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Annie Ernaux e “Le jeune homme”

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di Ornella Tajani

 

Le roman est impossible.
A. E.

Annie Ernaux conferma il suo talento in ogni testo che scrive, anche nell’ultimo Le jeune homme, apparso in Francia a maggio per Gallimard: il racconto della passione per un ragazzo di vent’anni, nel momento in cui lei era già una scrittrice cinquantenne, diventa una sorta di dispositivo immaginifico della memoria, sia sul piano dell’esperienza, sia su quello della scrittura. I mesi trascorsi con A. scorrono per l’autrice sopra una sorta di nastro di Krapp: tutto è già stato vissuto, le strade di Rouen in cui passeggia con lui sono le stesse che percorreva quando era una studentessa di lettere; l’ospedale dirimpetto all’appartamento in cui fanno l’amore è quello in cui era stata ricoverata in seguito al tentativo di aborto clandestino raccontato in L’événement.

Questo è senz’altro uno dei punti di forza di Ernaux: ogni nuovo testo è un tassello di una medesima opera più grande, unitaria, un’auto-socio-biografia che racconta il suo percorso di donna, di intellettuale, e nel farlo dipinge sullo sfondo l’affresco di un’epoca e uno spazio attraversati dalla lotta di classe.

Le storie di Ernaux non sono mai soltanto ciò che sembrano: ogni episodio travalica i confini del vissuto e produce riflessione, discorso. È questo uno dei sensi dell’esergo: «Si je ne les écris pas, les choses ne sont pas allées jusqu’à leur terme, elles ont été seulement vécues». L’idea della scrittura come compimento e (ri)significazione insegue un’elaborazione che aggira il percorso psicanalitico e ripercorre le tracce di esempi letterari classici: se proustianamente il ricordo è una forma di passione, per l’autrice la passione è già una forma di scrittura, e qui di ricordo. A questo proposito, l’incipit può trarre in inganno e sulle prime apparire stucchevole: «Souvent j’ai fait l’amour pour m’obliger à écrire», ma a ben guardare si rivela una provocazione; l’amore, anche fisico, è sempre per Ernaux il motore di un’analisi introspettiva che si spinge ben oltre la relazione di volta in volta narrata. Qui il ragazzo amato rappresenta «le passé incorporé», e, più avanti, è visto da lei come la propria stessa morte: «il était ma mort» (il giovane amante come incarnazione della propria morte è, peraltro, una figura tipica nell’opera di Jean Cocteau).

Quasi tutto il senso del racconto è racchiuso in ciò che A. dice nel momento in cui vede una foto di lei da giovane, al tempo in cui l’autrice aveva la sua stessa età: «cette photo-là, elle me fait de la tristesse» – frase emblematica di una dolorosa impossibilità, ma che ben suggerisce il gigantesco déjà-vu (déjà-vécu) che è al centro di questo piccolo libro.

Gita al lago

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di Paola Ivaldi

Durante una breve passeggiata solitaria verso il lago Lod, poco sopra il comune di Chamois, in Val d’Aosta, mi è capitato di assistere, mio malgrado, a uno scontro famigliare, il classico litigio per un nonnulla che, visto da lontano, con il favore dunque del distacco e della neutralità, fa capire come spesso queste collisioni possano rivelare molto più di ciò che sembrano.

Lui. Aveva piazzato la grossa macchina fotografica sul cavalletto, a bordo lago, e vi si aggirava attorno con movimenti un po’ a scatti, un fare pedante, un atteggiamento che tuttavia, nel suo complesso, gli conferiva l’apparenza di uno che sa il fatto suo, con grande borsone al seguito probabilmente pieno di obbiettivi e chissà che altro ancora.

Nel percorrere il sentiero mi trovavo a una trentina di metri da lui e ho pensato distrattamente che fosse un appassionato di fotografia in fiduciosa attesa di un proprio carpe diem. Tiro dritto per completare il giro del lago e poi sedermi al sole a mangiarmi il panino in santa pace quando mi accorgo della presenza, sulla sponda quasi opposta alla mia, di un bambino urlante che corre all’impazzata in rapido avvicinamento, seguito a breve distanza dalla mamma, verso il fotografo: suo padre dunque. Nelle mezze stagioni può capitare che attorno allo specchio d’acqua non vi sia anima viva. Quella volta, si era in aprile, eravamo in quattro e potrebbe anche darsi il caso che loro non mi avessero neppure notata. Il fatto è che quando l’uomo li ha visti entrambi, ormai a pochi metri da lui, ha iniziato a sbraitare.

“Noooo… Ma siete già qui? Oh, ma dico: non è possibile! Vi chiedo cinque minuti, e voi siete: già qui! Guarda, lascia stare, non importa, però cazzo non è possibile, no, non è nemmeno più possibile, per me, avere cinque minuti di pace, per fare una foto, dico una. Ma lascia perdere, basta! Metto via tutto e non se ne parla più. Baaasta: ho detto! Ho detto bastaaaa” e avanti così. La moglie non si sentiva se parlasse o quale eventuale risposta tentasse di imbastire; il figlio, di pochi anni, stava immobile, ammutolito, pareva una statuina.

Da lontano, camminando, ogni tanto mi voltavo e li osservavo: lui aveva smontato tutta la sua postazione in fretta e furia, i gesti ampiamente teatrali. Poi si sono allontanati, tutti e tre in fila indiana, verso uno dei tavoli dell’area attrezzata. Prima che sparissero nel bosco e li perdessi definitivamente di vista ho solo più afferrato lo sgarbo con il quale lui diceva a lei: “… ma che panino e panino, cosa vuoi che me ne freghi dei vostri fottuti panini: mangiateveli tutti voi, a me è passata la fame”.

Proseguo il cammino tutto intorno al lago, chiedendomi attonita perché. Come si possa spiegare una reazione così spropositata per una foto. Ho guardato per qualche attimo il lago da dove all’incirca si era piazzato lui, ma non vi ho colto nulla di straordinario, né nell’eventuale inquadratura né nella luce o nei colori; nell’insieme non c’era da aspettarsi granché da quello scatto mancato se non la foto di un lago di montagna: una foto qualsiasi di un laghetto qualsiasi.

Mi sentivo imbarazzata per loro, provavo tenerezza soprattutto per la moglie e il figlioletto, immaginandomeli mangiare in silenzio i loro fottuti panini, preparati qualche ora prima con cura, avvolti uno dopo l’altro, nei tovaglioli di carta a quadretti e poi nella stagnola, pregustando il momento in cui avrebbero riaperto, uno dopo l’altro, tutti i loro pacchettini argentati: “Che bello: si va al lago!”.

Anche lui, comunque, nella sua apparente performance recitativa suscitava tristezza. Perché quando si giunge a simili reazioni per futili motivi, oggettivamente futili, c’è un disagio che cova, la coppia ha perso, o sta perdendo, per strada molti pezzi. Può essere di tutto. Da lontano non si può sapere né giudicare, ma osservando e ascoltando provavo sensazioni, un disagio di coscienza, ripensando a tutte le volte che ero stata io a dare in escandescenze per delle emerite sciocchezze. A tutte le volte che accade. A tutte le coppie che.

Se ci pensiamo, se riuscissimo di più a pensare a noi stessi con un sano distacco, che non è indifferenza, ma cambio radicale di prospettive, scopriremmo che assomigliamo, in quei frangenti, a degli spennacchiati galletti da combattimento che si azzuffano per un lombrico.

La parte del soccombente e quella, monologante, dell’urlatore possono essere declinate a entrambi i ruoli genitoriali. I figli sono l’involontario pubblico, assistono alle metamorfosi di papà e mamma, soffrendo in silenzio e poi avventandosi eventualmente sul panino per poi giocare con la pallina ricavata dall’aver serrato in pugno, forte forte, tutta la pellicola di alluminio.

