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Ruthie Fear

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di Maxim Loskutoff

La prima volta a caccia con suo padre Ruthie Fear avvistò un enorme scheletro alato giungere in volo dal nord. Ad ali spiegate sulla linea dell’orizzonte, si librava sopra le montagne illuminate dall’alba, oscillando nelle correnti d’aria. Le ossa si muovevano fluidamente, collegate le une alle altre come vertebre e delineate da fasci di luce. Il cranio puntava verso di lei. La sua ombra scivolava sul terreno. Un alieno, Ruthie ne era certa, una creatura che planava di mondo in mondo su correnti gravitazionali e in volo tra uno e l’altro, lentamente, era morta, spogliata della carne dalla potenza di mille soli.
A soli cinque anni Ruthie percepiva la vastità dell’universo. In esso si sentiva un puntino. Immaginava di attraversare il cosmo sulle tracce di quel predatore, senza paura né fame, superando strani mondi e nebulose torreggianti di gas verdi e viola larghe milioni di miglia.
Lo sparo dell’A 5 di suo padre la distolse da quelle fantasticherie e ridusse lo scheletro a un ammasso contorto di parti disconnesse. Una precipitò vicino allo stagno ghiacciato di fronte a loro. Atterrò senza rumore in uno sbuffo di neve. Il resto dello stormo si ricompose, proseguì e si perse tra le ombre dei monti Sapphire. Suo padre imprecò e abbassò il fucile. Aveva la barba rossa incrostata di brina bianca. «Sparato troppo presto» disse. Il suo cappellino arancione era l’elemento più vistoso di quel mondo mattutino. Ruthie non si capacitava: un attimo lo scheletro, quello dopo un’oca morente. Il fumo si srotolava dalla canna del fucile, un riflesso del fiato del padre. L’oca si trascinava sul ghiaccio con un’ala spezzata, diretta non verso la sponda ma verso il centro del lago, come se lì ad attenderla ci fosse stata una qualche benevola forza guaritrice.
L’aria fredda pungeva la gola della bambina. Un improvviso calore le si era acceso negli occhi. Piangeva molto di più la perdita dello scheletro alato che l’oca in fin di vita davanti a lei. Le distanze impossibili che doveva aver percorso. La libertà di spostarsi di galassia in galassia, nutrendosi di luce, mentre lei era confinata nella casa mobile che divideva col padre e nella valle che la circondava. L’oca cedette. Solo l’ala ancora integra seguitò a battere sul ghiaccio con cadenza regolare, debolmente, disperatamente. Il padre di Ruthie imprecò di nuovo. Aprì la cassa e lasciò cadere le cartucce vuote nella neve. Dal basso salì l’odore acre di ammoniaca della polvere da sparo. «Non puntarlo» disse, porgendo il fucile a Ruthie. «Non su di me, né su di te». Ruthie strinse al petto la canna tiepida. Ne soppesò il potere. Desiderava che lo scheletro fosse passato incolume, che fosse volato fino a Las Vegas, Cancún o un altro di quei po- sti lontani, popolati da donne in bikini come quelle sui poster appesi al muro nella stanza del padre. Aveva solo ventiquattro anni, anche lui poco più che un bambino.
Insieme stavano dinanzi al mondo.
Lui si voltò e si avviò nella macchia verso lo stagno. Si fermò sulla sponda strizzando gli occhi per il freddo, con le sopracci- glia aggrottate in un’espressione determinata. «Non farlo mai» disse.
Si sdraiò sulla pancia e spalancò le braccia. Per un istante rimase immobile, come un supplice riverso con la faccia nella neve, poi con le gambe si diede la spinta dalla riva innevata e trascinandosi sui gomiti prese ad avanzare piano sulla superficie scricchiolante del lago. Le braccia disegnavano una specie di V sopra la testa, il corpo appiattito, un orecchio teso a carpire il minimo rumore proveniente da sotto. Esalava calore a nastri, un intruso in quel deserto bianco dove solo l’oca si muoveva. Su tre lati un bosco di salici e poi, come un pendio in lontananza, il tetto innevato della magione incompleta di Wiley King, ex stella del country, dove Rutherford aveva lavorato per un po’ quando aveva chiuso la segheria.
L’ala batteva come un cuore, tump, tump… tump, rallentava, girava a vuoto, era un motore ferito che perdeva colpi. Un rivolo rosso si allungò ad accogliere suo padre, a guidarlo, come un serpente fino alla tana. Ruthie avrebbe voluto gridare, ma aveva paura che anche solo quel suono potesse crepare il ghiaccio. Trattenne il respiro. Suo padre avanzava. Trenta centimetri dalla sponda, poi cinquanta. Tese la mano guantata verso la zampa nera dell’uccello. Quasi la toccò, finché un rumore come un altro sparo lacerò l’alba e due pareti bianche si ersero a formare un canyon, risucchiando uomo e volatile nell’acqua scura sotto. E ricaddero in posizione orizzontale, e rimase solo la crepa frastagliata tra le due lastre a tradire la rottura.
Per un istante Ruthie non si mosse né urlò. Era intrappolata fra la realtà e la sua immaginazione. Che cos’era reale? Suo pa- dre sul ghiaccio o suo padre perso nell’acqua nera lì sotto? Lo scheletro volante o lo stormo di oche? I suoi stivali sprofondati nella neve o saltellanti dietro un’enorme creatura alata nelle profondità dello spazio?
Il ghiaccio sorse con violenza in una montagna puntuta e il cappello arancione del padre irruppe in superficie. L’acqua gelida gli uscì dalle guance. Urlò. Liberò il braccio con uno strat- tone stringendo per la zampa l’uccello che ancora si dibatteva. Lo lanciò verso Ruthie. Quello scivolò sulla neve a riva. Aveva un’aria stranamente intatta, sembrava solo stupefatto ora che il sangue era stato lavato via dalle piume e il freddo gli aveva chiuso per un attimo la ferita. Rutherford arrancò con i gomiti sul ghiaccio, rompendolo di nuovo. Ruotò le spalle come un orso e avanzò verso Ruthie. Lei era immobile, stringeva il fucile paralizzata dal terrore. Lui si faceva largo, inarrestabile, spaccando il ghiaccio nell’acqua che gli arrivava alla vita, il viso contorto in una smorfia. Mostruoso, bestiale, un assassino che avrebbe ucciso ancora. Per un attimo Ruthie si spaventò tanto che pensò di puntare la canna verso il petto del padre, premere il grilletto e rispedirlo sotto il ghiaccio. Che si richiudesse su di lui e il gigantesco scheletro tornasse a solcare i cieli diretto a sud.

Tratto da: Maxim Loskutoff, Ruthie Fear, Edizioni Black Coffee, traduzione di Leonardo Taiuti

Mots-clés__Sogno

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da A. Hitchcock, Spellbound (Io ti salverò), 1945

Sogno
di Fabrizio Cantori

Mylène Farmer, Rêver -> play

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da A. Hitchcock, Spellbound (Io ti salverò), 1945

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Da R. Calasso, La Folie Baudelaire, Milano, Adelphi, 2011, p. 164.Ora invece Baudelaire si assumeva il compito di raccontare a Asselineau un sogno proprio, «ancora caldo». Così lo definiva: frammento di «un linguaggio quasi geroglifico di cui non ho la chiave». Una successione di «confuse parole», come quelle che promanano dal tempio della natura in Correspondances. Il sognatore ne è circondato, osserva i loro «sguardi familiari». Riconosce che sono geroglifici, quindi immagini cariche di significati. Sa di non averne la chiave. Può solo contemplarle, a lungo; può solo presentarle in successione, quindi narrarle, come in quel momento Baudelaire prova a fare con Asselineau. Tale è la condizione cronica della sua vita, immersa nella «oscurità naturale delle cose». Come la vita di tutti, anche di coloro che non sanno di vivere in mezzo a geroglifici. Ancora una volta, la differenza decisiva è solo nella coscienza, come fra il puro male e la «coscienza nel Male». L’atto di raccontare è la prima – forse anche l’ultima – forma della coscienza.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Maria del Mezzogiorno_un racconto

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di Valeria Merante

Il freddo mi punge la faccia mentre lei dice tu non puoi stare qui. Suo marito rimane muto di fianco a lei, mi guardano entrambi dall’alto mentre io resto seduta, inchiodata al muretto come in attesa dell’ultima sentenza. Per me non c’è scampo. Per noi non c’è. In quel momento capisco che è finita, mi sento debole e so che non riuscirò a remare contro una corrente più forte. Ho perso gli scampoli del mio amore a ogni inciampo lungo la strada spoglia e in salita che abbiamo percorso fin lì: Santa Maria del Mezzogiorno è la stazione finale.

Appeso al muro scrostato davanti a me c’è un lampione acceso, di quelli in ferro battuto disseminati per il centro storico. Un tempo al posto di questi vicoli dorati c’erano estese coltivazioni di gelso bianco, nutrimento dei bachi da seta che davano lavoro e prestigio alla città. Fisso a lungo il lampione e mi perdo in quell’immagine, campi e lavoratori all’opera sullo strapiombo normanno. E in lontananza, Maria del Mezzogiorno che avanza lentamente strascinando l’abito bianco sulla pietra calda, ha una cesta piena di pane e si fermerà proprio lì, all’ombra dell’albero di fico, per raccoglierne i frutti e offrirli ai passanti. Maria che arriva dal mare e compie il prodigio in cima al dirupo, fiaccata dal sole caldo del mezzogiorno.

Sento gli occhi bruciare e inumidirsi. L’eco dei tempi andati si mescola al vociare delle persone intorno a me. Gruppetti di amici che si ritrovano per le feste danzano alla luce giallognola di qualche altro lampione muovendosi disordinati da un punto all’altro dello slargo. Api a raccolta nell’alveare. Una palma, la sua edera e un piccolo sambuco stanno lì in silenzio a osservare. Quel luogo mi è così familiare, le mura umide e giallognole delle poche case intorno sono come braccia accoglienti per me, eppure qualcuno mi scaccia come si scaccia un randagio dalla propria abitazione.

In un miscuglio di sentimenti che vanno dalla gioia alla nostalgia mi arriva ovattata la voce di lei che incalza e dice tu non sei la benvenuta, questa è la nostra serata, devi andartene. In tutto quel frastuono non mi arriva il senso di quelle parole. La vedo distorcere lo sguardo, osservo la sua bocca aprirsi in smorfie per pronunciare frasi, il suo dito agitarsi nell’aria con rabbia e quella che a me pare un’invidiabile decisione. Io che non ho capito niente, che non riesco nemmeno a risponderle, che non riesco a difendermi mentre suo marito mi guarda e Luca, seduto vicino a me, balbetta frasi sconclusionate. Che ci faccio qui. Qualcuno mi aiuti. Non viene nessuno. Sono a casa mia ma in territorio nemico. Non volevo neanche andarci, ma Luca mi trascina continuamente dove io non voglio essere, lui pensa che la mia presenza possa cambiare le cose, io provo a spiegargli che non è così, che deve lasciare andare le abitudini, le cose fatte come devono essere fatte; provo a spiegargli che le cose si possono fare diversamente da come siamo abituati, che l’importante è seguire il cuore, ma lui mi guarda come se venissi dalla Luna, una creatura lunare che parla una lingua incomprensibile e che lo costringe a deviare continuamente dalla retta via.

Perché ogni volta che torniamo qui facciamo un passo indietro? Perché permettiamo a questo luogo, a queste persone, di farci regredire? Perché non ho onorato il mio intuito e sono uscita con te? Perché mi fido così poco di me stessa? Perché ti fidi così poco di me?

Io a quel punto voglio andare via, mi rifiuto di entrare nel locale e fare finta di niente, di stringere relazioni superficiali con queste persone omertose. Il mio fiuto mi dice, mi ha sempre detto, che il loro è un mondo limitato, un mondo di religiosi dettami e precetti morali, di finto decoro e dinamiche ghettizzanti. Qualcosa nel corpo mi avverte del pericolo, i peli si sollevano come antenne e un calore mi attraversa dai piedi fino alla testa. E mi muove. Mi metto a camminare senza guardarmi intorno, a quel punto non m’importa se Luca mi stia seguendo o no: se vuole, se è un animale anche lui, scapperà con me. Taglio in diagonale via Educandato e poi mi tuffo a sinistra su via Menniti, dove qualche volta da bambina venivo con mio padre per accompagnarlo dal barbiere, un luogo che sapeva di dopobarba e creme Proraso e che all’epoca mi sembrava grandissimo e pieno di luce. Qualcuno mi saluta ma io sono così decisa nel passo che a malapena ricambio. Non ricordo dove abbiamo messo la macchina. Dov’è la macchina? Dove hai parcheggiato? chiedo a un Luca che mi segue con il volto affranto, cercando di calmarmi, ma io sono una furia: non parlo, non faccio niente, cammino e basta, veloce come un felino a caccia della sua preda.

La mia preda è la mia libertà.

Quale parte di me ha scelto un uomo così debole?

Gli leggo in volto lo struggimento per avermi spinta in quell’angolo, il dolore per l’inconsapevolezza di quel gesto che avrà, lui lo sa, conseguenze irrimediabili. Lui sa che darò la colpa a lui, che di lì a poco farà da parafulmine e che non ci sarà niente da fare; che al massimo metteremo un’altra pezza e a distanza di qualche giorno usciremo dall’ombra e torneremo alla luce, un po’ acciaccati ma ancora mano nella mano, e ci faremo promesse per darci forza e per un periodo riprenderemo a rispettarci. E poi il mostro tornerà. Qualcuno dirà qualcosa o solleverà il tappeto e mostrerà il groviglio di fili, i mucchi di cenere, il passato irrisolto, le cose non dette. Noi ci porteremo le mani al volto e ci copriremo gli occhi per non guardare. Perché prima ci saremo preoccupati di cucinare una cena gustosa e di apparecchiare per bene la tavola, perché a vederci da fuori dobbiamo sembrare perfetti.

Ancora giù per via Jannoni, la percorriamo contro senso al suono di qualche clacson, io avanti e lui dietro, io avanti e lui dietro, fino al Politeama, che stride per forma, fasto e lucentezza nell’umile incoerenza dei palazzi attorno. Quella luce quasi accecante mi sembra però anticipatrice di possibilità, siamo sotto i riflettori e possiamo scegliere che cosa farne delle nostre origini. Per un attimo mi fermo e mi lascio inondare da questo fascio luminoso. Del resto che cosa è appena accaduto? Uno sgradevole incidente di percorso che può essere benissimo ridimensionato, rimpicciolito. Possiamo prenderlo in mano e giocarci. Sminuzzarlo per bene quando parliamo al telefono con qualcuno, poi farne un mucchietto da tenere nel palmo di una mano prima di lasciarlo andare in un secchio strofinando il pollice con le dita. Dimenticarcelo in un trasloco, uno dei tanti.

Chiudo gli occhi e allargo le braccia respirando a pieni polmoni quella possibilità, ma è un attimo che mi ricordo che siamo lì per cercare la macchina, dobbiamo fuggire e frapporre una lunga distanza tra noi e l’accaduto, così mi rimetto a camminare veloce e imbocco via Italia, giù giù fino a che la vallata buia si apre lentamente alla nostra destra mentre a sinistra i palazzi più moderni si allungano verso il cielo e piano piano le mie gambe cedono un poco e rallentano, e io mi arrendo alle lacrime e piango, piango un pianto inconsolabile e lascio che la vista finalmente mi si offuschi. Luca mi mette un braccio sulle spalle e con l’altra mano prende il mio braccio sinistro e poi con calma mi accompagna alla macchina. Entriamo e chiudiamo entrambe le portiere e restiamo in silenzio, un silenzio interrotto soltanto da qualche mio singhiozzo. La rabbia è svanita, mi sento inerme e senza più parole. Vorrei saper dire la cosa giusta, vorrei saper comunicare ma quello è uno di quei momenti in cui è meglio non dire niente e aspettare che passino le ore, dormirci su, far sorgere di nuovo il sole.

Luca mi guarda dispiaciuto, le braccia arrese e le mani giunte in mezzo alle cosce. Fa quella sua mossa di stringersi nelle spalle che riesce a intenerirmi. Se qualcuno mi chiedesse di raccontarlo, io non saprei dire cosa sia appena successo.

Restiamo in silenzio per un po’ con lo sguardo fuori dai finestrini. Noi due non siamo che due puntini insignificanti di questa vita incomprensibile eppure ci diamo così tanta importanza. Vogliamo che il nostro amore si veda, che calzi perfettamente e superi ogni barriera ma in questo disumano tentativo sprechiamo talmente tante energie da restare svuotati e privi di creatività. Siamo ancora così incoscienti. Eppure così fortunati. Siamo così feriti, due bestie che non hanno ancora imparato la legge del bosco. Non è colpa nostra, né io né lui possiamo farci niente. Dobbiamo soltanto vivere, ma ne siamo spaventati.

E la vallata adesso è buia, e la strada sotto di noi è deserta. Ed è allora che vedo una macchia bianca avanzare da lontano. Apro la portiera e scendo, mi asciugo il naso con la manica del cappotto e faccio fumo dalla bocca.

Per molto tempo non saprò dire niente e la rabbia tornerà a trovarmi e assumerà diverse sembianze: una gazza che atterra sul prato, un cappello di lana, il pomodoro tagliato sottile, un pugno di mandorle, una scodella di riso caduta dal ripiano. Lo spavento.

Guardo davanti a me per ricominciare a camminare. E ora la macchia bianca è sempre più vicina, è Maria, Maria col cesto di pane che guida i braccianti diretta a nord. Ed ecco che io adesso voglio soltanto sparire, azzerare ogni pretesa, ogni ferita e perdermi nel buio della vallata, fare spazio, scomparire all’orizzonte sopra la lingua di mare invisibile.

Lascio Luca alle mie spalle sbalordito nella macchina e corro verso la piccola folla, voglio confondermi lì in mezzo, sparpagliare le intenzioni, contemplare il bianco dell’abito che striscia sull’asfalto. Voglio affondare nella mistica della sua apparizione, nel calore della mulattiera che brucia sotto i piedi dei braccianti. Me ne vado, ciao, anzi addio, non torno più, non aspettarmi a pranzo, puoi restare lì in macchina col tuo perfezionismo e gli abbinamenti opportuni, le frasi fatte e l’amicizia ambigua, dire a tuo padre che sono pazza, che una sera d’inverno me ne sono andata con Maria del Mezzogiorno.

Vuoi mettere, addentare pane e fichi.

Annusare il fiore del finocchio selvatico in collina.

Bere acqua di mare per sbaglio.

Farsi crescere i capelli e non pettinarli mai.

Camminare scalza sulla roccia.

Piegarsi sulle gambe.

Spostare aghi di pino seccati al sole con le mani.

E poi scavare, grattare via lo strato di resina, ali di pigna e piccoli coni.

Trovare tesori.

Giancarlo Pontiggia e Stefano Raimondi: risorse contro tempo

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di Matteo Bianchi

 

«Tutto sembra quasi poter rivivere, in questi giorni di primo autunno, come se niente fosse cambiato, anche se sappiamo che non è così, e che non potremo mai più essere come prima. Il senso di mortificazione che tanta parte di umanità ci ha inflitto nell’ultimo anno e mezzo, non potrà mai essere dimenticato». È stata una mail cristallina di Giancarlo Pontiggia, amara quanto intellettualmente onesta, a spingermi a cercare le risorse del silenzio nei versi inediti suoi e di Stefano Raimondi che ho proposto nel numero zero di “Laboratori critici. Rivista semestrale di poesia e percorsi letterari”, edita da Samuele Editore.

«Ci sono amici che ci hanno ripugnato con le loro sciocchezze; e altri che ci hanno fatto pena, come se ci fossimo trovati di fronte a degli sprovveduti – incalza il poeta – eppure non lo erano, e qualcuno di loro pareva persino possedere una testa. Evidentemente era tutto apparenza, buone maniere, una vernicetta di conoscenze a buon mercato che copriva una millenaria, cronica stupidità sociale, fatta di populismi e irrazionalismi assortiti. Forse la rivoluzione illuministica, nella quale abbiamo confidato, era solo un’illusione. O forse gli uomini non sono altro, nel loro complesso, che una razza fragile, accasciata, autolesionistica, volta più al male che al bene, duramente provata dal suo stesso vivere. Da un vivere troppo al di sopra delle loro reali possibilità. La nube della morte, che sempre ci tallona, oscura ogni nostra volontà, ogni nostro minimo pensiero». L’oblio sarebbe provvidenziale, anche perché «dopo tanto Novecento e tanta Action Française, dopo Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot, dopo innumerevoli pessime recite, la prossima stagione del mondo rischia di ripresentarsi con gli stessi lustrini di prima: molte parole d’ordine, molto politically correct, pensieroni di niente».

La becera utopia che ci avrebbe voluto tutti proni a clichés abusati e a un progresso disumano pare sia appassita. Per non tornare sudditi di scelte politiche spesso illogiche, benché abili a camuffare errori di ogni genere, si dovrebbe rileggere il Leopardi de La Ginestra; sarebbe sufficiente per spazzare via qualsivoglia pseudo-certezza di cui ci si fosse paludati in precedenza, scordando la fragilità e la precarietà della condizione umana. Prendendo le mosse da un preciso assunto polemico – la contestazione nei confronti sia del «secolo superbo e sciocco» sia del suo orgoglio prometeico, vuoi del vacuo ottimismo provvidenziale – il canto si rivela capace di conferire alla cognizione dell’infelicità comune un senso agonistico nell’appello a una solidarietà rinnovata tra tutti gli esseri. Sotto la specie dell’umile ginestra si disegna così un atteggiamento nient’affatto pacificato e distaccato, ma anzi critico rispetto all’insignificanza dell’esistenza universale, sia alla necessità di una resilienza morale tramata finalmente di consapevolezza. Infatti come la ginestra con l’ostinato ricrescere del suo manto fiorito riconferma un amore alla vita traente e il suo significato dà consenso a un meccanicistico destino universale, così l’essere umano può trovare una via di autentica grandezza soltanto nella scoperta della “forza della debolezza”, ovvero nel convogliamento della coscienza di precarietà e miseria verso il superamento di ogni orgoglioso o rassegnato isolamento intellettuale in una «social catena»; in una sfida solidaristica – e non solitaria – proclamata in nome e a dispetto di qualunque mistificazione e banalizzazione religiosa o politico-sociale: «Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di novo il pensiero, / sol per cui risorgemmo / dalla barbarie in parte, e per cui solo / si cresce in civiltà» (vv. 72-76).

È stata la rilettura dell’Enchiridion di Epitteto, tradotto da Leopardi e riedito da Aragno con la sostanziosa introduzione di Giuseppe Raciti, a ispirare la poesia che segue di Pontiggia e che somiglia molto a una prosa lirica. Dai versi incalzanti, ma senza vincoli metrici, traspare quanto la cosiddetta “filosofia pratica”, ossia l’insieme di esigenze morali che gli antichi applicavano alla vita quotidiana, avesse convinto e coinvolto il poeta recanatese; quanto fosse di fondamento per lui un senso di giustizia che orientasse le azioni di ogni individuo tanto in società quanto in solitudine. Difatti «è stato un uomo giusto, e non lo sapeva». Non a caso, nel prontuario Sette brevi lezioni sullo stoicismo (Einaudi, 2021), John Sellars rammenta che secondo il suddetto Manuale gran parte della nostra infelicità «si deve semplicemente a un errore di classificazione», ossia al pensiero incessante di poter controllare fenomeni che esulano dal nostro controllo, incluso il nostro corpo.

Appartandosi nella dimensione di un tempo interiorizzato e non più corrente, quasi parlasse da dietro le quinte di una scena teatrale, Il custode si rivolge al lettore descrivendo un uomo che fu grande e non solo in ciò che scrisse. L’autore lo ritrova nell’intimità di un pensiero felice, frutto di una sua fantasticheria, ma che in fondo avrebbe potuto essere in Leopardi, o almeno nel maestro Epitteto. Di fronte all’attualità sempre più ferina e vacua del dopo pandemia, a una realtà che ricama sui ruderi delle ideologie, ma ignora qualsiasi occorrenza amministrativa del marasma collettivo, e che sembra ricalcare lo sconforto di A se stesso – quel senso di impotenza, «(…) quel potere / maligno che di nascosto governa per il male di tutti» – Pontiggia immagina un altro mondo, parallelo al nostro, eppure affondato dentro il nostro.

 

Il custode

DI GIANCARLO PONTIGGIA

 

 

Non so più da quanto tempo mi è stato detto di custodire quest’anima.

È l’anima di un uomo che già da un bel po’ non vede il bene della luce.

Ma per quanto tempo ancora dovrò vegliarlo? E che cosa significa?

Chissà perché gli sono così care queste creature, se davvero gli sono poi così care.

C’è qualcosa di insano nel tener tanto a gente, che sa così poco della vita. Noi

non sappiamo niente di loro, né loro di noi, e per questo mi giunge strano che proprio io, tra i tanti, debba prendermi cura di uno di loro.

Di quest’uomo, so soltanto che è vissuto, molto tempo fa. Un tempo così lontano, da non aver più cognizione di quanto ne sia davvero passato.

Mi dicono che dovrò vegliare un’intera notte, una, ma così lunga, che mi sembra non debba passare mai.

Ma dov’è, lui, ora?

Schegge di esistenza mi perseguitano.

Lo vedo mentre è un bimbo, e piange, perché ha perduto la madre. Era tanto tempo fa.

Un’altra volta è felice, mentre tocca la zampa di un gatto.

Ma che ne so del tempo, a volte mi pare di impazzire

nel pensare il labirinto della sua mente, dove niente ha ordine, e tutto pare guerreggiare in un tumulto continuo,

mi prende un senso di capogiro a pensare a ciò che è, piango anch’io, a volte, mi pare

di essere lui, solo che lui ha smesso di avere pensieri, è sprofondato non so bene in cosa,

mentre io me ne sto qua, mi arrovello intorno alla sua sorte,

e mi dimentico della mia,

che forse fu grande, un tempo, e ora è niente. Forse non è successo per caso, forse

c’è un disegno in tutto questo, che mi sfugge. Forse non c’è nessun disegno, e non ho avuto alcuna consegna.

Mi chiedo: cosa ne sarà di lui?

È stato un uomo giusto, e non lo sapeva.

Forse è per questo che sono qui.

Ogni tanto mi chiedo che c’entri la mia sorte con la tua.

Ma senti o non senti? E se no, che ci faccio, qui, che ci sto a fare? Cos’è che sto vegliando? A volte ho la sensazione che sia tu a vegliare su di me, e che il mio tempo sia scaduto.

La felicità è una zampa di gatto. Volevi intitolarlo così, il tuo libro, ma i tuoi fedeli scrissero A se stesso: pensavano che fosse troppo poco. Non sapevano

che era il tuo pensiero più profondo.

Se almeno sapessi com’è

una zampa di gatto, e cosa vuol dire carezzarla. Ma tu sì che lo sapevi: tu sì che eri felice, in quel momento. E io?

 

 

* * *

 

 

I «sovrumani silenzi» e la «profondissima quiete» di Leopardi accomunano le piccole creature cittadine che Stefano Raimondi passa in rassegna nel suo bestiario all’uscita di scena del custode di Pontiggia. L’infinito leopardiano preme sotto le parole dell’autore come un’ombra necessaria e già dal primo frammento lirico: le formiche insegnano a chi le osserva a raccogliere i ritagli delle voci care per poi stiparli nelle crepe del buio che ci avvolge in vista di cambiamenti radicali. La crudeltà della primavera di eliotiana memoria torna anche nel contesto urbano, nel minimo quotidiano del poeta milanese; poiché per creare spazio a nuove vite, aprile ne sacrifica altre inconsciamente, ciclicamente.

Raimondi riesce così a riprodurre nel lettore la sensazione spaesante di ignara colpevolezza, di spietatezza connaturata e inconsapevole dei bambini che uccidono le lucertole per gioco, per fare esperienza al mondo, quasi il giudizio morale fosse solo umano – e perfino troppo. Quasi aleggiasse sopra di loro l’aura di un San Giorgio ancora acerbo, ma già pronto a trafiggere le perversioni dei rettili, un San Giorgio alienato quanto la società contemporanea che ha snaturato i riti gettando nel dimenticatoio le proprie radici mitiche. D’altronde, i bestiari medievali erano sì fonte di stupore attraverso una concezione simbolica dell’esistenza – chi si fermerebbe ancora per la strada a stupirsi dei balzi di un merlo fuori stagione? – ma specialmente opere di carattere didattico allegorico che trasmettevano le virtù alla moltitudine analfabeta.

 

 

 

 

Il bestiario delle stagioni

DI STEFANO RAIMONDI

 

I

Era quella la voce che aspettava ogni volta, che il tutto gli si rivoltava contro, ogni volta che sentiva di urlarlo fuori il buio, quello che si assiepava come un confine, come un infinito. Sentiva la collaborazione del respiro impigliarsi nelle crepe, le stesse che le formiche usavano per stipare, nascondere, vivere gli inverni.

 

II

La lumaca era lenta più della sua bava e lentamente si scrutava, si guardava fin dentro i luccichii e si curava piano, piano come fa l’immobilità quando, c’è qualcuno che ti può scorgere, vedere: come quando dalla tana si smuovono le ghiaie, si aprono le spine e il mondo entra per chiamarti, scoprendoti.

 

III

Me lo dicevi al telefono: “Il mio corpo racconta ormai storie diverse da prima, dice cose che sembrano lontane e invece già si corrodono i contorni, si sfilacciano gli orli”. Me lo dicevi preparandoti come fa la cavalletta quando, se la vedi, s’immobilizza tutta e poi scatta sulle gambe accartocciate e sparisce. Me lo dicevi così il dolore come per non farti vedere.

 

IV

Anche il merlo sembrava aver confuso la sua primavera. Saltellava sospettoso sotto gli alberi stesi ancora come morti. Cercava i balconi scossi dalle tovaglie; cercava voci di pane cadute dagli avanzi del mondo e si proteggeva, dai fiori gonfi, tra le gemme ancora chiuse, ancora pronte per esplodere che gelavano, a poco a poco, senza accorgersi che era lì la primavera, lì sdraiata sulla terra nera intorno. La nostalgia lo confondeva…

 

V

Non c’era che questo nel sogno, che questo nel silenzio: il tradire dei pensieri, uno ad uno, come se potessero sparire sempre o restare appesi, leggeri, come spellature. Erano come tagliati e poi ricrescevano sfrontati, come se dovessero finire male. Era notte!  La lucertola del pomeriggio si mangiava la coda che le ricresceva sempre, voracemente. Intanto i bambini la uccidevano in continuazione, spietatamente. Le fecero una tomba con le foglie e ogni volta si commuovevano ridendo. Era questo il giro, il girone, il patto: tutti lo sapevano. Ma lei moriva lo stesso, continuamente e non era ancora finita la primavera.

 

Milano, 26 marzo 2018 – 18 ottobre 2021

 

Scivolare

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di Claudio Kulesko

I.

Non vi è modo di collocare certi avvenimenti in un sistema ordinato e razionale. Benché meno i loro nebulosi precursori: scariche di intuizione brucianti o, all’inverso, algide stalattiti, che si conficcano come pugnali nelle nostre menti.
A ben vedere, tra tutti gli eventi che costellano la vita umana, ben di rado accade qualcosa di davvero inatteso. L’esistenza umana, così come la vita in generale, appaiono, a un occhio lucido e analitico, sotto forma di lunghe catene causali. Serie compatte e lineari, dalle quali si diramano rare e tuttavia evidenti deviazioni. Sparute isole di caos, che irrompono convulse dal continuum che fa loro da substrato.
In egual modo, in certi momenti, immagini e pensieri intrusivi irrompono dagli abissi dell’animo umano, fendendo la placida, piatta superficie del pensiero logico. Forse vestigia di una mente primitiva, risalenti a uno stadio embrionale della coscienza umana o, addirittura, a oscure fasi precoscienti.
Il buio. Denso. Viscoso come una coltre di fango. Ci vollero alcuni secondi affinché gli occhi accogliessero i tenui raggi lunari che filtravano tra gli oscuranti. La stanza d’albergo era immersa nel silenzio e la montagna stessa pareva contenere ogni cosa in un gelido abbraccio la cui morsa, nella mia mente offuscata, pareva gettar radici fin nel reame del sonno. Un abbraccio materno, a suo modo, ma in un senso remoto e inusuale, precluso alla mente di un mammifero sociale, allevato al seno di una madre amorevole.
A poco a poco, battendo le palpebre, come per scacciare gli ultimi residui del mondo onirico, mi lasciai alle spalle quel feretro geologico.
Per prima cosa, tentai di riportare alla mente l’incubo che mi aveva strappato al sonno. Non vi riuscii. Mentre vagavo con lo sguardo dal soffitto alla finestra e, da quest’ultima, alla porta spalancata sul corridoio, un pensiero mi strisciò dentro.
Con l’occhio della mente, vidi la porta che dava sulle scale dell’albergo schiudersi adagio, senza che alcuna mano ne abbassasse e spingesse la maniglia. Senza che chicchessia facesse capolino dalla soglia, per invadere l’angusto appartamento.
Raggelai. Ma, per qualche istante, mi crogiolai in quell’immagine, con la stessa, macabra passione che induce i bambini a interrogarsi sulla natura dei loro terrori notturni. Poi, con la magnanimità che si è soliti riservare unicamente a sé stessi, mi interruppi e mi girai sul fianco.
Mentre chiudevo gli occhi e nella mente già si affollavano aspettative per il giorno seguente, un cigolio lieve e prolungato si levò dal corridoio.
Balzai fuori dal letto, senza neppure premurarmi di reperire un’arma o un qualche oggetto contundente. Sapevo già cosa avrei trovato.
In fondo al corridoio, tra il bagno e la vecchia cappelliera, la porta spalancata si affacciava sulle scale dell’albergo.
Mi sporsi, esitante, oltre la soglia. Informate della mia presenza dai sensori di movimento, le luci del pianerottolo sfarfallarono e avvamparono, con uno schiocco. Null’altro che il torpore della notte, e il silenzio.

II.

Al mattino, dopo aver trovato la finestra del bagno aperta, ricostruii la vicenda da un punto di vista razionale. La spiegazione non poteva che essere una e una soltanto: la sera prima, al mio rientro, dovevo aver dimenticato di chiudere a chiave la porta. Senza dubbio, mentre mi perdevo nelle mie assurde fantasticherie, un colpo di vento era trapelato dalla finestra del bagno, producendo un vuoto d’aria tra le fenditure della porta, facendola aprire.
Un’ora più tardi ricevetti ulteriore conferma della correttezza della mia ipotesi. Dinanzi all’albergo, un paio di arbusti in vaso giacevano riversi sull’asfalto, di certo scaraventati a terra dal vento.
Trascorsi la giornata esplorando i boschi nei dintorni del borgo. Verso tarda sera, notando dei dépliant che sponsorizzavano escursioni notturne, ebbi l’idea di avventurarmi in solitaria lungo un sentiero più semplice, al tramonto, così da avere maggiori probabilità di avvistare animali selvatici. In un negozio di articoli casalinghi mi procurai una torcia e delle batterie di ricambio. Consumai una cena frugale e guidai fino all’imbocco del sentiero.
Quando iniziai a camminare il sole stava già calando al di là delle vette, donando alla valle un ultimo sprazzo di luce.
Dalla direzione opposta alla mia, giungeva una coppia di anziani di ritorno da una passeggiata. Deviai dal percorso così da evitarli e mi imbattei in una mandria di cavalli che pascolava pigra al lato del sentiero. Prima di rimettermi in cammino mi soffermai a vezzeggiare un puledro color crema; la madre, di quando in quando, mi lanciava occhiate timorose.
Il sentiero proseguì dritto per una buona mezz’ora, finché la pendenza non prese a incrementare, costringendo la strada a serpeggiare tutt’attorno alla montagna, inerpicandosi tra rocce color gesso.
Quando il sentiero tornò pianeggiante, avevo già percorso diversi chilometri e il sole era già quasi scomparso all’orizzonte, lasciando il passo a cupe nubi temporalesche.
Di certo non avevo scelto la serata migliore. E, tuttavia, ora, seppur adombrata dalle nubi, la vallata si estendeva sotto di me in tutta la sua magnificenza. Non un’abitazione, non un essere umano in vista.
Contemplai il panorama a lungo prima di avvertire l’urgenza di mettere mano alla torcia. Mi misi a frugare nello zaino e fu allora che lo vidi. In un primo istante, indistinguibile da un albero dalla chioma spoglia. Poi, sempre più evidente nelle sue fattezze animali.
Immobile, a meno di venticinque metri di distanza, il grande cervo nobile mi scrutava da un’altura ai piedi del bosco. Lo sguardo fisso e attento. Le zampe sottili come radici. Gli alti palchi di corna, simili a rami fossilizzati da quelle stesse ere che avevano dato forma alla montagna.
Rimasi immobile a mia volta. Non saprei dire per quanto i nostri sguardi rimasero allacciati, come quelli di due lottatori pronti a scontrarsi. D’un tratto, il cervo emise un profondo barrito e si impennò, volgendo verso il bosco e scomparendo tra la vegetazione. Per diversi minuti ancora, continuò ad emettere quel verso lamentoso, venato di rabbia e angoscia.
Ebbi la chiara sensazione di essere un ospite sgradito. L’impressione di aver violato qualcosa, pur non sapendo cosa. Accesi la torcia e tornai indietro, discendendo a piccoli passi il sentiero pietroso.
Più o meno a metà del percorso, la luce della torcia si imbatté in uno stuolo di punti luminosi sospesi a mezz’aria e poco sopra il terreno. Trasalii mentre le sagome dei cavalli, che dovevano aver risalito il sentiero poco dopo di me, emergevano dal buio.
Passai di nuovo in mezzo del branco ma stavolta fui accolto da nitriti e furenti battiti di zoccoli sul selciato, come se qualcosa, in me, li terrorizzasse.
Affrettai il passo e, in pochi minuti, giunsi al tratto iniziale del sentiero, laddove il percorso tornava a farsi tenero e pianeggiante. In quel momento, alla mia destra, avvertii uno sguardo. Con uno scatto, volsi la torcia verso il fianco della montagna, e, di nuovo, scorsi quei puntini luminosi. Ripensai al cervo. Forse aveva voluto scortarmi fino al margine estremo del suo territorio. Ma mi accorsi che quegli occhi volteggiavano a pochi centimetri dal suolo. Pensai allora a un cavallo rimasto indietro, intento a ruminare lungo il pendio.
Subito, quasi mi avessero letto nel pensiero, gli occhi scomparvero, per poi riapparire, con un movimento leggiadro, addirittura sinuoso, qualche metro più in là.
Frugai il buio con la torcia, tentando di mettere a fuoco la sagoma della creatura, ma non vi riuscii, quasi quell’essere fosse fatto di un’opaca massa di tenebra condensata.
Gli occhi baluginarono, scomparvero ancora e riapparvero, tre volte più lontano.
Puntai la torcia dritto sul versante ed essi scomparvero ancora una volta, per non riapparire più, come se la montagna stessa li avesse ritratti nel suo corpo inorganico.

III.

Quella notte sognai una grande casa. Una villa, forse un casale in rovina.
Mi aggiravo tra le stanze abbandonate e velate di polvere. Qualcosa ‒ non saprei dire cosa ‒ qualcosa era lì con me, in ogni stanza. Invisibile. Intangibile. Immateriale.
Tutto quel che sapevo è che dovevo scegliere una stanza nella quale trascorrere la notte. Tuttavia, già percorrendo i lunghi corridoi costellati di porte, appariva evidente che l’esito della scelta non avrebbe fatto alcuna differenza. Misteriose sfere di luce fendevano l’aria, come lucciole smarrite, e ogni cosa, pur essendo prigioniera di una surreale forma di stasi assoluta, pareva vibrare di una tenue forma di senzienza.
Passo dopo passo, le porte si moltiplicavano, tentandomi con eleganti salottini e lussuose camere da letto.
Stanze sempre uguali, replicate all’infinito, al dettaglio o con minime variazioni, come se la casa stessa fosse una sorta di organismo in grado di espandersi e contrarsi, al pari di un immenso e famelico bivalve.
Al calar del sole, stanco di vagare senza meta, mi risolsi a occupare un’ampia stanza, dotata di quattro letti singoli.
Ancor prima di avere il tempo di occupare uno dei letti, un grosso orologio da tavolo si levò da una cassettiera e iniziò a volteggiare in aria. Subito, come obbedendo a intense forze magnetiche, ciascuno degli oggetti presenti nella stanza lo seguì, librandosi in volo e vorticando.
Al centro del gorgo, con chissà quale senso interiore, potevo percepire la cosa, quella presenza, la sua bramosia, la sua violenza illimitata.
Mi svegliai ancora una volta nel mio letto d’albergo. Gli occhi sbarrati nel buio. In vigile attesa del flebile cigolio della porta.

IV

Quando ancora frequentavo l’università, avevo un amico, un compagno di corso. Fu lui a introdurmi al pensiero del metafisico norvegese P.W. Zapffe.
L’intera opera di Zapffe possiede il raro pregio di ruotare attorno a una semplice constatazione: l’autocoscienza umana ‒ ciò che distingue la nostra specie da tutte le altre ‒ non sarebbe altro che un “organo” ipertrofico e dannoso, tanto per noi stessi, quanto per le altre specie animali e vegetali. Qualcosa di abissale e allucinatorio, che ci costringe a realizzare la sofferenza insita nell’universo e, al tempo stesso, a negarla in nome dell’inarrestabile marcia della vita organica e dell’istinto riproduttivo che ne costituisce la chiave di volta.
Per queste stesse ragioni, la nostra specie dovrebbe autoeliminarsi, smettere di riprodursi e svanire per sempre dalla faccia della terra, lasciando che la natura proceda libera e indisturbata il proprio corso.
Nei primi mesi dell’ultimo anno di università, verso novembre, poco prima di iniziare la stesura della tesi, il mio amico si tolse la vita.
Fu la sua coinquilina a trovarlo. Giaceva sul letto, viola in volto. Le mani rigide, ancora serrate attorno alla gola. Il sacchetto di plastica assicurato al collo da diversi elastici, stretti al punto da far trapelare una sottile collana di sangue.
Da quel giorno smisi di frequentare quasi tutti i miei amici e conoscenti. Abbandonai l’università e mi rinchiusi in casa, dedicando il resto delle mie giornate alla scrittura e allo studio delle scienze naturali. Non scrissi mai neppure il primo paragrafo della mia tesi.
Chissà perché, mentre il sonno tornava a invadermi, mi tornò in mente il mio amico. Immaginai i suoi ultimi istanti. Immaginai di essere al suo posto. Il sacchetto di plastica trasparente avvolto attorno alla testa, come un sudario.

V

Quella notte la porta non si aprì.
Mi svegliai di buon’ora, la mente appena intorpidita da un sottile velo di stanchezza, e guidai fino al bosco più vicino: una folta faggeta di mia conoscenza.
Il cielo plumbeo doveva aver intimorito i turisti, giacché trovai il parcheggio ‒ un semplice spiazzo erboso ‒ insolitamente vuoto, né incontrai anima viva per tutta la prima ora di cammino.
La volta arborea e il sottobosco parevano appesi a un filo, quasi il tempo si fosse fermato. Morti e silenti. Mi arrestai e tesi l’orecchio. Non un filo di vento, non uno scricchiolio. E, tuttavia, l’intero paesaggio sembrava sul punto di sussultare ed erompere in un ruggito, come un predatore immobile tra la vegetazione.
Proseguii, guardandomi attorno sempre più spesso. Nervoso. Il cuore in gola. Il rumore dei miei stessi passi sul fogliame risuonava alle mie orecchie cacofonico e insostenibile.
Intanto la cappa di nubi avanzava, sovrastando la montagna, sprofondandola in una penombra tale da far quasi credere che fosse sera.
Man mano che l’oscurità ammantava il bosco, fui invaso dal ricordo di quegli occhi luminosi che mi avevano spiato nel buio.
Con la scusa di impiegarlo a mo’ di sostegno, colsi da terra un ramo secco e affrettai il passo.
Subito mi sentii addosso una miriade di sguardi, come se la foresta stessa mi stesse osservando, seguendo ogni mio minimo movimento, in paziente attesa del momento adatto per richiudersi su di me.
D’un tratto udii un fruscio alle mie spalle. Ruotai su me stesso, ebbro di terrore, il bastone alzato dinanzi al volto.
Una macchia color mogano, alta quasi quanto un cavallo, eruppe dal folto del bosco, al galoppo. Goffa, pesante. L’orso si voltò appena a guardarmi, prima di svanire giù per il pendio, tra la macchia.
Rimasi come pietrificato. Il respiro affannoso, le gambe tremanti. I cespugli stormirono ancora e alte, maestose corna ramificate emersero dalla boscaglia, seguite da un muso lungo e affilato, dominato da un piccolo occhio rotondo dalla pupilla orizzontale.
Il cervo barcollò sul sentiero, zoppicando.
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi dello squarcio sul fianco dell’animale. Un grosso lembo di pelle e carne strappate, grondante sangue, così profondo da lasciar intravedere le ossa.
Il cervo arrancò ancora per qualche passo. La bocca semiaperta. Lo sguardo afflitto, da condannato a morte. Con un tonfo crollò sul selciato, bagnando la nuda roccia del proprio sangue.
Fu come se fossi stato colpito da un fulmine. Incapace di parlare, di articolare un pensiero più complesso del mantra che mi ribolliva in testa ‒ “Fuggi. Fuggi. Fuggi.” ‒ emisi un gemito strozzato e mi voltai dall’altra parte, quasi rifiutandomi di osservare la scena.
Il bastone mi sfuggì di mano nell’istante in cui iniziai a correre alla cieca, inciampando tra le rocce e le radici.
Proseguii a perdifiato per qualche minuto, o forse solo per una manciata di secondi, finché non fu il sentiero stesso a interrompere la mia corsa. Slittai sull’acciottolato e caddi faccia in avanti. Un dolore acuto, ma reso tenue dall’adrenalina, mi trafisse il volto.
Avvertivo qualcosa di umido e caldo scorrermi sulle guance, mi tirai su con le braccia, passandomi una mano sul volto la ritrovai sporca di sangue. Sangue. Rosso intenso, sulle mani, sulle maniche della giacca a vento, sulla superficie candida e irregolare del sentiero.
Dal cielo iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Prima poche, distanti le une dalle altre, poi sempre più forti, sempre più veloci, finché l’intera montagna non fu pervasa da un rombo sommesso e costante.
Rimasi a guardare il mio sangue colare a terra per poi scomparire, lavato via dalla pioggia.
A pochi centimetri dalla mia mano, notai un ammasso nero e arruffato. Posai lo sguardo, ancora annebbiato dall’orrore, su quella cosa. La carcassa di un merlo, resa sporca e contorta dalla decomposizione. Il teschio color ambra riverso su un lato, ripulito e spolpato fino al collo.
Qua e là sul cadavere si agitavano le formiche, indaffarate a smembrare e trasportare quel che ne rimaneva. E anche adesso che gli insetti fuggivano alla rinfusa dalla pioggia, riuscivo a scorgere le loro mandibole aprirsi e chiudersi sul torace divelto.
Distolsi lo sguardo, risalendo verso il cranio dell’animale. Disgustato e al tempo stesso affascinato. E mentre mi perdevo tra le linee morbide e aerodinamiche del cranio e del becco, meravigliandomi della perfezione minerale di quelle valli e insenature, una creatura tozza e sgraziata fece capolino dall’orbita cava, come vomitata da quel vuoto mistico. Uno scarabeo.
Un groppo mi si formò in gola. Scoppiai in una risata isterica, sovrastando il ronzio della pioggia che mi ruggiva addosso e tutt’attorno. Piombai sul dorso e rimasi a fissare il cielo grigio senza mai smettere di ridere, inondando le valli di grida acute. E più ridevo, più il mondo pareva liquefarsi e confondersi nell’indistinto, simile alla pioggia.
Allungai un braccio verso il cielo. Al suo posto vidi un flusso tremolante, a malapena distinguibile dal paesaggio, come se ogni dimensione fosse collassata su uno sfondo di piatta e vorticante cera calda.
Provai a muoverlo ancora, ma non vi fu verso di spostarlo di un millimetro.
Di colpo, il mio corpo smise di appartenermi. Alieno e remotissimo, come tutto il resto.
Ma da qualche parte, al di là del gorgo, simile a uno spettro, la mia mente fluttuava ancora, paralizzata dal terrore, in disperata attesa dei soccorsi.
L’ultima cosa che sentii prima di svenire, fu l’improvvisa sensazione che mi mancasse l’aria. La netta impressione, anzi, la certezza, che una morsa implacabile si stesse serrando attorno alla testa, fin sulla pelle. Fredda e inorganica. Impenetrabile. Come un sacchetto di plastica.

***

Claudio Kulesko è traduttore e ricercatore indipendente. Si occupa per lo più di pessimismo filosofico, realismo speculativo e filosofia contemporanea. Per Nero Edizioni ha tradotto Tra le ceneri di questo pianeta (2019) e Rassegnazione infinita (2021), di Eugene Thacker. È tra gli autori di Demonologia rivoluzionaria (2020).

Il racconto è tratto da: Ritorno a Hanging Rock. Antologia di racconti a cura di Emanuela Cocco (Edizioni Arcoiris)

Vite – Manuel Maria Perrone

1

Vite

di Manuel Maria Perrone

Quando avevo sette giorni sono rimasto per dodici ore sul petto di un condannato a morte alla vigilia dell’esecuzione.

Oswald Denner, 47 anni, aveva espresso quel desiderio. Non specialmente di avere me, ma di poter appoggiare sul petto un neonato, sentirne il calore, la vita, prima di finire la sua.

Sua moglie era morta incinta in un tentativo di rapina in casa loro e lui aveva dato fuori, tirando bottiglie di metano sulle auto da un cavalcavia. Aveva fatto dozzine di morti, tra cui, si era notato con fredda ironia, una donna incinta all’ottavo mese che stava andando con il marito a farsi fare un controllo in ospedale.

