Gli anni seguenti, però, quando mi tornò più appieno l’entusiasmo, cedetti alla mia naturale inclinazione verso la vita solitaria. A quel tempo, dopo aver preso l’oppio, m’immergevo spesso in tali fantasticherie; e molte volte m’accadde, durante una notte estiva – seduto presso una finestra aperta, da cui potevo scorgere sotto, a un miglio di distanza, il mare, e al tempo stesso dominar la scena d’una vasta città che si stendeva su un raggio diverso, ma quasi alla stessa distanza – di restar là ore e ore, dal tramonto all’alba, immoto quasi fossi indurito dal gelo, incosciente di me e divenuto quasi un oggetto qualunque della multiforme scena che contemplavo dall’alto. Tale spettacolo, in tutti i suoi elementi, contemplavo spesso dalla dolce collina di Everton. Alla sinistra si stendeva la città di Liverpool dalle mille lingue, alla destra il mare multiforme; era una scena che mi colpiva come una rappresentazione tipica di quanto passava nelle mie fantasticherie. La città di Liverpool rappresentava la terra, coi suoi dolori e le sue tombe, remoti da me, ma tuttavia non invisibili, né del tutto dimenticati. Nel suo moto, eterno ma dolce, l’oceano, sul quale covava una calma angelica, rappresentava in certo modo il mio spirito e i pensieri che allora lo cullavano languidamente. Mi sentivo, come per la prima- volta, lontano, estraneo ai tumulti della vita: