Alberto, e nelle sue coccole sente anche il suo cuore che batte. Un cuore che batte riscalda più di qualsiasi coperta o cappotto, pensa il signor Gilberto seduto sul divano, mentre nelle sue gambe stanche torna a scorrere il sangue. Alberto lo guarda, poi chiude gli occhi. Il signor Gilberto ha bisogno di calore e riposo, perché ha ottant’anni d’età. Alberto, che sonnecchia sulle sue cosce, invece ne ha compiuti nove da poco, è nel fiore maturo della propria vita. Ma sono mai stati problemi, questi, tra un gatto e un essere umano? No, è la risposta. Gatti e uomini possono andare d’accordo a tutte le età, e Alberto e il signor Gilberto ne sono la prova.

*

In città avviene qualcosa di strano. La città è cambiata. Dal davanzale Alberto scruta la strada e la vede deserta. Nessuno cammina sui marciapiedi. Non passano né bambini né adulti degli esseri umani. Di rado, qualche automobile più veloce del solito. Il cielo è colmo di gabbiani che lo popolano anche quando cala la notte, e lo riempiono di bianco, di grigio e di strida. Alberto miagola verso il signor Gilberto, gli chiede cosa ne sappia ma l’uomo – e questo non accade mai – non gli dà retta, sta lì sul divano e sembra più stanco del solito, respira male, tossisce, si lamenta, dice che è la volta che muore, ripete che è davvero la volta che muore. Con le forze che gli restano il signor Gilberto prende il telefono per chiedere aiuto, poi si lascia cadere sul divano ansimando. Alberto si avvicina, miagola ancora, cosa può fare per lui?, gli serve calore?, vuole che salga e si accucci sulla sua pancia? Ma il signor Gilberto non gli dà retta. E questo non accade mai.

Qualcuno scardina la porta, entra in casa. Che frastuono. Che paura. Alberto si nasconde sotto al divano. Vede a malapena i piedi degli infermieri, e le ruote e le aste di alluminio della barella. Sente le loro parole, il silenzio del signor Gilberto e il suo respiro pesante. Cosa fanno? Lo portano via? Alberto, preoccupato, esce dal rifugio e trova il signor Gilberto legato sopra al lettino, una maschera di gomma sul naso e la bocca. Gli infermieri, protetti dalla testa ai piedi con caschi, tute e visiere, spingono fuori il signor Gilberto e Alberto li segue. Gli infermieri chiudono la porta di casa e scendono le scale, per fortuna solo mezza rampa, e Alberto li segue. Gli infermieri caricano il signor Gilberto sull’ambulanza e partono con la sirena. Alberto corre dietro al signor Gilberto. Vuole sapere dove lo portano. Vuole andarci anche lui. Alberto è un gatto sano e forte, nel fiore maturo degli anni, va veloce sulla strada deserta, schiva tombini e pneumatici. L’ambulanza frena, curva, svolta, va di qua e va di là, e Alberto la segue, non la perde di vista. Ma, quando raggiunge una strada più grande, rettilinea e interminabile, l’ambulanza accelera, si fa più lontana e più piccola finché Alberto non la vede più e, esausto, si ferma con la lingua di fuori. Addio signor Gilberto. Anzi arrivederci. Non smetterò di cercarti.

Ma qui cosa succede? Perché non c’è nessuno? E dove mi trovo? Non ero mai arrivato così lontano, in un posto così largo e pauroso. Qui è troppo aperto e non ci si può nascondere. Qui non va bene per niente.

Immagine di Mabel Amber da Pixabay

Alberto vaga per la città. Sale e scende dai marciapiedi. Si acquatta sotto le auto. Non sa più dove stia andando. Non sa se debba proseguire o tornare. Ma non saprebbe tornare, perché ha perso la strada di casa. Si ritrova in una piazza troppo grande per le sue abitudini. Al centro, gli angeli di pietra di una fontana gettano acqua dalle bocche e dai nasi, e sorridono eternamente. Sui loro capi, sulle ali e sulle braccia riposano decine di gabbiani reali. Anche sui bordi della fontana, al di qua della vasca dove brulica l’acqua, riposano decine di altri gabbiani. Alberto li osserva e riflette. Forse non stanno riposando. Forse controllano. Forse aspettano prede. Decine e decine di gabbiani in silenzio. Alberto, che non può tornare indietro perché ha perso la strada di casa, può solo avanzare e decide di farlo. Pensa che, nero com’è, nel buio i gabbiani non lo vedranno.

Inizia a attraversare la piazza, piega le gambe e con la pancia sfiora l’asfalto. Com’è bravo. Com’è scaltro e elegante. Ma è difficile battere i gabbiani in scaltrezza. I gabbiani non si distraggono da te. I gabbiani ti vedono sempre. Alberto è arrivato solo a metà del suo attraversare e quelli sono già in volo e stridono, decine di gabbiani, tutti contro di lui, tutti verso di lui. Alberto, che è un gatto forte, nel fiore dei suoi anni maturi, fugge e scantona, si volta sulla schiena e soffia ai gabbiani. Più veloce del tuono o del fulmine, Alberto estrae le unghie e graffia i gabbiani che gli picchiano addosso. Ancora scappa sotto alle auto e fra la spazzatura. Salta su dalle buste, combatte i gabbiani, geme versi terribili. Alberto è diventato un guerriero, lotta per la propria vita. I gabbiani, però, sono troppi. Decine di gabbiani affamati. Lo circondano in volo. Scendono, risalgono, non gli danno tregua. Alberto ora è stanco. Non può difendersi da tanti gabbiani. Tra poco uno di loro lo trafiggerà e sarà tutto finito. Signor Gilberto, era addio e non arrivederci, non ce l’ho fatta a trovarti. Mi dispiace, signor Gilberto. Spero che tu guarisca e stia bene. Adesso mi arrendo. Adesso io chiudo gli occhi e… 

Chi urla così forte? A chi appartiene questo grido di guerra? A una creatura grande, dagli occhi gialli. Abbaia e tuona. Si scaglia contro i gabbiani. Li attacca, ne morde uno e poi un altro. Li mette in fuga. I gabbiani si alzano da terra impauriti. È un cane alto e terribile. Ha salvato Alberto e lo guarda. Presto, seguimi in quel vicolo, per un po’ gli uccelli ci lasciano in pace, ma solo per poco. E Alberto lo segue.

La viuzza dove si rifugiano è un culo di sacco. Termina in una parete di mattoni alta. Da qui non si esce che per una strada, il ritorno alla piazza dove i gabbiani hanno il covo. 

Riposiamo un momento. Ritardiamo la guerra. Tu, cane, io ti ringrazio, ma chi sei? 

Io, gatto, sono il più coraggioso, il più forte cane corso della città. Io sono Antonio. Ti sei perso? Non ti ho mai visto quaggiù. 

Mi sono perso e non so più tornare né proseguire. Correvo dietro al signor Gilberto, mio essere umano, che s’è improvvisamente ammalato, non respirava più bene, l’hanno portato via ma non so dove ed eccomi qui. 

Da qualche tempo gli esseri umani si ammalano tutti. Anche il mio si è ammalato. Anche l’essere umano di Lisa si è ammalato e lei ora lo cerca. 

Lisa chi è? 

Sono io, Lisa.

Dalla costa di un bidone affiora un muso bianco. Nel buio del vicolo. Una gatta bianca, priva di macchie. Avanza timida, poi con poco più di certezza. Ha il pelo umido della propria lingua. Si è leccata ferite finora? Anche lei preda dei gabbiani e colpita? Lisa guarda Alberto negli occhi. Nessuno dei due, creature smarrite, dimenticherà mai questi sguardi.

Lei anche l’ho salvata dai gabbiani, rievoca Antonio, oggi non salvo che gatti, un paladino, questo sono diventato, cos’altro aggiungere?

Ti ascoltavo, dice Lisa a Alberto, hai perso il tuo essere umano e io, come te, ho perso la signora Bianca, mio essere umano. L’hanno portata via, respirava poco e dolorosamente, li ho seguiti finché ho potuto e poi li ho persi sulla strada grande, qualcuno sa dove portano gli esseri umani ammalati?

Antonio lo sa. Il posto si chiama ospedale. L’essere umano di Antonio l’hanno portato laggiù e Antonio li ha seguiti sino alla fine. Antonio ha visto dove tengono gli esseri umani e mostra il percorso ai due gatti: la strada grande, il fiume, un ponte da varcare e si è arrivati, ma bisogna passare per la piazza dove i gabbiani hanno il covo, non c’è alternativa. Davvero vogliono andare e rischiare la morte? Non preferiscono restare qui nel rifugio e aspettare che i gabbiani volino via? 

No, rispondono Alberto e Lisa, non vogliamo restare, vogliamo ritrovare i nostri compagni di vita. 

Perché si ammalano tutti, gli esseri umani?, chiede Lisa e Antonio china la testa, proprio non lo so, un giorno stanno bene e il giorno dopo crollano esausti, è un grande mistero. Alberto, nel ricordare la tosse del signor Gilberto, ripete col cane corso che sì, la malattia degli esseri umani è un grande mistero.