Per legge si può negare l’ultimo desiderio a un condannato solo per tre condizioni: che sia irrealizzabile in tempi normali dalla direzione del penitenziario, che costi più di 5 mila dollari e che leda alla libertà e incolumità altrui.
La prassi vuole che il giorno della condanna il detenuto scriva su un foglio sigillato il suo ultimo desiderio, qual ora per un motivo o un altro non potesse più esprimersi alla veglia dell’esecuzione. Il foglio viene aperto dalla direzione del penitenziario a venti giorni dal giorno fissato, non prima per evitare di assecondare desideri di persone in seguito assolte, non dopo, per lasciare un certo margine alle domande più stravaganti.

Un’aragosta si può trovare in meno di un giorno, ma magari un determinato piatto regionale richiede più tempo di ricerca e preparazione.

La domanda di Oswald aveva chiaramente creato un certo tafferuglio, per cui si era dovuto far appello a un giudice di un tribunale dei minori.

Il neonato non è in condizione di scegliere e quindi in un qualche modo si aliena il suo diritto alla libertà, ma, come aveva fatto notare il pubblico ministero, non sceglie neanche i propri genitori o il personale ostetrico dell’ospedale con cui ha nei primi giorni di vita lo stesso livello di intimità richiesto da Oswald. Anzi il detenuto sarebbe stato monitorato durante quel tempo da personale specializzato.

Li si sollevava il secondo dubbio. Se avesse deciso di fare danno al bebé gli sarebbe bastato molto meno tempo che per intervenire a salvarlo e inoltre tecnicamente non sarebbe stato possibile punirlo per quel gesto. Si decise quindi che avrebbe avuto le braccia legate. Non trovando nessuna controindicazione principale si era quindi accettato di passare alla ricerca del neonato.

La direzione avrebbe tranquillamente potuto far appello a quel punto all’impossibilità di trovarne uno in tempi brevi, ma Oswald era stato un detenuto amato da tutti: aveva smesso di parlare dal giorno del verdetto e con quel suo testone tondo e calvo e i modi un po’ goffi e qualche sorriso incerto, faceva pensare a un bebè. Tutti si erano dati da fare per trovare una soluzione a quel suo strano desiderio: il passaparola era andato quasi più in fretta dell’annuncio pubblico della direzione su giornali, radio e televisione. L’idea di mettere l’immagine di un neonato con la tipica scritta Wanted e la somma proposta ai genitori aveva fatto sorridere più di uno e aveva sicuramente avuto un forte impatto visivo.

Anzi era proprio il rimborso proposto – i 5000 dollari erano stati considerati il costo dell’operazione- che aveva creato una competizione di neonati. Una donna aveva travestito pure suo figlio, un po’ magro ma di già otto mesi, ma era stata scoperta. Diversi bambini erano nati nel padiglione delle donne e quindi abitavano nei locali della prigione, ma tecnicamente questo li rendeva individui agli arresti e quindi non in misura di adempiere a un lavoro retribuito e alla fine l’aveva spuntata mia madre; cioè io.

Mia madre faceva le pulizie nel padiglione delle donne e aveva quindi subito saputo di quell’operazione. Io ero nato tre giorni prima dei venti stipulati dal codice e quindi ne avevo quindici quando si era deciso il verdetto: un’età perfetta per assolvere a quel compito.

In dodici ore un neonato deve mangiare almeno quattro volte, cagarne altrettante, fare gli equivalenti rutti ed essere cambiato. Per il resto dorme. Al posto dei secondini si era quindi deciso di attorniare Oswald di due ostetriche con esperienza. L’immagine, come mi avrebbe poi raccontato la più giovane delle due insieme a molti altri dettagli, era commovente: Oswald con quel testone calvo, a dorso nudo per sentire il contatto con la pelle, una copertina sulle gambe, rasato di fresco per l’operazione e cosparso di talco per confondere l’odore di morte che aleggiava nell’ambiente, attorniato da queste due donne in camicie, sembrava un enorme bebé a cui più che il collo sarebbe stato tagliato il cordone.

Una settimana prima della vigilia Oswald aveva scritto, come da prassi, una clausola sulle condizioni dell’adempimento del suo ultimo desiderio: voleva bere solo latte, da li alla fine. Anche su quello era stato assecondato e quindi il suo corpo emanava un piacevole odore dolciastro di latte. Per precisione il penitenziario aveva poi sottratto il costo del latte, l’intervento delle due ostetriche, più qualche altro elemento all’assegno promesso a mia madre, che era poi risultato di 3937 dollari, come aveva tenuto a precisare per il resto dei suoi giorni.

Mi hanno raccontato che mentre io ero portato nei corridoi della morte piangevo come un maiale che va al macello, forse in dubbio su quale fosse il mio reale destino. Avevano addirittura pensato di interrompere l’operazione perché diventavo cosi rosso che sembrava sarei scoppiato come un palloncino troppo pieno.

Anche quando mi avevano appoggiato sul suo petto continuavo a piangere, infilando quelle piccole unghie in quella pelle, cercando con i piedi un appoggio come volessi decollare. E li Oswald si era messo anche lui a piangere, sommessamente, per l’emozione. Il suo pianto, quasi impercettibile e completamente sovrastato dal mio: quel corpo grande che emetteva un esile gemito e il mio, minuscolo, con quel suono acuto e potente, che riempiva la stanza e i corridoi. Però poco a poco il suo pianto aveva calmato il mio, che mi ero addormentato senza più pretendere niente fino alla fine delle dodici ore, in cui lui aveva semplicemente continuato a piangere sommessamente. Le due ostetriche erano rimaste interdette che non avessi fame né altri bisogni durante quel lungo periodo, al punto che ogni tanto si avvicinavano per controllare se fossi ancora vivo, ma io ero li, attento, sveglio, con gli occhi spalancati, completamente concentrato su quel gemito sconsolato.

Siamo rimasti cosi, per tutto quel tempo. 
Lui piangendo e io ascoltando quel pianto definitivo. Io nascendo e lui morendo.

Oswald Denner è morto sedici giorni dopo che io sono nato. Per iniezione letale.
Eppure abbiamo avuto il tempo di conoscerci e spesso penso a lui, anche adesso a distanza di tutto questo tempo. Forse voleva vivere quell’esperienza che gli era stata negata dal fato o forse aveva voluto quella tranquillità dell’inizio per trovare un conforto alla fine, o forse, e cosi mi piace pensare, aveva trovato quel semplice modo per diventare immortale.

 


 

Manuel Maria Perrone, regista, griot, giullare al servizio della neutra elvezia o di altri signori allergici ai suoi pungiglioni. Ha fondato l’Agence de l’Erreur a Marsiglia e le Syndrome de Jerusalem a Ginevra, per riconvertire con miracoli a buon mercato gli scettici e laici di Francia e dintorni. Lavora part-time per il vaticano come cardinale. Scrive se trova alfabeti.

Gli immateriali

1

di Gian Piero Fiorillo

Non vedrò la fine. La città è ormai stabilmente occupata dagli Immateriali, che ne hanno decretato la distruzione. Non possiamo contrastarli, non conosciamo la loro grandezza, né forma o altro. Non ne abbiamo proprio nessuna conoscenza, facciamo congetture d’ogni genere e una vale l’altra. Angeli, demoni, particelle che sfuggono ai sistemi di rilevazione, viaggiatori del tempo e degli universi, abitatori degli interstizi, eterei. Le ipotesi scientifiche valgono quanto le favole: non sappiamo nulla, tranne il fatto che ci stanno distruggendo. S’è trattato di un’invasione? di una colonizzazione? sono in possesso della nostra anima o del corpo? sono entrati in noi o stazionano da qualche parte? occupano i libri e ci portano su strade sbagliate? sono residenti o vanno e vengono? vivono fra le parole o hanno, a modo loro, una casa? A nessuna di queste domande possiamo rispondere. Hanno una coscienza o agiscono in maniera meccanica? La loro azione è positiva o passiva? Hanno forma, assorbono la luce o ne sono attraversati? In questo vuoto di conoscenza, come possiamo pensare di contrastarli?

 

Se vincere questa guerra è impossibile, potremmo almeno concentrarci su un’altra domanda: cosa vogliamo salvare? Cosa, della nostra civiltà, del nostro tempo, della nostra storia, della nostra irriducibile materialità, insomma, vogliamo che sopravviva? E come fare? Domande che rimarranno tali. Se anche il tempo fornisse una risposta, e questo certamente avverrà dopo la vittoria degli Immateriali, nessuno di noi potrà coglierla. Nessuna coscienza, quale da sempre la concepiamo: una facoltà animale e spirituale insieme, capace di afferrare una verità e tradurla in termini trasmissibili. Abbiamo lavorato secoli per imprigionare lo spirito. Abbiamo inventato l’altare, il tempio, il bosco sacro, le chiese, la scrittura. Ci siamo nutriti di trascendenza fino a concepire noi stessi come contenitori, casseforti di trascendenza. Allora abbiamo tentato di imprigionarla nei microchip, di preservare l’anima su minuscoli supporti fisici. Così, abbiamo pensato, ridurremo l’ingombro: non corpi enormi e impacciati, soggetti a deperimento e caduta, bensì piccolissimi involucri di spirito e cultura. Ecco la soluzione. Corpicini indistinguibili all’apparenza, accostati dapprima in serie, quindi in strutture architettoniche tridimensionali. A poco a poco questi corpicini contenenti Spirito hanno incominciato a somigliare a quelli che volevamo sostituire, e allora di nuovo verso un’ulteriore miniaturizzazione.

 

E poi l’imprevedibile. Gli Immateriali hanno preso il sopravvento. In sordina, all’inizio. Un incidente a Sidney, una stranezza a New York. Un turista occidentale attraversa la strada a Pechino e diventa la prima vittima ufficiale. Da quel momento la marea non s’è mai fermata, ha investito il pianeta. Non pochi hanno continuato la vita di sempre, negando l’evidenza in nome di un’ostinata razionalità scientifica, che non contempla la possibilità del fallimento. Ma cos’è la scienza nel mondo della non-materia? Pochi hanno capito quanto stava accadendo, e sono stati accusati di delirio e superstizione. D’altra parte, anche le pratiche religiose e i filosofemi hanno fallito. Questo è più difficile da spiegare, ci porta a conclusioni molto severe. Non solo la visione del mondo materiale come sostanza ultima della realtà è inesatta, ma anche le nostre rappresentazioni del mondo spettrale sono lontane dal vero. Tutto ci conduce a una sola conclusione: gli Immateriali hanno già vinto. Che ne sarà di noi? Non abbiamo armi di difesa, il più potente esplosivo non li scalfisce nemmeno; la preghiera più sentita non li raggiunge. Qualcuno di noi sopravviverà? Non sappiamo neanche questo, forse per loro è indifferente. Forse non ci considerano nemici e la nostra estinzione è un effetto secondario. Genocidio preterintenzionale. Quando i pappagalli africani trapiantati nel Mediterraneo spezzano i rami di un pino per costruire il nido non considerano il pino un nemico, lo distruggono senza intenzione. Noi siamo come i rami del pino, moriamo uno alla volta e alla fine

 

saremo scomparsi tutti. Allora non ci saranno più pini per fare nidi, non serviremo più agli immateriali, che continueranno la loro opera distruggendo altre specie.

 

Ma forse anche queste sono congetture dovute a scarsa immaginazione. Non riusciamo a concepire forme radicalmente diverse di esistenza, tanto meno forme fruttifere di non- esistenza. Dunque ricorriamo a metafore, utilizziamo immagini e parole nel tentativo di esorcizzare l’ignoto. Ridurlo alla nostra portata, confinarlo nella descrizione. Questo è consolatorio, ma pericoloso. La sola verità, l’unica che non possiamo ignorare, è che sono inattaccabili. Se si estingueranno prima di noi, lo faranno per auto-consumazione, senza uscire da sé, senza subire attacchi decisivi. Perderanno forza, ogni replica sarà un po’ più lontana dall’originale, fino ad diventare inefficace e priva di consistenza. Se gli Immateriali scadranno fino a questo stato, la nostra civiltà potrà rinascere. Ricominceremo dall’inizio, andremo avanti per strade diverse da quelle fin qui battute. Ma la seconda chance, al momento, è meno di una speranza. Il mondo a venire è già stato opzionato dagli Immateriali. Gira voce che essi stessi non sopravviverebbero a un nostro annientamento e dunque a un certo punto si fermeranno per non soccombere insieme a noi. Ma credo che questa idea rientri in uno schema obsoleto, che vede la ragione sottoposta a fini. Io penso, invece, che il processo avviato dagli Immateriali è cieco, privo di scopi, e una volta messo in moto niente può fermarlo.

Senno e follia

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Osservazioni su un rottame spaziale

di Alberto Giorgio Cassani

«Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna»

Ludovico Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 73

Quello che, poeticamente, aveva immaginato Georges Méliès, nel suo Le Voyage dans la Lune (1902), cioè il missile che si conficca nell’occhio del faccione personificato del nostro satellite, per questo visibilmente contrariato, si sta per verificare, assai più prosaicamente, nei prossimi giorni, con lo schianto di ciò che resta di un razzo Falcon 9, messo in orbita l’11 febbraio del 2015 da SpaceX (Space Exploration Technologies Corporation), l’azienda aerospaziale di Elon Musk, l’imprenditore miliardario, attualmente l’uomo più ricco del mondo secondo la rivista «Forbes».

Il rottame ad altissima tecnologia, come afferma la notizia apparsa su «la Repubblica.it», dovrebbe fracassarsi sulla faccia nascosta del satellite a una velocità di 2,58 km al secondo, cioè all’incirca 9.290 km all’ora. Quale nuovo cratere procurerà, non potremo verificarlo nemmeno coi telescopi.

Ormai non soltanto la terra è segnata dalle cicatrici dell’azione umana, ma anche satelliti e pianeti sparsi nell’universo. La luna, visitata da Astolfo, nell’Orlando Furioso, conteneva il senno degli uomini. Il celebre episodio ariostesco era stato preceduto da un’intercenale di Leon Battista Alberti dal titolo Somnium, probabile sua fonte letteraria: anche lì, sulla luna, il dormiente viaggiatore Libripeta aveva trovato di tutto, tranne la stultitia.

Ora, al contrario, il nostro pianeta custodirà i segni di una follia che sta trasformando in discariche a spazio aperto quelli che una volta erano luoghi incontaminati dalla mano dell’uomo.

Il faccione sorridente di Musk non sembra preoccuparsene. Il faccione della luna di Méliès, invece, sì.

Jorge Ibargüengoitia – La presa del Pedernal

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di Jorge Ibargüengoitia

«Questo paese ha bisogno di progresso. Per progredire c’è bisogno di stabilità. La stabilità la possiamo raggiungere se voi vi tenete le vostre proprietà e io la presidenza. Tutti insieme, tutti contenti, e avanti così».

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto da Jorge Ibargüengoitia, Ammazzate il leone, La Nuova Frontiera 2022, traduzione di Angelo Morino.

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Alla fine del XVI secolo, gli spagnoli decisero di costruire un forte per difendere Puerto Alegre dai corsari. Per erigerlo, scelsero l’isolotto del Pedernal (così chiamato, perché qualcuno vi aveva trovato del pedernal, della pietra focaia), che è situato all’imboccatura della baia.


Il forte del Pedernal, che avrebbe dovuto impedire l’entrata (o l’uscita) di navi nemiche nel porto, non servì mai a nulla, perché i corsari non arrivarono mai a Santa Cruz de Arepa. Coloro che lo costruirono non avrebbero mai immaginato che i barbacani che stavano costruendo si sarebbero trasformati, col passare del tempo, nella trappola in cui sarebbe caduto un esercito spagnolo, perché al Pedernal andò a rifugiarsi, con i resti delle sue decimate forze, dopo la battaglia di Rebenco, il generale Santander.

Per undici mesi resistettero gli spagnoli, in quell’ultimo baluardo. In realtà, non fu un’ardua impresa, perché nessuno li attaccò durante quel periodo, né resistettero perché ne avessero voglia, ma perché nessuno passò a imbarcarli. La guarnigione era stata dimenticata dal mondo civile, come disse un deputato spagnolo quando si seppe la notizia del massacro.

Dopo undici mesi di assedio (per modo di dire, visto che gli spagnoli andavano sulla terraferma ogni pomeriggio a rifornirsi di viveri), Belaunzarán, il più giovane dei capi ribelli, decise di sferrare un colpo che avrebbe messo fine, per sempre, alla dominazione spagnola di Arepa. Radunò sulla spiaggia i neri della Humareda e gli indios guarupa del Paso de Cabras, e quando fece buio e la marea fu più bassa, si spogliò della sua vistosa uniforme da generale di brigata, e nudo, con solo un machete in mano, si cacciò nell’acqua fino alla vita, si volse verso i neri e i guarupa, che lo guardavano senza capire cosa tramasse, e sollevando il machete, gridò:

«Chi vuole la gloria mi segua!»

Ciò detto, stringendo il machete fra i denti, cominciò a nuotare in direzione dell’isolotto. Mille uomini lo seguirono, nuotando nudi, col machete fra i denti. Molti annegarono, ma molti riuscirono a superare i cento metri di larghezza del canale che separa l’isolotto dalla terraferma, e si scagliarono come un fulmine sui centoquarantatré spagnoli, che, ignari, erano intenti a celebrare una festa, in onore di Maria Ausiliatrice, e in memoria del prodigioso trionfo delle navi spagnole a Lepanto. Era il 24 maggio. Non ne sopravvisse neppure uno.

Don Casimiro Paletón, che all’epoca era un giovane poetastro, cantò quest’impresa in un poemetto di mille versi sonori (uno per ogni partecipante), in cui definì Belaunzarán, che aveva ventiquattro anni, l’“Eroe Giovinetto”, cosa di cui non si sarebbe mai pentito abbastanza.

Ogni anno, il 24 maggio, i neri della Humareda e gli indios del Paso de Cabras si radunano sulla spiaggia, ballano per sei ore al suono dei bongos, dinanzi al corpo diplomatico, ai funzionari e alla ciurmaglia del porto; alle sei arriva Belaunzarán a cavallo, vestito da generale di brigata. Si toglie gli abiti, rimane in mutande, si caccia un machete fra i denti, e ripete l’impresa di nuotare fino al Pedernal, dove lo aspettano, suonando, la banda dell’artiglieria, e una signorina travestita da Patria, che lo incorona di alloro.

Sono in molti a seguirlo nella traversata, e, ogni anno, qualcuno annega. La speranza proverbiale dei ricchi di Arepa è “che il Grassone anneghi mentre nuota verso il Pedernal”. Desiderio che non è mai stato esaudito nei venticinque anni successivi all’indipendenza.

Pepe Cussirat e Paco Ridruejo pranzarono all’Hotel de Inglaterra e arrivarono sulla spiaggia vestiti di bianco, con panama in testa, alle quattro e mezzo, quando le danze erano all’apice.

Sotto un pergolato di frasche, seduto su un seggiolone di vimini, Sir John Phipps dorme tranquillamente, grazie alla sua sordità. Accanto a lui, il primo segretario dell’ambasciata britannica si allontana le mosche.

Facendosi strada fra gli avanzi di pesce fritto, i gusci di cocco verde che coprono la sabbia, i due giovani dandy raggiungono il “pergolato a pagamento” salutando, mentre passano, Bonilla, Paletón e il signor de la Cadena, che sbadigliano sotto il pergolato dei deputati. Mentre Paco Ridruejo paga per le seggiole, qualcuno, dagli ultimi posti, saluta cordialmente Cussirat. Questi risponde al saluto e, quando il suo compagno gli si siede accanto, domanda:

«Chi è quel tizio?»

Ridruejo guarda verso l’individuo che, seduto su una panca affollata, si toglie il cilindro per la seconda volta, china il capo e sorride.

«È un musicista, un protetto di Ángela Berriozábal.»

I guarupa ballano al suono di tamburi, sonagli, flauti di giunco e chitarroni; i neri, al suono di bongos e tamtam. Tutti insieme e senza concerto. Tutti si ubriacano, alcuni litigano, altri cadono sulla sabbia, sfiniti, e si addormentano per smaltire la sbornia.

La banda dell’artiglieria e i bambini delle scuole raggiungono il Pedernal, a gruppi, sulla lancia della capitaneria. Don Carlitos e don Ignacio Redondo, che temono che la loro assenza sia notata, e che ne derivino irreparabili mali senza fine, si presentano di malumore e all’ultimo momento. Coco Regalado e il Cavallo González, che prendono parte alla baldoria, compaiono ubriachi, inciampando di continuo, “per vedere se il Grassone annegherà”.

Infine arriva, Belaunzarán, fra il bailamme della plebe, e lo strepito delle musiche di guerra. Si spoglia, si caccia in mare, pronuncia la sua frase celebre, e attraversa, senza contrattempi, il canale, alla testa di centinaia di ubriachi.

Quando approda sull’altra riva, e viene coronato d’alloro dalla “Patria”, al suono dell’inno di Arepa e alla luce dei fuochi di artificio, Cussirat, fra gli applausi, i bongos e gli schiamazzi, in piedi sopra la seggiola, per vedere meglio, si volta verso Paco Ridruejo e gli dice:

«Contro quell’uomo non si può lottare in una competizione elettorale. Bisogna ammazzarlo.»

Passa un momento prima che l’altro si convinca che il suo amico sta parlando sul serio. Poi, dice:

«Sì, certo! Però, come?»

Quella sera, al circolo, i moderati rimasero a bocca aperta, e alcuni fremettero di rabbia. Pepe Cussirat, la loro ultima speranza, rifiutò la candidatura alla presidenza.

«Ma lei ci aveva spedito un cablogramma dicendo che accettava la nostra richiesta» gli rinfaccia Bonilla, con severità.

«Che l’accettavo in linea di massima» corregge Cussirat. «Adesso la rifiuto. Ho riflettuto, e ho visto la realtà. In primo luogo, credo di non avere speranze di venire eletto; e in secondo, credo che, anche se per un miracolo vincessimo le elezioni, Belaunzarán, che evidentemente non vuole mollare il potere, come dimostrano la morte del dottor Saldaña e le modifiche che sono state apportate alla costituzione, ha abbastanza forza e popolarità per scatenare una rivolta e toglierci la presidenza nel giro di due giorni. Allora sì che saremmo nei guai. Io e voi.»

Il suo argomento, che sembrerebbe irrefutabile, e che si può formulare con una domanda: “Perché lottare se non ci sono speranze?” non convince i moderati più cocciuti, né i meno battaglieri come Bonilla, Paletón e il signor de la Cadena, che da quindici anni continuano a parlare di battaglie civiche che bisogna ingaggiare; e neppure i più timorosi, come don Ignacio Redondo, a cui il fantasma della legge sull’esproprio toglie il sonno. Gli altri, che pensano che se non si può vincere occorre, almeno, sapersela intendere con chi vince, come don Carlitos, don Bartolomé González e Barrientos, capiscono Cussirat, lo scusano, e persino lo difendono quando si alza, esce dalla sala delle cerimonie, e va a bersi un Tom Collins al bar del circolo; ma perdono la battaglia quando don Carlitos propone Belaunzarán come candidato del partito moderato alla presidenza, perché le forze reazionarie, intransigenti e oscurantiste, come le definirebbe Belaunzarán, sono più numerose.

«Non possiamo metterci nelle sue mani e lasciare che ci tagli la gola» dice Redondo, non pensando alla gola, ma agli incassi che gli vengono dalle botteghe che recano il suo nome.

Dopo molte discussioni e tra mille risentimenti, si concorda di parlare con Belaunzarán e di chiedere che vengano rinviate le elezioni, per avere più tempo per decidere quale candidato nominare.

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Il libro
Arepa, un’isola immaginaria dei Caraibi, 1926. Il presidente della Repubblica, il maresciallo Belaunzarán, sta per concludere il suo quarto e ultimo mandato, così come impone la Costituzione da lui stesso promulgata. Ma il vecchio leone non vuole farsi da parte. Così fa assassinare il candidato dell’opposizione e propone una modifica alla Carta mobilitando i suoi sostenitori del partito progressista per essere rieletto. I ricchi borghesi del partito moderato non ci stanno e richiamano sull’isola Pepe Cussirat, giovane e ricco don Giovanni, che arriva – e ad Arepa nessuno ne ha mai visto uno – in aereo. Ma per sconfiggere “il grassone” c’è solo un modo: ammazzarlo. Una trama strampalata costruita di capitolo in capitolo con una modernità degna delle migliori serie TV, una satira spietata dell’inettitudine civile e morale della peggior politica e scene epiche: sono questi gli ingredienti di Ammazzate il leone, un testo che è diventato la parodia per eccellenza de la novela del dictador ma che, riletto oggi, ci dimostra come humor e disincanto sono, se maneggiati come fa Ibargüengoitia, strumenti efficacissimi per descrivere una società.

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L’autore
Jorge Ibargüengoitia (1928–1983) è stato uno dei più importanti romanzieri messicani della sua generazione. Tragicamente scomparso il 27 novembre 1983 in un incidente aereo mentre si recava in Colombia per il Primo Convegno della Cultura Ispanoamericana, ha praticato diversi generi facendo dell’ironia, dell’umorismo e della critica sociale le sue armi. Per La Nuova Frontiera sono già apparsi i romanzi Due delitti e Le morte.