Io, a proposito di mangiare, nel frattempo avevo rinunciato alla mia sosta e puntavo ormai a scendere verso il paese. Lungo il sentiero sto per incrociare due coppie decisamente in là negli anni, nella tipica formazione: gli uomini davanti, le donne dietro, a una distanza tale che a ognuno dei due gruppetti è consentita la libertà di parola.

La cosa sorprendente, perché in effetti capita di rado, è che passando accanto alle due donne colgo al volo queste parole: “No, ma guarda, io lo devo proprio dire: per me incontrare Elio è stata una enorme fortuna. Sai quando senti di essere fatti uno per l’altra? Ecco: ci piacciono le stesse cose, stiamo bene insieme, siamo felici, stiamo davvero così bene insieme che io dico sì: che è proprio una fortuna!”.

Lasciandomele alle spalle mi sono chiesta per un lungo attimo quale dei due uomini, che stavo nel frattempo già superando, potesse essere Elio: il signore che stava discorrendo amabilmente di prostatite, o l’altro che annuendo mansueto ascoltava l’amico? Oppure ancora, ipotesi decisamente più ardita: un terzo uomo in quel momento assente dallo scenario alpino?

Elio Elio… non saprò mai chi tu fossi, ma dopo tutto non mi importa granché, le mie vedute essendo sufficientemente ampie per contemplare anche la terza delle ipotesi. Quel giorno, intanto, mi accontentai dell’entusiasmo: il solare entusiasmo con il quale la donna aveva ammesso la propria fortuna, le parole genuinamente amorevoli confidate all’amica sorridente mi bastarono per riconciliarmi con l’arcana complessità dei rapporti di coppia.

 

STRADARIO AGGIORNATO DI TUTTI I MIEI BACI

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di Daniela Ranieri

Ospitiamo molto volentieri la prima metà di un capitolo (intitolato “A. Daltonismo”) della bellissima tassonomia mascolina/amorosa di Daniela Ranieri, pubblicata da Ponte alle Grazie

Cerchi la cattiva coscienza? La troverai nelle per­sone dal vile sentimentalismo, che rinnegano la verità per amore.

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, estate 1880

Dire «mh» è il suo modo di farmi capire che mi ama. A volte è interrogativo: «Mh?», e vuol dire «Cerca di essere ragionevole, cioè sii il meno possibile te stessa».
Non dice spesso «ti amo», inteso come segnale in chiaro: fuori codice mh-esco, intendo; le volte in cui l’ha detto posso quasi contarle:

– Quando salvo gli insetti senza ammazzarli e li accompagno delicatamente fuori dalla finestra. Due volte mi ha detto: «Oh: quanto ti amo», dal che ho capito che per lui significa qualcosa come «sei una persona veramente apprezzabile, ho fatto una scelta giusta, tutto sommato».
– Al telefono dopo due settimane di separazione; in questi casi non vuol dire tanto «sbrigati a venire», quanto «no, non ti ho sostituito con la prima donna disponibile che m’è capitato di incontrare, e ci sono buone speranze che ciò non avvenga nel breve periodo». Naturalmente questa potrebbe anche essere una strategia per tenermi tranquilla, e lui sa che io lo penso, infatti rispondo «va bene» e lui interpreta correttamente replicando «deve andar bene per forza, giacché è così» (sottinteso: non che ti ami, ma che non ti abbia sostituito, né con la prima né con la seconda con cui avrei potuto farlo); è il «ti amo» con funzione anti-entropica e veridittiva.
– Quando mi viene una buona battuta che lo fa ridere di cuore, e allora mi abbraccia dichiarando amore e ridendo come un barbaro, mangiandomi il cervello direttamente dalla scatola cranica, come un gelato al cocco dalla sua noce svuotata; qui vuol dire qualcosa come «risate così ne ho fatte solo con gli amici dopo qualche bicchiere; a ben vedere, ho fatto un affare».
– Quando dico qualcosa di assolutamente folle o troppo irragionevole. Come quando, durante una gita a un santuario nei pressi di Agrigento che mi prometteva essere luogo pressoché irraggiungibile e segreto, gli ho chiesto: «Con quante donne ci sei venuto?» Esasperato, si è fermato un attimo a guardare per terra (beve se ha un bicchiere davanti, o si osserva le scarpe se sta al computer: a chiamare a raccolta la pazienza dei santi); ha allargato le braccia e detto: «Come sarebbe a dire?» Mi commuove la sua fiducia in me, che lo fa sbalordire ogni qual volta io violo il nostro patto silente, come l’avessi trafitto con un ferro. Guardandomi fisso (come i gatti quando li deludi), a ficcarmelo bene in testa, a svegliarmi dal mio torpore emotivo, ha detto: «Adesso amo te, no?» Già, che lui crede che il tempo passi, che gli eventi non siano tutti simultanei. Talvolta questa asserzione vale come premessa di qualcosa che però non viene esplicitato, ma che io so essere: «È evidente che se non ti sbatto fuori di casa o non ti lascio per strada a fare l’autostop è perché ci sono di mezzo i sentimenti»; altre volte come diga concettuale: «Dacché ti amo adesso, godo di una totale amnistia su atti del passato»; altre volte ancora, come conclusione di: «Come posso uscire da questa relazione onorevolmente senza ferirla? In realtà, benché lei non lo capisca, non posso farlo senza ferire anche me, stante l’impedimento alla mia tranquillità mentale rappresentato dal fatto di amarla», eccetera.
– Quando sta lavorando alla scrivania e io lo abbraccio arrivando dietro le sue spalle. Allora si allunga all’indietro e mi accarezza il collo con la testa e le orecchie, come i cani, e sussurra «gioia…», che vuol dire «amore…», che qui vuol dire: «Toh, non ricordavo che tu fossi qui, devo dire che la cosa non mi dispiace affatto». Queste sono le occasioni in cui mi rimane difficile non credere, anche a scassinarla con l’intelletto, alla verità espressa dalla altrimenti incomprensibile, inattendibile e popolarissima affermazione.

È l’unico uomo che non si sognerebbe mai di dirmi che sono intelligente: per lui sarebbe una grave scortesia porsi a un livello superiore, tale da poter guardare alla mia intelligenza. Ritenendomi intelligente, sa che preferisco che mi si dica che sono bella. Questo mi dà la certezza che non è in competizione con me, ma anche il sospetto che non gliene importi poi molto di tutta la mia filosofia e dei bei libri che ho letto, e che una donna di superiore bellezza che gli desse spago potrebbe benissimo sostituirmi.
Un giorno, per dirimere la questione, gli ho chiesto: «Se potessi scegliere, andresti a cena con Marilyn o con Hannah Arendt?» Attrice o filosofa? Come mi vuoi?
E lui: «Con Marilyn, naturalmente; ma le parlerei tutto il tempo di Hannah Arendt». Quale tipo di donna me lo porterà via? Implicitamente gli imputo la colpa di avere flirtato con me quel giorno, al bar di Siracusa, cadendo (io) nel paradosso che per dimostrarmi a priori la sua serietà e la sua refrattarietà a incontri del genere, avrebbe dovuto non mettersi con me. Ecco come fa, il signorotto catanese, con le femmine appena conosciute!: se le porta a casa. Credo che mi ami veramente. Ma a quanto ne so – e di verità in amore capisco ben poco – io ho bisogno non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato. Cioè io nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità. Un bel casino. Quando mi chiede con una curiosità da cui non è esclusa l’esasperazione cosa mi manchi, cosa cerchi ancora, perché non mi trasferisca da lui e non mi lasci andare del tutto alle rapide della vita, io vorrei spiegargli che mi manca avere desiderato di amarlo: io l’ho amato, invece, subito: in un momento in cui amarsi non era lecito né persino immaginabile. Lui mi ha invitato a casa sua e varcandone la soglia siamo entrati simultaneamente dentro il territorio senza scampo dell’amore. Forse avrei voluto che il nostro incontro, sotto la calura della piazza gialla, contenesse una bolla di indeterminatezza: che ci sfiorassimo, ad esempio, senza piacerci, per capire poi di voler oltrepassare la membrana tra il prima e il dopo. Invece, noi siamo stati subito nel dopo, subito d’accordo, contraenti che si accontentano. «Ti amo tanto», dice Sofia Loren a Cary Grant in Orgoglio e passione, praticamente subito dopo averlo conosciuto. Mi domando: dopo quanto tempo si sa che è amore? Poiché non può essere amore, quel subitaneo attaccamento, dev’essere qualcos’altro. Cosa? C’è un legame tra amore e conoscenza: solo che per me è sempre stato un rapporto inversamente proporzionale. Io non l’amerò, in futuro, come e quanto l’ho amato al secondo sguardo, quando mi parve un ladro.