Ora Antonio spiega che dovranno correre forte dentro e oltre la piazza, Lisa al suo fianco destro e Alberto a sinistra. Al di là della piazza troveranno il ponte e salvezza, perché laggiù vive una tribù folta di corvi e i gabbiani non vi si avventurano. Siete pronti?, al mio via?, e i gatti annuiscono. Antonio si dà lo slancio piegando le zampe posteriori e flettendo quelle davanti, spalanca gli occhi gialli verso la piazza e la guarda con odio. I gabbiani riposano sulla fontana, macchie grigie e bianche che sporcano il buio. Il cane dice adesso e si lancia. Lisa e Alberto lo seguono subito. Occhi gialli e occhi verdi contro i gabbiani. Occhi risoluti, musi come frecce e trabucchi. Sboccano nella piazza, il cane e i due gatti, con la forza che non ha retroguardia né ritirata. I gabbiani li avvistano, si sollevano in coro, urlano in coro. Quante strida. Che affronto. Mammiferi insulsi. Dove correte? Volete la guerra? E guerra sia. Si precipitano su di loro alla pesca. Vogliono sangue, carne, ossa da spolpare, bulbi da succhiare. Versi assordanti. Decine di gabbiani, assordanti e proietti. Loro, un cane e due gatti, corrono fissando gli uccelli che scendono, uno abbaia e due soffiano. Un gabbiano plana verso Lisa, prova a ghermirla ma la gatta gli graffia l’addome, e quello urla e si ferma. Due gabbiani sigillano i becchi per trafiggere Lisa, ma Antonio li prende entrambi in due morsi, spezza il collo del primo,  sbrana un’ala al secondo e lo getta per terra. Alberto salta verso un gabbiano, salta più di due metri, con le unghie stacca un occhio al nemico. Antonio li esorta, correte!, resistete!, adesso non fermatevi più!, e loro veloci saettano al di là della piazza, e raggiungono l’imbocco del ponte, sopra di loro i gabbiani reali, decine di gabbiani arrabbiati e affamati, una coperta di piume e di becchi che cade dal cielo. 

Ma l’occasione dei gabbiani è perduta. Qui, dove il ponte inizia, ci sono già i corvi. Centinaia di corvi appollaiati sulle ringhiere e sui cavi, sui lampioni e sui parapetti. Non hanno bisogno di scomodarsi nel volo, alla guerra. Si volgono ai gabbiani e li fissano, se possedessero sorrisi di scherno li esprimerebbero, già il loro silenzio è una beffa e ha deterrenza, non occorre lo sforzo di un solo gracchiare. I gabbiani al contrario urlano versi violenti e sconfitti, si fermano prima del ponte, lasciano che trascorra un minuto, il tempo dell’odio e dell’appuntamento, ci rivedremo, torneremo a combattere, poi volano indietro alla piazza. 

Il cane e i due gatti varcano il ponte. Nella condiscendenza dei corvi che restano fermi. Adesso il loro silenzio è forse un rispetto. Il cane corso fa strada, un passo indietro i due gatti, la bianca a destra e il nero a sinistra. Sotto scorre un fiume deserto e noioso quanto la città. Nessun battello lo solca. Nessuna luce gioca sui riflessi dell’acqua. Antonio, con Alberto e Lisa al suo fianco, raggiunge la sponda di là, attraversa una strada e poi un’altra, poi un’altra ancora tra palazzi che non irradiano luci, dove non vive nessuno, ed ecco che ne appare uno luminosissimo invece, indaffarato di ambulanze che entrano ed escono, ed è l’ospedale, e Antonio fa cenno ai due di seguirlo, sa come entrare senza che nessuno li veda.

Attraversano corridoi e sotterranei, salgono lungo rampe di scale. Entrano in un reparto pieno di luce. Camminano. Nella luce. Non sono invisibili. Un cane corso e due gatti. Ma nessun essere umano si accorge di loro. 

Questo è un altro mistero, osserva Alberto, dovrebbero vederci ma non ci vedono. 

Hanno molto da fare, risponde Antonio, qui è dove curano la malattia nuova, forse non hanno occhi né tempo per noi. Ora salite sulla mia schiena e affacciatevi su questa parete di vetro. Se il signor Gilberto e la signora Bianca sono qui, li vedrete.

Tu, chiede Lisa, resti sotto?, non cerchi il tuo essere umano?

Il mio essere umano non è più qui e non è a casa, non so dove l’hanno portato, risponde Antonio e si piega.

Alberto e Lisa salgono sulla schiena del cane, si alzano sulle due zampe, appoggiano le altre due contro il vetro, avvicinano i musi e scrutano dentro. C’è una corsia di esseri umani nei letti. Indossano scafandri di plastica trafitti da tubi. Sembrano tristi, però sono vivi.

Ora Lisa grida, ecco lì la signora Bianca!, e Bianca dal suo letto la vede, una gatta bianca eretta sui piedi, i polpastrelli schiacciati sul vetro, gli occhi sgranati che non si chiudono mai. Dopo lo stupore, la signora Bianca alza un braccio per salutare la gatta e sorride.

Ora Alberto grida, ecco laggiù il signor Gilberto!, ma il signor Gilberto non può vederlo perché ha gli occhi chiusi e riposa, sembra sereno, pensa Alberto, sembra che si stia riprendendo, non tossisce e non si lamenta, coraggio signor Gilberto, io sono qui, ti ho ritrovato, non ti abbandonerò mai.

Le ore passano e viene la notte, quando suonano le campane e qualche botto detona. Forse un anno umano è finito, forse ne inizia uno nuovo. Ma ai due gatti, ritti sul dorso di Antonio, non interessa granché. Il loro calendario non è il calendario degli uomini. Lisa e Alberto non hanno fretta, non hanno pazienza, non hanno speranza né nostalgia. Ma non si levano dalla parete di vetro. È valsa la pena di correre fuori, rischiare la vita e fare la guerra. Sulla schiena del cane, i due gatti vegliano i signori Bianca e Gilberto finché saranno guariti.

Presto torniamo a casa.

Ma non torniamo senza di voi.

Immagine di copertina di kropekk_pl da Pixabay 

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

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di Riccardo Valsecchi – @inoutwards

“Dal momento che l’uomo bianco, il vostro “amico”, vi ha privato del vostro linguaggio sin dai tempi della schiavitù, l’unico linguaggio che conoscete è il suo linguaggio. Intendo, il linguaggio del vostro “amico”. Infatti invocate Dio con lo stesso termine con cui anch’egli lo invoca. Sicché, quando il bianco vi mette il cappio al collo, voi implorate Dio, ed anch’egli implora lo stesso Dio. Provate ad immaginare perché quello che implorate voi non risponde mai.”

Malcolm X, 14 febbraio 1965, Detroit, Michigan.

  1. LE PRIME LUCI DELL’ALBA

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Una caldissima ed afosa giornata risplende tra i palazzi moderni che si affacciano sul porto vecchio. A pochi minuti di distanza, dentro l’edificio che qui chiamano semplicemente Garden, costruito ad immagine e somiglianza del Madison Square Garden di New York, è una bolgia infernale. Dall’alto, sopra le teste dei giocatori, sfilano i 16 stendardi con trifoglio irlandese che ricordano gli altrettanti titoli nazionali vinti dalla squadra di casa, i campioni in carica dei Boston Celtics. Ad introdurre l’entrata degli avversari solo i buu della folla inferocita. Non è affatto una sorpresa. Si tratta dei Detroit Pistons, aka Bad boys, la franchigia più odiata della lega, che si è fatta strada fino alla finale della East Conference a suon di falli, risse, multe ed una difesa dura, rocciosa, cattiva.

Silenzio. Dagli altoparlanti si diffonde nell’arena l’inno americano:

“O say can you see, by the dawn’s early light,

What so proudly we hail’d at the twilight’s last gleaming?”

(Di’, puoi vedere alle prime luci dell’alba

ciò che abbiamo salutato fieri all’ultimo raggio del crepuscolo?)

Il crepuscolo. Chissà che cosa passa per la testa al mingherlino, nella pallacanestro dei giganti, Isiah Thomas. Sarà questa partita la fine di tutte le frustrazioni e l’inizio di una nuova alba? La mente torna indietro nel tempo, una notte d’estate del 1966.

West Side, il quartiere più povero e decadente di Chicago. La famiglia Thomas vive al primo piano di un edificio in Congress Street, proprio dirimpetto alla superstrada. Papà Isiah Senior se ne è andato da tempo; mamma Mary si arrangia come può, lavora alla mensa presso la basilica di Santa Maria Addolorata, sul West Jackson Boulevard. I problemi non mancano. È un’impresa crescere da sola nove bambini nella zona più degradata della città. Isiah, il più piccolo, ha solo cinque anni, ma è già così bravo con la palla a spicchi da riuscire a portare a casa qualche dollaro esibendosi con acrobazie, palleggi a velocità supersonica e canestri dalla distanza durante gli intervalli delle partite del campionato parrocchiale. Sempre che quei soldi non vengano requisiti dai fratelli più grandi, per poi, da lì, finire direttamente nelle tasche degli spacciatori di eroina che infestano il quartiere. Per la verità, c’è un uomo che sta cercando di combattere tutto questo degrado: il suo nome, Fred Hampton, ad Isiah è familiare perché è il portavoce delle Black Panthers, di cui sua madre fa parte. Nei controversi e sovversivi anni ‘60, pur appartenendo ad un gruppo, le Pantere Nere, che i media continuano a descrivere come il corrispondente nero dei suprematisti bianchi, Fred è convinto che se il razzismo fosse inquadrato in una discussione politica, piuttosto che etichettato come mera ignoranza, allora ci sarebbe margine per creare, nella povera e dimenticata West Side, una coalizione di persone, esseri umani, che non si distinguono per il colore della pelle, piuttosto per la mancanza di rappresentazione politica e tutela legale. Proprio per queste idee “sovversive”, a cui Fred ha trovato un nome, Rainbow Coalition, ed un seguito perfino nelle gang locali che infestano la città, radunando attorno a se neri, brownies, perfino whites abbandonati da una società che non concede nulla a chi non si adegua alla dura e tremenda legge del dollaro, Hampton verrà ucciso il 4 dicembre 1969 in una retata della polizia che oggi sappiamo essere stata organizzata dall’FBI con lo scopo di mettere a tacere una delle menti più brillanti dell’attivismo afro-americano.