Paolo Godani: per una archeologia della persona

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di Luigi Pezzoli

 

Poco prima di vedere il volto di Cristo nel sole, a conclusione del lungo cammino nel deserto, srotolatosi in tentazioni e resistenze, il delirio del sant’Antonio di Flaubert si fa grido panico. Voler «essere in tutto», «penetrare ogni atomo, scendere fino al fondo della materia – essere la materia!» (Flaubert, p. 857) è il suo ultimo slancio, prima di ricomporsi in preghiera. Non è neanche necessario scomodare i santi per riuscire a intendere quel sentimento di comunione con il tutto che si avverte quando ci si sdraia su un prato e si concede al vento di impastarci col mondo. In un caso come nell’altro, un’atmosfera tanto rarefatta si distingue sempre almeno per un carattere: la sua straordinarietà. Che si tratti di una pausa dalla vita frenetica, di un afflato mistico e inebetito o del rapimento estatico di un santo, di un folle o di un drogato, uno stato simile non può che profilarsi come un’eccezione, talvolta ricercata, allo svolgersi ordinario di una vita rinchiusa in se stessa. Lo stordimento e lo spossessamento che queste esperienze implicano ci costringono ad ammettere che l’unico luogo che spetta loro non può che essere il margine, pena l’invivibilità della vita stessa. Eppure non possiamo non continuare a chiederci: resta davvero preclusa la possibilità di pensare un modo quotidiano di stare al mondo che sia in grado di avvertire la stoffa comune che ci lega all’infinità di tutto ciò che c’è?

Con il suo ultimo testo, Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona (Neri Pozza, 2021), Paolo Godani ci risponde che una tale possibilità non solo non è preclusa, ma deve essere necessariamente realizzata se si vuole avere una conoscenza adeguata della natura e dell’essere umano. Non essere più capaci, ad esempio, di avvertire ciò che ci accade come se giungesse dall’esterno, senza che con ciò si riferisca necessariamente a noi, significa aver tagliato ogni legame con la natura. L’obiettivo che il testo si propone è precisamente quello di ricostruire archeologicamente le condizioni che hanno permesso l’emergere di una visione del mondo che Godani non esita a chiamare personale o antropologica e che coincide con il momento in cui è sparita una certa attitudine metafisica, ovvero con la perdita della percezione che l’uomo ha di essere parte del cosmo.

Il lavoro si divide in due parti perché l’ipotesi che lo attraversa consiste nell’affermare che la perdita del cosmo è avvenuta non una bensì due volte: «se la prima volta coincide con la dissoluzione delle potenze cosmiche in favore del mistero di un corpo di carne, la seconda volta è certamente quella in cui, tra XVIII e XIX secolo, l’universo infinito contemplato dalla filosofia e dalla scienza moderne, perdendo la propria pienezza e continuità, inizia a ripiegarsi sulla vita, custodita nel mondo chiuso degli organismi individuali» (Godani 2021, p. 107). Il metodo che Godani adotta in questa ricostruzione si inserisce nel percorso abbozzato da Foucault nelle sue ricerche, proponendosi però di «riprendere da capo il lavoro archeologico» (ivi, p. 43). Le poche pagine iniziali dedicate alla premessa metodologica (ivi, pp. 8-12) esprimono già tutta la loro acutezza e ci aiutano a comprendere la tesi proposta, che suona all’incirca così: l’immagine che abbiamo oggi del nostro corpo deriva dal concatenamento di due fonti tra loro differenti, quella cristiana della carne e quella moderna dell’organismo vivente. Così, nella prima parte si dimostra che nel cristianesimo tardo-antico emerge una nozione nuova, quella di sarx o carne, che differisce dal corpo inerte del naturalismo pagano perché, non identificandosi più con un soma vivificato solo da potenze esteriori ma costituendo il corpo nella sua interiorità, ne diventa la nuova sostanza. Analogamente, nella modernità, l’organismo incarna la nuova immagine della persona, nel momento in cui l’emergere della vita rompe la catena univoca dell’essere, causando il suo ripiegamento nell’interiorità dei corpi individuali. La precisazione metodologica sull’omologia tra le due nozioni si rivela essere fondamentale: «non si tratta di sovrapporre ingenuamente il concetto biologico di organismo alla nozione cristiana di carne, ma di mostrare non solo che il primo trova nella seconda un suo componente, ma anche che l’una e l’altra emergono separandosi da e lottando contro contesti e logiche che non li prevedevano» (ivi, p. 115). Così come la nozione di carne lotta contro la concezione del kosmos antico, quella di organismo lotta contro l’immagine della natura della precedente âge classique.

Il corpo e il cosmo è un’archeologia della nozione di persona, ma è anche e innanzitutto una meditazione su un modo impersonale di pensare. Un’esigenza simile percorre, in fondo, tutta la ricerca di Godani, ma la ricostruzione archeologica ha permesso di comprendere da un lato le condizioni che impediscono di praticarla e al tempo stesso l’atmosfera in cui doversi situare per ripensarla. Affermare che forse è «venuto il momento di tornare a percepire anche i soffi che ci attraversano» (ivi, p. 103) significa riabilitare alcuni aspetti del naturalismo pagano, così come ammettere la necessità di riferirsi a una ricettività nei confronti dell’esterno, piuttosto che a una passività nei riguardi della propria interiorità, significa recuperare i cardini del sensismo. In entrambi i casi ciò che deve essere riconquistato, perché messo al bando nelle tradizioni successive, è una certa concezione dell’esterno e del fuori.

Questa operazione di recupero e riattualizzazione non è nuova per Godani, se pensiamo che l’utilizzo della dottrina epicurea gli ha già permesso di ripensare la dinamica del desiderio nei termini statici di un piacere consustanziale all’essere di un corpo che si gode (cfr. Godani 2019). Ma Il corpo e il cosmo amplia il suo raggio d’azione, proseguendo la metafisica dei Tratti (Ponte alle Grazie, 2020), non solo perché l’archeologia della persona ci aiuta a capire che un singolo può essere inteso altrimenti da un individuo irripetibile, caratterizzato da un’interiorità solo sua e racchiuso entro i confini netti di un corpo organico. La riconquista di un mondo comune e impersonale va ora di pari passo con la necessità di un ritorno alla metafisica classica, ovvero con l’esigenza di tornare a pensare che «tutte le cose finite, pur non avendo in loro stesse il principio per il quale possono essere ed esser concepite, nondimeno sono enti reali capaci di persistere nel loro essere, in quanto espressioni della natura infinita» (Godani 2021, p. 16).

Non sarebbe necessario, ma conviene sgomberare il campo da possibili equivoci che, in agguato, ammiccano con insolenza. Percepirsi come parte del cosmo non implica né un anelito romantico verso l’infinito né un atteggiamento mistico che si nutre di ineffabilità e miracolo. Al tempo stesso, la metafisica di cui Godani proclama l’attualità è ben lontana da qualunque forma di panteismo invischiata in dichiarazioni vitalistiche, perché ciò che deve essere riaffermato è innanzitutto «la comprensione del vivere stesso come nient’altro che essere» (ivi, p.119). Contro la dinamicità di un’antropologia della vita, una metafisica dell’essere non può che proporsi come una metafisica della staticità. Se già ne La vita comune Godani poteva affermare che «desiderare è divenire, e il divenire è sempre un divenire comune» e che «l’espressione di un desiderio autentico non è mai voglio questo o quello, ma sempre del tipo Voglio diventare una cometa, anche perché – come ci dice la stessa etimologia del termine – il desiderio ha sempre a che vedere con gli astri (sidera)» (Godani 2016, p. 56), ora il divenire cosmico non può che cedere il posto a un essere cosmico.

C’è una sola nozione in tutto l’affare vitalistico e dinamico a cui Godani strizza l’occhio: la pulsione di morte freudiana, che d’ufficio si situa nell’impianto psicoanalitico, erede diretto della rottura moderna dell’immagine classica del mondo, ma che nei fatti si presta a una lettura più perversa. In questo senso, «la cosiddetta pulsione di morte, in quanto tendenza all’inorganico, è la manifestazione della persistenza di un essere che non intende ridursi alle dinamiche del vivere» e dunque «non sarebbe che un nome infelice per quella che Spinoza chiamava acquiescentia in se ipso o beatitudine» (Godani 2021, p. 171). In fondo, si tratta dello stesso gioco perverso che Spinoza fa a sua volta con un concetto che eredita direttamente dalle teorie dinamiche dell’epoca, quello di conatus, e che Godani ci restituisce in tutto il suo originale significato spinoziano: «indicare la statica persistenza di ogni essere», ovvero «l’esserci di una cosa che è» (ivi, p. 118).

L’esigenza di un ritorno alla metafisica, lungi dall’essere un puro vezzo estetico, risponde almeno a due istanze, che esprimono il suo legame con una visione impersonale del mondo: da un lato, riniziare a percepirsi come una parte della natura è il modo che più conviene con la possibilità di pensare la tessitura comune di cui è fatto tutto ciò che è; dall’altro lato, abbandonare il ripiegamento personale è l’unica soluzione per sfuggire a un destino di colpa e responsabilità, che costituisce precisamente «la ragion d’essere della nozione di persona» (ivi, p. 174). Ma il lascito più potente di questo testo sta forse nell’affermare la necessità di una metafisica che non sia «né una dottrina né un ambito del sapere, ma una postura che assegna al pensiero il compito di rivolgersi al tutto prima che alla parte, al mondo prima che all’io, alla sostanza prima che al soggetto» (ivi, p. 7).

A latere, Godani sembra infatti dirci che la fuga non si attua unicamente con pratiche temporanee e trascendenti lo stato in cui si è. Come il piacere può essere pensato non solo come l’eccezione costituita dalla scarica di un desiderio, ma come la semplice fruizione dell’esistenza, così, in modo più generale, la possibilità di percepirsi come parte del cosmo non deve essere relegata a esperienze straordinarie, semplicemente perché è già qui. E la soluzione si annuncia in tutta la sua chiarezza: si può fuggire, ad esempio, da un certo modo di pensare, ovvero da un certo modo di combinare le cose, configurando una diversa disposizione. Spinoza e Musil sono i saldi appigli a cui Godani si affida per spiegare la pratica di questa postura metafisica: se con Spinoza ci suggerisce che pensare metafisicamente significa osservare «l’ordine che il filosofare richiede» (ivi, p. 15), con Musil la metafisica diviene una questione di concatenamenti, nel momento in cui «una qualunque esperienza può ricevere il suo significato (Bedeutung), anzi – precisa Musil – il suo stesso contenuto (Inhalt) dalla posizione che le si fa assumere in una trama o in un ordine: un accadimento può essere vissuto come una vicenda personale, quando assume il suo senso dal fatto che è accaduto a me, oppure può essere compreso in un nesso oggettivo, e allora il suo contenuto avrà una portata generale e comune» (ivi, p. 177).

In fondo, non ci resterà molto tempo per chiederci se questo percorso in compagnia del nostro spinoziano avrà combinato qualcosa, semplicemente perché, non appena ci accorgeremo che il tragitto è giunto al termine, la nostra percezione della combinazione delle cose sarà già mutata, forse definitivamente.

 

Bibliografia

 

  1. Flaubert, La tentazione di sant’Antonio, in Opere (1863-1880). Vol. 2, Mondadori, Milano 2000.
  2. Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo, DeriveApprodi, Roma 2016.
  3. Godani, Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo, DeriveApprodi, Roma 2019.
  4. Godani, Tratti. Perché gli individui non esistono, Ponte alle Grazie, Milano 2020.
  5. Godani, Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, Neri Pozza, Vicenza 2021.

L’io, il Covid e l’esperienza della terapia intensiva. Su “Zero virgola io” di Luca Pietromarchi

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Illustrazione di LRNZ per Repubblica, serie “Una matita ci salverà”, marzo 2020

 

Una nota su Luca Pietromarchi, ‘Zero virgola io. Prose brevi dalla terapia intensiva’ (Roma, Viella, 2021).

di Paolo Rigo

«È stretta anche la porta che conduce alla morte» (23). La formulazione nasce dall’esperienza diretta, certo, ma appartiene anche alla letteratura, alla sua lunga tradizione, e da lì è divenuta una sorta di insegnamento secolare: Victor Hugo, per esempio, una volta descritte le terribili pene provate da Jean Valjean nei giorni della sua tragica prigionia, non poteva non constatare che la vita non finisce quando lo desiderano la mente o il cuore dell’uomo. No, non basta la volontà a fermare la misteriosa macchina che anima l’esistenza biologica dell’apparato umano. Esso, corpo, strumento, sistema autonomo e automa, resiste inconsapevolmente alle avversità, e, a volte, può addirittura svelarsi più forte di quello che si credeva. Esso combatte contro le ferite di qualunque tipo; e dei conseguenti dolori, incontrollabili, può ambire a divenire traccia e testimonianza: «È la mia pelle, è il marchio del Covid, come un tatuaggio che, anche se destinato a sparire, ha le sue cose da dire e da ricordare» (43). Il corpo ha le «sue cose da dire», scrive Luca Pietromarchi in Zero virgola io, nel racconto autobiografico, frutto e testimonianza della degenza della sua malattia. Il racconto della degenza, della patologia, delle infermità non è una novità nella tradizione letteraria italiana; ma al pamphlet va accordato un merito: si tratta di una delle prime narrazioni in prosa della pandemia, una delle prime scritture dedicate al Covid, un’originale memoria fisiologica (e non) dell’affezione. Zero virgola io è la testimonianza della precarietà umana, della vacuità dell’esistenza che, riprendendo la nozione di Pathosformel di warburghiana memoria, può far sovvenire alla mente del lettore l’esperienza dannunziana del Notturno: ai foglietti del vate si sostituiscono ora le «prose semi-oniriche» di Pietromarchi, «scritte di notte sul cellulare» e «destinate» dapprima ai «famigliari» (15-16), poi rese pubbliche con il nobile scopo di ringraziare il personale ospedaliero che seguì l’autore nella guarigione. Credo, però, che sia ugualmente lecito ricordare come l’obiettivo di qualsivoglia narratore, davanti a un mondo parzialmente sordo al dolore di questa pandemia, sia pure quello di testimoniare (ed esso è il primo compito sociale della scrittura) una verità, la verità dell’emergenza. La scrittura è testimonianza di ogni aspetto, anche di quelli più miseri, più delicati e quotidiani perché la malattia è tanto umiliazione dell’io, quanto nuova consuetudine, essa è l’«occasione di ricucitura, ovvero di riconciliazione» (p. 31). E Pietromarchi, fedele a questo assunto, sceglie di raccontare tutto: se asciutta è la descrizione degli «occhialetti, ovvero il tubicino che serve ad immettere ossigeno nei polmoni attraverso il naso» (p. 12) ed è parimenti delicata la constatazione della ripresa delle forze (p. 25: «Mi sono messo in piedi un momento con l’aiuto dell’infermiere. Sarà lunga recuperare. Speriamo da domani»), una breve prosa, quasi mistica, è dedicata al Pappagallo, l’oggetto forse più misero della convalescenza. Un brano in cui l’atto fisiologico assurge a una dimensione inaspettata, funebre e consolatoria. Svuotata delle sue facoltà primigenie, l’ampolla in questione è presto riconosciuta come urna (p. 26: «come un’urna, ma nella quale non hai ormai più alcuna lacrima da versare…»). La retorica dell’autore ricorre spesso a metafore e immagini, talvolta di gusto classico. Tale piano semantico è evidente nella drammatizzazione della lotta interiore tra malattia e cure: contro la febbre «sempre più insistente e tenace», «la tachipirina», come in una pugna spiritualis, «lanciava i suoi inutili strali» (p. 11). La dimensione simbolica della narrazione si snoda in altri momenti: l’addetto all’igienizzazione che, quasi timido, «sbuca in stanza», riecheggia l’incontro tra Venerdì e Robinson Crusoe («È lui, è Venerdì, e io sono davvero Robinson, approdato dopo un naufragio sull’isola della salvezza», p. 29). Ancora: ecco che il processo di sanificazione successivo al trasferimento da un reparto all’altro dell’ospedale è teso verso un’esplosione semasiologica di un linguaggio strappato dal mondo stavolta conosciuto e naturale (la doppia immagine di p. 13, dove «l’annaffiatore» di disinfettante «è simile ad una di quelle pompe a spruzzo che servono a dare il verderame agli olivi» e inoltre «al turibolo che incensa il percorso di una processione»). Perfino il piano della riflessione filosofica pertiene a fondamenta e vestigia del passato. La fortuna non ha più solo un nome, dice Pietromarchi, ma dietro la maschera della dea bizzarra e cieca se ne nasconde un altro; prende piede così la lezione dei classici, di Cicerone, di Seneca e di altri via via più moderni, come Agostino, Petrarca, Flaubert, Goethe, Foscolo o Manzoni per esempio, e così la fortuna benigna, come lo fu per questi autori, è riconosciuta quale «grazia» (p. 24). L’implacabile crescita dei contagi, l’avventura del singolo, l’everyman, la salvezza, la speranza, la delusione, ogni aspetto della vita umana è parte di un fato incomprensibile (ma cos’è il fato se non un nome come ci ha insegnato un millennio fa la dura voce di Girolamo? «Nemo putet sub hoc verbo vel fatum vel fortunam introduci quod hi sint virgines quibus a Deo datum sit aut quos quidam ad hoc casus adduxerit, sed his datum est qui petierunt, qui voluerunt»).

Sembrerebbe mancare nel libro la quotidianità di chi non ha avuto un contatto grave e diretto con il Covid-19: o, meglio, se perfino l’urinare diviene cerimonia luttuosa e consolatoria assieme, come detto, è anche vero che la pratica del tampone, a cui l’autore ha dovuto sottoporsi settimanalmente data la sua professione di docente universitario, è da subito associata alle funzioni proprie di «un rito» (p. 9). Un rito parte di un’abitudinarietà che ci ha sconvolto tutti (chi più, chi meno), e che nel suo contrappunto sardonico echeggiò, fatte le dovute proporzioni, la società logica e burocratica immortalata da Solženicyn: tutti in attesa di una chiamata, di un gesto, del risultato del test molecolare, di un soggiorno obbligato o di un lockdown.

Di quella normalità, di quando il virus si propagò su scala mondiale, ricordo che, chiuso nella mia casa, dove scontavo la quarantena e passavo i giorni a vivere su carta la vita che ci era stata negata dal Covid-19, nemico tanto terribile quanto comune, mi ritrovai, sospinto dalla curiosità, a immaginarmi impegnato nella lettura delle future narrazioni di quel pezzo di Storia così lontana dall’individualità propria dell’eroe. Una narrazione immediata, ma del tutto visiva, avvenne già il 27 marzo 2020 su Robinson di «Repubblica», dove importanti artisti e disegnatori parteciparono all’iniziativa Una matita ci salverà: le loro illustrazioni avevano lo scopo di raccontare quei giorni così strani. Anche il cinema, la televisione, le fiction e altri media visivi non hanno tardato a rispondere all’appello. E la letteratura? La letteratura non ha reagito subito. Forse, il distinguo è insito nella fenomenologia propria dell’arte, nel suo carattere introverso, intimo, riflessivo (Segre attribuiva proprio a questa caratteristica il ritardo nello sviluppo della prosa volgare nel Duecento) e ruminante, formato anche da altro oltre al segno dell’inchiostro, dall’apprendimento e dalla lettura. Perché la lettura è il primo ingranaggio invisibile del meccanismo-scrittura. Così funziona la manducation de la parole, così come l’ha definita Marcel Jousse, processo che può sfociare in un nuovo significato. Questo aspetto è vivo nel libro di Luca Pietromarchi, dove la durissima esperienza biologica si mischia con il vissuto della sua anima, disegnando un cerchio che, non a caso, si apre e si chiude su La Certosa di Parma, il testo prediletto, reinterpreto alla luce della patologia. Se il romanzo era stato scelto per passare i giorni dell’ospedalizzazione, esso diviene presto il simbolo privilegiato – tramite Fabrizio Del Dongo, il protagonista del libro di Stendhal – del modus in cui l’io narrante ha vissuto l’esperienza tanto dolorosa e grave:

Cosa ti porta in ospedale? la sfortuna, la forza delle cose, la corrente del destino. Forza e corrente che qui si materializzano nel turbine di medici e infermieri che si affollano attorno, e a cui, dentro, corrisponde l’invisibile mulinare di corpi e anticorpi, di virus e antibiotici. Che fare? Due opzioni. Reagire, vigilare, ascoltare, protestare, cercare di capire il come, il quando, il perché. Opzione nervosa e faticosa, rispetto alla seconda. Che consiste invece nel lasciarsi andare, affidarsi alla corrente, e alle mani di chi ti cura, pensare ad altro che non sia ciò che occupa il presente e che ammala il corpo (55-56).

La scrittura con il suo atteggiamento riflessivo è testimonianza, sfogo, rassicurazione, ma anche il risultato del confronto con la propria coscienza e con le proprie conoscenze non sempre (o non solo) letterarie: lo attesta l’allusione al film di Jaco Van Dormael, Dio esiste e vive a Bruxelles (a p. 50: «Pronto Dio? che tempo fa a Bruxelles?»; e questo è forse un ottimo esempio delle ragioni del “ritardo” fenomenologico della letteratura: se il fiore è comunque riconoscibile dal miele, il processo di trasformazione è pur sempre lento). Nel libello di Pietromarchi i vari piani si mischiano: la memoria può correre indietro e giungere sino agli incontri dell’infanzia. Così una “scatola d’emergenza”, mascherata da confezione di biscotti danesi – ed ecco affiorare il moderno palinsesto della madeleine di Proust –, riempita di «ciò che poteva servire a salvare uno dei loro in pericolo» (p. 36), risveglia nell’io la memoria, diminuisce l’oblio (anche quello della paura che «non ha scadenza», p. 36), e colma la lontananza. Quest’ultima non è solo temporale ma pure spaziale: se è solo in una certa misura assente il tenero ricordo della nonna di Proust (una mancanza parziale perché, come Proust, anche Pietromarchi, «crede nell’unità della famiglia» che percepisce «come una struttura matriarcale», p. 24), ecco che, in Zero virgola io, prende corpo il fantasma di una zia che non si credeva più parte della propria esistenza. La tragicità della degenza ha colmato il tempo e annullato lo spazio. Magia della letteratura il cui primo insegnamento è che la vita non ha confini e può essere riconosciuta alla pari di una risibile allegoria. Il mondo si può vedere con altri occhi (visiorespiciendi) e i suoi personaggi si muovono e parlano e interagiscono nelle fitte maglie del sogno. Così il corvo ladro di parmigiano, protagonista indiscusso di una delle prose del libro, colto con il suo bottino in bocca, non è soltanto uno spettro di quello di La Fontaine e di Esopo, ma qualcosa di più. Si noterà, per giunta, che entrambi gli autori sono già citati a pp. 22-23, dove l’uno riprende l’altro in un gioco di ammiccamento al lettore accorto che sa bene come nella versione dello scrittore francese la guerra dei topi, a cui fa riferimento Pietromarchi, non è condotta verso i gatti, come avviene per il collega antico, ma contro le donnole (storia IV 6 delle Favole). Come che sia, il corvo di Zero virgola io è un visitatore che ha imparato dalle humanae litterae e che se parla lo fa con la saggezza del lettore esperto. Il volatile di Pietromarchi, che nasconde un non-so-che di quello drammaticissimo di Edgar Allan Poe, ha imparato dalla sua esperienza. Forse non è sbagliato concludere con il riconoscere che tutti da questo libricino, così sensibile e delicato, abbiamo molto da imparare; e lo abbiamo soprattutto in questi giorni di serrato dialogo, quando la pandemia sembra meno spaventosa, ma, nonostante ciò, l’ostinatezza di chi non ha riconosciuto o non vuole riconoscere il dramma umano e sociale pesa, ogni giorno di più, come un macigno.

Nella città più fredda, di Elisa Davoglio

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Questa è una guida turistica, queste sono città immaginarie, questa è la stessa città, così dettagliata, così intima a quella che conosciamo. Un luogo caldo e dolce che diventa un luogo freddo e inospitale: lo conosciamo, dunque. Anzi: un luogo pronto a ospitare solo malati di mente, disperati in fuga, detenuti in attesa di sentenza capitale. Cosa è accaduto alla città morbida, al suo tepore? È tutta colpa dello Storming, questo singolare fenomeno climatico che forse non è un fenomeno, visto che non ha spiegazione scientifica o corso razionale. Forse è un assurdo, forse è un’idea: “Dove iniziano i confini dell’idea, dove finiscono i confini, inizia e termina il calore.” Ho in mano un libro sul collasso del clima, sul crollo di un mondo personale, sullo straniamento emergenziale, sull’alienazione da conformismo, sulla scrittura? Prose in prosa dell’apocalisse? Inclusi: un test per capire se si è malati a sufficienza, un manuale di istruzioni per scrivere una storia d’amore nella città più fredda. Tkuskya, Austkyk, Kauktys, Kuystak, qual è il suo vero nome? Tanto misterioso questo oggetto, quanto duttile la scrittura di Davoglio, che per impercettibile scivolamento sposta la sintassi comune, la pacata economia del linguaggio, verso l’orlo di un cedimento irrazionale, come al confine di una esplosione nervosa, che una soggettività sommersa rattiene. Un modo molto sofisticato per parlare di come la crisi stessa – che la leggiate nel senso più ampio o nel più personale – non sempre erompe, più spesso ci racchiude. (rm)

 

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Da Nella città più fredda, di Elisa Davoglio (Tic Edizioni, Roma 2021)

La città è nata calda, morbida da poter tagliare, attraversarne i rami in sicurezza, con assegnazioni di posto e indicazioni infallibili verso tutte le direzioni. Cautele verso gli spifferi e le cadute, insegne, luoghi di ricovero, è nata intatta ed esatta nelle sue previsioni, nella crescita del primo centro e poi via via i quartieri si sono fatti pieni e alti, coerenti con i progetti e la premura di renderli presto accessibili, vivibili ai più.