da “L’avversario” di GIOVANNI TUZET

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[ in questi versi il presente di cose minute – a volte anche banali e sgradevoli – si compenetra – si mescola – si confonde con il presente storico – il passato remoto di vite – città – evi – ere e attimi ]

di Giovanni Tuzet

Le mura
 
Queste case abitano un confine.
Posano su mura dal corpo disfatto
in pietrame e mattoni,
ora in erba immersi, ora
coperti d’asfalto. C’era una guerra
se c’era un confine; e un nemico se
c’era una cinta. O la sola
paura vinceva.
È la casa dei miei ad Aquileia
lunga e stretta come la gente
in Friuli, spunta da mura
romane presso un dissepolto
anfiteatro che fu prima
distrutto dagli unni, rastrellato
per elevare un campanile
ora è una conca coperta di vigna.
La casa a Ferrara dove ho vissuto,
compreso e scritto sta nel castro
bizantino, s’innesta in uno storto
quadrato di vie acciottolate dove
i militi d’oriente scremavano.
Nella corte alta e stretta di rossi
mattoni un papale silenzio, un profumo
di gardenia in maggio e un treno
nelle notti d’estate quando
stavo alla finestra, nudo
d’amore e malinconia.
Questa casa a Milano sovrasta
le mura spagnole. Un alto
palazzo dagli anni Sessanta, pulito,
distinto, che mi riserva una
chiusa mansarda da cui, in punta
di piedi, puoi vedere la punta
del Duomo. Mentre le mura
si stendono ai lati, di stanchi
mattoni rossicci e un traffico
le striscia ed erode incessante.
Un altro inutile confine
dove resto senza un nemico
e il mattino ascolto i cassonetti
per la raccolta differenziata del vetro
svuotati di botto. Più oltre ci
sono gli eventi, c’è la città
ci sono gli stilisti, ci sono i gay c’è tutto
ma i versi indifesi mi legano qui
felicemente
a cantare e ridere solo
come un raro felino
che sulle mura ci piscia
e gode e a volte lacrima.


Souvenir
 
Ricordi che ci misero una pannocchia
bruciata a Parigi davanti all’uscio
per i nostri urli innamorati?
 
Ora scommetto che non lo fate,
tu e il tuo fringuello,
e fate i bravi
e i vicini vi salutano.


I sogni
 
Cosa sognano i feti?
Non hanno mica evidenze empiriche
di com’è fatto il mondo:
certamente non sanno se il fiume
resti verde, la trota scivoli nel lago
una rampa costruiscano le ruspe
e la Foresta nera
al cadere della luce, si popoli
di streghe. I loro sensi tabula rasa –
eccetto il fluire del cibo
e le filtrate percezioni.
I feti sbadigliano addirittura
e ti chiedi che motivo ne abbiano;
al che felpata la scienza risponde
immaginando: che serva a impaurire gli animali
come il cane
che si blocca se la bocca nella culla
si spalanca.
O forse i loro sogni speculari
a testa in giù, fanno la strega
popolata di foreste,
le ruspe costruite da una rampa
e il lago scivolato sulla trota –
senza che il fiume contenga un colore.
Dormi, bambino, che c’è tempo
per apprendere l’ordine. Aspetta
e sbadiglia se t’annoi, che c’è tempo
d’arrivare alle maniglie. Dormi
e sogna ciò che vuoi.



Affreschi

1.
Nelle lunette s’accucciano rapaci
(falchi e gufi) che catturano le prede
e appena al di sotto
le scritte latine
maestose, dai saloni alle cappelle.

2.
Rivedo il vecchio appoggiato al sasso
che accoppa le formiche
seguendole seduto
le calpesta in punta.

3.
Ebbe piacere e stupore per la gru
che si libra ad altezze vertiginose.
Stupore che una cosa così grande,
dotata di lance-zampe
che in un soffio fugge fra i nuvoli,
fosse abbattuta da una punta.
Piacere per la bellezza della caduta:
cadeva volteggiando, la gru, in una danza,
scoprendo ora il ventre, ora le ali chiuse.



Autunno

Cammina un’ape sull’ocra pavimento
indotta forse dallo scirocco ubriaco
a penetrare un altro mondo
verso il nocciola della lisca a piastrelle
intorpidita.
Sarò veloce, efficace più di te
ape tardiva
perché natura me lo impone
specie in giornate remissive come questa
se la specie dorme su deboli polpacci
e chiede il suo gene di essere difeso
e se anche non fosse non avrei esitazione
ad usare una ciabatta legnosa
contro la tua insistenza di reduce,
ape tardiva che ti ostini, come un relitto
incapace d’affondare fino al giorno dei giorni
quando il miracolo si scarta e le foglie
da gialle tornano tenere e verdi
e anche il tuo tornio rinasce.


Bebelplatz
 
Cercavo tre cose distinte: dei libri
che parlassero di te in una lingua spenta;
una chiesa dove al buio
posare e sentire la luce;
dei bunker o falangi di muro
per avere alle nari la polvere
dell’ostinato.
Invece, benché in progress
ho trovato una limpida piazza
e da una gru, canarina, suoni
da fermarsi e guardare in cima
vedendo un numero biblico
d’uccelli di varia specie e dimensione
accorgendomi allora che il cielo non è altro
che il loro concerto:
verso il tramonto corrono al metallo dei rami
e in file perfette preparano il dormire
senza una pausa di note finché dura la luce
e piccoli gruppi vengono e vanno da altre
altezze ma tutti attirati, come avessero
una fibra di ferro, dal cuore di magnete
s’infilano nel gotico degli ingranaggi
come un nido da sempre esistito
a un’altezza proverbiale, celeste,
celata ai sordi e che vale
tutti i dorsi, le cupole e i muri
che il mondo trattiene precario.


da L’avversario di Giovanni Tuzet
con uno scritto di Raffaello Palumbo Mosca
collana di poesia Nereidi
pagg.88 – euro 10
ISBN: 978-88-97374-57-2
(anno di pubblicazione: 2021)
Vydia Editore

Nato a Ferrara nel 1972, Giovanni Tuzet vive fra Aquileia (Udine) e Milano. Si è misurato con diversi generi e discipline, fra cui il contrabbasso jazz, credendo in una circolarità virtuosa.
Come poeta, oltre a testi sparsi, ha pubblicato: 365-primo (Liberty House 1999), 365-secondo (Liberty House 2000), 365-terzo (Raffaelli 2010), Logiche e mancine (Giuliano Ladolfi Editore 2017) e L’avversario (Vydia 2021).
In un friulano improbabile e ibridato ha scritto le Male lingue (Circolo culturale Menocchio 2009), mentre le Trazioni (Christophe Chomant Éditeur 2010) sono testi francesi di fine Ottocento e inizio Novecento (Apollinaire, Cendrars, ecc.) trasformati e collocati nel nostro tempo e spazio.
Come narratore ha pubblicato La città ideale (Marietti 2017), dove idee di vario ordine – filosofico, politico, giuridico – si innestano su tracce di viaggio, spunti di cronaca e brevi racconti.
Non sa cosa scriverà prossimamente ma, oltre a una sintesi poetica, vorrebbe compilare una raccolta di “Pensieri” à la Pascal o Leopardi. Sul mondo, sulla vita.