Ma in questa sera d’estate del 1966, il piccolo Isiah, che ha solo cinque anni, non sa nulla di politica, capisce solo il linguaggio della fame, la pulsazione intermittente che gli lacera lo stomaco. Bussano alla porta. Mamma Mary apre. Di fronte si trova un’intera sezione dei Vice Lords, la famigerata banda criminale che conta più di 30 mila affiliati per le strade di Chicago. Collane d’oro, pistole e fucili luccicano sotto i lampioni della strada. È giorno di reclutamento. “Draft Day”, così lo chiamano nel ghetto.

“Vogliamo i tuoi ragazzi,” esclama il capo. “Non possono gironzolare qui intorno senza appartenere ad alcuna banda.”

Mary è una donna risoluta: dopo nove parti, la fuga del marito, e tutte le dannate manganellate della polizia durante le manifestazioni per i diritti civili, non si fa certo intimorire facilmente. Guarda il criminale fisso negli occhi, per un istante infinito: “C’è solo una banda da queste parti, si chiama la banda dei Thomas, e la comando io.”

Il capo dei Vice Lords si gira verso i compagni, scoppia a ridere. Poi, aggressivo, incalza di nuovo: “Se non ci porti tu i ragazzi, ce li pigliamo noi per la strada.”

Potete sentire il battito frenetico, il respiro affannato, la paura di un bimbo di cinque anni? Ed il terrore di una madre a cui stanno minacciando di portare via i propri figli?

Mary sbatte la porta. I criminali non desistono, cercano di abbatterla a calci. Lei attraversa il soggiorno, dove i bambini si sono stretti in cerchio spaventati. Isiah la guarda attonito mentre la madre entra nella stanza da letto. Poi la vede uscire con un oggetto con una lunga canna in ferro, ripercorrere la stanza fino all porta d’entrata, spalancarla rapidamente, il tempo di puntare l’arma contro la fronte del pezzo di… : “Sparisci dalla mia vista o spalmo le tue cervella sulla strada.”

Isiah ascolta le parole di sua madre in silenzio. Un silenzio confuso, frastornato da pensieri troppo voluminosi per un bambino della sua età. Qualsiasi cosa succeda, nulla potrà mai essere lo stesso. Poi, tutto ciò che sente è il rombo delle moto che si accendono e spariscono nella notte. Quel suono, e quelle pulsazioni, si confondono oggi con l’assordante rumore degli inferociti tifosi avversari intorno. Non è la stessa cosa. Nulla è stato più, da quel giorno, la stessa cosa.

È tempo per Isiah di aprire gli occhi, l’arbitro sta richiamando i giocatori dei quintetti base in campo. Tra pochi istanti lancerà la palla al cielo e… Isiah lo sa, è un confronto senza storia, i Celtics non perdono in casa contro i Pistons da 18 partite.

  1. PERVASIVO

Che anno, il 1987! Lo scandalo della rivelazione di un network occulto, operato dalla CIA, che ha venduto armi all’Iran degli Ayatollah per finanziare gruppi paramilitari controrivoluzionari in Nicaragua, minaccia la credibilità del governo del presidente-attore Ronald Reagan. Dall’altra parte della cortina di ferro, il prestigio dell’Unione Sovietica vacilla inerme sotto le ripercussioni dell’esplosione, nell’aprile dell’anno precedente, del reattore RBMK 1000 della centrale nucleare di Chernobyl; ma anche grazie ad un aviatore amatoriale tedesco che, in cerca d’attenzione mediatica, nel maggio di questo pazzo 1987, viola indisturbato l’ultra-impenetrabile muro di difesa aerea sovietico spingendosi fino ad atterrare, incolume, sulla piazza Rossa, di fronte al Cremlino. Il mondo intero, inoltre, è devastato dal virus dell’immunodeficienza (HIV), il quale, apparso all’inizio del decennio, è diventato, per via della trasmissibilità attraverso rapporti sessuali ed ematici, motivo di rinnovate stigmatizzazioni di genere. Tant’è che subito dopo la visita nel settembre del 1987 del Papa Giovanni Paolo II a San Francisco, durante la quale il pontefice, secondo un copione creato ad arte, compie lo storico gesto di prendere in braccio un bambino “infetto”, il prefetto della Congregazione per la dottrina cattolica, Joseph Ratzinger, si affretta a rilasciare una lettera in cui etichetta l’omosessualità come “patologia oggettiva” e l’uso dei preservativi come “strumento di facilitazione del diavolo.”

Ma il 1987 è anche l’anno di “Platoon” di Oliver Stone, che si aggiudica quattro Academy Awards; dell’iconico “Bad” di Michael Jackson; del leggendario “Who’s That Girl Tour” di Madonna, a cui fa seguito un famoso video album dal titolo tricolore “Ciao Italia: Live in Italy”; e di un altrettanto teatrale discorso pronunciato a Berlino dal presidente americano Ronald Reagan, in cerca di riscatto dopo lo scandalo Iran-Contra: “President Gorbachev, tear down this wall; Presidente Gorbachev, tiri giù questo muro,” riferendosi all’infame muro che divideva allora la città simbolo della Guerra Fredda.

Il 1 gennaio 1987, però, le prime pagine dei giornali americani sono dedicate a tutt’altro che i festeggiamenti per lo storico ed emozionante anno a venire.

Siamo ancora nel 1986, mancano 11 giorni alla fine dell’anno e tre giovani, Michael Griffith, 23 anni, Cedric Sandaford, 36 anni, e Timothy Grimes, 20 anni, stanno camminando nei pressi di Howard Beach, una zona del Queens, New York, abitata per lo più da italo-americani. Si trovano di fronte alla New Park Pizzeria, stanno ordinando un trancio di pizza, quando un gruppo di bianchi li circonda. Partono battute infime, versacci derisori, insulti razzisti. Michael protesta, parte il linciaggio. I tre fuggono. Una macchina scura li insegue. Timothy riesce a fuggire, ma Cedric e Michael rimangono bloccati in un vicolo, fino a quando li raggiunge la folla. Michael si dimena, Cedric tenta di difendersi dopo che un mazza da baseball gli ha fracassato il bulbo oculare. Non è come un film, dove ogni frame può essere congelato all’infinito. Ogni istante significa sopravvivenza. Michael riesce a sottrarsi alla presa dei suoi avventori; scappa, attraversa il cavalcavia che si affaccia sulla tangenziale, una macchina blu scura lo investe, muore sul colpo. Il guidatore, Dominick Blum, bianco, si dà alla fuga. Un’ora dopo ritorna sulla scena dell’incidente. Giura di avere pensato d’avere tirato sotto un animale: per questo non si è fermato. I residenti della zona, accorsi incuriositi dalle sirene, ridono. Qualcuno fa il verso della scimmia. C’è chi dice che quella macchina blu scura alla cui guida si trovava Dominick “sembra proprio essere la stessa auto blu scura che inseguiva i tre n-”. Lo annota anche un poliziotto. Cedric, che non vede più nulla e gronda di sangue, viene condotto presso il locale 106° distretto di polizia. Si lamenta, chiede di essere portato all’ospedale, l’ufficiale di sevizio grugnisce: gli urla di stare zitto, non riesce a sentire la radiocronaca della partita di football americano tra i New York Giants ed i Green Bay Packers. Non è un’invenzione degli avvocati di Cedric; le imprecazioni del poliziotto vengono registrate dai circuiti di sorveglianza.

Colonna centrale della prima pagina del New York Times, data primo gennaio 1987: “23 black leaders and Koch – allora sindaco di New York – attack the pervasive racism.”

“Pervasive racism.” Il razzismo pervasivo. Dal Treccani, “pervasivo, che tende a diffondersi ovunque: odore; che pervade, che prende l’animo o la mente in modo completo: sentimento.”

Odore, sentimento. Qualcosa di biologico, qualcosa di affettivo, inesorabilmente umano. Una banale sottigliezza semantica che nasconde una questione di enorme rilevanza: è il razzismo pervasivo, una forza irresistibile che si insinua in maniera subdola ed inconscia? Oppure è sistemico, è l’espressione e lo strumento violento per l’attuazione di un piano di potere che basa la sua legittimazione sulla reiterazione di orribili e criminose logiche schiaviste e colonialiste del passato — e, da non sottovalutare, trova la scusante della sua aberrante dialettica in una vaga ed imprecisata irrazionalità della natura umana? Ma chi, allora, è colpevole di questa pervasiva irrazionalità? Chi la attua, chi la giustifica, o chi ne trae vantaggio e silenziosamente ne minimizza le conseguenze?

Il sindaco Koch è allibito. “New York non è il profondo sud,” dichiara esterrefatto in conferenza stampa. Assicura che giustizia sarà fatta, ma la polizia ed il procuratore John J. Santucci sostengono che non ci sono prove sostanziali. Portano Cedric, che, ricordate, ha perso la vista per le botte subite, di fronte a una fila di uomini bianchi, chiedendo di riconoscere gli assalitori. Il poveretto non vede, non riconoscerebbe neppure sua madre. Nessuno viene ancora arrestato.

È qui che sale alla ribalta della cronaca un uomo che rivoluzionerà la scena dell’attivismo newyorkese dei successivi trent’anni. Lo definiscono il Martin Luther King del Nord, ma del Dr. King non ha l’impeccabile pazienza e flemma, anche se ne ha assimilato la retorica ed il dono della parola evocatrice. Non ha neppure il fascino ed il carisma di Malcolm X, ma è cresciuto a New York, e della Grande Mela ha la sfrontatezza e modernità. È piuttosto grasso, indossa una colorata tuta da ginnastica, ed ha una capigliatura alla James Brown, in ricordo dei 10 anni passati come tour manager del padrino della soul music. Si chiama Alvin Sharpton, reverendo Al Sharpton, ed è lo stesso uomo che, 50 kg in meno, reciterà l’omelia al funerale di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto il 25 maggio 2020 a Minneapolis.