Quando la città è nata, non è stato necessario annunciarla, l’entusiasmo è salito con il calore della costruzione, in movimento, insieme agli abitanti che ne hanno calcolato il valore, apprezzato l’aspetto dell’architettura e la funzionalità generosa dei rubi- netti che generano vapore caldo invece che dolorosi getti d’acqua.

La città appena nata, calda di fermento, si accende e cresce nella sua misura ebbra di febbre, incantevole, fervida, attiva.

Gli abitanti si consolidano in gruppi concordi e coerenti. Chi deciderà, lo farà sorretto dalla capienza degli assenti, di chi si è assuefatto prontamente all’idea di abitare in un luogo giusto e superiore.

Nella città calda, non esistono ancora i rumori della protesta; tutti sono convinti di poter un giorno ricomporre la coesione, rovesciare le ingiustizie, attendono di riempire le falle, mentre si creano spazi e limiti, dentro la loro libertà.

Nel punto più alto della città calda, una grande ruota panoramica permetterà a tutti di osservare ogni cedimento, per denunciarlo insieme a ogni debolezza, a ogni distrazione degli idoli che rassicurano: persino, speciali tendoni proteggeranno da un’eventuale tempesta quando si vorrà marciare, rovesciare l’ordine costituito.

Subito diversi amori nella città calda, sono scivolati fino ad arrivare alle periferie ancora in costruzione, a far nascere nuovi bambini intatti che si sono rovesciati nell’immagine tiepida di una cartolina illustrata; nella città appena nata è ogni cosa neces-saria, predisposta per allestire feste, parchi e nuclei familiari sostenibili, si procurano palloncini che a richiesta volano fino ad adagiarsi sui tetti, a creare una manciata di colore ancor prima che la città si definisca, si alimenti da sola.

La città è nata appena, e già si sono consolate le prime perdite, i primi affettuosi assassini, la caduta di un filo rosso lungo il margine del suo nome, a renderla già autorevole, quasi vecchia, assertiva nei luoghi della sua prassi. Si progettano teoremi e larghe costruzioni, concepibili come vetro ed essenza; le rughe sulla sua faccia, le crepe dei primi distacchi, si formano mentre cresce il vento, per il quale vengono prontamente adibite porte con sigilli, segnate siepi di confine, per proteggersi dal movimento e dai brividi che minacciano l’equilibrio della struttura.

[…]

Sulla grande ruota panoramica ancora inaccessibile, si pensa che si addensi il maggior tepore, dove tutto è tiepido, anche l’attesa della pioggia e del freddo.

La guida turistica presenta sezioni differenti per parlare di un luogo; ci sono parti da destinare agli indirizzi fisici, a dove trovare un aiuto di prima necessità, mappe per riconoscersi e orientarsi.

Obbligatoriamente conterrà sezioni da dedicare alla meraviglia, per incitare al viaggio e alla scoperta.

Il calore fluisce a causa di una differenza di tempera- tura tra il sistema oggetto di studio e l’ambiente, oppure a seguito di una transizione di fase, e quindi non è in alcun modo riconoscibile all’interno del sistema e dell’ambiente come proprietà intrinseca degli stessi.

Nella città nata da poco, non si alternano le consuete stagioni, nello sgomento crescente di un caso stra- ordinario. Ogni goccia trasformata in ghiaccio ha segnalato la spinta di un nuovo sforzo del calore, che fa sempre più fatica a propagarsi.

Lo hanno chiamato, un caso straordinario, Storming. Ogni giorno, nella città nata da poco, calda, la temperatura ha iniziato a decrescere di un decimo di grado, senza alcun tipo di ritorno alle consuete attese. Il calore dei corpi, la sua caduta, è saggiato, misurato con strumenti di precisione.

All’inizio, la perdita di calore è consumata da un vento verticale, che ha ricacciato giù aria pesante e densa, sempre più livida, implacabile e senza storia.

L’aria che torna, non ricorda niente della nascita della città, si deposita e affonda inesorabilmente sopra e dentro il terreno, rendendolo ottuso, morto, duro. Qualsiasi cosa che cada adesso, riproduce lo stesso suono metallico, senza eco.

[…]

All’inizio dello Storming, l’ordine ha preso il sopravvento su ogni piano, aggredito dallo stupore, dalla necessità di trovare soluzioni rapide per l’essiccamento e la durezza della terra, l’eccessivo bisogno di coprirsi e arrendersi, dormire molto.

Gli abitanti sono stati classificati per sigle più essenziali dei nomi. Ogni carattere vive meglio in un punto della città, che viene circoscritto da aghi di ghiaccio. Gli abitanti, vengono confinati come parte dello stesso incantesimo.

I ribelli senza metodo, che vogliono scappare semplicemente, graffiando e mordendo, hanno perso sangue dal naso, rallentato il battito, sono stati medicati e rassicurati che il movimento sarebbe proseguito, sarà trovata una cura, un modo per uscire, intatti.

I più preparati, i più intelligenti, hanno iniziato a vivere nell’ombra, a rilasciare comunicati indecifrabili ai più, incitando alla rivoluzione, mimetizzandosi in scantinati sotto la terra, scomparendo dalla superficie.

Intanto, la città deve essere amata. Hanno conti-nuato, sforzandosi, a costruire diversi palazzi dedicati all’onore, alla saggezza e al culto. La città si cristallizza man mano con il freddo, si rassicura.

Un drugstore, un fiocco, un cavatappi.

In mezzo alla città, c’è una piazza con un nome e una statua, diversi difetti sono stati corretti, quasi subito, celati alla visione di chi continua a muoversi, a camminare.

L’ospedale pubblico accoglie i malati e li nasconde. Chi appare vecchio, viene preparato distrattamente a morire, addormentato dal freddo.

A destra, nelle facciate dei palazzi, i vetri. Man mano che il calore si è allontanato, i vetri sono stati abbandonati, coperti da tende lunghe e pesanti. Dalle fine- stre non è più possibile sbirciare figure.

Appare naturale che gli uomini siano diventati sempre più piccoli, in modo che la superficie da destinarsi al calore fosse limitata e vi fosse minore dispersione.

[…]

Una certa tendenza all’essere assorti, al pensare, mentre si cammina dritti e veloci, verso la propria mansione quotidiana. Nessuno rischia di far troppo rumore, per non interrompere la creazione del cristallo di ghiaccio che sovrasta la città, come un artificio fiabesco. Si evita qualsiasi rumore, al suo cospetto.

Pian piano, l’artificio la chiuderà, esattamente come un incantesimo straziante e imponderabile; al di fuori, già i bambini conoscono le fiabe e il dramma della città che diventa sempre più fredda, senza riuscire a morire.

ALICE VENTURA morta il 5.3.1945 a Ravensbrück “… per il suo ideale partigiano

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Donne al lavoro nel Campo di Concentramento di Ravensbrück

di Orsola Puecher

La storia di Alice Ventura Battaglia [Cremosano (CR) 2 settembre 1894 – Ravensbrück 5 marzo 1945], zia di mia madre, che dai 4 anni in poi fu per lei una specie di mamma adottiva, è una storia piccola, di un piccolo eroismo, un piccolo gesto di normale umana solidarietà, che la portò a esaurire i giorni di una vita bellissima e inconsueta al Campo di Concentramento di Ravensbrück. Una storia che voglio raccontare come memoria e omaggio a lei, a mia madre, alla nostra famiglia, che nei suoi due rami, paterno e materno, tanto ha dato per la rinascita democratica di un paese oppresso dalla crudeltà di un sistema inesorabile, sempre più incattivito dalla fine vicina.

Fra l’esiguo numero di documenti che mi sono arrivati dall’⇨Arolsen Archive, una vita si sintetizza in questi pochi caratteri scritti a macchina fra due righe rosse: Ventura Alice coniugata Battaglia, figlia di Francesco e Rosa Alpiani, nata a Cremosano il 2.9.1894, italiana, verhaftet, arrestata a Milano nell’Agosto del 1944, Novara Torino Bolzano Ravensbrück, verstorben, deceduta il 5.3.1945.
In calce il nome di Vittorio Battaglia, Milano è quello del marito di Alice, che nel 1964 fece una prima richiesta alla Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen su sua moglie, per poter redigere almeno un certificato di morte definitivo, dopo quello di morte presunta che si può ottenere a dieci anni dalla scomparsa. Di anni ne erano passati allora quasi 20. Ho fatto la stessa richiesta l’anno scorso, 2021, che di anni ne erano passati 76. I documenti sono sempre gli stessi. I nazisti prima di trascinare le sopravvissute in una terribile marcia della morte, distrussero quasi tutto il materiale degli archivi. Il campo fu liberato dall’Armata Rossa il 30 aprile 1945. Non bastarono quei pochi giorni alla povera Alice per restare viva. Dopo i primi periodi del dopo guerra in cui si continuò a sperare nel ritorno dei prigionieri dei campi, a correre alla Stazione Centrale quando si aveva notizia di qualche arrivo dei treni bianchi dei pochi scampati dalla Germania, con il progressivo affievolirsi della speranza di rivederli vivi, il loro ricordo, oggi come allora, resta un tormento inconsolabile, senza tomba su cui piangerli, pregare, portare un fiore, senza nemmeno uno straccio di documento per ridare dignità e concretezza alla loro fine, per farli riposare in pace nel riconoscimento di una società civile, nei suoi parametri. Ma spariti, inghiottiti, perduti nella società barbara e incivile del nazifascismo, nella sua burocrazia di contabili della morte, la loro scomparsa non trova posto ancora oggi.

Lo zio Vittorio ha una bellissima calligrafia, lettere perfette e svolazzi annessi, ma nel timore che non si capissero bene, alcune cose le scrive sopra in stampatello. L’arresto avviene nell’Agosto del ’44 ad opera delle SS Germaniche, la data di morte è il 5 marzo 1945, presumibilmente, come da certificato, di morte presunta, del Comune di Milano in data 29 Novembre 1957.

In aggiunta una postilla all’Onorevole Comitato: La motivazione dell’arresto è stata per il suo ideale partigiano e finanziamento a favore di una famiglia partigiana. Ossequi Vittorio Battaglia

Ancora oggi è così: ho avviato una ricerca anche presso l’Archivio di Ravensbrück, ma mi hanno ripetutamente risposto che, viste le numerose richieste di ricerche, il risultato può tardare. Aspetto. Aspetto.

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[ appunti ritrovati in un file nell’hard disk di un vecchio computer rotto – trascritti da una lontana conversazione “di palo in frasca” con la mia mamma Rosa – detta Rositali lascio così come sono – un po’ sgrammaticati – con le molte ripetizioni – il procedere aritmico – perché mi sembra solo così di risentire intatta la sua voce – le voci sono la prima cosa che si dimentica di chi non c’è più – la sua allegria indomita – la sua severità – la sua forza ]

ZIA ALICE

Da piccola a Crema mangiavo la Torta Bertolina. La torta dei poveretti. Uva americana, farina della polenta, zucchero, poco che costava moltissimo.

Uva americana Vitis labrusca

Erano tre le sorelle Ventura. Alice, Teresa, la mia mamma e Giovanna. Figlie di Francesco Ventura, vecchio socialista di origine di Cremosano che aveva i cavalli da tiro con i carri, dei grandi baffi e portava il tabarro.

Fontanili a Cremosano

La mamma Rosa Alpiani morta giovane ⇨ Francesco si risposa con una donna cattivissima, la Torrazzi, una vera matrigna. Il nonno le figlie le aveva mandate in filanda o linificio. Il lavoro di tutte le donne della zona. D’estate le donne venivano dalla periferia attraversando tutta Crema. Con un selciato di sassi e lastroni in centro alla mattina alle 4 si sentivano battere gli zoccoli che le  donne usavano per proteggersi dall’umido del mestiere. Andavano da una porta all’altra, da Porta Garibaldi a Porta Ombriano dove c’era il linificio.

Il linificio di Crema

Le sorelle hanno vissuto la vita delle ragazze dell’epoca, portavano busti molto stretti e il medico gli tagliava i legacci. Andavano a ballare nelle balere “Ciribiribin che bel faccin ”. Il padre era molto severo e loro scappavano per andare a ballare.

Due erano molto belle Teresa ed  Alice, Giovanna meno ma era molto buona. A quel tempo si mandavano i figli a balia e non si sa come due signori che abitavano a Milano, in via Melzo,  casa di ringhiera coi cessi fuori e mandarono una figlia a balia a Cremosano, Pierina, la balia e il balio abitavano vicini ai Ventura, in una casa vicina ⇨ la bambina Pierina fa amicizia con le sorelle.

I mondeghili erano delle polpette fatte con gli avanzi.

Scoppia la guerra. Alice viene via da Cremosano ⇨ viene a Milano in via Melzo per lavorare in casa dei genitori della Pierina. A lavorare a servizio. Lì vicino a Via Melzo c’era la famiglia di Vittorio Battaglia che facevano i portinai in via Vivaio. Presso la famosa fonderia Lomazzi. 

Vittorio alto 1.50 era appassionato di ginnastica ⇨ piccolo e agile andava alla società ⇨ “Forza e Coraggio” di Sesto S. Giovanni e poi lavorava in fonderia. I due si conoscono a ballare ⇨ un grande amore. Anche lei era piccolina di statura.

I ginnasti della “Forza e Coraggio”

Si sposano il 2 febbraio del 1918. Vittorio era riformato perché più piccolo del Re, “Sciaboletta”.

Grossa carriera come ginnasta. Formò un trio atletico, artistico, il trio Apolllo, con lui Vittorio Battaglia, il Franzoni e il Gradella. Vestiti da greco romani e tutti dipinti d’oro sul corpo, Vittorio sempre in cima alla piramide umana in equilibrio sulle mani. Si esibivano nelle società di ginnastica e poi in piccoli spettacoli nei varietà e nei locali nei café chantant. Andavano anche in tournée in altre città italiane il sabato e la domenica. Fino a quando un impresario li scrittura a Genova per l’America del Nord  e approdano nel circo Barnum and Bailey.

THE APOLLO TRIO
EUROPE’S PEERLESS PLASTIC POSERS
IN A BEAUTIFUL REPRODUCTION
OF POWERFUL BRONZE CLASSICS
A TRIO PHYSICALLY PERFECT MEN IN A NEW CREATION

Marcia del Circo Barnum and Bailey

Vittorio mandava i soldi a casa e qualche fotografia ⇨ Alice era gelosissima di una cavallerizza molto bella che c’era in una fotografia. Lui risparmiava con il sogno con suo fratello e altri soci operai di far nascere una fonderia loro che poi ha fatto anche una porta del Duomo ⇨ a cera persa metodo Cellini. Partiva e tornava e a un ritorno si sposano e partono insieme per l’America con il piroscafo Giuseppe Verdi. Arrivano a Ellis Island il 4 agosto 1918.

Il piroscafo Giuseppe Verdi

Navi degli emigranti alla mercè dei sottomarini tedeschi. Viaggi rischiosi molto. Vanno a New York insieme ⇨ poi lui viaggia per tutti gli Stati Uniti con i vagoni del circo Barnum. Alice stava a New York a “Broccolino” con la sorella di Vittorio che  aveva sposato un componente del trio, il Gradella e lavoravano in una lavanderia cinese. Alice e la sorella di Vittorio facevano le guardarobiere in una enorme lavanderia piegavano e impacchettavano i vestiti. C’era il proibizionismo e i gangster scorazzavano sparando per le strade su è giù dalle scale antincendio degli edifici.

Tornano in Italia nel 22  a causa di un incidente. Vittorio si fa male a un piede ⇨ l’Apollo Trio si scioglie e lui entra nella ⇨ Fonderia Artistica Battaglia fondata dal fratello Ercole con i soci Pogliani e Frigerio.

Lo zio Vittorio è il primo a sinistra in prima fila

Alice non poteva avere figli.

Il pesce finto lo mangiavamo in tempo di guerra fatto con patate e una scatoletta rarissima di tonno ⇨ era sagomato a forma di pesce con una fettina di carota come occhio.

Zio dell’ 84 e Zia del 94. Lui era entrato con il fratello Ercole nella fonderia Lomazzi da giovanissmo ⇨ era formatore, cioè faceva il calco di terracotta coperto di cera dentro cui versavano il bronzo fuso.

Teresa sposatasi a Crema, aveva 5 figli ed era molto povera. Alice per aiutarla  prende in casa, abitavano in via Broletto, prima la sorella Vanda che non vuole restare dicendo “pane e cipolla ma con la mia mamma!” e poi me Rosa detta Rosetta a 4 anni ⇨ pianti terribili ⇨ cioccolatini per farmi smettere ⇨ a dormire su un’ottomana in un salone pieno di statue paurose con i mobili scuri con volute e zampe di drago che dovevo lucidare con l’Olio Rosso. La zia Alice era ossessionata dall’ordine e dalla pulizia e mi vestiva con dei vestiti tutti trine e fiocchi come quelle bambole che si mettevano sui letti e gli altri bambini mi prendevano in giro. Via Broletto era la stessa via dei Puecher, a pochi isolati ma io e tuo padre non ci conoscevamo ⇨ chissà quante volte ci siamo visti a Messa nella chiesa di San Tomaso ⇨ un destino poi ci ha fatti incontrare.

Chiesa di San Tomaso in Terramara in via Broletto

Lo zio Vittorio mi insegnava gli esercizi del circo. Mi faceva camminare sulla palla sulle mani fare i salti le verticali e le ruote. Questa bambina è molto portata, diceva sempre e decide di iscrivermi alla scuola di Ballo della Scala, lì vicino che cominciava a sette anni allora. Un sogno ⇨ bellissima, durissima ⇨ dovevamo sempre fare il saluto fascista ma di sera facevo gli spettacoli, i moretti dell’Aida, il ballo nella Danza delle Ore. Ho fatto il passo d’addio e mi sono diplomata prima ballerina. Siccome le ballerine andavano a scuola solo fino alla quinta, ed erano ignoranti come capre gli Zii mi mandano a lezione di francese e pianoforte privatamente.

Erano antifascisti come molti altri solamente antifascisti ma non militanti.

Scoppia la  seconda guerra mondiale e traslocano  in una casa un po’ fuori in via Gallarate tutto prati vicino all’Alfa Romeo continuamente bombardata.

La zia andava a una bancarella di granite in piazzale Accursio, dove si riuniva gente di tutti i  tipi e la zia parlava di politica contro il fascismo.

Conosce una ragazza che abitava in via Marcantonio del Re nel 1944 ⇨ questa ragazza era incinta, il marito era partigiano nelle Brigate Moscatelli in Piemonte. Un giorno lo impiccano e gli trovano in tasca una lettera della moglie che gli dice che una brava signora le aveva dato le sue tessere annonarie per mangiare e di stare tranquillo.

Le SS piombano nella zona interrogando e rastrellando ⇨ il nome e l’indirizzo di Alice viene dato forse da quello del banchetto delle granite.

I tedeschi pensavano che lei fosse collegata alla lotta partigiana ⇨ la prendono e la arrestano  un pomeriggio alla fine di  agosto del 44, poco dopo la strage di Piazzale Loreto.

Prima corro al carcere di San Vittore con vestiti anche pesanti per l’inverno. Si diceva che andavano a lavorare per i tedeschi. Sento dire che i prigionieri partiranno a mezzanotte. Volevo aspettare ma c’era il coprifuoco e una guardia mi dice ragazzina vai via altrimenti ti sparo addosso. Mi rifugio da amici che stavano li vicino. In via Carducci. Alla mattina presto torno là ma li avevano già portati via. Forse a Torino si dice. Lo zio Vittorio parte con il primo treno per Torino. Ma erano già andati via. Non l’abbiamo mai più rivista.

[ non riesco a immaginare i suoi pensieri nel lager – come le immagini della sua vita così piena di cose – di avventure – potessero tornarle in mente – quale la nostalgia – la speranza di tornare – lei così maniaca della pulizia – così severa e ordinata in quell’universo sottosopra – non ho mai trovato sue fotografie – forse mamma soffriva troppo nel guardarle – ma so che era sempre nelle sue parole e nei suoi pensieri – la invocava e forse la vedeva accanto a sé anche nei suoi ultimi momenti – Vittorio Battaglia non riuscì mai a sopire la sofferenza della sua perdita: si tolse la vita – impiccandosi al pergolato della Fonderia – credo intorno al 1968 – dal dolore per chi è sparito nei campi non si guarisce mai ]

“Non ti scordar di me” [1935]
cantata da Beniamino Gigli

[che piaceva tanto ad Alice]

Partirono le rondini
Dal mio paese freddo
E senza sole
Cercando primavere di viole
Nidi d’amore e di felicità
La mia piccola rondine partì
Senza lasciarmi un bacio
Senza un addio fuggì
Non ti scordar di me
La vita mia legata a te
Io t’amo sempre più
Nel sogno mio rimani tu
Non ti scordar di me
La vita mia legata a te
C’è sempre un nido
Nel mio cor per te
Non ti scordar di me

L’Anno del Fuoco Segreto: L’Ombelico dell’Arno

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La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segretosi può leggere QUI.

di Andrea Zandomeneghi

Conoscevo crackomani che si preoccupavano (seriamente) per la mia salute perché mangiavo – cosa a loro dire sicuramente folle e probabilmente assai dannosa – quello che pescavo nell’Arno. Spesso erano anguille (ci facevo uno spezzatino al sugo di pomodoro), qualche volta carassi (ottimi per la zuppa) o altri ciprinidi imbastarditi che sfuggivano alle classificazioni ittiche canoniche ma che secondo me vantavano tra i propri antenati i pesci rossi, raramente – strano a dirsi per i profani – tartarughe d’acqua, ma non le nostrane, quelle stronze con le guanciotte dorate provenienti dalle vaschette dei bimbi e poi rilasciate. Tinche non l’ho mai prese, nonostante pescassi col lombrico, idem cavedani e barbi. In ordine ai siluri, premettendo che comunque non avrei avuto l’attrezzatura da combattimento adatta per pescarli, posso dire che prima di quel giorno non l’avevo mai nemmeno visti. C’era questa leggenda che se ne catturavi uno eri obbligato a non ributtarlo, perché infestante e mortifero, non ho mai saputo se fosse vera. Non mi ponevo il problema. Nell’Arno ci facevo anche il bagno, nudo, di notte, ma questa è un’altra storia.

Quel giorno, nel pomeriggio, m’incontrai con Vitellozzo Vitelli in Piazza dell’Isolotto per andare a pescare alle Cascine. Portava il suo solito cappello a cilindro (abbinato a una tuta acetata), puzzava di sudore stantio a cinque metri di distanza e aveva tre sorprese: una nuova canna da catfishing con mulinello rotante, dei palloncini colorati gonfiati e una gabbietta per pappagalli con tre piccioni vivi. Mentre attraversavamo la passerella pedonale, allungandomi un tre grammi di funghetti, iniziò a spiegarmi. In pratica mi disse – ma questo già lo sapevo – che sua madre, la moglie del Conte Vitelli, era irlandese e calvinista e che discendeva dalla stessa stirpe di William James, solo che la sua diramazione familiare non era emigrata negli Stati Uniti a causa di non so quali guai giudiziari – forse prigione per debiti o truffa o ambo, non era chiaro – sorti a seguito d’una fallimentare esperienza editoriale, nello specifico legata a dei – falsi lo si accusava, e la filologia avrebbe dato ragione all’accusa – inediti di Emanuel Swedenborg sulla demonologia acquatica. In sostanza, continuò Vitellozzo con la sua voce inconfondibilmente adulterata dalla sinusite da ketamina, la lontanissima parentela – facendo leva sulle suggestioni della consanguineità che solo i nobili (certi nobili, soprattutto se massoni) conoscono e che per gli altri son oscure e deliranti – l’aveva indotto a leggere Le varie forme dell’esperienza religiosa, ne era rimasto in qualche modo deluso e ne aveva parlato – e questo avrei dovuto saperlo, ma lei non me lo aveva detto e del resto io non vedevo né sentivo Vitellozzo da tipo cinque settimane – con Daniela, la mia ragazza, o meglio la mia compagna. Daniela – che era una hegeliana di ferro di quelle che a ventiquattro anni già sono cultrici della materia e ti fanno fare l’esame al posto del professore – gli aveva detto di essersi imbattuta in un testo – pubblicato sulla rivista Mind e reperibile nella biblioteca di Novoli – molto curioso di James l’anno prima, si trattava di un’appendice di On some Hegelisms dal titolo Subjective Effects of Nitrous Oxide nella quale c’erano due cose notevoli: in primo luogo un riferimento a un libercolo che consigliava – The anaesthetic revelation and the gist of philosophy – sulla mistica filosofica del gas esilarante e che aveva anche recensito anni prima, in secondo lungo l’affermazione che grazie al protossido d’azoto aveva capito Hegel e aveva visto che il mondo funziona sulla base delle categorie della metafisica dialettica hegeliana. Chiesi a Vitellozzo di arrivare al punto. Il punto è che questi palloncini son gonfiati col protossido d’azoto, mi disse. L’ho gonfiati io con un sifone per panna montata.