La grande bestia

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di Marco Peluso

 

Il professor Damiani continuava a tamburellare con la penna sulla cattedra, gli occhi fissi sul libro di Tacito, un lieve mormorio attorno a lui.

Quando il professore chiuse il libro la classe parve paralizzarsi. Il professor Damiani si lisciò la barba grigia, ingiallita dalla nicotina, la mano scarna sulla fronte rugosa, gli occhi persi in una visione lontana. Scosse il capo, come si fosse appena destato. Scrutò a uno a uno i suoi alunni: quello con la faccia da topo, il ragazzo con i dentoni da cavallo, quella a cui a inizio lezione faceva sempre sputare la gomma, il ripetente dal volto spigoloso: erano i ragazzi del quinto anno, da vent’anni il professore insegnava al Liceo Vittorio Emanuele.

A un tratto puntò il ripetente.

«Tu…»

«Lambiase, professore.»

«Sì, Lambiase. Dimmi cosa accade all’inizio del Libro Primo delle Storie di Tacito.»

Il ragazzo inarcò un sorrisetto arrogante.

«Beh, professore, succede che i tedeschi vogliono fare la pelle a Galba.»

Tutta la classe scoppiò a ridere, il professore picchiò il pugno sulla cattedra e li ammutolì.

«Silenzio!»

Si sistemò gli occhiali sul viso.

«Bene, signor…»

«Lambiase…»

«Grazie a te la classe intera domani mi porterà un bel riassunto delle prime cinquanta pagine del Libro Primo delle Storie di Tacito.»

Fra gli studenti un brusio di dissenso, subito frenato dallo sguardo severo del professore. Tutti conoscevano quello sguardo, alunni e docenti, e tutti ne avevano timore e rispetto, l’aria boriosa del professore Damiani gli aveva fatto guadagnare fra i professori il nomignolo di Adolf, fra gli studenti l’appellativo di Pezzo di merda.

Usciti gli alunni, il professore sistemò i libri nella cartella e si allontanò a sua volta dalla classe. Nel corridoio a malapena salutò qualche collega, le professoresse lo evitavano come la peste: dicevano che era un vecchio sadico, e anche se Damiani aveva cinquantadue anni, aveva davvero l’aria di un vecchio e lo sguardo di un sadico. Gli studenti vociferavano che la moglie, Dora, l’avesse piantato perché non gli si drizzava; i professori dicevano che quella bella donna aveva fatto bene a piantarlo, Damiani era solo un fissato che non pensava altro che allo studio, un vero maniaco.

Damiani affrontava questi pettegolezzi con non curanza, come tutto il resto.

Uscito da scuola, come prima cosa accese una sigaretta, incurante della tosse. Compì i soliti rituali: qualche affettato, il pane e due bottiglie di vino rosso in salumeria, il cruciverba dall’edicolante, uno sguardo truce al mendicante fuori a Palazzo Venezia.

Guardò la vetrina della libreria Ubik:

«Che porcherie» borbottò.

Poi si diresse al Bancomat.

La mano gli si paralizzò sul tastierino. Aggrottò le sopracciglia, gli occhi fissi sui numeri sotto le sue dita. A un tratto fu colto da un pesante senso d’angoscia, tutta la sua persona sembrava immersa in una bolla densa. Sbuffò e compose velocemente il codice del bancomat.

«Quei ragazzi mi faranno uscire pazzo» sbottò.

Entrò nel palazzo di fronte la Basilica di San Domenico Maggiore, dove aveva vissuto tutta la sua vita. Il portiere, un vecchio tozzo reputato dal professore un cafone sfaticato, lo salutò con garbo; Damiani a malapena alzò la mano. Come ogni giorno, alle tre e mezza precise, entrò in casa, sistemò la spesa sul tavolo di noce appartenuto a sua madre e prima ancora a sua nonna, indossò la vestaglia, mise su un disco di Chopin e raggiunse la libreria nel soggiorno.

Narrativa, poesia, filosofia: i libri erano catalogati per genere e autore; si infastidiva da morire se Dora li mischiava. Accese una sigaretta, passò a rassegna i libri uno per uno, la tosse gli mozzava il respiro, avvertiva una forte pressione all’interno della testa. Inforcò gli occhiali, stordito: non riusciva a mettere a fuoco i titoli dei libri. Prese Papà Goriot e, ancora tossendo, andò a sedersi sull’antica poltrona di suo padre. Riprese il libro da dove l’aveva lasciato, era la decima volta che lo leggeva.

Ah, se fossi ancora ricco e se, invece di darglieli, avessi conservato i miei averi, esse sarebbero qui a leccarmi le guance con i loro bacetti”.

A un tratto si bloccò. Lesse ancora la frase, poi tornò indietro di una pagina e lesse quanto accaduto prima.

«Sono proprio stanco» farfugliò, posando il libro sulle gambe e afferrando un bicchiere di vino.

Lo vuotò in un sorso e ne riempì subito un altro. Incrociò lo sguardo di Dora in una delle foto su di una mensola: le aveva lasciate lì nonostante sua moglie fosse andata via da sei anni, erano al posto in cui le aveva sistemate lei, Dora sembrava guardarlo con lo stesso disgusto di quando era in casa, in mano stringeva una borsetta nera, l’ultimo regalo che Damiani le aveva fatto.

Dimezzò il bicchiere e tornò alla lettura. Poi, come ogni giorno, lucidò l’argenteria di sua madre e diede un’occhiata alla collezione di francobolli appartenuta a suo padre.

Dopo cena, la bottiglia di vino quasi vuota, si mise a correggere i compiti degli alunni. La tosse continuava a martoriarlo, la cenere cadeva sui fogli. Concluse di correggere un tema, poi, nel momento di apporre il voto, la mano gli si paralizzò, la punta della biro ferma sul foglio. Rilesse il finale del tema, poi qualche riga nel mezzo, di nuovo l’inizio, e infine il nome dell’alunno: Lambiase.

Rimase interdetto per qualche istante, il mondo attorno a lui sembrava essersi fermato. Poi di colpo segnò in rosso Cinque sull’ultima pagina del tema.

«Fannullone!»

Finì il vino, gli occhi fissi sui fogli davanti a lui, la musica che echeggiava nella semioscurità spezzata appena da una lampada. Guardò una foto di Dora: lei sorrideva, Damiani non riusciva proprio a ricordare quando gliel’aveva scattata.

 

Il giorno dopo, a scuola, i ragazzi del quinto anno erano in tumulto, sapevano che quasi nessuno avrebbe soddisfatto le aspettative del professore. Damiani aveva i compiti degli alunni davanti a sé, sulla cattedra. Iniziò a chiamare gli alunni a uno a uno. I ragazzi si avvicinavano a testa bassa, ognuno andava via con il proprio tema in mano.