In quel primo gennaio del 1987, il sindaco Koch organizza una riunione con i leader delle associazioni per i diritti civili, i quali gli garantiscono sostegno nella lotta a questo razzismo “pervasivo” ed epidemico, nonostante il fallimento delle indagini sul caso Griffith. Sharpton denuncia la riunione come una “pagliacciata”. Koch ride, di fronte ai media gli affibbia il nomignolo di “Al Ciarlatano”.

Sharpton non è un ciarlatano, piuttosto uno che va dritto al dunque. Il razzismo non è un’epidemia, non casca dal nulla; è un sistema di preservazione del potere. Non sono razzisti solo i ragazzi bianchi che hanno assalito Michael, Cedric e Timothy. Razzisti sono i poliziotti giunti sulla scena dell’incidente che “dimenticano” di arrestare l’autista della vettura per omissione di soccorso; razzista è il poliziotto che lascia Cedric, sanguinante, ad aspettare nella sala d’attesa del distretto di polizia, perché deve finire di ascoltare la partita alla radio. Razzista è la folla che chiama “n-“ i manifestanti accorsi da tutta New York per protestare. Razzista è l’amministrazione della Grande Mela ed il procuratore Santucci nel momento in cui balbettano assurde scusanti per giustificare il mancato arresto dei colpevoli. Che cosa dire poi di Benjamin Ward, il primo capo della polizia di New York afro-americano, eletto da Koch giusto un paio d’anni prima proprio a seguito dell’uccisione di un altro nero, l’artista Michael Stewart, 25 anni, massacrato mentre in custodia della polizia? “Ward is our color, but he is not our kind,” risponde Sharpton. Ha il nostro colore, ma non è del nostro genere. Ognuno di questi personaggi è un attore nello schema di preservazione del potere bianco. Chiunque partecipi, consapevolmente od inconsapevolmente, all’affermazione di un potere basato sul pregiudizio razziale, è razzista. Nessuno escluso.

  1. NERO CONTRO BIANCO, BIANCO CONTRO NERO

Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Boston Celtics contro Detroit Pistons. Gara sette della finale della East Conference, l’ultimo gradino prima della sfida finale per aggiudicarsi il titolo di World Champions. La partita procede punto a punto. Alla fine del primo quarto Detroit è in vantaggio di 7 punti, a metà tempo di uno solo, 56 a 55; alla fine del terzo quarto, le parti si invertono, Boston è avanti di uno. Isiah Thomas, la star di Detroit, ce la mette tutta, ma i Celtics hanno dalla loro esperienza, mentalità, ed una squadra ricca di eccellenti talenti, tra cui un biondo dagli occhi azzurri che in questo momento sembra imbattibile: Larry Bird, ribattezzato, da queste parti, “the great white hope”, la grande speranza bianca.

Bird non corrisponde affatto all’immagine che i media ed i tifosi gli affibbiano. Fuori dal campo non parla molto, quasi per nulla. Viene da una famiglia poverissima, ed il padre, un reduce della guerra in Corea, si è suicidato quando Larry aveva 18 anni.

Fin da ragazzino è un giocatore straordinario. Appena maggiorenne, il leggendario allenatore dell’Indiana University Bobby Knight lo recluta per la sua squadra di basket con una borsa studi completa. Nessuno, nella famiglia Bird, era mai andato al college. Ventiquattro giorni dopo Larry fugge dal campus e ritorna a casa. Trova lavoro come tagliaerba, poi come netturbino. L’ambiente del college lo disturba. I bianchi dell’università non sanno giocare a basket, per lo meno non alla pallacanestro che piace a lui. Sono educati, si lamentano per ogni contatto, non hanno la grinta degli afro-americani. E l’allenatore, Knight, non è compatibile con l’introverso Larry. Per Knight lo sport è disciplina: per Larry il basket è l’unico dannato modo per togliersi dalla testa l’immagine del volto di suo padre sfigurato dal proiettile con cui si è tolto la vita. Il basket che ama è quello che gioca al campetto nel dopolavoro con un gruppo di colleghi neri di una decina di anni più grandi. Con loro condivide la rabbia interiore di un’esistenza in cui nulla va per il verso giusto.

Sul campo, il timido Larry è una parlantina continua, una provocazione dopo l’altra. È cattiveria e spietatezza allo stato puro. Un maestro nell’arte del trash talking, ovvero insultare l’avversario fino a quando questi non perde la pazienza… e la concentrazione. Il tizio di fronte si prepara per il tiro, Larry gli ricorda che non ha fatto ancora un canestro, quello s’innervosisce, sbaglia, la palla finisce nelle sue mani, che, boom, la infila di nuovo. Un classico che si ripeterà negli anni a venire.

Alla fine, grazie all’insistenza della madre, finisce per accettare l’offerta dei Sycamores dell’Indiana State University, una squadra universitaria minore che non ha mai vinto nulla. Con Larry, i Sycamores vincono 33 partite di fila ed approdano alla finale nazionale. Ad attenderli, in quella che ancora oggi è la partita di basket universitaria con il più alto sharing televisivo di sempre, i Michigan State Spartans di un altro formidabile giocatore, destinato a condividere con Bird la platea dell’Olimpo del basket per il decennio successivo: Earvin Magic Johnson. È la sfida del decennio: questi due, benché sbarbati ventenni che giocano in una lega amatoriale – i giocatori universitari non possono essere pagati negli Stati Uniti -, hanno già accumulato più copertine ed interviste di tutte le star professioniste di tutti gli altri sport messi insieme. Al di là del talento speciale, c’è un motivo ben preciso. Quel 26 marzo del 1979 l’America crede di potersi riappacificare con i soprusi razziali perpetrati per oltre tre secoli spostando la contesa sui campi da basket: bianco contro nero, Larry Bird versus Magic Johnson. Per la cronaca, la prima va a Magic, che con i suoi Spartans domina la finale per 75 a 64.

Nel giugno del 2019 l’attore Samuel Jackson, introducendo sul palco Larry Bird e Magic Johnson per l’assegnazione del prestigioso Life Achievement Award, equamente attribuito ad entrambi, chiuderà il discorso con queste parole: “Prima di questi due, il basket era un bellissimo sport; con loro è diventato una religione.”

Niente di più vero. Quando Larry ed Earvin entrano nel mondo professionistico, la National Basketball Association (NBA) è sull’orlo della bancarotta. Il bilancio della maggior parte delle squadre è in rosso, si vocifera che negli spogliatoi giri tanta cocaina, le tribune sono mezze vuote, e gli sponsor non se la sentono di investire in uno sport giocato prevalentemente da afroamericani.

Bird e Magic, che sono stati ingaggiati da due team agli estremi opposti del continente, rispettivamente i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, dominano la competizione, aggiudicandosi quasi ininterrottamente durante la decade successiva tutti i maggiori trofei individuali e di squadra. In questi anni Ottanta, sono lo yin e yang della NBA, ma anche dello sport mondiale; la loro rivalità diventa uno spettacolo mediatico senza precedenti, che, velato da un fasullo spirito di competizione decubertiano, va dritto al nocciolo della questione razziale. La Converse ne fa addirittura uno spot pubblicitario: una limousine arriva nella piccola cittadina di French Lick, cala il finestrino posteriore ed appare il volto sorridente di Magic che sfida Bird e le sue Converse Weapon nere contro le nuove Converse Weapon giallo-viola del giocatore dei Lakers. I colori si confondono, ma il significato rimane sempre lo stesso: nero contro bianco, bianco contro nero. In realtà lo spot diventa l’occasione per un’incredibile amicizia, ma questo è il backstage, di cui nessuno è a conoscenza, perché, sul campo, i due continuano a fare finta di odiarsi. E proprio questa rivalità, nata sul filone narrativo della tensione razziale, anche in Europa sempre più preponderante a seguito dei nuovi flussi migratori dal continente africano, diventa il marchio d’esportazione della NBA, che, in pochi anni, da lega sportiva nazionale, si trasforma in circo mediatico globale con introiti multimiliardari. Gadget, felpe e giubbetti con i loghi dei Celtics e dei Lakers invadono i negozi sportivi di tutto il mondo, dall’Asia all’Europa. Vent’anni prima del digitale satellitare, la NBA è già uno show trasmesso in diretta sui canali televisivi di tutto il pianeta. Il volto rotondo e sorridente di Magic contro quello tagliente e serioso di Bird contagiano anche l’Italia, dove la pallacanestro ha più acchito che negli altri Paesi dell’Europa Occidentale. L’Italia, infatti, è la destinazione preferita di alcuni ottimi ex giocatori NBA che decidono di concludere qui la propria carriera, incentivati da un discreto livello di competizione e dalla presenza di un eccentrico e fenomenale allenatore con un iconico accento americano che la notte si ricicla come commentatore televisivo delle partite NBA trasmesse sui nuovi canali televisivi del gruppo Mediaset: “Mamma, butta la pasta, qui il vostro Dan Peterson da…” E davanti alla televisione, in una calda ed afosa Reggio Calabria di quest’estate del 1987, c’è anche un bambino, originario di Philadelphia, giunto da un paio d’anni al seguito del padre, che dopo una mediocre carriera nella NBA, ha deciso di provare l’avventura cestista italiana. Il nome di questo bambino è Kobe Bryant; il suo destino è quello di continuare l’eredità di Magic ai Los Angeles Lakers e diventare il volto più noto della NBA nel millennio a venire.

Essere un bambino italiano, bianco, fanatico di basket, negli anni ottanta, è stata un’esperienza confusa. Non posso nemmeno immaginare ciò che abbia significato per un bambino afro-americano in Italia.