C’eravamo sistemati tra le rane che gracidavano infoiate poco dopo lo scivolo delle Cascine, su quella pedana asfaltata dove in estate le genti si mettono a giocare a carte. Il piano di Vitellozzo era degno della sua eccentricità sguaiata: aspirarsi il protossido d’azoto che voleva che provassi abbinato ai funghetti, rigonfiare i palloncini d’aria, fissarne uno a un piccione innescato vivo con tre grossi ami, lanciare il tutto in acqua, lasciare il malcapitato volatile a dibattersi sanguinante e semiagonizzante sulla superficie e attendere che un siluro abboccasse. Vicino a Ponte Vecchio li pescano così, mi disse. Saranno stati i funghetti e il gas, ma non ce la facevo a smettere di ridere per quest’assurdità. Non aprii nemmeno la mia canna, mi misi seduto a terra a gambe incrociate e iniziai a sfottere Vitellozzo che preparava la montatura e litigava goffamente col piccione seviziandolo. Dopo circa mezzora però ci fu la mangiata: piccione e palloncino scomparvero inabissandosi, la canna si piegò quasi a novanta gradi, partì la frizione e iniziò il combattimento. Vitellozzo se la prese comoda, da ottimo pescatore qual era fece sfiancare il pesce per una ventina di minuti abbondanti dandogli sì un po’ di filo (per non farlo strappare) ma mantenendolo sempre in tensione cosicché non avesse lo spazio di manovra per andarsi a rintanare nei limacciosi baratri cunicolari suoi sul fondale, poi iniziò pian piano a recuperare senza mai forzare. A cinque metri dalla riva ricomparve per un attimo il palloncino e sotto di lui l’ombra allungata del mostro fluviale. Ebbi un brivido solo intravedendolo: mi parve avesse la stazza d’un bimbo di quarta elementare. Quando poi s’avvicinò ancora presi il coppo e m’accinsi a guadinarlo. Lui bollò in superficie, la testa gli uscì fuori dall’acqua e prese aria. Mi guardò fisso negli occhi ed ebbi uno svarione, come una vertigine che mi faceva sprofondare in quello sguardo triste eppure fiero. E allora, quasi ipnotizzato, invece di sistemare il guadino sotto di lui in modo che Vitellozzo ce lo guidasse dentro, lo roteai in aria e ci colpii il filo a tutta forza. A Vitellozzo sfuggì la canna di mano, perse l’equilibrio e cadde in acqua. Il filo si tranciò e il siluro fu di nuovo libero, per quanto con un amo in gola.

A mezzanotte passata mentre rientravo a piedi a casa dallo Yag tremando per il freddo mi si rovesciò addosso un nubifragio all’altezza di Ponte alla Carraia. Vitellozzo, che era pagano, doveva aver invocato per vendetta contro di me Giovepluvio adunator di nembi, pensai e mi strappai un sorriso a mezza bocca, poi mi tornò in mente l’immagine dell’amico mio psiconauta obeso e fulvo che cercava di riguadagnare l’argine stringendo il cilindro in mano dopo essere finito nell’Arno e iniziai a sghignazzare. La risata fu stroncata da un primo colpo di tosse del tabagista incallito a cui seguirono molti altri che quasi si accavallavano soffocandomi finché non vomitai: ero gonfio d’alcol come non mai, del resto se non lo fossi stato non avrei mai messo piede allo Yag. Vitellozzo aveva preso davvero male la vicenda del siluro scappato e dell’indesiderato bagno, avevamo smesso di pescare e passato il pomeriggio a bere vino rosso e litigare ma di brutto al bancone del chiosco del lampredottaio in Piazza dell’Isolotto. Poi ero rincasato verso l’ora di cena barcollando. Daniela stava limando un articoletto seminarrativo suggestivo e piuttosto fantasioso (avevo letto le bozze il giorno prima e c’era un’incuria filologica veramente degna d’una filosofastra) sulla personalità atrabiliare dello Xanto e del Simoenta per una di queste rivistucole online sdoganate dai guru della scrittura creativa. Nel frattempo spippolava al computer su Annunci69 in cerca d’una tizia per fare una cosetta a tre: da qualche mese c’era stato tra di noi un infiacchimento del desiderio e così c’eravamo aperti a nuove variazioni. Quando si voltò verso di me con quella faccetta da faina psicotica con le treccine e s’accorse ch’ero ubriaco fradicio s’incazzò come non mai. Dimmi che è uno scherzo, mi disse, io ho trovato questa ragazzetta tanto graziosa che dopo cena passerebbe volentieri qui da noi e tu mandi tutto a puttane presentandoti in queste condizioni? Come minimo nemmeno ti viene duro… Ma poi ci possiamo presentare così? Sei un idiota.

Nemmeno le risposi, detti da mangiare ai pescioletti belli nell’acquario mio, salutai i Corydoras aeneus in frenesia alimentare, uscii di casa, imboccai Via Pisana (noi stavamo accanto alla Esselunga di fronte al Parco di Villa Strozzi) e m’incamminai verso il centro. Passai la serata sotto l’Arco di San Pierino da Eby’s a scolare Daiquiri all’ananas mentre nazzicavo con il telefono. Non mangiai nulla, ma in compenso scaricai Grindr: avevo sempre portato avanti un’eterosessualità lineare e piatta, ma da quando due settimane prima Daniela s’era comprata uno strap-on e avevamo iniziato a fare pegging mi s’erano risvegliate fantasie ambigue come se quel fallo-feticcio nero (che a ripensarci bene alla luce di tutto mi ricordava non poco un siluro) mi avesse aperto e avesse dato la stura alle foie nascoste seppellite in me dall’adolescenza quando comunque – come tutti del resto – m’ero limitato a una masturbazione reciproca in palestra con Stefano, il mio compagno di banco al liceo. Poi tutta fica senza nemmeno ripensarci o pormi il problema. Su Grindr mi misi a scorrere i profili altrui e scrissi ciao a tre quattro ragazzi. Uno con i boccoli biondi e il nasino all’insù mi rispose quasi subito e mi chiese d’incontrarci, era allo Yag. Io saldai il conto di Eby’s e c’andai col cuore che pompava a mille facendomi quasi fischiare le orecchie. Nel locale c’era una confusione pandemonica e riuscire a rintracciare il biondino (che non vedevo) si rivelò operazione al di sopra delle mie capacità, probabilmente anche perché ero ingoffito e rincretinito dall’imbarazzo. Gli riscrissi e non ottenni risposta. Dopo un po’ mi resi conto che sonavano la colonna sonora di Donnie Darko, ordinai un Long Island Iced Tea e mi sedetti da solo a un tavolo. La gente pareva stranamente normale, non così schiava dell’inchecchimento tirannico come pensavo. Nessuno mi calcolava finché una lesbica cicciona che ballava con le amiche non inciampò cadendomi addosso e rovesciandomi sulla maglietta la bevuta. Questa demente invece di scusarsi disse che le avevo fatto lo sgambetto e si mise a urlare. Una sua compare mi dette uno schiaffo e io la presi per i capelli senza pensarci due volte. L’ovvio risultato fu che i buttafuori mi dettero il benserivito senza sentire cazzi. A quel punto decisi di porre fine all’infausta giornata e m’incamminai d’orrendo umore verso casa.

Come dicevo, il diluvio mi colse in prossimità di Ponte alla Carraia. Inutile correre: mi sarei fradiciato ugualmente. Attraversato l’Arno imboccai Borgo San Frediano, all’altezza della Citè che a quell’ora era chiusa, sul marciapiede, se ne stava appoggiato al muro manco fosse un marchettaro un tipo vestito tutto di nero con gli anfibi che mi guardava zuppo dalla testa ai piedi. Lo fissai e vidi che aveva l’incarnato pallido, occhi scuri e lineamenti piuttosto attraenti dell’Europa del Est, danubiani pensai. Dopo poco che l’avevo superato mi trillò il telefono, era un messaggio su Grindr. Ciao sono Nepomuk, che fai a quest’ora sotto la pioggia? L’app diceva che il mittente mi stava a 10 metri. Mi voltai e lo slavetto continuava a guardarmi. Sì, sono io a scriverti. A quel punto ritornai sui miei passi e gli andai incontro salutandolo e porgendogli la mano, lui la strinse ma invece di rispondermi si mise a scrivere sul telefono. Altro messaggio: Sento quello che dici, ma non posso rispondere a voce, son muto. Stavo per dirgli che mi dispiaceva quando mi prese la testa, m’appiccicò al muro e m’infilò la lingua in bocca. Era il mio primo bacio a un ragazzo, inizialmente rimasi immobile, pietrificato, poi pian piano iniziai a succhiargli il labbro superiore. Ero frastornato e beato a pomiciare lì sotto la pioggia, non so quanto tempo passò così, poi iniziò a leccarmi il collo e scese fino a inginocchiarsi, m’aprì la patta, mi sfoderò il pisello, lo scappellò e se lo ficcò in gola (non tanto per dire: lo ingollò proprio da subito fino in fondo). Lo presi sotto le ascelle, gli sfilai il cazzo e lo ritirai su. Vieni, ti porto a casa mia, vuoi?

Mi scrisse che voleva, ma che prima dell’alba sarebbe dovuto andar via. Si mise addirittura una sveglia sul telefono alle 5 e 30 per essere sicuro. Gli spiegai che da me ci sarebbe stata Daniela, ma che non sarebbe stato un problema. Annuì, mi fece l’occhiolino e c’incamminammo verso Via Pisana in silenzio sotto quel nubifragio mano nella mano. Ogni cento metri ci fermavamo per pomiciare. Molto raramente m’è capitato di sperimentare un’euforia così strabordante: sentivo le ali ai piedi e saltellavo dall’eccitazione. A casa trovammo Daniela intenta in un sessantanove con la tipa tanto graziosa disposta a passare da noi dopo cena che aveva rimorchiato sul sito nel pomeriggio. Quando ci videro non furono per nulla turbate, si staccarono e sedettero nude sulle poltrone vicino al camino acceso invitandoci a liberarci dai panni fradici e a riscaldarci. Nepomuk non se lo fece ripetere due volte e io gli andai dietro. Aveva un bel fisichetto longilineo del tutto glabro, anche sotto le ascelle e sul pube. Non portava slip e quando tolse i pantaloni sfoderò una mazza circoncisa che rivaleggiava per dimensioni con lo strap-on di Daniela. Lei lo guardava ipnotizzata, si alzò dalla poltrona e glielo prese in mano con la destra più accarezzandolo che smanettandolo, con la sinistra si mise a massaggiargli i coglioni, delicatamente. La ragazza tanto graziosa mi si avvicinò, con l’indice mi percorse il petto soffermandosi sui capezzoli inturgiditi dal freddo, si diresse poi verso il basso fino all’ombelico. Subito dopo si chinò sul tavolinetto da fumo tra le poltrone e dal portafoglio estrasse un cartoncino flessibile che divise in quattro francobolli dandocene uno ciascuno. Il lupo giacerà con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncino pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà, recitò con fare ieratico invitando tutti alla comunione con LSD.

Trasferiti sul letto vi fate due raglie di katamina (prontamente tirata fuori dal comodino di Daniela e stesa su un vecchio cd dei Velvet Undergroud) ciascuno, una per narice. La ragazza graziosa mentre si masturba ti succhia il cazzo dando colpetti decisi sul frenulo con la lingua, Daniela ti cavalca la faccia tenendoti le mani bloccate contro il materasso allungate sopra la testa, mentre la penetri con la lingua si dimena strusciandoti il clitoride sul naso, sulle labbra, sulle guance. Senti un sapore salato e un odore di pesce lacustre e Saugella. Quando Nepomuk ti fa tirare le gambe indietro e ti incula lento ma deciso, sbuffi e senti un bruciore doloroso, un senso di lacerazione, è tutto dentro e ti senti pieno e aperto, indifeso e in balia del suo glande che ti fruga le pareti del retto. Serri la mascella e volgi un attimo lo sguardo verso l’acquario sul comò: i tuoi amici Hypostomus plecostomus stanno immobili con la ventosa appiccicata al vetro e si godono lo spettacolo. Poi inizia a stantuffarti, ansimando leggermente, vorresti gridare da principio, perché fa male, ma quel male acuendosi e diventando da rosso che era ciclamino e poi verde e poi vinaccia vira sempre più verso un godimento uncinato che sbocciandoti nelle viscere assume la forma di un fiume di lava rovente che ti scorre dentro, le ondate di piacere risalgono vibranti lungo il tronco per poi convergere verso il cazzo ben lavorato. Sei così felice che ti commuovi, perché sai che questa vetta realizzante finirà e che poi riprenderà tutto il resto. Non rimarrà che un ricordo. Ma vivitela questa benedetta scopata, ti dici, e trancia via le formazioni mentali. Ormai però piangi e hai la sensazione che le tue lacrime blu stiano bagnando il materasso, che dal materasso sgocciolino sul pavimento, che dal pavimento scolino sulla strada passando dal terrazzino, che sulla strada formino una pozza da cui si diparte un ruscello che va a confluire nell’Arno attraversando stradoni e vie, marciapiedi e larghi, piazze e incroci. Dove il rio di lacrime blu – di un blu sempre più elettrico e pulsante – entra nel fiume si crea un mulinello caleidoscopico che diventa un gorgo – l’ombelico dell’Arno! – al centro del quale sta un demone siluro che t’è amico dacché eri un bambino, anche se lo avevi scordato, ma ora ricordi tutto, e questo demone siluro ha gli occhi scuri di Nepomuk e anche il suo fallo totemico attorno al quale nuotano danzanti e gioiscono cantando in coro l’anguilla e la carpa e la scardola e il carassio e la tinca e il luccio e il persico trota e le rane. Non conosco nemmeno il tuo nome, pensi. Il nome è ciò che ci separa, ti risponde il demone da dentro il tuo cervello galvanizzato. Poi vieni in bocca alla graziosetta mordendo il clitoride di Daniela che ti squirta in faccia e contraendo la muscolatura anale attorno al randello di Nepumuk che dà gli ultimi colpi più forti e ti schizza in corpo l’orgasmo. Vi staccate, stiracchiate e sdraiate esausti sul letto, accarezzandovi e abbracciandovi beati.

Mi svegliò il sole che entrava dalla finestra, saranno state almeno le nove. Fuori il traffico mattutino delle genti operose guardiane del decoro del tempo. L’acquario era cheto, gli Hypostomus plecostomus non si vedevano, riposavano forse sul fondale, tra i Micranthemum umbrosum e i Ceratophyllum demersum; un Corydoras aeneus s’affacciò pascolando placido. Sul letto, nel groviglio di braccia e gambe mie, di Daniela e della graziosa non c’era più Nepomuk, al suo posto un siluro morto con un amo in bocca, aveva la stazza d’un bimbo di quarta elementare.

**

Immagine di Francesco D’Isa.

Andrea Zandomeneghi sopravvive a Capalbio. Ha pubblicatoIl giorno della nutria (Tunué, 2019) e ha condiretto CrapulaClub.

Da “solchi”

1

di Jacopo Mecca

 

Qualcosa di impreciso ci ferma

lungo il ritorno a casa.

Una scritta sul muro che ieri non c’era,

due che si stanno urtando più in là

o i resti di un cestino, rivoltato forse

alla ricerca di scarti di cibo. Tutto è già lì

prima di noi, ma solo ora morde lo stomaco

come un crampo che non accenna a diminuire.

Ammettiamolo allora che esitiamo

nell’ultimo passo che ci manca

quello che pretende una scelta

e che sappiamo essere già da ora

il più breve e difficile.

 

***

 

Sono passate due ombre fragili di fronte

a questa finestra, più lunghe sul muro.

Di qua, qualcosa esita e ripete

di stanza in stanza la pausa di chi resta

tra un respiro corto

e i rumori del legno che si assesta per le scale.

Qui, qui è lontano se tu non ci sei.

E dico questo tra me che muto

parlo dentro di me, con voce

non mia, voce sola quasi di un altro

se esce da questa gola dura e secca.

E intanto immobile provo lo spazio vuoto

tra le pareti e le parole. Provo.

Ma qui ora è lontano e difficile da dire.

 

***

 

Se di là da questo muro qualcuno batte

oltre l’intercapedine vuota – venti centimetri

appena di ragne tese e nero – che separa due case

schiena contro schiena

e che amplifica il rumore nei tremori

dell’intonaco e dei mestoli appesi in cucina,

non è lì lo spazio minimo del male.

Ma più vicino. Lo senti? Si muove.

Spinge forse nel secchio dell’umido,

negli odori gonfi e molli

tra i nostri avanzi e altri sprechi

dove fermentano pasto dopo pasto

sul fondo di buste in plastica

le croste del formaggio e i vermi, o nei lembi

di un’idea infetta che frettolosi

per impulso o prudenza rigettiamo

per paura di noi stessi.

 

***

 

Non serve chiedersi quando ci sia finita

in questo spazio cieco lungo il fianco

del letto e la parete, sul fondo

di questa faglia che ha per fine il pavimento,

non serve chiedersi come ci sia finita una forcina.

È forse un segno breve di te

uno spessore minimo caduto per caso

ora che non è ancora una mattina d’estate

tra i resti persistenti dello schifo

di tutti i giorni che non dà odore:

carcasse di insetti, polvere, capelli.

Una tua forcina come la prima freccia

negli inizi d’un assalto.

  

***

 

Come in certi quadri sullo sfondo o agli angoli.

È lì che accadono per davvero le cose.

Lì la storia trascina la sua coda

caduta quasi come un ostacolo per uomini

distanti che non se ne accorgono e vanno

– così anche gli adolescenti

allegri che intravedi per strada

ora che è estate – vanno leggeri

dentro il paesaggio e appena dietro

le spalle dei santi. Volti sgranati

che vorrei provare a raggiungere

o forse riuscire a chiamare

anche solo per una volta fratelli.

Ma no, non è davvero così.

Lo so io e lo sai anche tu. Noi

non abbiamo un passato da testimoniare

solo frammenti di frammenti di altri.

*** 

Jacopo Mecca è nato nel 1992 a Torino, dove vive. Sue poesie sono apparse su “Atelier” e “Poetarum Silva”. È presente nell’antologia Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta (Ladolfi, 2019).

solchi è la sua opera prima.

 

Fotoromanzo urbano

2
Sofia Mangini, Campus Bocconi, Sanaa, 2019.

Sofia Mangini, Campus Bocconi, Sanaa, 2019.

di Gianni Biondillo

Sai cosa? Lo farei, davvero. Forse è colpa del mio innamoramento giovanile per Pier Paolo Pasolini, quel suo mettere nelle parole, nelle immagini, corpi e luoghi, come fossero i secondi l’estensione dei primi. Mi ricordo ancora le parole di una sua poesia, dove dice come abbia ancora nella carne l’adolescenza “che si affezione, più che alla vita stessa, / ai luoghi, dove la vita si svolge!” Oppure forse è colpa di quel film, hai presente? Caro Diario, di Nanni Moretti. Il primo episodio, dove scorrazza per Roma a bordo della sua Vespa e ad un certo punto lo dice, quello che abbiamo pensato tutti, almeno una volta (o quanto meno tutti quelli che hanno l’adolescenza affezionata ai luoghi prima ancora che alla vita). Alza gli occhi e la sua voce fuori campo, il suo pensiero a nostra disposizione, dice: “Che bello sarebbe un film fatto solo di case”. Così, con banale semplicità.

Sofia Mangini, Torre Velasca, Studio BBPR, 1957.

O chissà, la colpa potrebbe essere di Paolo Bacilieri, del suo tratto così preciso, della sua mano ferma. C’è quel fumetto, fuori formato, quasi una miniatura medievale, s’intitola “Tramezzino” e in teoria dovrebbe raccontare una piccola storia d’amore. Ma chi se la ricorda? Sono le tavole, le architetture di Milano, i capolavori di Caccia Dominioni o dei BBPR che ti restano addosso.

Insomma, come dirtelo? Forse non è colpa di nessuno, inutile cercare scuse, ma ti confesso che c’è una cosa che mi piacerebbe davvero fare: un fotoromanzo “fatto solo di case”. Hai presente? Chissà se esistono ancora i fotoromanzi. Mia madre li leggeva. Credo che molti di quella generazione abbiano imparato a leggere, ad emanciparsi, grazie ai fotoromanzi. Letteratura popolare, femminile, povera. Eppure così immediata, così involontariamente poetica. Sì, mi piacerebbe raccontare una storia fatta di luoghi, usando gli edifici non più come sfondi ma come protagonisti.

Sofia Mangini, 5+1 AA, Iulm 6, 2014.

Sofia Mangini, Fondazione Feltrinelli, Herzog & de Meuron, 2016.

Ovviamente sarebbe una storia ambientata nella mia città, Milano. E ovviamente sarebbe una storia romantica. Ma niente persone. Racconterei di un amore astratto, fatto di forme concrete che però, chissà come, si smaterializzano, come nuvole appoggiate a terra. O di case che si arroccano, l’una sull’altra, fino a formare un corpo solo, una specie di fortilizio meccanico a difesa dal caos della metropoli. E racconterei della città che sale – come diceva Boccioni – che non si ferma mai, infinito cantiere, proprio come quello del suo monumento più famoso, il Duomo. Di balconi esposti sul vuoto, di ascensori e di scale che si aggrappano alle facciate, di percorsi aerei, vertiginosi, avventurosi. E dei colori. Lo so, tu stai pensando alle infinite tonalità di grigio, alla modestia, alla moderazione tutta borromaica (fin dal loro motto: Humilitas). Alla città borghese, che vuole darsi un tono non urlato.

Housing at Gallaratese, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, 1970.

Elegante. Che però, facci caso!, poi non ce la fa, che si contraddice, sparge raggi di sole, campiture luminose, gialli limoni come uno sberleffo a così tanta seriosità. Vorrei raccontare di una città fatta di anime eccentriche, che, per dirla con Scerbanenco, “ammazzano al sabato”, perché il resto della settimana hanno da lavorare; ma quando si divertono chi li ferma più? Grigia all’apparenza, ma dall’ironia tagliente: è una città che ha case tagliate come fette di salame, grattacieli che sembrano materassi, torri che assomigliano ad ananas o a castelli, capace di esplodere in mille colori, come in un carnevale senza fine.

E l’amore?, mi chiedi. L’amore è il mio, come è ovvio. Di quello parlerei nel mio fotoromanzo. Di quando, ragazzino, ho smesso di tenere lo sguardo a terra, sempre preso dalle mie faccende, per accorgermi del cielo nel quale si stagliavano i frammenti di questa città. Sì, il cielo. Quello raccontato così bene dal Gran Lombardo, Alessandro Manzoni: “Quel Cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”.  Quanto mi piacerebbe un fotoromanzo così. Ci vorrebbe però un fotografo, o una fotografa, qualcuno capace di dare forma a questo mio desiderio piccino. Chissà se esiste. O forse c’è? O forse sei proprio tu, Sofia?

Sofia Mangini, Group M Headquarters, Cino Zucchi Architetti, 2011.

(precedentemente pubblicato su Abitare, maggio 2021, le fotografie sono, come è ovvio, della bravissima Sofia Mangini. Andate a vedere il suo sito.)

 

 

Quella violenza non la dimenticheremo mai – Peter Genito

2

 

“Mi rivolto, dunque siamo” (A. Camus)

A quasi due anni dal primo lockdown. Senza esser complottisti né negazionisti.

di Peter Genito

Timore, paura, terrore. Ma siamo sicuri che la nostra paura sia del virus? Siamo sicuri che sia stato così sin dall’inizio? E non di chi, in quel momento e ora, comandava e comanda il gioco? Di chi, in quel momento e ora, faceva e fa la narrazione? Di chi da anni ci sorvegliava ed è pronto a braccarci oggi, se non ci crediamo? È la violenza del potere, che impaurisce. Per questo, siamo tutti ligi e obbedienti. Sull’attenti e pronti a battere i tacchi e signorsì all’ennesimo, demenziale decretino?

Fu forte, fortissima, quella violenza fin dall’inizio, fin dal primo lockdown totale. L’elicottero sopra la testa in piazza Duomo a Milano, che ti inseguiva mentre eri a piedi. Un clima di stato d’assedio, militari ovunque in anfibi mitra e tuta mimetica, camionette nelle stazioni in ogni città. È lì che si è capito che c’era in atto qualcosa di ‘grandioso’. La caccia ai runner sulle spiagge. La colpevolizzazione e criminalizzazione dei comportamenti più normali. Tanto più il potere è gratuito, tanto più grande è la sua forza. L’irrazionale ha preso il comando, perché solo l’irrazionale travolge, paralizza. Tutti, subito, abbiamo capito che quel potere di rinchiuderci, come delinquenti o appestati, viveva di una forza immensa, perché nessuno interveniva, nessuno diceva nulla, nessuno parlava, quando era evidente che tutto era folle. In fila ai supermercati, ricorderemo sempre quelle file immense, ore ed ore, e nessuno parlava con l’altro. Mascherine amuchina e guanti chirurgici. Nessuno respirava più libero. Dritti, sotto il sole, sotto la pioggia o al vento, ad aspettare il proprio turno. Oggi file interminabili alle farmacie per i tamponi. Imbavagliati, fermi, immobili. La finta liberta’ dei social. I diritti compressi e negati, la Costituzione umiliata, la democrazia sospesa.

Questo è il potere, il vero potere, quello che può imporre tutto quello che vuole, nella consapevolezza di una resistenza paralizzata dal terrore. La forza di tutto quello che è accaduto è stata quella di un Leviatano minaccioso, mostratosi capace di un dominio puro fin dall’inizio. Un Leviatano immenso, duro, luccicante. Oggi ha gli occhi di drago. Chi parla di ‘cialtroni’ non ha capito proprio nulla. Questa è un’organizzazione mondiale che è partita, quando era ben certa di avere tutti i tasselli al punto giusto, quando sapeva che avrebbe potuto compiere ogni violenza possibile, giuridica e fisica, nella totale impunità. Quando sapeva che doveva solo manifestare la sua forza – immensa -, per terrorizzare un’intera popolazione mondiale, e costringerla a sottomettersi, senza scampo.

Politici, giornalisti, medici, personaggi pubblici, intellettuali si sono schierati subito. Hanno capito, subito, quella violenza. Che non si poteva che saltare – al più presto, prima che fosse troppo tardi – da quella parte. Che non ci si poteva e non ci si puo’ contrapporre alla violenza, se non esercitandola a sua volta.


 

Peter Genito è narratore e poeta performer. Lavora come bibliotecario a Firenze. Tra le sue opere: Dal buio al cuore. Poesie e pensieri 1999-2011 (Del Bucchia, 2011), A fioca nen. Racconti (A. Sacco, 2014) Lecce Homo romanzo (Robin Edizioni, 2016), Fanfiuchè poesie (Tracce, 2019). Ha curato l’antologia Tredici. I poeti del Bandino (Nerbini ed. 2020). Agguato al lago rosso (Porto Seguro, 2021) è il suo secondo romanzo.

 

 

 

 

SÀDEQ HEDÀYAT: una civetta cieca

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Sàdeq Hedàyat a Parigi
[Teheran, 17 febbraio 1903 – Parigi, 4 aprile 1951]

di Luca Vidotto

Il profumo mediorientale che avvolge le lettere che compongono il nome di Sàdeq Hedàyat, come denso incenso ci trasporta verso terre distanti, aspre e acuminate; le terre in cui lui ha saputo essere un “ladro di fuoco” , e quindi poeta, cantore dell’esistenza. È un Prometeo incatenato alla sua disfatta, desideroso di essa, felice di sentire l’appuntito becco dell’aquila divorargli il fegato – quella sacca putrida imbevuta di tutti i veleni giallo-verdi del corpo – e divorarglielo ancora, e ancora, e ancora… Hedayat “si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza” . Ed eccolo il suo magro corpo, vizioso, gettarsi dentro di sé in “un universo pieno di misteri, che mi sentivo obbligato a esplorare in ogni suo anfratto” . Ed eccolo donarsi all’ebbrezza del vino e dell’oppio, nudo pasto che non lascia nulla se non la falsa nostalgia dell’oblio in cui ci si era appena immersi. Ma in questo nulla inspessito da altro nulla, magicamente trabocca il distillato di una verità, la cui eco dalla notte dei tempi attraversa i deserti mediorientali, ascoltata da qualche carovana di passaggio, dalle stelle immote e dal muto silenzio. La voce è quella di Qohélet, di Colui-che-prende-la-parola.

Ho veduto tutte le cose
Le cose che si fanno sotto al sole
Ed ecco tutto è vuoto niente
E una fame di vento

Brucia gli occhi attingere quest’arida verità dalle viscere della terra, e scoprire che “da migliaia di anni la gente ripete le stesse cose, le stesse azioni, trovandosi dinnanzi alle stesse angosce” . È tutto un continuo gettarsi granelli di sabbia rovente nelle pupille. È un continuo riassaporare la polvere che siamo stati, che siamo e che saremo. “Ineffabile tortura in cui [l’uomo, il poeta] ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale fra tutti diviene il grande infermo, il grande maledetto, — ed il Sapiente supremo! — Perché egli giunge all’ignoto!” .
Hedayat ci narra questa storia dando voce a un io perverso che si rivolge alla sua ombra e che prende le sembianze di una civetta cieca – nella cultura persiana simbolo di sventura, di mala sorte, di un che di maligno. Il luogo in cui si raccoglie questa storia è un libro smisurato, antico, una sorta di Mille e una notte avariato: all’origine di entrambi questi racconti, infatti, “c’è il tradimento. L’eros femminile – il possente, astuto e demoniaco eros femminile, che preferisce gli schiavi negri e i garzoni […] agli alti, luminosi sovrani – beffa il potere. Il potere si vendica, uccidendo le donne” . Ma se l’astuzia di Shahrazād le fa trovare la salvezza dalla morte nell’atto stesso del raccontare – perché è la stessa narrazione che la vita a ognuno di noi, in quanto è l’unico gesto che ci è consentito per donare senso al caos in cui siamo gettati -, per Sàdeq questo non è che un vano rimandare la propria fine, un gesto tanto insensato da essere costretto a durare quanto un battito di ciglia, quanto l’illusione di credere a una smascherata falsità, quanto il consumarsi di una manciata di parole gettate al vento, perché, alla fine, i “racconti sono solo un modo per sfuggire ai sogni disattesi, ai desideri che non si sono realizzati” .
Le sue centotrenta pagine sono saturate dal mistero d’iniquità: non è forse vero che è Satana , il maligno, ad aver scalfito la nostra fortuna tentandoci con i frutti dell’albero della conoscenza? Viene da chiedersi perché Adamo ed Eva non gli hanno preferito l’albero della vita… “È che la tentazione dell’immortalità è meno forte di quella del sapere, e soprattutto del potere” , avrebbe risposto un’altra civetta cieca, con le sue belle piume grigio fumo. E Sàdeq disprezza l’una e soccombe all’altro .

Se non ero ancora entrato in sintonia col mondo in cui vivevo, a che mi avrebbe giovato un’altra vita? M’ero persuaso che questo mondo non fosse per me, ma solo per un gruppo di gente senza pudore, gli sfrontati, i mendicanti, i venditori di apparenze, esseri vili e avidi. Questo mondo era stato creato per chi ci sapeva stare, gente capace di adulare i potenti della terra e del cielo come cani affamati che mendicano davanti alla macelleria per uno scarto di carne. No, il pensiero di un’altra vita era terribile e snervante […] e se avessi dovuto sopportare una seconda vita mi sarei augurato di avere solo pensieri e sentimenti obnubilati.

Solo l’incoscienza salva. Solo la fitta nebbia dell’anima rende sopportabili questi spazi infiniti saturati dal dolore , non a caso è stato scolpito nella roccia, come monito eterno, che

Gravarsi di conoscere
Fa traboccare il dolore

Conoscere è portare il proprio corpo a meditare sul crinale acuminato dell’orrore. È un tener fermo lo sguardo in esso, e in esso consumarsi. “Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla”, ci dice Hedayat, e l’unico rimedio “è l’oblio dato dal vino, o la sonnolenza provocata dall’oppio e droghe simili: purtroppo, però, essi procurano effetti solo temporanei, e la pena, anziché scomparire, dopo qualche tempo si palesa ancor più inesorabile” e ci costringe a dare l’ennesimo morso al frutto dell’albero della conoscenza, e a riaprire gli occhi, in un vedere che equivale ad accecarsi, a tornare esuli, a riscoprirsi disperati .
La voce qohéletica non appartiene alla sua cultura, eppure, nonostante il suo suono abiti le mura consonantiche dell’ebraico antico e sia uno dei sigilli della Torah, in comune hanno una cosa fondamentale: la terra, l’heimat, il maqòm in cui si radica, infatti “l’Islam è nato nel deserto e per il deserto. Non ama gli alberi, non ama le foreste. La sua anima nomade non accetta impacci di tronchi, cerca la pietra e il vuoto e il secco” . Il persiano Sàdeq lo sa bene, e infatti disprezza i religiosi quando non sono che “creature avide di beni terreni e carnali, capaci solo di emanare, in nome della fede, leggi inique e crudeli” , e ripudia la religione, così attenta alla sfera pubblica in cui si impernia il successo e il fanatismo, a favore del ben più ragionevole invito buddista a scavare dentro di sé, a conoscersi, a scrutare il proprio animo. Ma l’invito non è pacificante, perché l’abisso del proprio animo conserva tutta l’eredità dell’uomo, tutti i suoi vizi, tutte le sue bassezze.

“La battaglia tra corvi e civette” dall'”Anvār-e soheylī”
di Ḥoseyn Wāʿeẓ-e Kāshefī [1504–05]

In questo libro si incarna il precetto buddista in base al quale “per colui che vede nulla resta” , ma questa civetta cieca rimane incapace di incarnare a sua volta il concetto del non-attaccamento, così Hedayat rimane incatenato all’illusione del suo io, quell’io narrante la cui ombra ricalcherà perfettamente il profilo del Sàdeq reale in carne e ossa, di quello stesso corpo magro, isolato e triste, tormentosamente perseguitato dall’ossessione della morte , che a quarantott’anni abbandonerà, esangue, sulle strade di Parigi. Un suicida, sì. Perché, dopotutto, il suicidio è il solo “problema filosoficamente serio […]. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale” . La risposta negativa di Hedayat nella vita reale è preceduta nel racconto dal turbinio di immagini che ci fa scendere miseramente nell’infernale cono d’ombra del protagonista, in cui è terribilmente solo e spaesato , e da cui fuoriescono solo poche immagini, che si stratificano l’una sull’altra, rimbombando di viso in viso, di situazione di situazione, di parete in parete, fino a farci scontrare con una realtà morbosa e irreale, fino a farci ingurgitare ogni goccia della sua follia..
Di fronte all’immagine corrucciata e incrostata di sudore di quell’odioso io che ha deciso di vomitare la sua bile sulle nostre guance che crediamo immacolate, sembra quasi di poter sentire nel riflesso della sua mente le parole di una altro pazzo, condannato alla ripetizione e all’ecolalia a causa dell’ostinata sordità della società. Siamo pronti alla faciloneria del disprezzo, della derisione e della finta pietà, di fronte alla carne del suicida, siamo pronti a tacciarlo di pazzia, di pazzia, sì, nonostante viviamo.

in un mondo in cui si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia, colto così com’è all’uscita del sesso materno. […] Ed è così, per quanto delirante possa sembrare tale affermazione, che la vita presente si mantiene nella sua vecchia atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio. […] Le cose vanno male perché la coscienza malata ha un interesse capitale in quest’epoca a non venir fuori dalla propria malattia .

E in questo folle libro risuona un’unico messaggio sempre nuovo e sempre identico a se stesso: “Solo la morte non mente! […] è lei che ci libera dagli inganni della vita” . Ma a questa verità non si arriva secondo un ragionamento coerente, un inanellarsi di motivazioni o seguendo una qualche via conoscibile, perché segue un andamento simile a quello del Corano, il quale “non obbedisce ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, erratico, labirintico” , come labirintico è il deserto che si pone a fondamento della cultura mediorientale, in cui non si discerne un avanti e un dietro e “non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo” . Questo libro, così intimo da essere sacro, infatti, come il santo Corano “procede a onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula […] Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure […] si ripete e torna a ripetersi” .
La civetta cieca “come Le mille e una notte è un libro che non esiste. Oppure è un libro soggetto a infinite incarnazioni e metamorfosi, come una nuvola in cielo” e prende, più precisamente, la forma e l’incarnato di ognuno dei suoi lettori, ipocriti o disillusi, cioè di ognuno di noi, che come un’ombra, “fuggenti, sbigottiti, passiamo” attraverso il deserto che la vita stessa è: una terra di sogni, di allucinazioni e di inganni .

La Genova di quattro scrittori liguri

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di Marino Magliani, Laura Guglielmi, Guido Festinese e Emilia Marasco

 

Marino Magliani

La mia idea di Liguria è sempre stata quella di un penisolario, una lunga lingua di rocce e terra e anfiteatri di fasce, rovine, cortecce e foglie azzurre,  torrenti, un elenco di vallate-penisola, a ponente o levante di qualcosa, ma sempre circondate da un resto ligure, e con al fondo una foce, e il mare che la penetra. Come una linea la vedeva Nico Orengo, che però si sforma e si piega, parte da una frontiera e ne raggiunge un’altra, e al suo centro, – come a dividere davvero le riviere degli orti e dei giardini, – offre l’impugnatura dell’arco. Uno come me di una Liguria estrema non può non pensare  che da quel punto, da quel mondo in discesa, che è Genova, come lo era la Sanremo di Calvino, anche la scrittura possa in qualche modo diventare isola, verbosità inesauribile di un bosco di mattoni e tetti. Ho chiesto ad alcune scrittrici e scrittori (e spero di poterlo in seguito chiedere ad altri) cosa significhi scrivere da Genova, e ad alcuni di essi anche scrivere di Genova. Ringrazio Nazione Indiana che ospita me e queste scritture.

 

Guido Festinese

Se, come ha detto un poeta, Genova è città verticale dove il piano è sempre falso piano, tant’è che si sono dovute inventare mille possibilità di terrazze artigliate al nulla, allora Genova è città che predispone a scendere a precipizio, con la rincorsa forzata che scaglia lontani, come un tiro di fionda. Così è andata nei secoli, e così è andata, in complementare e antitetico percorso a ritroso, per chi s’è trovato a cadenzare passi pesanti in salita sui mattoni delle crêuze, sui segni incistati di asini e muli, andando a intercettare altre e faticose vie di fuga. Perché in fondo Genova è un isola, sotto il doppio assedio del sale e della pietra, assedio perso in entrambi casi, e chi scrive da Genova è un isolano. Che sente di avere poca terra e poco piano, e per cercare il piano deve radere con lo sguardo il mare (i monti inchiavardano e bloccano lo sguardo), fino a intercettare un’altra isola, e riprovarci. Quale sia, lo decide la scrittura e il suo verso: contropelo, qui, anche quando sembra accontentare il senso della carezza.

 

Laura Guglielmi

Ho scelto Genova a venticinque anni, ammaliata dai vicoli e dalla loro vita pullulante, anche se mi sento a casa mia ovunque, basta che intorno ci siano persone che guardano oltre il loro ombelico. Però una cosa la voglio dire: Lei è una città che ti strega, se ti prende non ti molla più, ti tiene stretta al guinzaglio.
I Genovesi si sono sempre fatti guerra tra di loro, una Repubblica ricca e potente sui mari, con un territorio striminzito. Camillo Sbarbaro lo ha rivelato con il suo tocco lieve: Scarsa lingua di terra che orla il mare, / chiude la schiena arida dei monti; / scavata da improvvisi fiumi; morsa/ dal sale come anello d’ancoraggio.
E in questa scarsa lingua di terra gli abitanti hanno trovato sul mare uno sfogo e nelle colonie del Mediterraneo grandi ricchezze. Avevano bisogno di respirare i genovesi, salivano a bordo delle loro galee e navigavano per anni. Ma a casa stavano stretti, gomito a gomito, le famiglie litigavano tra loro, tresche cospirazioni e trame costellano la sua storia di Superba. Trame appunto, Lei è una città fatta per essere descritta, è una città aggrovigliata e intricata, gli intrighi fanno parte del suo Dna, la sua Storia ne è piena. E tante piccole storie da narrare sembrano essere pronte per venire alla luce, basta andare a scovarle. E scovarle non è facile, ma quando capita ti si ficcano in testa fino a quando le scrivi e poi le vedi finalmente allontanarsi verso la linea dell’orizzonte.

 

Emilia Marasco

Genova per me

Genova per me è camminare in salita voltandosi per guardare il mare.  Quando si scende lo si fa a passo lesto, da giovani anche di corsa come quei montanari che si buttano giù a balzi dalle pietraie. Il premio è arrivare al labirinto del centro storico, lasciarsi avvolgere dal grigio della pietra, camminare col naso in su a ritagliare con lo sguardo pezzi irregolari di cielo e alla fine ricomporre tutti i pezzi nei due azzurri contigui, cielo e mare. Genova è sapere che c’è, il mare, anche quando non lo vedi, quando qualcosa ne impedisce la vista, anche se si abita a piano terra. Sappiamo che c’è, è mobile e inquieto da vicino, è un solido tra i solidi da lontano, dall’alto, da Spianata Castelletto, come in quelle vedute di Cezanne in cui il mare, il cielo, perfino l’aria sono fatti di materia concreta.
Genova per me è vento e calma piatta, è uno stato d’animo in continua mutazione, è una malattia mi disse un giorno un famoso critico d’arte, per questo quasi tutti dite di volervene andare ma non lo fate a meno che non siate costretti.
Genova è la Cuoca dello Strozzi, anzi è una perla della sua collana di corallo che racchiude tutta la qualità della pittura dell’artista, l’intera onda della sua pennellata.
Ecco, quella perla, semplice ma ricca di colore e di significato per me è Genova.

 

La vita sfilacciata

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di Francesco Segoni

 

Io, se dovessi compilare la lista dei miei Works, la dividerei in quattro tappe: il manager, l’omino del gas e della luce, lo pseudo-giornalista e l’operatore umanitario. Nessuna di queste definizioni mi sta bene a dire il vero, ma sono quelle che si capiscono più facilmente. Allora le uso, perché non abbiamo tempo da perdere.

Il punto è che non c’è mai stata una scelta che si potesse definire ponderata, nel mio percorso professionale. Che poi, chiamarlo percorso professionale è già una forma di pubblicità ingannevole. Un percorso è qualcosa che ha un senso: parte da dove sei e ti porta dove devi andare. Della mia vita professionale si può dire tutto, tranne che abbia un senso. Non ha nulla della predeterminazione di una cartina stradale, la mia vita professionale. Non c’è stato nessun piano, nessun itinerario, neanche un’idea di massima tipo al mare o in montagna.

Se vogliamo spingere ancora più in là questa metafora automobilistica, la mia vita lavorativa consiste in una lunga serie di sterzate e controsterzate, ognuna volta a correggere quella che l’ha preceduta, e ognuna quindi ancora più istintiva e violenta della precedente. In questo preciso istante, voglio dire proprio ora, mentre scrivo, l’auto è fuori controllo, la spia della riserva è accesa da un’ora e io punto solo a restare in carreggiata, tirando avanti senza finire giù dalla scarpata (che non è mai troppo lontana).

È così, a forza di controsterzi, che mi sono ritrovato, io, matricola alla Bocconi che doveva solo scegliere se pranzare alle mensa universitaria o prendere un trancio di pizza in viale Bligny, a camminare avanti e indietro nella mia stanza, in una notte torrida a Mosul, a dover  decidere se autorizzare o meno un educato chirurgo svedese ad attraversare la città in guerra per andare all’ospedale a operare d’urgenza. Ma facciamo un passo avanti per farne poi parecchi indietro (altra calzante descrizione del mio “percorso” professionale).

Abbandoniamo Mosul e il 2017, atterriamo al giorno di oggi, fra il secondo e il diciannovesimo arrondissement di Parigi. Mi trovate lì, tranquillo burocrate di una delle organizzazioni umanitarie più conosciute. Gli amici e i parenti pensano che io mi svegli ogni mattina per andare a salvare il mondo, ma in realtà la mattina io mi sveglio sperando soprattutto che non piova, così posso andare in ufficio in bicicletta. In quel caso, salvo telelavoro, pedalo lungo il Faubourg Saint-Denis e un pezzo del Canal Saint-Martin, arrivo al solito palazzo a otto piani e cerco d’inventarmi qualcosa per mettere un po’ di pepe nella routine delle nove e mezzo, consistente nell’aprire il portone del garage con il badge dopo due o tre tentativi andati a vuoto, scendere la rampa frenando ma non troppo, legare la bici con la catena, salire al terzo piano, appendere il giubbotto al gancio che sta sulla parete, lì dove ho incollato la copertina strappata a un vecchio “Rock & Folk” (Beatles periodo Abbey Road), accendere il computer e, mentre lui si avvia, posare sul tavolo il quaderno degli appunti, il telefono e l’agenda. E poi passo la giornata a discutere di Comunicazione. Sì, con la C maiuscola, perché qui si comunica sui massimi sistemi: come parliamo della mancanza di vaccini Covid in Afghanistan senza farci strumentalizzare politicamente? Come lo raccontiamo che in Nord Kivu, oltre all’ambasciatore, ammazzano un sacco di gente ogni giorno, senza offendere la sensibilità degli italiani? Come lo spieghiamo cosa significa ridurre la prevalenza dell’HIV in una sub-contea del Kenya attraverso l’approccio test & treat? un vero rompicapo, questo: se lo rendiamo comprensibile a una persona normale, perdiamo di vista la complessità di questa strategia innovativa. Ma se rendiamo piena giustizia alla portata di questa autentica rivoluzione medico-scientifica, la gente non capisce un cazzo.

Perché allora mi sono messo a fare comunicazione, quando potevo restare nelle operazioni, dove le cose si fanno e non si raccontano? La comunicazione è stato solo l’ultimo controsterzo nel mio rally a occhi bendati, il più recente. Una manovra spericolata all’ultimo secondo utile prima che le operazioni mi consumassero come una candela, a forza di scorrazzare fra le rovine del terremoto ad Haiti, i colpi di mortaio a Mosul, le fogne a cielo aperto nei campi profughi in Bangladesh, o gli slum di Port Harcourt, in Nigeria, dove i capi delle gang mi accoglievano nelle loro ville da mafioso, protetti da guardie del corpo in canottiera e infradito, Kalashnikov in spalla, occhi pallati da anfetamina. Ma siamo fra noi, voglio essere onesto: dovevo anche salvarmi dalla coda per la doccia alle sei del mattino, il frigo pieno di vasetti della marmellata vuoti e il corpo a corpo coi colleghi per un pezzo di wifi la sera, tipo iene che si disputano gli avanzi di uno springbok nel Kalahari. Anzi, sarò onesto fino in fondo: ero anche un po’ disilluso da quel che avevo visto. E cioè che tanta gente si dedica a salvare il mondo perché non sa che altro fare, o non sa fare altro. E per carità, absit iniuria eccetera. Però poi finisce che a fare la contabilità ci si ritrova una ragazza di buona volontà ma che non sarebbe in grado di dare il resto giusto se lavorasse alla cassa del Bar Sport e la logistica va in mano a un simpatico artista del Superattak che fra un cannone e l’altro cerca di capire qual è il cavo giusto. Per non parlare di quando venne un medico esperto e competente a fare un’ispezione nel nostro ospedale nel nord dello Yemen, un pediatra romagnolo, schietto e spassionato. Alla fine mi disse: “spero solo che non ne ammazziamo più noi della guerra.” Con questo non voglio dire che le ONG non sappiano quello che fanno, ma vi consiglio di pensare bene al cinque per mille.

Basta operazioni, quindi: controsterzo. Arriva la comunicazione, quella della scrivania al terzo piano dove poso agenda, blocco degli appunti e telefono ogni mattina, salvo telelavoro. È stato facile, arrivarci: perché dovete sapere che ho un brillante passato da pseudo-giornalista.

Parliamone, allora, del giornalismo. Perché se la comunicazione è stata una sterzata per uscire dalle operazioni, a queste, e più in generale al “giro delle ONG” (come lo chiamano i miei amici), ci sono arrivato controsterzando alla cieca dopo una serie di sbandate sempre più furibonde nella fase precedente, quella del reporter freelance con il male di vivere.

Avrei potuto accettare l’offerta di Lanfranco Vaccari, allora direttore del Secolo XIX: mi chiamò un venerdì all’improvviso dicendo “da lunedì, tu lavori qui”. Voleva che andassi a Genova a scrivere, presumo, di cronaca locale: dico presumo, perché era quel che avevo fatto durante lo stage l’anno precedente. Tipo denunce della mala sanità, come la storia di quella donna che aspetta da mesi un’operazione urgentissima per il tumore ai polmoni (quando vado a intervistarla, la prima cosa che fa è accendersi una sigaretta; “signora”, le dico, “questo non l’aiuterà ad attirare le simpatie dei lettori”. “Si muore una volta sola”, risponde). O resoconti del degrado sociale, come quello degli immigrati rumeni che occupano la palazzina abbandonata ex ASL e sono aggrediti dagli abitanti delle case popolari: quella volta il nostro fotoreporter salta sulla moto e dice “ci vediamo lì”. Quando arrivo, lo trovo steso per terra, gli immigrati lo stanno prendendo a calci e pugni: l’hanno scambiato per uno degli aggressori. Lui grida inutilmente “sono un giornalista, sono un giornalista”, ma loro non sentono, troppa foga. Finalmente l’equivoco si chiarisce, io dico a uno degli immigrati, “ragazzi, questo non vi aiuterà ad attirare le simpatie dei lettori”, mi risponde “fanculo”.

