di Antonio Sparzani
Non sono uno scrittore né un poeta, almeno non esplicitamente e nemmeno con qualche continuità, ma forse questa circostanza non è neanche tanto importante per quel che voglio dire, in quanto sono almeno un assiduo lettore.
Sento spesso imbarazzo e inadeguatezza quando qualcuno, entro Nazione Indiana, o fuori, mi fa leggere un testo e mi chiede un parere, o se è bello, o se “vale”, o simili. Talvolta rispondo, in un senso o nell’altro, sempre però con l’arrière-pensée di esprimere un’opinione assai poco competente e troppo dipendente dai miei peculiari gusti r idiosincrasie, inevitabile, si dirà. Mi sono però imbattuto di recente in questa lettera, ormai ultracentenaria, di Rilke ad un “giovane poeta” che evidentemente gli aveva mandato qualche suo verso; questa lettera mi ha colpito, anche se mi ha lasciato dubbi vari circa la “decidibilità del bello”. Ho anche pensato che possa essere fonte di riflessione e di dibattito per frequentatori di questo blog, che spesso vengono sottoposti a questo processo di “valutazione testi”. Eccola qua:
Parigi, 17 febbraio 1903
Egregio Signore,
La vostra lettera m’ha raggiunto solo qualche giorno fa. Voglio ringraziarvi per la sua grande e cara fiducia. Poco più posso. Non posso entrare e diffondermi sulla natura dei vostri versi; ché ogni intenzione critica è troppo remota da me. Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via sempre a più o meno felici malintesi. Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.