Tutti i miei eroi erano neri. Sì, certo, c’erano alcuni buoni giocatori bianchi, ma non erano dominanti come gli afro-americani. Poi c’era Bird, ma, ovviamente, i mie amici tifavano i Celtics e Bird, quindi io mi sentivo in dovere di tifare i Lakers e Magic. Poi, di Magic, mi affascinavano le giocate brillanti, la capacità di passare la palla negli spazi più stretti, l’intelligenza geniale. Tuttavia, erano anche gli anni in cui alle scritte “via i terroni”, che coprivano i muri lungo la strada verso la scuola media, si aggiungevano le parole “via i n-”. E quando chiedevo chi fossero i n-, la risposta era “bestie che vengono da sotto la Terronia.”

Erano questi “n-” gli stessi che giocavano allo sport che più amavo? Perché, a guardarli, mi sembravano tutti uguali. Tra l’altro, uno di questi, Hakeem Olajuwon, la star degli Houston Rockets, veniva proprio da quei territori “sotto la Terronia”, lo avevo letto su Superbasket. Quindi, se erano uguali, perché tutto questo odio, quando, nell’unica cosa che contava in quel momento della mia vita, ovvero giocare a pallacanestro, erano di gran lunga superiori a qualunque bianco?

Ero un bambino, mentirei se sostenessi che già allora avevo una coscienza antirazzista. Anche perché sui quotidiani ed al telegiornale non si accennava affatto ai linciaggi, ai pestaggi, al lancio nel vuoto dalla finestra di una palazzina in costruzione del giovane Fouad Khaimarouni, alle fiamme che avevano bruciato vivo Ahmed Ali Ghana, colpevole di sporcare con la sua pelle il marciapiede dove dormiva; sebbene di padre italiano, poche righe pure per Giacomo Valent, assassinato da due compagni di classe con 63 coltellate. Piuttosto, la cronaca era piena di questi energumeni assassini, borseggiatori e spacciatori venuti dal continente nero per derubare il bravo ed onesto cittadino italiano. In Italia, mi avevano insegnato, “il razzismo non esiste; o, se esiste, è un fenomeno superficiale, passeggero, non ha radici profonde come negli Stati Uniti.”

Ciò che mi lasciava perplesso, e non capivo, era perché, allora, Magic che, si sapeva, era piuttosto lento, ma compensava con eccezionale lucidità tattica, incredibile visione di gioco ed intelligenza sopraffina, veniva descritto nei nostri quotidiani come un animale selvaggio ed irrazionale, mentre Bird, provocatore, testa calda e noto per la sua fisicalità, diventava un fine calcolatore? Forse i giornalisti sportivi italiani non capivano nulla di basket?

Da “la Repubblica”, 28 giugno 1987, un giorno prima della sfida tra i Detroit Pistons ed i Boston Celtics: “Larry Bird e Magic Johnson sono i Coppi e Bartali del basket professionistico americano. Simboleggiano due differenti stili di gioco, due personalità diverse, due modi di essere campionissimi. Dividono a metà i tifosi, tra chi si identifica nel calcolo razionale, nella perfezione computerizzata di Bird, e chi preferisce lo splendore irrazionale, la magia funambolica (“Il mio gioco è selvaggio e pazzo,” dice lui) di Johnson.”

[parte 1 di 4 – segue] Leggi tutte le 4 parti:

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)

The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)

immagine via Wikimedia Commons

Inno a Lagioia ( seconda parte )

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di

effeffe

Qui la prima parte.

Ne La città dei vivi, la questione dell’identità sociale, ovvero voler essere come ci siamo costruiti agli occhi del mondo, non mi sembra l’unico paradigma in grado di stabilire una genealogia di quel terribile fatto di cronaca.

I fatti di cronaca

Un tema secondo me interessante e per nulla banale riguarda il sempre maggiore interesse del pubblico dei lettori e degli scrittori verso i fatti di cronaca. In francese si definiscono faits divers e sappiamo  da un’inchiesta pubblicata su Le Monde che già qualche anno fa lo spazio dedicato a questo tipo d’informazione nei telegiornali era aumentata del 73 % » .

Roland Barthes vi ha dedicato un saggio molto interessante nei suoi Essais critiques, formulando alcune possibili risposte a quella strana curiosità morbosa che ci spinge ad attardarci sulle pagine di cronaca come quando si rallenta in autostrada davanti a una scena d’incidente. Scrive Barthes:

L’assassinio politico è dunque sempre, per definizione, un’informazione parziale; il fatto di cronaca, al contrario, è una informazione totale, o più precisamente, immanente; contiene in sé tutto il suo sapere : non c’è bisogno di sapere nulla del mondo per consumare un fatto di cronaca; non rimanda formalmente a nient’altro che a se stesso; naturalmente, il suo contenuto non è estraneo al mondo: disastri, omicidi, rapimenti, aggressioni, incidenti, furti, stranezze, tutto rimanda  all’uomo, alla sua storia, alla sua alienazione, alle sue fantasie, ai suoi sogni , alle sue paure: un’ ideologia e una psicoanalisi dei fatti di cronaca sono possibili, ma qui si tratta di  un mondo  la cui conoscenza non può essere che intellettuale, analitica, elaborata a un grado secondo da colui che parla del fatto di cronaca, non per  quello che lo consuma; a livello della lettura, tutto è dato in una notizia; le circostanze, le cause, il passato, l’esito; senza durata e senza contesto, costituisce un essere immediato, totale, che non rimanda, almeno formalmente, a nulla d’ implicito; è in questo  che si apparenta al racconto o alla favola, piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza che definisce il fatto di cronaca.

Qualche giorno fa, parlando con un’amica che fa una tesi sulla storia del genere giallo in Italia, a un certo punto, un po’ scherzando un po’ no, le ho detto che tutte le grandi e medie case editrici coinvolte nel successo del noir avrebbero dovuto versare un obolo alle vittime dei grandi fatti di cronaca italiana del decennio che va dalla fine degli anni novanta, a cominciare dal caso di Annamaria Franzoni passando per Erba e Novi Ligure fino ai nostri giorni. L’idea che mi sono fatto e che un giorno mi piacerebbe approfondire è infatti che l’esplosione del genere in Italia deve in parte la propria fortuna ai milioni di spettatori di quelle vicende che non trovando una logica in quei fatti, nemmeno alla fine degli iter processuali, hanno dato fuoco alle polveri rifugiandosi nella narrativa per soddisfare la propria sete di verità e razionalità, trovare un ordine al caos.

Per quanto riguarda il testo di Roland Barthes mi concentrerei invece sull’ultimo passaggio per chiedermi: La città dei vivi, di Nicola Lagioia va letto come un romanzo? A differenza di quanto è stato scritto e detto dell’affiliazione di quest’opera a due grandi prove romanesque, A sangue freddo di Truman Capote e L’adversaire di Emmanuel Carrére, direi che invece sia più giusto inserirlo in quella corrente inaugurata da Gomorra e infelicemente raccontata dai Wu-ming del New Italian Epic. Dico infelicemente perché se il paradigma usato dal collettivo bolognese degli Oggetti narrativi non identificati (anche chiamati UNO: Unidentified Narrative Objects) mi era sembrato allora e ancora oggi un’intuizione piuttosto “felice” e preziosa, dall’altra trovai poco esaustiva la catalogazione delle opere proposte, come del resto Carla Benedetti aveva già fatto notare con un bellissimo articolo uscito sull’ Espresso e in versione integrale su Primo amore.

La città dei vivi, a mio avviso risponde ad ognuna delle qualità evocate dal pamphlet dei Wu-Ming, con un elemento in più, secondo me, legato essenzialmente alla mutazione del paesaggio generale avvenuta in quest’ultimo decennio e principalmente del mondo dei social.

Del resto, in una sorta di quasi decalogo (undici raccomandazioni) che in una lettera ai genitori Marco Prato scrive prima del tentativo di suicidio, leggiamo al punto 6:

Buttate il mio telefono e distruggetelo insieme ai 2 computer. Nascondono i miei lati brutti.

A differenza delle intercettazioni, articoli di giornale, dichiarazioni, sentenze, la parte del leone, seppure da tastiera, nella ricerca delle fonti, qui la giocano gli sms, i thread su facebook, tutto quel materiale immateriale che definisce oggi quello che siamo e soprattutto quello che non vorremmo essere. Ecco che il motore di tutto il libro, la ricerca della verità di una vicenda che sfugge al nesso di causalità centrale in un delitto, ovvero il suo movente, gira a vuoto creando un rumore di fondo assordante. Ripercorrendo le pagine di una narrazione sapientemente costruita, nella successione di coro e protagonisti di quella triste vicenda ho ripensato a un altro efferato delitto, quello di Marta Russo del 1997, di fatto rimasto sospeso alle imprecise sentenze, noto alle cronache come Omicidio della Sapienza.

Ad accomunare i due “casi”, l’opacità del movente, “futili motivi”, e il processo mediatico intentato dalla pubblica opinione. Nei due casi gli assassini erano figli di borghesi, nel secondo caso con l’aggravante di essere degli intellettuali, e le vittime persone semplici. “Un povero ragazzo ucciso barbaramente da due porci schifosi assassini nullafacenti figli di papà. Commento facebook“.

Les fouilles de Rome

Il PM incaricato del caso seguito da Lagioia si chiama Scavo. Gli scavi in francese sono les fouilles. Fouiller significa rovistare tra detriti per trovare monili, i resti di una civiltà, le tracce della storia, rovine significative. Roma è un cantiere permanente, un pozzo in cui tutto sprofonda, sembra suggerirci Nicola Lagioia. Scrive l’autore a un certo punto, “la gente rovistava nei cassonetti” mettendo in relazione tre azioni distinte dello stesso corpo sociale, guidate dallo stesso istinto, sapere: la verità, la storia e cosa si mangerà se qualcosa è rimasto.

