sul suo Anatomia della battaglia, Milano, Sironi, 2005, p. 242
GS Io volevo parlare di mio padre, della sua epica agonia. La storia è venuta fuori mio malgrado, perché il personaggio che andavo delineando ispirandomi a mio padre non avrebbe potuto esistere senza dare spazio anche alla storia, e nella fattispecie al fascismo e alla seconda guerra mondiale. E anche la catastrofe è venuta fuori mio malgrado, come punto di incontro, come minimo comune denominatore, tra il fallimento del padre e quello del figlio. Ma anche qui non sono partito da schemi preconcetti. E’ anzi il romanzo, il lavoro di scrittura che ho fatto e che ha dato origine a questo romanzo, che mi permette di capire meglio, adesso, il senso della morte di mio padre, la sua valenza di catastrofe non solo individuale ma anche storica. Prima non lo sapevo, non mi sembra di averlo saputo. Avevo forse solo qualche vaga intuizione. Ma nello stesso tempo questo vuoto finale di cui parli è quello che ho da dire, è la mia verità più profonda, questo lo sapevo anche prima. Diciamo che non ero cosciente che esso potesse rappresentare il punto di contatto tra due generazioni apparentemente tanto diverse e distanti, detto in altri termini non ero cosciente dell’importanza della guerra e del fascismo per me e per quelli della mia generazione, nati quando la guerra e il fascismo erano finiti. Un critico recensendo il romanzo mi rimprovera di “saltellare in maniera convulsa da un periodo all’altro”, senza dei piani temporali ben separati. Questo critico non ha capito che dei piani temporali incomunicanti sarebbero stati artificiosi, avrebbero separato due mondi che in realtà non sono separabili né dal punto di vista strettamente storico né tanto meno da quello della psiche, che come è noto non conosce la diacronia.