Lambiase, tornato a posto, sfogliò il compito e scoppiò a ridere.

«Prufesso’, ma questo è il tema di Giordano.»

La ragazza che ciancicava di continuo la gomma guardò annoiata Lambiase, poi i fogli davanti a lei.

«E a me ha dato quello suo.»

Il fragore delle risate parve picchiare contro le pareti. Il professore batté il pugno sulla cattedra con tale forza da far cadere il resto dei compiti.

«Zitti! Fate silenzio!»

Guardò ferino la ragazza che masticava la gomma.

«E sputa subito quella gomma. Capito…»

Le labbra gli tremarono, incapaci di articolare le parole. Giordano sputò la gomma in un fazzolettino:

«Mi pareva strano che non me lo avesse già detto.»

Ci furono altre risate, spezzate dalla voce tonante del professore. Rialzò i fogli da terra e sistemò gli occhiali sul viso.

«Bene, dopo, ognuno prenda il proprio compito. Adesso torniamo a Socrate.»

In prima fila, un ragazzo mingherlino e occhialuto, timido alzò la mano.

«E tu cosa vuoi?»

La classe rimase interdetta, quello che aveva alzato la mano, Pierpaolo De Carlo, era il coccolino del professore, Damiani mai gli si era rivolto così.

Il ragazzo, rosso in viso, con un filo di voce disse: «Ehm, veramente ci ha dato come compito un riassunto sulle Storie di Tacito.»

Ancora risate rimbombarono nell’aula, in fondo a essa la voce di Lambiase giunse fino al professore:

«Secondo me si è rincoglionito a furia di studiare.»

Brutale, Damiani si alzò e sbatté il registro sulla cattedra.

«Tu… tu…»

Gli occhi fissi su Lambiase, il dito raggrinzito che tremava, un filo di bava sul labbro contratto in una smorfia rabbiosa.

«Tu… fuori!»

Lambiase uscì dalla classe, tutti si ammutolirono, fissavano il professore ora non con terrore, ma incuriositi.

Al termine delle lezioni il professore corse spedito verso casa, in testa ancora le risate dei suoi alunni, un senso di impotenza lo invadeva. Si paralizzò davanti al portone del proprio palazzo. Il portiere, scopa in mano, gli sorrideva e lo salutava, ma a lui parve di vedere un mostro terrificante. Tornò sui propri passi, gli occhi febbrili, le mani che gli tremavano.

In salumeria tutti lo guardavano sconcertati, quell’uomo sempre calmo che entrava lì dentro pieno di sé, quasi contasse i propri passi, si muoveva confuso fra gli scaffali senza decidersi a prendere niente.

La voce di un salumiere da dietro al banco degli affettati lo fece trasalire.

«Prufesso’, i soliti centocinquanta grammi di cotto e duecento di Emmental?»

Damiani, cereo, gli occhi vitrei, fece cenno di sì all’uomo. Avanzò lento verso il bancone.

«Il vino paesano che prende lei sta là, ci ho fatto cambiare posto.»

Damiani non aggiunse nulla, prese il vino, i salumi, e uscì da lì con l’aria di un bambino impaurito. Aveva persino dimenticato di comprare il cruciverba, ma a casa si accorse che quello del giorno primo era intatto, nemmeno una casella segnata.

Senza smettere di tossire, la sigaretta penzolante di bocca, arraffò il cruciverba e una bottiglia di vino e raggiunse la camera da pranzo. Lasciò perdere i libri, i compiti degli alunni, scolò in un sorso un bicchiere e ne riempì subito un altro: gli occhi fissi sul cruciverba.

“Estremamente pallida; cinque lettere”.

Damiani scrisse subito la parola cerea, un beffardo sorriso gli rigò il viso.

“I concittadini di Vespasiano, sette lettere”.

Sicuro, Damiani, mosse la penna sul foglio, ma la mano gli si paralizzò. Cercava di fissare le caselle nelle pupille, la sua bocca si muoveva senza emettere un suono.

Vuotò il bicchiere di vino e si strinse la testa fra le mani.

 

Passò la notte a fare i cruciverba, la camera da pranzo era avvolta da una cappa di fumo, il tavolo era pieno di libri ed enciclopedie, ovunque erano appiccicati Post-it pieni di appunti, una bottiglia di vino vuota giaceva tra fogli appallottolati.

Il mattino seguente, Damiani, per la prima volta in vent’anni si assentò da scuola: si mise in malattia. Passò la giornata in pantofole e vestaglia a vagare in casa, negli occhi la fissità di un animale che punta una preda, il fragore della sua tosse soverchiava il suono della musica classica.

Tappezzò la casa di Post-it: nomi di imperatori rimembrati grazie a un’enciclopedia, e ancora nomi di fiumi, di città, di oggetti che aveva usato fino a un attimo prima.

Non uscì di casa per giorni, era il portiere a portargli cibo, vino e sigarette. Damiani apriva a malapena la porta. Dopo il terzo giorno ordinò al portiere di lasciare tutto fuori la porta. Il quinto giorno dimenticò persino di prendere la roba fuori la porta, non udì neppure il portiere bussare, era seduto sul letto, gli occhi fissi verso un punto indecifrato della stanza, la sigaretta consumata fra le dita.

Dopo dieci giorni, la casa era ridotta a un porcile, la sporcizia si accumulava sui mobili, decine di bottiglie sparse sul tavolo fra libri, cruciverba e appunti; i posaceneri straboccavano di mozziconi, pareti e armadi erano ricoperti da Post-it.

Damiani si aggirava pesante nella casa, una sigaretta sempre in bocca nonostante la tosse, il bicchiere di vino in mano, un perenne ronzio che gli trapanava il cranio. Leggeva il nome di un oggetto su di un Post-it, e subito andava a cercarlo in casa: ora una forchetta, una tazza, persino la sua biancheria.

Tornò a scuola dopo due settimane, i suoi alunni erano stupiti: fra gli studenti si era sparsa voce che il professore fosse impazzito. Aveva indossato il suo vestito migliore e sistemato la barba. Si sforzava di sorridere, ma non ne ricavava altro che un ghigno agghiacciante, come se con degli uncini gli stessero tirando la pelle del viso.

Aveva dimenticato che quello era il giorno della festa di pensionamento del vicepreside Torelli. I professori e il vicepreside stesso avevano posticipato i festeggiamenti fino al rientro di Damiani. Sembrava essere lui l’ospite d’onore più che il vecchio Torelli. Nella palestra, dove erano stati radunati tutti gli alunni della scuola, docenti e addetti alla segreteria gli stringevano la mano, gli chiedevano come si sentisse.

Damiani rispondeva a tutti con un sorriso, appena qualche parola: «Bene. Grazie. Gentilissimo.»

Sudava freddo, le gambe gli tremavano, evitava in ogni modo di chiamare per nome un professore o un alunno. La testa ovattata, quel dannato ronzio che non lo abbandonava, le dita e la lingua intorpidite.

In fondo alla palestra era stato allestito un palco, su di esso il preside, alto e benvestito, aveva tenuto un discorso sull’integerrima vocazione all’insegnamento del vicepreside. Damiani aveva applaudito insieme a tutti, sorrideva, si sforzava di ricordare il significato della parola integerrimo, o cosa fosse un docente.

A un tratto udì chiamare il proprio nome. Si guardò attorno spaesato, come se non ricordasse nemmeno chi fosse, un vortice di applausi lo circondava.

Un collega lo prese sotto al braccio.

«Su, avanti, vada. Vada» gli disse sorridendo.

Dal palco il preside gli faceva cenno di avvicinarsi, il vicepreside continuava ad applaudire.