Proprio in questa “obliquità” della narrazione di Lagioia, per riprendere una delle categorie del NIE, (New Italian Epic), tra le varie vicende e destini evocati, ne emerge una Capitale ormai ridotta al suo teatro più sanguinoso, il Colosseo dominato da topi e gabbiani, e dove i barbari sono i provinciali, come l’autore, me e anche te, caro lettore.

La crudelà del milieu frequentato da Manuel Foffo e  Marco Prato, raccontata  da Lagioia è spaventosa al punto di farci pensare che i veri mostri sono qui, fuori come quando leggiamo i dialoghi che l’autore riesce a scambiare con quei sedicenti amici, provinciali insediati a Roma e al libro paga di genitori rimasti al “paesiello”.

Ecco perché quando ritroviamo l’umanità del colonnello Donnarumma, che come un Virgilio guida l’autore nell’inferno dei faits divers, tiriamo un sospiro di sollievo per degli scampoli di controcanto al rumore di fondo, al coro ( il terzo capitolo porta proprio questo titolo) di una tragedia dove non c’è più tragico. Un altro momento particolarmente forte è l’incontro tra Manuel e Roberto suo fratello perché sembra dirci che quello è il momento di tregua che il diabolico, il luciferino, concede agli umani. Come scrive Lagioia:

l’omicidio getta su carnefice e vittima la sua luce ed è sempre una luce parziale, una luce perversa, l’omicidio è il male e il male è narratore della storia.

Nulla sembra portarci fuori dal mistero dell’animo umano se non il mistero stesso? ci chiediamo allora con Nicola Lagioia.

Per tentare una risposta a tale interrogativo vorrei concludere questa mia lettura con un ritorno al punto da cui eravamo partiti, ovvero dal bellissimo saggio Loin de moi, Etude sur l’identité di Clément Rosset. Saggio che, vale la pena ricordarlo, si conclude con un vero e proprio inno alla Gioia come anticipato nel titolo di queste note.

A un certo punto Rosset ci racconta di come il conduttore di una trasmissione su France Musique dedicata al grande compositore Maurice Ravel si raccomandasse di non illudersi di rivelare il segreto dell’autore del Bolero, perché “il n’avait d’autre secret que le secret de son génie”. Per spiegare meglio la cosa s’era servito di un aneddoto che un amico gli aveva raccontato. Alla morte del padre tipografo, nel fare l’inventario dei beni presenti, si imbatté su una busta corposa, con su scritto a mano dal padre: si prega di non aprire. Per quanto morisse dalla curiosità di controllare cosa vi fosse all’interno, per molti anni era riuscito a rispettare quella che ai suoi occhi risultava essere la volontà paterna fino al giorno in cui, cedendo alla tentazione aveva aperto la busta scoprendo che all’interno v’erano decine di etichette con la dicitura: si prega di non aprire.

 

Legal Alien, postcards #albania

2

di Julian Zhara

#covid #2020

Stanno morendo uno dopo l’altro; / buttare la terra sopra le bare / sta diventando un gesto abituale / come buttare il sale sul cibo in cottura. Prima strofa della poesia Si affrettano a morire, di Luljeta Lleshanaku.

#albania #shqipëria

Chiamare qualcosa è darle un posto nel mondo. Chiamare Albania uno stato che si definisce Shqipëria è provocarle una nevrosi: la percezione di sé – anche linguistica – vs. la percezione che il mondo ne ha. Nessun altro paese si riferisce all’Albania come l’Albania si riferisce a se stessa, col nome che evoca l’aquila – shqipe in albanese, significa proprio quello: aquila. Di mio, ammetto che non ho mai visto un’aquila in Albania. Forse perché, a pensarci adesso, mentre stendo queste righe, guardo poco il cielo. Il corpo si espone come cabaret dell’inconscio.

#paradiselost

Un paradiso abitato da diavoli – una frase che mira a descrivere altro (chi vuole, può googlare per scoprirne l’origine) ma che può calzare perfettamente il rapporto paesaggio/uomo in Albania.
I diavoli poi, come ben sappiamo, non sono entità inattive. Agiscono – e i diavoli albanesi, i dreq, gli shejtàn, traducono il paesaggio circostante, un testo in lingua originale, con un alfabeto di cemento e una lingua dove l’armonia, l’eleganza, non si trova a proprio agio. Il mondotesto originale, quel paesaggio albanese che senza nessuna remora iperbolica si può definire paradiso, riporta le pupille allo stato di Adamo. L’incanto è un aggiornamento dei filtri fotografici.

#selfie #selfportrait #unmesedopo

Un mese dopo: il mio albanese si è raffinato, inciampa meno – meno goffo di quando arrivato, zigzaga comunque per arrivare a dire. Nei discorsi con intellettuali e scrittori, discorsi eseguiti in albanese, discorsi che appartengono alla lingua letteraria, e che per me sono paesaggio linguistico italiano, cerco di orientarmi accendendo una luce tricolore dove il buio diventa rossonero. Come un atleta abituato alla maratona, devo reiventarmi nella corsa ad ostacoli, nelle continue barriere architettoniche: dall’atletica al parkour.

#passato #zana #nostalgia

Il passato torna a farmi visita spesso, senza avvisare. Apro e lo faccio sedere. Accompagnato dal bambino che ero. Vado in giro sempre con un grumo di caramelle Zana; se vedo il bambino che ero, gliene offro un paio. Sono ormai introvabili – ho scoperto solo un posto a Durazzo che le vende ancora. Quando ero piccolo le scartavamo, mangiavamo l’interno e usavamo la pellicola rossa come lente per guardare gli altri, o come segnalibri. A casa erano sempre nello scaffale più alto, così non le potevamo raggiungere. Quando bussa il passato, lo accolgo come si accoglievano un tempo gli ospiti: caramelle Zana e liquore di garofano. Likër karafili. Il raki artigianale lo lascio a quando il passato arriva con sconforto, nostalgia. La nostalgia è una forma di lotta – capisco; il rimpianto: un tribunale. Avvocato d’accusa, avvocato difensore, giudice: sempre un pronome, prima persona singolare: io (in minuscolo). Ovunque io vada, non sono altro che / un pezzo di paesaggio del posto a cui appartengo – scriveva Fatos Arapi in Addio.

#mercatodidurazzo #visitalbania

Il mercato di Durazzo è l’Oriente esotico che si sviluppa inaspettato, senza considerare l’occhio del turista. Non si piega alla standardizzazione – esiste nonostante. Fuori dall’immaginario da cartolina, pullula di vitalità – si può dire: esagerata, di urla da una parte all’altra della strada, battute, sorrisi, prezzi contrattati, slogan buffi per attirare la clientela. Visitato dalla gioia, è quanto immaginiamo dell’Oriente dei bazar (in albanese: pazar). Il mercato di Durazzo, quando sei triste, ti risveglia il buonumore, come un quadro di Pontormo dopo le nature morte di Morandi. Dio è il seme di papavero più piccolo al mondo / scoppia di grandezza, scriveva Zagajewski. E Dio qua lo si trova nelle mani di una signora che fila la lana, nel sorriso di un’anziana che vende pannocchie sul ciglio di una strada, nel ciuffo di ҫaj mali (thé di montagna albanese), nel pomodoro cuore di bue aperto a metà, nelle olive di Berat, formaggio di Argirocastro, generosità delle portate.

#italiano #anninovanta #letteraturaitaliana

Negli anni Novanta, l’Albania ha sognato un sogno collettivo, decifrato negli schermi (ekrani) televisivi che trasmettevano film in italiano, cartoni in italiano, programmi tv in italiano. Gli albanesi tifano anche per una squadra di calcio italiana. Chi ha più di trent’anni, l’italiano per lo meno lo capisce; di solito lo mastica – anche abbastanza bene. I primi insegnanti di italiano di chi ha oggi tra i trenta e i quarant’anni, sono stati piccoli problemi di cuore, Sailor Moon, Holly & Benji, è quasi magia Johnny; Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo. Celentano accompagna, con le sue hit, ancora molti pranzi e quasi quotidianamente si sente da qualche parte che la felicità è un bicchiere di vino, con un panino – la felicità. Di contro, la letteratura italiana degli ultimi quarant’anni è quasi totalmente assente, nei suoi apici stilistici. Si traduce Moravia. Manganelli, Parise, Mari, Busi, Trevisan, Siti ecc: lost in translation. Dell’italiano, in Albania, sopravvive lo scarto televisivo, l’assenza della complessità dialettale; il passo, la marcia – non la danza.

#berat #visitalbania

Berat è un Argo dai mille occhi a forma di finestra. Patrimonio Unesco dal 2008 e città museo dal 1961. L’azione della storia, nella sua sedimentazione secolare, millenaria, provoca delle leggere vertigini al visitatore. Oggi conserva lo stesso fascino di un labirinto o del ritrovamento di un mammifero preistorico, che si pensava estinto. La strada per arrivare da Lushnje a Berat è una costellazione di ulivi e infinite sfumature di verde, che voglio immaginare – nel dialetto del posto – abbiano tutte un nome, come il bianco per gli eschimesi. Se le campagne circostanti rilassano gli occhi, l’arrivo in città è un sussulto. Non ci si aspetta tanta bellezza e quando la bellezza arriva così, all’improvviso, può sembrare arrogante. Parcheggio nella parte nuova e tornando a piedi, inizio a familiarizzare con questa creatura-città. Capisco che no, Berat non possiede una bellezza arrogante; semplicemente si è impreparati ad accoglierla. Dirompente sì, ma con grazia, ironia. Pare dirti: non pensavi esistessi, eh? E si gira. La si misura coi piedi, ci si inoltra per le viuzze, la sensazione più prossima che riconosco è la prima fase dell’ebbrezza allegra. Poi gioia. Berat si visita con gioia. Di Berat ci si innamora come un adolescente nelle prime vacanze da solo.