Non era neanche male. Mi ci stavo abituando, a quella vita da film anni Sessanta: il giorno in giro a prendere appunti, a pranzo un piatto di pansotti e un bicchiere di Pigato in trattoria, coi colleghi anziani della nera che si scambiavano storie losche e fumavano in sala anche se era vietato, spegnendo i mozziconi sul fondo della tazzina del caffè, e poi la sera in redazione a scrivere fino all’una di notte, la mattina dopo la soddisfazione narcisistica e un po’ infantile di rileggermi l’articolo con cappuccio e focaccia al bar sotto casa in Porta Soprana.

Ma invece no, avevo altre ambizioni. Nulla di personale contro la cronaca locale, per carità, ma io no, io volevo scrivere dello scacchiere geopolitico dell’Asia centrale, di tensione in Medio Oriente, di spostamento degli equilibri economici a favore della Cina, del progressismo balbuziente in America Latina. Non andai a Genova, rimasi freelance e continuai a spedire i miei articoli al Fatto, al Corriere, al Foglio. Per un po’ ebbi l’illusione che funzionasse. Ci fu la settimana gloriosa, quella in cui, un grande quotidiano nazionale mi pubblicò tre articoli: Afghanistan, Sudan e Sudafrica. Provai un lieve imbarazzo, anche se non ne avevo colpa, nel constatare che i pezzi uscirono “targati”, come si dice in gergo: rispettivamente da Kabul, Khartoum e Johannesburg, anche se io, in quelle città, non ci avevo mai messo piede. Pseudo-giornalismo, insomma: le mie inchieste le svolgevo tutte da Corso Lodi, Milano, fermata Brenta della metro, vista sul mercato rionale di via Oglio. Altro che Khartoum. Non era quel che sognavo alla scuola di giornalismo. Ma cosa volete, arrivai all’esame di Stato da professionista proprio nel 2008: come se non bastasse la crisi delle vendite dei giornali in corso da dieci anni, cioè da quando la gente aveva cominciato a scorrere in diagonale le notizie gratis sul web, la più grossa crisi economica dalla Grande Depressione aveva polverizzato gli investimenti pubblicitari, ossia tutto quel che restava a tenere in piedi le testate. Redazioni falcidiate, stato di crisi, esuberi e via dicendo.

Pessimo timing, ma forse non ero tagliato per fare il corrispondente dal deserto del Gobi: col senno di poi avrei dovuto andare a scrivere di furti in appartamento e prostituzione in centro a Genova. Volete che non ci abbia ripensato mille volte, a quel bivio? Sterzai da un lato, non saprò mai se quello giusto o quello sbagliato, non ci può essere la controprova.

Gli articoli sul Foglio e sul Fatto si diradarono: è una giungla là fuori, di freelance agguerriti ce ne sono più di quanti ne servono. Mi buttai su cultura e spettacoli, mi chiamavano giornali locali che non avevano nessuno per “coprire” Milano. I momenti di gloria furono le interviste a Mel Brooks, Hanif Kureishi e Seal, il cantante, quello di Crazy, che mi disse: “mi piace parlare con te, perché prendi appunti a mano e questo ti costringe a fare attenzione a quel che dico, mentre i giornalisti che usano registratori a volte si distraggono.” Non ce la feci a confessare che il registratore me l’ero solo dimenticato a casa.

L’ennesima sbandata mi portò perfino alla redazione milanese di una grande agenzia stampa, roba di borsa e finanza. Tenuto conto del fatto che ero arrivato al giornalismo per scappare dall’economia e dall’azienda (ci arrivo fra un secondo), anche quella non era male come controsterzata a cazzo di cane. In agenzia spesso facevo il turno di apertura, arrivando in redazione alle sei del mattino per seguire la chiusura della borsa di Tokyo e l’avvio di Piazza Affari. Oppure attaccavo all’ora di pranzo e restavo fino a sera per seguire Wall Street. Ogni volta il caporedattore si aspettava che chiamassi un trader per farmi dare qualche dritta sul perché Eni avesse perso il due per cento mentre Mediobanca guadagnava l’uno e mezzo. Fingevo di avere molte fonti, ma il trader era sempre lo stesso, e ogni sera ripeteva: “France’, ieri ha guadagnato, oggi scende, la borsa va così”. Oppure: “che vuoi che ti dica? Se lo sapessi avrei la Maserati, mica la Golf”. Allora m’inventavo qualcosa io, attribuendolo a fonti segrete. Con questo non vi voglio dire che le analisi di borsa dei giornali finanziari non siano affidabili, ma non sottovalutate i titoli di Stato.

Ero arrivato a un tale livello di alienazione che il momento più soddisfacente della giornata era andare alla Fnac del centro e comprare un cd di Battisti, che non avevo apprezzato quando avrei dovuto, cioè venticinque anni prima, ai tempi del liceo: lacuna musicale che mi pesava come un albatros appeso al collo e che cercavo di colmare attraverso il possesso, più che l’ascolto, dei suoi dischi. Chiesi di accorciare il mio contratto a tempo determinato per andare a fare backpacking in Vietnam e Cambogia. Non mi chiamarono più e devo dire che non mi sorprese. Il Vietnam comunque mi piacque moltissimo.

Basta, dissi un giorno. Avrei compiuto di lì a poco quarant’anni, era una soglia psicologica oltre la quale non potevo accettare di svegliarmi la mattina e inventare un’intervista con un trader, o inginocchiarmi di fronte a un caporedattore perché mi prendesse un articolo sulle elezioni in India che avrei raffazzonato dagli scarti del web. Nessuno voleva che scrivessi di Nigeria e Iraq? E io ci sarei andato di persona, per lavorarci. Il giro delle ONG. Ecco come mi ritrovai a fare la coda per la doccia alle sei del mattino.

Ma alla tappa precedente, allo pseudo-giornalismo, come ci ero arrivato?  Con un’altra controsterzata a occhi chiusi, naturalmente.

Me lo ricordo ancora, il giorno in cui presi la decisione. Ero nel cucinino del mio bilocale nel Marais, di fronte al Museo Picasso (Parigi, parte prima). Al termine di dieci anni tondi tondi di carriera aziendale, non ne potevo più. Stavolta non c’entravano crisi di settore o la rottura di stock della marmellata in zona di guerra: il lavoro andava a gonfie vele, erano tutti contenti. Tranne me.

Certo, l’azienda mi aveva dato anche le proverbiali “soddisfazioni”: con la mia laurea bocconiana magna cum laude in tasca ero partito ventitreenne per Londra con un biglietto di sola andata, trovando lavoro in una società del settore energetico. Era quello che sognavo – non il settore energetico, intendo l’Inghilterra: il mondo di Dickens, DH Lawrence e Thomas Hardy, dei Sex Pistols, dei Cure e degli Smiths. L’incomprensibile accento cockney dell’idraulico, i tramezzini plasticosi di Marks & Spencer divorati a spasso sulla Kings Road, i sedili dei night bus che puzzavano di patate fritte da fast food all’una di notte, tutto era perfetto. Aspettavo con ansia il venerdì sera, chiedendomi come potessero esserci persone al mondo che preferivano fare altro che stare in piedi, con una pinta in mano, spalla a spalla con gli amici in un cerchio troppo stretto, di fronte al bancone in legno massiccio di un pub. Si respiravano il Britpop e il New Labour, Londra era il centro della Cool Britannia e la Cool Britannia era il centro dell’universo. E io ci sguazzavo come un microbo sulla lingua di un cane. Tre anni dopo ebbi perfino il lusso del trattamento expatriate: Messico, una casa tutta mia con il portico e il giardino a cento metri dalla spiaggia, auto aziendale con licenza di distruggerla ogni sabato sera, dopo le dodici birre e cinque tequile. Pesavo quindici chili più di adesso, guadagnavo più soldi di quelli che riuscivo a contare. M’immaginavo come un personaggio da romanzo di realismo magico, ma non ero del tutto inconsapevole che quel che mi piaceva, della mia vita, succedeva fra le otto di sera e le otto della mattina dopo. La parte in mezzo, quella in cui stimavo il costo della saldatura dei giunti di un oleodotto, quella no, non m’interessava molto.

Finché andai a spasso fra Londra e il Messico, bene così. Fu quando decisi di tornare in Italia, in stato di trance amorosa per una donna che conoscevo da tre settimane, che cominciai a percepire il problema. In mancanza di una vita alla scoperta del mondo, o forse solo della tequila, quell’annientamento quotidiano in ufficio divenne sempre più fastidioso, avvilente, infine insopportabile. Ci furono altri pezzi di carriera, convention aziendali con multinazionali di matrice statunitense negli stadi del football americano a New Orleans, un nuovo trasferimento all’estero (Parigi, parte prima, dicevamo: l’appartamento di fronte al Museo Picasso, l’ufficio al trentottesimo piano con vista sulla Torre Eiffel).

Non bastò a placare la bestia.

“Non posso vivere di questo”, dissi. Fu così che quella sera, da solo in cucina, dopo una lunga telefonata con mia moglie (no, non era la stessa persona per cui ero tornato dal Messico), decisi. Avevo solo trentatré anni, avrei fatto quel che desideravo. Cosa amavo fare io? Scrivere. Il giornalismo. E allora scriviamo, facciamo il giornalista. Allora credevo ingenuamente che le due cose coincidessero. Ci misi poco a rendermi conto dell’equivoco, ma era troppo tardi. Avevo sterzato di nuovo.

Ci vuole una parentesi, adesso; perché fra il manager e lo pseudo-giornalista c’erano i contatori del gas e della luce. Non ce li siamo dimenticati. Ne parliamo ora.

Fu colpa di un momento di zelo inopinato: abituato alla mia indipendenza economica dagli anni in azienda, decisi che anche da studente di giornalismo dovevo guadagnare qualcosa. Ma perché, poi? Bastardi condizionamenti sociali. Niente, avevo deciso così. Optai per il lavoro più manuale che ci fosse, tanto per fare un’esperienza diversa. L’omino del gas e della luce, quindi. Non so se esista una definizione più corretta di questo mestiere: a me sembra che il titolo giusto sia quello, “omino del gas e della luce”. M’insegnarono a usare le macchinette per la lettura, feci qualche giorno di affiancamento con un collega anziano per imparare. A ogni contatore corrispondeva una linea nella mia macchinetta, a ogni linea corrispondeva un tot di euro nelle mie tasche, eravamo pagati a cottimo. Il collega anziano m’insegnò i trucchi del mestiere, quelli per garantire un massimo di letture effettuate, anche quando non c’era nessuno in casa e il contatore era inaccessibile. Con questo, non voglio dire che le vostre bollette possano essere sbagliate, ma vi consiglio di controllare bene.

La luna di miele con lo statuto di studente-lavoratore durò poco – fu come partire in viaggio di nozze e innamorarsi della massaggiatrice del resort, anzi, dell’hostess in aereo. Ci fu quella mattina in cui, per leggere un contatore, entrai in un loft bellissimo non so più dove, uno di quei loft da rivista di architettura dove ogni cosa è al suo posto ed è perfetta. Due persone altrettanto perfette facevano colazione, sul tavolino di design c’erano succo d’arancia appena spremuto e pane fresco e roba biologica e salutare e appetitosa al tempo stesso. Io ero vestito da lavoro, cioè come uno che passerà la giornata fra cantine piene di ragnatele. Una donna mi fece strada attraverso il loft mentre l’uomo, probabilmente il suo compagno, seduto al tavolo, mi guardava come se fossi un lombrico nella sua insalata. Vidi i suoi occhi seguire ogni mio passo, cercare le tracce dello squallore con cui stavo infettando il loro benessere domestico. La sera stessa restituii la macchinetta per le letture dei contatori. Mi concentrai soltanto sulla scuola di giornalismo e mi sentii subito meglio. Studiare mi riusciva bene, mi è sempre riuscito bene. Studiare sì, quello lo so fare. Quanto a essere giornalista, ve l’ho già detto com’è finita.

E pensare che a diciott’anni volevo iscrivermi a lettere o lingue. Ma cambiavo idea tre volte al giorno, ero troppo influenzabile e un bel giorno, poco prima della maturità, il mio migliore amico disse: io quasi quasi tento la Bocconi. E io: bello, anch’io. È iniziato quel giorno il mio rally a occhi bendati: prima manager, poi studente di giornalismo e omino del gas e della luce, quindi pseudo-giornalista, dopo operatore umanitario sul campo e infine umanitario da ufficio, nella comunicazione. Ogni volta, una scelta in controsterzo, per correggere la sterzata precedente. Se continua il trend, mi restano dieci anni prima di arrivare al circo. Ma non è un problema. Secondo me, lavorare in un circo non è poi tanto male, se non sei un animale.

Su “Solenoide” di Mircea Cărtărescu

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di Fabio M. Rocchi

L’annullamento della logica temporale e la visione trasfigurata. Su un oggetto ricorrente in Solenoide di Mircea Cărtărescu – Il Saggiatore, 2021, traduzione italiana di Bruno Mazzoni

Come opera una delle logiche di racconto preponderanti nell’ultimo fluviale romanzo di Mircea Cărtărescu, Solenoide?

La storia si concentra sulle ossessioni e sulla non-vita del protagonsita, un anonimo professore di scuola secondaria che presta servizio nella Romania degli anni Ottanta e che si trascina senza scopo da casa al lavoro, spostandosi in tram in una Bucarest periferica e allucinata.

La sua esistenza si consuma tra il chiacchiericcio dei colleghi e la maniacale registrazione delle proprie angosce notturne. Un manoscritto, popolato di frammenti già precedentemente annotati e adesso recuperati in forma commentata, costituisce la sua occupazione quotidiana. Il professore vuole comprendere la vera natura del mondo che lo circonda, risolvendo enigmi di tipo matematico e affrontando un assillante quesito di matrice filosofica: quello della presenza di una quarta dimensione, un universo parallelo in cui una seconda esistenza, direttamente posta in connessione con la realtà tridimensionale, si manifesta attraverso presenze brulicanti e multiformi.

Molto spesso i capitoli prendono spunto da un fatto, del tutto realistico e legato al presente del protagonista o ad episodi della sua infanzia. Il racconto però va incontro sempre ad una svolta inattesa. Ad un certo punto, senza alcuna transizione che prepari il lettore, la logica temporale viene spazzata via e, letteralmente, veniamo trascinati all’interno di un mondo diverso, sorretto da leggi differenti a quelle che vigono nel quotidiano.

Queste vere e proprie epifanie stranianti e magiche spezzano in due il ritmo della pagina e la rendono senza mezzi termini straordinaria. Al loro interno il personaggio di Cărtărescu si trova di fronte a visioni declinate secondo un immaginario molto riconoscibile, in cui elementi quali il labirinto, la larva, l’ampolla di formaldeide che contiene un corpo ancora vivo, l’idra gigante e le creature dalle molte membra ritornano con coerenza.

È da notare come un luogo istituzionale e legato all’assetto dell’organizzazione comunista sia sempre lo scenario che contiene i presupposti anche spaziali affinché il disvelamento avvenga. Si tratta di edifici bui, costruiti su un dedalo di corridoi e porte, secondo una architettura sovietica ben riconoscibile. Il luogo in cui viene esercitato il potere, assieme all’organizzazione burocratica che ne permette la suddivisione, appare come invalicabile: oscuro, squadrato, pura esaltazione della logica del controllo. E invece proprio in quei contesti, spesso con improvvisati o casuali compagni di viaggio, il protagonista trova inaspettatamente accessi nascosti e pertugi che gli regalano la visione di un altrove sensoriale e a un tempo metafisico.

Accade nell’episodio della fabbrica abbandonata con il collega Goia; accade nella Caserma, in compagnia di una bambina incontrata per caso in sala di attesa. Accade nella grande scena della protesta presso l’obitorio, con la professoressa Caty. Accade con Traian nel sanatorio di Voilà, la notte in cui l’apertura di un armadio offre uno squarcio su un mondo alternativo e proteiforme che è poi quello al quale tende l’ambizione dello scrittore in questa opera.

A riprova della tenuta di questo immaginario, nel romanzo un oggetto più di altri, inanimato e all’apparenza privo di connotazioni ultra-terrene, determina alcune scene dal particolare valore simbolico e viene riproposto agli occhi del destinatario come una sorta di refrain rivelatore. Si tratta della poltrona del dentista.

Nel capitolo ottavo della prima parte del romanzo (pp. 78-102) il protagonista – un anonimo professore di lingua e letteratura romena – decide di andare a vivere da solo e di staccarsi dalla famiglia.

La ricerca di un appartamento si conclude quando, in via Maica Domnului, il giovane docente si imbatte in una stravagante costruzione a forma di nave, che completa il suo profilo con una torretta munita di ringhiera, alla quale si accede tramite una porta di accesso situata su un piccolo terrazzo. Si tratta della ex dimora del vecchio Mikola, che gliela ha venduta senza troppe complicazioni e a un prezzo più che ragionevole.

Da questo momento hanno inizio le esplorazioni in quella che si propone come una vera e propria casa delle meraviglie, luogo del magico e del soprannaturale così come, ambivalentemente, dello squallore e della solitudine. L’ambiente si presenta come un labirinto incantanto: molteplici porte si aprono sui corridoi mentre spazi sempre nuovi e inattesi si rivelano al giovane proprietario. In quella sorta di iper-cubo, edificato su un tronco di piramide rovesciata, egli vive esperienze ultra-terrene, poste cioè al di là di una realtà fenomenica e immaginabile secondo i normali parametri con i quali siamo soliti esperire il mondo. La forma geometrica del cubo, nella serie delle ricorrenze simboliche del romanzo, accoglie del resto in sé un ampio spettro di significati: si tratta di un solido che può trasformarsi in un poliedro polidimensionale e che ha alle spalle una cospicua trattazione matematica che passa dal pensiero di George Boole (1815-1864) per arrivare a quello di Charles Howard Hinton (1853-1907).

Il protagonista finisce per identificarsi pienamente con quello spazio. Si legge a un certo punto: «Se ogni casa è l’immagine di colui che la abita, per quanto anamorfica e ingannevole possa essere, ho saputo anch’io che là, in quell’iper-cubo, in quel tesseratto di cenere, avevo incontrato il mio più completo autoritratto» (p. 88). Il professore vive dunque le contraddizioni della casa e ne coglie, seppur per brevi momenti, i privilegi. Il tempo diacronico, il clima, la luce – per gran parte della storia rappresentati come monotoni e tendenti al grigio, opachi, intonati al contesto di una periferia oppressa dalla dittatura e dall’industrializzazione nella Bucarest degli anni Ottanta – mutano improvvisamente di segno, aprendo come degli squarci sulla superficie di un velo. Si tratta di fessure che permettono di guardare oltre e di entrare in contatto con una prospettiva esistenziale amplificata.

A generare il flusso di energia che sospende la realtà, così come il peso della materia e dei corpi, è un solenoide, ovvero una elettro-calamita composta da una bobina di rame avvolta in spire che, se posta a contatto con una fonte elettrica, può dare luogo a inversioni del campo magnetico. Tutto parte da qui, da un consistente fulcro di senso che peraltro dà il titolo al romanzo. La cosa veramente particolare, tale da rendere l’immaginario di Cărtărescu unico, è che il solenoide si trova posto, in seguito ad antiche vicende che avevano riguardato gli esperimenti del vecchio Mikola, proprio sotto la casa del professore, in particolare corrispondenza con la torretta con cui termina la costruzione a forma di nave alla quale prima facevo riferimento. Nel momento in cui il protagonista si rende conto della relazione tra un interruttore quasi nascosto e l’attivazione del ronzante solenoide, egli si trova curiosamente sdraiato su una vecchia poltrona da dentista. Cosa ci fa questo oggetto, del tutto decontestualizzato, all’interno di quell’edificio?

La capacità immaginifica di Cărtărescu sorprende il lettore e lo costringe ad uno sforzo di comprensione che va oltre le regolari associazioni semantiche. Si direbbe, in virtù di analoghi accostamenti forzati che si riscontrano nel romanzo e più in generale nell’intera opera dell’autore romeno, che questo particolare procedimento si regga sullo straniamento di sklovskijana memoria e metta in relazione particolari volutamente irrelati, in cui le categorie del desueto e del defunzionalizzato giocano senza dubbio un ruolo importante. Per questo motivo, nel corso di una delle sue prime esplorazioni, il professore si trova di fronte a questa poltrona dentistica attrezzata di tutto punto, posta al centro dell’ultima stanza della casa, appunto all’interno della torretta, in uno spazio interamente vuoto che diventa simbolico. Lì, assieme alla compagna Irina, attivando l’interruttore che dà il via all’azione del solenoide, i corpi potranno fluttuare nell’aria leggeri e, soprattutto, potranno disvelarsi alcune visioni che permetteranno di ricostruire un senso secondo e più veritiero sull’ordine universale.

La poltrona del dentista, privata delle sue funzioni e della sua principale destinazione d’uso, diventa oggetto mediatore all’interno di una estetica perturbante che ha evidenti tradizioni ottocentesche, specie se ci riferiamo al filone del racconto fantastico che prende avvio con Poe e prosegue con Hoffmann. La sua silenziosa presenza diventa varco che mette in connessione la realtà con l’iper-realtà. Si crea una zona di sospensione, di soglia, in cui i due mondi – sovrapposti senza che in condizioni normali se ne possano immaginare le tangenze – riescono finalmente a dialogare.

Se la poltrona del dentista è senza dubbio un oggetto straniante, colpiscono allo stesso modo la sua ricorrenza nel romanzo e le associazioni che nell’immaginario di Solenoide vengono ad essa attribuite, con la valenza come si diceva di elemento connettore tra i due emisferi del noto e dell’ignoto. Una circostanza desunta dalle memorie protagonista bambino ci restituisce una immagine cruciale, senza dubbio la fonte che ispirerà successivamente alcune visioni dell’io narrante. Nel capitolo diciannovesimo, dedicato alla rievocazione dei problemi di salute che ne avevano afflitto l’infanzia, il professore ricorda i momenti di disagio fisico vissuti proprio su una poltrona di uno studio dentistico, rappresentandola attraverso una raffigurazione dominata dall’espressionismo: «Tutte le volte che mi liberavo dalla morsa della poltrona dentistica, completamente stordito, col volto bagnato di lacrime, notavo immediatamente che le mattonelle del pavimento su cui erano fissati, con enormi bulloni, i quattro sogli del dolore, non erano levigate, come avrebbero dovuto essere, ma avevano lunghi rigonfiamenti ramificati, come le radici che increspano la terra attorno ai rami più vecchi» (p. 309).

Alla lettera, il supporto centrale su cui poggia la poltrona del dentista affonda nel terreno e ne rivela un rigonfiamento sospetto, indice di una vita pulsante posta appena sotto il livello del pavimento. È una immagine senza dubbio ricorrente, che si chiarisce appieno nel corso della straordinaria scena della protesta all’Obitorio, in cui proprio una poltrona dentistica gigante, alta oltre venti metri e posta al centro di una immensa sala, rivela il punto di connessione tra sopra e sotto, o per meglio dire tra realtà e iper-realtà. Man mano che il drappello dei contestatori si addentra all’interno dell’edificio leggiamo: «Ovunque sotto i nostri piedi si poteva scorgere questo sistema circolatorio, con vasi dello spessore di un braccio che si ramificavano all’infinito, fino a formare una sorta di fitto tessuto di capillari, non più spessi di un capello. […] Ci camminavamo sopra ora, affascinati dalla gigantesca poltrona dentistica posta sotto la volta, fatta per chissà quale genia di giganti. Sembrava il trono di un dio malvagio …» (pp. 436-437). Ulteriore corrispondenza testuale: un inquietante déja-vu permette al protagonista di ricordare una scena avvenuta quando era bambino (ancora una volta), ricoverato al policlinico Maşina de Pâine. Nei meandri di un edificio buio e spettrale, in cui spezzoni di memoria si sovrappongono al tempo reale, il professore apre una porta e si trova di fronte quattro poltrone dentistiche ben piantate nel pavimento in linoleum. Il loro poggiatesta in vinile corrisponde ai requisiti già illustrati nel corso del romanzo, mentre è altrettanto identica la sensazione di tortura e di mistero che riescono a trasmettere (pp. 804-812).

Una immagine privata, una banale poltrona da dentista su cui nell’infanzia si è sofferto il castigo di una operazione dolorosa, si trasforma grazie alla potenza affabulatoria delle dinamiche narrative nel «trono di un dio malvagio», in una porta aperta su un altrove. Da questi esempi si possono desumere non soltanto la capacità di produrre dettagli stranianti in questo romanzo fluviale e onnivoro, ma anche la tenuta di un immaginario tanto stravagante quanto coerente e dotato di significato. L’analisi di Cărtărescu affonda le radici, proprio come nell’allegoria appena analizzata, oltre i confini del percettibile, nel tentativo di ricostruire un mondo parallelo, brulicante di vita, dominato da forme e pulsioni primordiali che liberano epifanie e squarci sul possibile, assegnando implicitamente alla letteratura il compito di spiegare attraverso la coerenza dei significanti il senso di una originale metafisica.