Salito sul palco, Damiani era rosso in viso, la schiena imperlata di sudore. Faticò a stringere la mano al preside, professori e alunni continuavano a fissarlo.

«Tutti noi ci tenevamo che lei fosse presente al pensionamento del nostro caro vicepreside Torelli» disse gioviale il preside «A tale motivo, d’accordo con lo stesso vicepreside, abbiamo deciso di tardare la festa e il pensionamento fino al suo rientro, perché voleva essere proprio il nostro Torelli a darle la bellissima notizia.»

Ci furono ancora applausi. Gli alunni, annoiati, fissavano di nascosto gli smartphone.

Torelli, il sorriso stampato sul viso, si avvicinò a Damiani e gli strinse la mano. Damiani sorrideva a sua volta, non ricordava nemmeno il nome dell’uomo davanti a lui, né da quanto tempo lo conosceva. Scandì nella propria mentre il cognome Torelli, poi il termine vicepreside, ma gli sembrava che le parole fossero corpi che sprofondano in una pozza di sabbie mobili.

«Mio stimatissimo professor Damiani» pronunziò Torelli «È con gioia e un immenso onore che le cedo la direzione della vicepresidenza.»

Fragorosi applausi rintronarono nella sala. Persino gli alunni, costretti dai professori, applaudivano, mentre Damiani era immobile sul palco, accanto a lui il vicepreside e il preside che battevano le mani, i suoi occhi fissi su centinaia di volti che sembravano deformarsi e mischiarsi in un’unica poltiglia di carne.

Cercò di mantenere il sorriso, il ronzio nella sua testa soverchiava applausi e voci.

Il preside si avvicinò a lui e gli porse un calice di champagne.

«Una meritatissima promozione, caro professor Damiani.»

Damiani, gli occhi fissi sul preside, afferrò il bicchiere, ma le dita strinsero solo l’aria.

Il calice precipitò ai suoi piedi. Gli applausi cessarono di colpo. Adesso solo gli alunni ridevano.

Damiani, la testa leggera, il corpo assente, scrutò la folla sotto al palco senza vedere altro che ombre. Udì a malapena la voce del preside accanto a lui: «Si sente bene?»; neppure avvertì la mano dell’uomo sulla sua spalla, ma solo qualcosa di caldo e appiccicoso che gli colò dal naso, fin sulle labbra. L’ultima cosa che udì con chiarezza fu il tonfo del proprio corpo precipitato al suolo, poi solo un brusio confuso di voci, nessuna parola distinta, a malapena versi, e ovunque buio.

 

Damiani aprì di sbotto gli occhi, una luce bianchissima lo accecò, attorno a lui un fastidioso ticchettio metallico. Quel suono gli sembrava di averlo udito per anni, non ricordava altro. Provò a muoversi, ma le membra erano irrigidite, avvertiva solo la stoffa di un lenzuolo su di lui.

La luce lentamente si dissipò, ora vedeva un armadietto di ferro, mura bianche, la luce del sole che filtrava da una finestra. Si sentiva in un mondo alieno, spaventoso: un bambino appena venuto al mondo.

Poi a un tratto udì dei passi, dapprima lenti, poi veloci, e subito una mano sul suo braccio.

«Stia calmo e non si muova, vado a chiamare il dottore.»

Era una voce di donna, gli sembrava di averla già udita, ma chiunque fosse era sparita.

A fatica cercò di tirarsi su, senza riuscirci. Alla sua sinistra vide un macchinario, da un monitor si muovevano delle linee verdi, seguite da quel dannato ticchettio che gli impediva di pensare. Alla sua destra, su di un letto, era coricato un vecchio: gli occhi chiusi, il lenzuolo fino al mento, tubi che gli entravano in bocca e nelle narici. Provò di nuovo ad alzarsi, ma dei passi lo fermarono, poi una mano forte sul petto: odorava di disinfettante.

«Resti steso.»

Il dottore, così l’aveva chiamato l’infermiera, chiamata a sua volta così dal dottore, gli aveva chiesto se ricordasse il proprio nome: «Arturo Damiani», così l’aveva chiamato, ma il professore non ricordava quel nome, non ricordava nemmeno cosa fosse un professore. Non aveva detto nulla, nemmeno una parola, seguiva i movimenti della bocca del dottore e faceva appena qualche cenno con la testa.

Poco dopo, dottore e infermiera andarono via.

Era venuto un uomo vestito di bianco a togliergli un ago dal braccio: Damiani aveva strillato come un bambino.

Qualche istante dopo era tornata l’infermiera.

«Vedrà, non le farò male.»

Ci vollero tre portantini per trattenerlo mentre l’infermiera gli fece l’iniezione. Un attimo dopo Damiani avvertì il proprio corpo sempre più leggero, fino a non sentirlo più.

Quando si svegliò il sole stava tramontando, aveva nuovamente un ago nel braccio, il vecchio nel letto accanto al suo dormiva ancora, alla sua sinistra sedeva una donna dal volto chino, lo sguardo duro.

Appena la donna si accorse che Damiani si era svegliato si alzò.

«Mi hanno chiamata perché non hanno trovato nessun altro.

«Mi senti?»

La donna, seccata, corse fuori la stanza, seguita dallo sguardo confuso di Damiani. Tornò dopo qualche minuto insieme al dottore: a Damiani sembrava di aver già visto quell’uomo, ma non ricordava dove.

«Abbiamo chiamato la sua ex moglie. Sembra lei non abbia altri parenti.»

Damiani, gli occhi bovini, fissò Dora ferma davanti a lui: i capelli rossicci raccolti, gli occhi color ghiaccio, il corpo minuto. Le sue pupille si fissarono sulla borsetta nera che Dora stringeva fra le mani. Spalancò la bocca, sembrava volesse urlare, ma non emise altro che versi inarticolati.

Il dottore rivolse lo sguardo alla borsa mantenuta da Dora, poi guardò Damiani, e ancora Dora.

«È questa?» chiese a Damiani indicando la borsetta «Si ricorda della borsa della sua ex moglie?»

Damiani, gli occhi gonfi di terrore, continuava a fissare la borsa puntandola con il dito, la bocca ancora spalancata, le labbra tremule:

«Bo… boga, chex ogle…»

Precipitò sul letto, come stremato. Il dottore prese Dora sotto al braccio.

«Ha dei ricordi, solo reminiscenze di cose, persone, nomi.»

«Sta dicendo che è un vegetale?»

Da sotto al lenzuolo, ridotta a un lamento, giunse loro la voce di Damiani:

«Ghe… ghebetalue…»

Il dottore tirò via la donna.

«Venga, andiamo fuori.»

 

L’ultima volta che Damiani aveva sentito la voce di Dora era stato il giorno seguente al suo risveglio, dopo Dora non si era fatta più viva. Le uniche parole di quella donna che Damiani ricordava erano Era già insopportabile prima, Assolutamente no, Ormai è una larva.

Mentre le infermiere lo aiutavano a mangiare, più volte aveva riso ripetendo la parola larva:

«Arva! Arva!»

Erano venuti a trovarlo il preside e gli insegnanti della sua scuola, ma lui non era riuscito a riconoscere nessuno di loro; ogni tanto appena una parola: «Ghighepredide. Gacito. Muoni a dulla.»

Erano riusciti a portargli persino i suoi alunni. Lambiase era stato allontanato perché nel vederlo aveva iniziato a ridere:

«Sembra un deficiente!»

«Deghighiente…»

Dopo una settimana, non venne più nessuno a trovarlo, la settimana dopo fu dimesso: Dora gli aveva trovato una domestica polacca, pagata con la pensione di Damiani e l’invalidità.