#berat #patrimoniounesco #igersberat #comevenezia           

Rispetto ad altri centri storici (Argirocastro, ad esempio) Berat si può fruire da più prospettive. Entrando nelle viuzze storiche, col lastricato di pietra, dove le finestre famose si vedono da vicino; dall’alto: la vista dalla collina o dal castello ti offre una panoramica più completa; lungo il fiume, che poi è quanto di Berat si vede di più in foto, google immagini, o cartoline, le due facciate con le famose mille finestre o finestre una sull’altra.

*

Come Venezia si può fruire perdendosi tra le calli o sedendosi alle zattere, alla Giudecca, in Riva degli Schiavoni, dove la scenografia dei palazzi di fronte o a lato – pare di essere in un teatro magico, irreale.

#berat #zhara

Mentre attraverso il ponte di Gorica, ripenso a un ragazzo, poco più che adolescente, figlio di un sarto e nipote di un prete ortodosso, che nel ’43 lascia questa cittadina e parte per le montagne, col sogno di liberare l’Albania dagli oppressori. In mezzo alle montagne conosce una ragazzina minuta, bellissima, castana e occhi azzurri, che dopo pochi anni sposa, e con cui fa cinque figli. Fine della guerra, la carriera militare, si stabilizza a Durazzo, conduce una vita felice, una morte serena, non senza essere diventato il campione di backgammon, tra i pensionati nel quartiere. Quel ragazzo è mio nonno, Vangjel (Evangelio) Zhara, partigiano, marito di una partigiana. Disfarsi del nome: accantonare Julian per Zhara.

Radiodays: intervista a Gianni Maroccolo

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Photo © Marco Olivotto
Photo © Marco Olivotto

Suoni di frontiera scorrono lungo antichi canali

in conversazione con Gianni Maroccolo

di Mirco Salvadori

 

Il temibile grand tour nel passato: quando “l’eroe della nuova onda” tutt’ora combattente, viene a contatto con il microfono del giornalista di turno che inizia a vagare all’infinito nel suo trascorso artistico, quasi a dover ancora e nuovamente sottolineare una tenacia che, nel caso di Marok, non ha più bisogno di essere documentata.

 

Memorie – Vincenzo Consolo

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Memoria, memorie

Introduzione di Claudio Masetta Milone

al libro “Memorie” di Vincenzo Consolo (Dante & Descartes, 2020)

Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere.” (V. Consolo, “Memorie”, da La mia isola è Las Vegas, Mondadori, Milano, 2012, pag.)

 

La memoria. Le memorie. Patrimonio del singolo e della comunità, presupposti per l’edificazione di un’identità collettiva.

Che la memoria sia sempre stata centrale nella tessitura del discorso letterario di Vincenzo Consolo lo testimonia l’ansia di alimentarla che il maestro manifestava ogni volta che scendeva a Sant’Agata da Milano.

Memoria significava per lui fermarsi ad ascoltare. Ma ad ascoltare che cosa? La lingua delle origini, prima di tutto, quel dialetto santagatese che lui non praticava, fatta eccezione per qualche parola che gli sfuggiva di bocca soprattutto quando era arrabbiato. Quel dialetto, quel lessico familiare, quei suoni antichi facevano riemergere in lui il desiderio inarrestabile di ricongiungersi al paese abbandonato anni prima per migrare al nord, gli rendevano indispensabile informarsi su tutti gli accadimenti intercorsi tra le sue visite. Chiedeva di sapere, Vincenzo, di sapere della gente del borgo e delle sue vicissitudini, delle contrade vicine, della corona dei Nebrodi che abbraccia Sant’Agata e la divide dalla Sicilia dell’entroterra e poi dalla Sicilia ribollente delle zolfare agrigentine. Ma sapeva disegnare un arco ben più ampio di questo: da Sant’Agata ai Nebrodi, alla Sicilia tutta, all’Italia nella sua dimensione mediterranea, al mondo.

Chiedeva informazioni, Vincenzo. E aveva un cruccio, che riproponeva tutte le volte che domandava del paese: ha riaperto la libreria? c’è ancora la biblioteca?

Se si fa memoria non si può prescindere dalla letteratura, dalla narrazione, e libreria e biblioteca sono il cuore di questa dimensione. Fare memoria significa essenzialmente narrare e il maestro seduto ad ascoltare i racconti di Sant’Agata ne è l’immagine emblematica. L’ascolto dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava il volo, nello spazio e nel tempo. Da Sant’Agata alla Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, si diceva. Ma anche dal presente al passato – o sarebbe meglio dire ai passati – dell’isola. L’esercizio della memoria come narrazione, infatti, non poteva prescindere per un siciliano dal ripercorrere l’intreccio di fili etnici e culturali che in Sicilia si sono magnificamente aggrovigliati. Il filo greco, però, nella dimensione narrativa e culturale di Vincenzo Consolo, risultava dominante. “C’è più arte greca in Sicilia che in Grecia!”, amava ricordare.

Sì, amava parlare dei Greci, il maestro. E della cultura mediterranea che, diceva, si è sempre sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna, l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e vergogna.

Amava cercare i segni di questa antichissima tradizione di accoglienza siciliana. Si entusiasmava di fronte alle prove dell’avvenuta integrazione, su suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse.

Una di queste storie era quella della Madonna di Tindari. Spiaggiata dalle onde del mare sulle coste messinesi, custodita dentro una scatola di legno, è stata accolta, – lei, Madonna nera – dai fedeli dell’isola, che le hanno innalzato un santuario. Una Madonna nera, accolta e venerata nel cuore del Mediterraneo. Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella collezione come simbolo di felice integrazione.

Fu profetico su questi temi: aveva ampiamente previsto la deriva d’odio a cui stiamo assistendo. Presagiva un nuovo innalzarsi di muri, laddove c’erano un tempo quelle spiagge d’approdo e d’accoglienza per i naufraghi scampati alla furia del Mediterraneo.

La memoria, infine, la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura.

Avrei potuto riempire pagine e pagine di ricordi, scrive il maestro, e comporre così una mia personale recherche. Lo ha fatto, direi: le tracce di questa composizione sono disseminate lungo tutto il suo percorso narrativo.


Claudio Masetta Milone  (Sant’Agata di Militello 1957). Ha collaborato con Vincenzo Consolo e con la moglie Caterina Pilenga (a cui era legato da affettuosa amicizia). È curatore del sito VincenzoConsolo.it e della pagina facebook dedicata allo scrittore siciliano. È socio fondatore dell’Associazione amici di Vincenzo Consolo. Ha curato le seguenti pubblicazioni: la prima raccolta di poesie di Vincenzo Consolo Accordi  (Zuccarello Editore 2015),  Vincenzo Consolo Una poesia (Edizioni Pulcino Elefante 2020), Memorie  Storie in trentaduesimo (Libreria Dante & Descartes 2020).  Nel 2012 ha vinto la Prima edizione del concorso nazionale “Doppio d’autore -La poesia incontra l’arte” (Associazione culturale The artship).

Settembre 1943 e altre poesie

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di Umberto Piersanti
(Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo tre poesie da Campi d’ostinato amore di Umberto Piersanti, La nave di Teseo 2020)

***

Settembre 1943

era ieri l’otto settembre,
sotto lo stesso cielo
di questo mese azzurro
un tenente cammina
per lo Spineto,
la ragazza accanto,
tenera la sua veste
sparsa di fiori
e la grande cintura
stretta alla vita?
e nuotano i ragazzi
alla Borzaga
in quella gorga limpida
e assassina?
cerchiano le rondini
come da sempre
la verde cupola
del Duomo?

e tu a tre anni
guardi i settembrini
o solo t’acqueti
e perdi nello sguardo
del padre che t’abbraccia
senza la divisa?

dalla marina salgono
i signori del ferro
e del fuoco
con gli elmi calati,
tu fuori della Storia
nell’abbraccio del padre
solo e felice

settembre 2017

***

Febbraio 1941

forse nevicava quel giorno
come adesso,
stroncava i gialli
impazienti favagelli
e nevicava forte nei Balcani
dove il padre soldato
nel suo lungo cappotto si rannicchia,
autarchico e gelato,
gelata la discesa
giù per il Monte,
lì passa la tua lettiga
madre,
in quattro la sorreggono
per l’ospedale

tu scalci,
hai fretta
d’uscire in mezzo al gelo,
sai che la vita
è oltre quel tepore,
altro non sai
e altro non ricordi,
inquieto come i favagelli
che la neve cela
dentro il bianco

e la sorella grande
col gelo della sciarpa
e sulla bocca
segue quella lettiga
all’ospedale,
l’altra prepara
la minestra con dentro
il pane,
la famiglia è di cinque
il numero più giusto,
la madre
ed anche il padre
hanno quei nomi immensi (1)
del Vangelo

dalla bianca pineta
i corvi neri
scendono alle torri
che il bianco cerchia,
un aereo vola
così lontano,
lontano com’è ancora
la guerra in quelle ore

scende un soldato piano
dalle Cesane,
ha governato le bestie
la sera prima
e quell’acqua l’attende
sconfinata-appena
s’intravede e fa paura-
dove la morte piomba
da sopra o dal fondo,
e sabbia e fuoco
sono là
se arriva

tu non sai
le vicende e le figure,
solo suoni e colori
non li ricordi,
non sai se la madre
s’appresta a consolarti
dell’esser nato
o se la vita saluti
e bevi a sorsi lunghi
dopo quel limbo caldo,
ma vicino,
così vicino
al Vuoto che tutto
precede

e nella stessa ora
l’altra sorella
libera dalla neve
un favagello

febbraio 2018
(1) Il nome di mio padre Giuseppe, di mia madre Maria

***

L’età breve

c’è stato un tempo
in cui ci credemmo
immortali,
alti sull’Appennino
ventoso,
fermi nelle strade
d’Europa,
la rosa dei venti
spalancata a nord
e sud e est
e ovest,
senza il pensiero
del ritorno,
senza idea
di sosta,
senza limite
d’ora
o luogo,
le macchine riempivano
le strade,
la gente affollava
le piazze,
dal camion
tu li osservi (1)
così fermi
e assoluti
come il tuo sguardo

l’età breve
trascorre
in un cielo chiaro
e senza tempo

Ottobre 2019
(1) nella mia adolescenza viaggiavo a lungo con l’autostop

 

Volpe e Lepre

1

Siamo alla vigilia di Natale, una festa che sarà diversa dal solito a causa della pandemia. Per me, fin da piccola, le feste invernali sono sempre state un momento elettivo di immersione nel fiabesco e in altri mondi, attraverso libri e film, specialmente film di animazione. Un momento per sospendere il tempo, dedicarsi per ore ai sogni, come animali che riposano nelle tane. Così mi piace condividere La volpe e la lepre, l’esordio di Jurij Norštejn nel 1973, di cui già qualche anno fa, Mariasole Ariot aveva pubblicato il capolavoro, Il Riccio nella Nebbia, qui. Una favola classica, dove accade poco eppure accade tutto. Una Madama Volpe che ruba la piccola casa confortevole al povero Lepre. Grandi e saggi animali cercheranno di aiutarlo: Lupo, Toro, Orso… fino all’arrivo di un Gallo bizzarro, pieno di intraprendenza. Buona visione e buone feste.

Sull’antologia “Nuova poesia americana II”

4
©Renee Stout - "Pretty poison"
©Renee Stout – “Pretty poison”

 

di Ornella Tajani

 

Sono sei i poeti statunitensi inclusi nel secondo volume di Nuova poesia americana, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, con traduzione di Abeni: in ordine di apparizione, Kim Addonizio, Garrett Hongo, Lawrence Joseph, Kay Ryan, Aracelis Girmay, Kevin Young.

Un’antologia poetica plurale, che appare senza testo a fronte, è un’operazione culturale di considerevole portata: sia per la selezione di voci operata (i cui criteri sono riassunti qui dal traduttore), sia per la restituzione dei testi nella sola lingua d’arrivo, il che rimette ogni responsabilità nella diffusione delle opere a chi traduce. Il pubblico italiano leggerà questi/e autori e autrici attraverso gli occhi di Abeni, imparerà a conoscerli nelle sue parole.

Proprio per questo una antologia di tal tipo è un oggetto poetico affascinante, che ha sì a che vedere con la mediazione culturale, ma è anche – come ogni traduzione – una operazione apertamente creativa:

Io rivendico drasticamente il diritto di chiamare poesie le mie traduzioni. Distaccandomi nettamente dall’ambiguo enunciato di Umberto Eco, “Dire quasi la stessa cosa”, asserisco l’unicità e la radicale originalità di un nuovo oggetto che scaturisce da una forma data e da un significato ineludibile,

spiega Abeni in un articolo, che funge da racconto della propria esperienza traduttiva complessiva; resta un po’ di rammarico per l’assenza di una vera e propria nota nel volume. Si può dunque invitare a leggere Nuova poesia americana II riflettendo – repetita iuvant – sull’importanza del ruolo di chi traduce, sulla portata del suo lavoro.

Alla fine della bella introduzione, di cui pubblico i primi tre paragrafi, ricordando la presentazione del primo volume di questa antologia, Freeman scrive:

Ricordo che mentre ascoltavo le parole di Robert Hass, Natalie Diaz, Robin Coste Lewis, la cui produzione copre un lasso di tempo di quarant’anni, e sentivo la poesia respirare in una lingua nuova, ho pensato a quanto può essere solida una poesia ben tradotta. A quanto nobiliti la distanza che ci separa. Una poesia ben tradotta può rammentarci che siamo soli, ma se è una buona poesia, ci ricorderà anche che siamo soli insieme. Che conforto è questo, perfino in tempi bui.

Una poesia ben tradotta nobilita la distanza che intercorre fra due testi, due culture, due soggetti: è una prospettiva ampiamente condivisibile, che getta luce su come la distanza non possa essere cancellata (il che condurrebbe a ciò che Henri Meschonnic definiva annessione), ma implica un’operazione di decentramento, come ho già ricordato altre volte, ad esempio qui. Freeman sottolinea non solo che questa distanza non va nascosta, ma anche ch’essa costituisce in fondo l’essenza della bellezza della traduzione.

Pubblico dunque una parte dell’introduzione e, a seguire, tre poesie.

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dall’introduzione di John Freeman

Non conosco luogo capace di farti sentire più solo dell’America. I suoi paesaggi, così maestosi, austeri, brutali, così giganteschi nelle proporzioni, possono farti sentire piccolo, ma a esser piccoli non è detto che ci si senta soli. Sentirsi soli significa percepire troppo chiaramente i propri confini, i propri limiti. E gli Stati Uniti sono speciali in questo. Da noi puoi sentirti solo in mezzo a una folla, in città, o in famiglia, a un ricevimento di matrimonio, a una festicciola casalinga. Lo stile di vita americano esala solitudine come fumo da una ciminiera. Il punto è che ci hanno detto di essere individui, i nostri miti popolari ce lo ribadiscono in continuazione. Canta di te stesso, esorta il nostro grande poeta Walt Whitman.
Questo «io» minuziosamente plasmato e interpretato sta proprio alla base dell’innovazione e dell’impertinenza della poesia americana. Ma nel tempo ha prodotto isolamento. Uno che parla di sé, d’altro canto, è uno che non ascolta, immerso com’è in se stesso. La nostra liberazione, in questo senso, può costituire una prigione, mentale quanto spirituale. In un arco temporale di due secoli si potrebbe tirare una linea e unire Whitman a Twitter, Facebook, Instagram, tutte tecnologie che pur mettendoci in contatto ci hanno isolato più che mai. Per non parlare dei cosiddetti «fatti alternativi» e delle fake news che continuano a diffondere. Il famoso verso di Whitman «Io celebro me stesso, / e canto me stesso» che compare in Foglie d’erba è annegato nel mare della pandemia insieme a duecentomila persone, per poi riemergere sotto forma della più grande menzogna mai pronunciata dal nostro attuale presidente: I alone can fix it, Solo io posso sistemare le cose.
Invece non può, ma la buona notizia è che la poesia è un’ottima candidata a ricucire il tessuto strappato della nostra collettività. Se l’isolamento è il prodotto più diabolico della società americana, la poesia è il suo formidabile antidoto. Leggere buona poesia in America oggi è sentirsi meno soli nella propria disperazione, nel proprio desiderio, nella rabbia e nel dolore […].

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Garrett Hongo, La leggenda

A Chicago nevica piano
e un uomo ha appena fatto il bucato della settimana.
Esce nella penombra della sera incipiente
con una borsa di plastica sgualcita
piena di indumenti ben piegati,
e, per un attimo, gusta la sensazione
di tepore del bucato e della carta spiegazzata,
come di flanella sulla mano non guantata.
C’è un lucore rembrandtiano sul suo volto,
un triangolo arancione nel cavo della guancia
mentre un’estrema vampa di tramonto
incendia le facciate dei negozi e le finestre accese sulla strada.

È asiatico, tailandese o vietnamita,
magrissimo, vestito poveramente
con pantaloni stropicciati e un impermeabile scozzese,
sporco e troppo grande.
Cammina con cautela sul lustro del ghiaccio
sul marciapiedi accanto alla sua auto,
apre la portiera posteriore della Fairlane,
si china per sistemarci il bucato
e si volta, per un istante,
verso la raffica di passi
e le grida dei pedoni
mentre un ragazzo – altro non era –
esce camminando all’indietro dal negozio di liquori sull’angolo
sparando con una pistola, facendo fuoco,
un solo colpo, all’uomo attonito
che cade in avanti
portando le mani al petto.

Suoni gli fuoriescono dalla bocca,
un farfuglio che nessuno capisce
mentre la gente gli accorre attorno
sbigottita da quel suo discorso.
I rumori che emette non significano nulla per loro.
Il ragazzo è sparito, perso
nella sparsa schiera del traffico pedonale
che screzia la neve di impronte nuove.

Stasera leggo del grande coraggio
di Cartesio nel dubitare tutto
tranne la propria esistenza miracolosa
e mi sento così distinto
dall’uomo ferito che giaceva sul cemento
che ne provo vergogna.

Lasciamo che il cielo notturno lo ricopra nello spirare.
Lasciamo che la fanciulla tessitrice attraversi il ponte del paradiso
e gli stringa le gelide mani.

___

Kay Ryan, Nuove stanze

La mente deve
riadattarsi
ovunque va
e sarebbe
comodissimo
imporre le sue
vecchie stanze – basterebbe
picchettarle
come una tenda
interiore. Oh, ma
i nuovi fori
non stanno dove
prima c’erano
le finestre.

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Kevin Young, Lettere dalla Stella Polare

Cara, le luci qui non chiedono
niente, il bianco cade
attorno alle mie lettere muto,
inarrestabile. Ti scrivo
dalla pancia vuota del sonno

dove niente tranne il freddo
si chiede dove vai;
nessuno qui scuoia teste aspre
e da poco come limoni, e solo
l’auto canta AM tutta

notte. In città
ho visto bimbi mezzo-
morsi dal vento. Perfino i treni
arrivano senza un’anima
che li accolga; le cose qui

non hanno bisogno di me, questo mondo
balla da solo. Solo i ponti
mi implorano di renderli
famosi, di imparare quello
che mi ero quasi dimenticato del volare,

del librarsi liberi, verso sud,
giù. Ciao. Baci e abbracci.