A casa, Damiani, era sempre seduto sulla poltrona appartenuta a suo padre. Non fumava più, nemmeno sospettava dell’esistenza delle sigarette, così come del vino. I libri nella libreria erano coperti di polvere, quelli antichi erano stati venduti dalla domestica. La domestica gli dava a stento da mangiare, lo lasciava sempre solo, passava ore al telefono; ogni tanto Damiani vedeva il portiere entrare: prima di chiudersi in camera con la domestica dava un buffetto al professore e sorrideva:

«Che c’è, prufesso’, mo’ non mi tratti più come la monnezza?»

«Bodezza…»

Dora non venne nemmeno una volta a trovarlo. Nessuno metteva mai piede in quella casa, se non la domestica e gli uomini che si portava lì dentro. L’argenteria di sua madre svanì, così la collezione di francobolli di suo padre. In breve, persino tutti i libri sparirono. Damiani non sapeva neppure più cosa fosse un libro. Restava seduto a fissare il vuoto, ogni tanto un verso, poi un pianto furioso, come se qualcosa gli entrasse nella mente, scivolasse fino al cuore, senza che lui potesse afferrarla.

E di colpo tornava immobile, le pupille smarrite, la bocca aperta, la bava che gli colava sul mento.

 

Morì dopo sette anni, senza mai essersi alzato da quella sedia. Al funerale c’erano Dora, i suoi ex colleghi e gli alunni di un tempo. Sulla lapide c’era scritto: Marito devoto e professore esemplare.

 

Al mondo l’otto percento li ha blu. La maggior parte li ha marroni

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di Paola Zanini

Mia madre è morta e io mi sono dimenticata di chiedere chi le ha chiuso gli occhi. Ci penso ora, a un anno di distanza, quasi vorrei chiamare l’ospedale, fare un’indagine, risalire all’infermiere di quella notte. Sarà possibile? Chiamo il centralino, per favore mi passi il reparto di medicina, chiedo alla caposala di ricordare chi c’era l’anno scorso in turno, il 20 giugno, a mezzanotte. Si ricorderà? C’era lei (tanto sono sempre tutte donne) o qualcun altro? Mi passi chi c’era l’anno scorso, è urgente, i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. O è stato il medico che giorni prima l’aveva visitata? Il medico o l’infermiere non fa nessuna differenza, voglio sapere chi li ha chiusi. Si può sapere? Me lo ha insegnato Joan Didion che i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. E lo ripeto: lasciarli andare. L’ha scritto nel suo capolavoro L’anno del pensiero magico, tutti lo considerano un capolavoro. E in effetti lo è. Sento una certa urgenza. È passato un anno, e solo ora mi sono ricordata di chiederlo. Come faccio? Qualcuno può dirmelo? Chiamo il centralino. Nessuno risponde, come al solito. Rintraccio il medico, forse ho ancora il suo numero. L’ultimo suo messaggio whatsapp diceva: stai tranquilla… gli anziani sono forti. Verrà la morte e avrà i miei occhi e dentro ci troverà i tuoi recita Michele Mari in Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Perché mi viene in mente oggi, solo oggi? Cosa ci avrà trovato chi li ha chiusi? C’erano i miei? O solo il suo silenzio? Come faccio a saperlo? Qualcuno mi aiuti. Avrei dovuto essere pronta, chiederlo subito, ma chi è mai pronto? Però non piango, i morti sanno quello che fanno. Sono io infatti che non lo so, lo chiedo adesso. Posso chiederlo? È troppo tardi? Forse anche il suo silenzio era pieno di me. Ma gli occhi. Io voglio sapere degli occhi. Chi li ha chiusi. E cosa ha visto. Stupore? Disperazione? Pace? Espiazione? Erano asciutti, o stava piangendo? Magari ha trovato anche una lacrima, e io non lo so. Me l’avrebbe detto, no? Stava piangendo. Abbiamo asciugato noi le lacrime. Ci dispiace, voleva farlo lei? Lei, chi? La figlia? Sorpresa? Ansia? Tranquillità? Bellezza? Cosa succede appena prima di morire? Cosa c’era scritto sul suo viso? Ha visto tenerezza chi li ha chiusi? Serenità? Responsabilità? O li ha chiusi e basta. E non ha osservato niente. Chiamiamo i figli, ha detto. Ha detto chi? L’infermiere o il dottore? Forse c’era un’oss. Ecco forse li ha chiusi lei (tanto sono sempre tutte donne), sì un aiuto infermiere, donna. Chiamo il centralino, per favore mi passi il reparto di medicina, chiedo alla caposala di ricordare chi c’era l’anno scorso in turno, il 20 giugno, a mezzanotte. Si ricorderà? C’era lei (tanto sono sempre tutte donne) o qualcun altro? Mi passi chi c’era l’anno scorso, è urgente, i morti a un certo punto bisogna lasciarli andare. È stato il medico, l’infermiere o l’oss? Chi è stato dei tre? Chiamo il centralino. Nessuno risponde, come al solito. Forse è stato un sostituto e nessuno dei tre (l’infermiere, il dottore e l’oss che la conoscevano ormai da giorni), ma uno che era salito in turno proprio quella sera. A mezzanotte. Da mezzanotte alle otto. I turni sono di otto ore. Non l’aveva mai vista, li ha chiusi lui, il sostituto di tutti. L’equivalente del supplente, a scuola. Oggi il professor Martini è assente, dobbiamo trovare chi lo sostituisce. Uno a chiamata, uno che non conosce nessuno, e deve imparare. Comincia il lavoro, a mezzanotte, e chiude gli occhi a una morta. Non il professore, il sostituto. Gli occhi sono delicati e complessi. Trovano tesori. Evitano pericoli. Colgono i dettagli, le sfumature dei colori (7 milioni di variazioni), le espressioni del viso. Sono 43 i muscoli sotto al viso che esprimono la gamma delle emozioni. Ma basta un’occhiata per cogliere l’anima. Anche se l’anima resta invisibile. Come i pensieri. Chissà se loro avranno dato un’occhiata oppure osservato per bene? Prima di chiuderli intendo. Ma chi? L’infermiere, il dottore, l’oss o il sostituto? Qualcuno dei quattro sarà stato. Non c’è più nessuno che lavora in reparto. Chi fa le pulizie, ma no, a quell’ora, a mezzanotte non pulisce. Comincia alle otto. I turni sono di otto ore e di notte non si toglie la polvere. Di notte c’è buio. Oppure lei (mia madre è morta), lo sentiva che stava per sopraggiungere, e li ha chiusi da sola. Sentiva che erano spalancati, l’illusione dell’ultimo respiro li faceva muovere, e lei da sola li ha chiusi. La vista inganna, a volte. Si è portata lentamente il braccio vicino alla testa, ci ha messo un po’ per farlo (stimerei da uno a tre minuti) perché il respiro era rallentato, quando è stata vicina ha passato la forza rimasta alla mano, ha toccato le palpebre dei suoi begli occhi blu (al mondo l’otto per cento li ha blu; la maggior parte li ha marroni), ha detto li chiudo. Così non li deve chiudere nessuno per me. Faccio da sola. Ci vuole pudore. A chiuderli. Intimità. Discrezione. Il passaggio è delicato e sottile.

E tu, essere umano, ti sei mai chiesto cosa vale la pena vedere con gli occhi? Io ho fatto un elenco. Amo le liste. Questa l’ho chiamata Cose che nella vita vale la pena vedere. Ma non l’ho pubblicata. Forse ci posso fare un libro, ho pensato. Come Joan Didion e Michele Mari. Lo intitolo proprio così: Cose che nella vita vale la pena vedere. Poi aggiungo il sottotitolo: Occhi (anche per morire). Autrice: Paola Zanini Berni (metto vicino al mio il suo cognome, di mia madre intendo, per vedere che effetto fa). E in esergo, al posto di una citazione, scrivo così: l’alba, il tramonto, un neonato, i cartoni animati, la luce, le nuvole, il mio riflesso nello specchio, la morte di mia madre… comincio in questo modo, poi tu essere umano lettore che hai preso in mano questo libro, pubblicato e non ancora finito, continui la mia lista e quando hai scritto quelle cose che a te sembrano essenziali, lo passi a qualcuno che vuole scrivere la sua, e facciamo una catena. E il libro lo scriviamo tutti insieme. Facciamo un elenco ordinatissimo. E poi vicino scriviamo i nomi di ciascuno. Perché nella vita ci sono cose che vale la pena vedere, come il mondo vissuto dagli umani. Vale la pena vederli anche quando muoiono gli umani. O appena dopo essere morti. Non fanno paura. A guardarli.

Flavio Ermini: “dalla parte dell’ombra”

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Anterem ha recentemente pubblicato Perché la poesia. L’esperienza poetica del pensiero di Flavio Ermini. Come scrive Daniele Maria Pegorari: «La rilettura degli editoriali degli ultimi ventinove numeri di “Anterem”, stesi fra il 2006 e il 2020, qui ben introdotti da Marco Ercolani – che opportunamente ricorda la precedente analoga raccolta dei ventuno editoriali scritti fra il 1995 e il 2005 –, ci documenta la continuità e l’invidiabile coerenza del discorso poeticofilosofico di Flavio Ermini e della rivista che egli ha condotto per una così lunga stagione.»

Ospito qui un estratto dal libro, per gentile concessione degli editori.

 

DIRE LA VITA

 

[…] l’incessante apertura dell’apparire […]

Pascal Gabellone

 

Nella poesia interminabilmente viene alla vista il non-veduto della vita. Per altro verso: la parola poetica è esposta a un “fuori” invisibile, e quel “fuori” mette l’opera alla prova del mondo. Ma come accade?

Scrive Pascal Gabellone: «La possibilità della poesia poggia sulla certezza sensibile che il mondo, prima di essere semplicemente “ciò che è apparso”, la cosa nel suo riposo, il visibile dato come tale, sia l’incessante apertura dell’apparire che, nell’apparso, resta sepolto, invisibile, eppure reale; meglio, il reale stesso».

Vediamo benissimo i limiti della poesia quando è priva di un richiamo alla presenza, ovvero fine a se stessa e separata dal pensiero. Per questo crediamo, con Max Loreau, che si debba «cercare una scrittura che non sia affatto un fine in sé = che non sia per l’esattezza “letteraria” o “estetica”».

Tale decisione richiede di meditare ulteriormente sull’essenza della parola poetica e sul suo destino.

Il cercare persiste nel domandare, e lo fa proprio perché si trova in fondamentale rapporto con ciò che nella vita si rifiuta a ogni inchiesta e si sottrae alla risposta, in una finitudine senza fine. È quanto fa “Anterem”, che in ogni numero si costituisce come opera che torce lo sguardo sempre verso un nuovo inizio, là dove ogni volta – con una domanda – tutto comincia.

Leggiamo cosa dice Heidegger: «Il nostro scopo è il cercare stesso. Che cos’altro è il cercare se non il più persistente essere-vicino a qualcosa che si nasconde, qualche cosa a partire dalla quale proviene ogni bisogno e si accende ogni esultanza? Il cercare stesso è lo scopo e, nel contempo, il ritrovamento».

Ecco perché il dire del poeta è un pre-dire che reca l’annuncio di ciò che viene nel suo carattere di evento che è sempre a venire.

In questo senso siamo autorizzati a parlare qui di ricerca della verità: trovare nomi nuovi per ridefinire il permanere della parola nell’orizzonte della domanda, facendo emergere le prospettive che essa dischiude; lasciando risuonare l’inespresso, custodendolo e serbandolo come inviolabile segreto, irriducibile alla rappresentazione.

«Il problema» scrive Schelling «non è se e come esista realmente fuori di noi quell’insieme di fenomeni e di cause e di effetti che chiamiamo vita della natura, ma come esso divenga reale per noi, come quel sistema e quell’insieme di fenomeni abbiano trovato la via per giungere al nostro spirito […]»

Si tratta insomma di capire come la poesia possa ancora salvare il gesto della prossimità all’animale, al silenzio, al fiorire della physis, e nella nominazione renderlo intellegibile.

Intanto va detto: che ci sia poesia testimonia che c’è desiderio di relazione con ciò che è a venire.

Stando dalla parte di ciò che si offre come ignoto – dalla parte dell’ombra – la poesia testimonia che la vita non coincide con ciò che è.

Nemmeno l’origine è più vista soltanto come fondamento, ma anche come ritrarsi, come rimosso. Da qui la persuasione dell’essere agiti e dominati da un Altro che è fuori di noi.

Il discorso  – ciò che appare ben definito e formato – è il muro che comunemente si erige contro i pericoli che nascondono il thauma dell’origine e l’Altro che, in costante metamorfosi, lo abita.

È questo particolare pensiero arrischiante che prende forma di poesia. Il poeta, annota Keats, guarda nella nebbia e «lascia imperturbato che la bellezza passi come un rivo sotto la sua soglia».

L’opera si manifesta con un movimento di insurrezione che, lasciandosi alle spalle il discorso diurno, punta a una regione notturna, verso un rischio ulteriore.

Dire il non-veduto della vita, dopo che la lingua si è liberata dalla sua funzione rappresentativa, significa dire la “nebbia”: allearsi con la parola accanita che vuol parlare con la pietra.

Sorgere è quell’erompere dall’inapparente per il quale la physis appare, diviene manifesta, senza tuttavia che il celato da cui proviene possa mai compiutamente mostrarsi.

L’esercizio della nominazione, in questo particolare processo di svelamento, richiede che ci si interni nel profondo del cogito: nella parola che l’ha pensato.

Solo così il lavoro poetico – questa attività sottostante al pensiero esplicito – potrà riflettere l’Altro da sé. Quell’Altro da sé che è il suo più proprio se stesso.

Ecco perché l’opera non è affatto un luogo sicuro, saldo, fidato, ma è tale da contenere in sé l’estremo pericolo: il non che si lega alla parola: il suo opposto, che la salva.

Di queste originarie “forme di vita”, nella consapevolezza della centralità di un’aporia, siamo chiamati a fare esperienza: come giungere a conoscere e comprendere ciò che nella sua essenza appare ogni volta in modo diverso?

L’Occidente da smontare. Note a margine di un articolo politico di Carlo Rovelli

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di Andrea Inglese

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Mi è stato segnalato dall’amico indiano Antonio Sparzani questo testo di Carlo Rovelli che pare abbia circolato molto in rete. Ad una prima lettura è un testo condivisibile, almeno nella sua affermazione centrale: l’Occidente quando denuncia il non rispetto del diritto internazionale, la violenza indiscriminata della Russia, e l’imperialismo dei suoi dirigenti è ipocrita, in quanto non riconosce che quelli che condanna sono crimini che lui stesso ha commesso in passato più e più volte. Ma forse non è nemmeno la condanna dei crimini in quanto crimini, che espone l’Occidente all’accusa di ipocrisia. Che sia Madre Teresa o Al Capone a condannare un crimine a cui hanno assistito per strada, non cambia la natura dell’atto criminoso di cui sono testimoni. Non è quindi un caso che uno dei più infaticabili critici dell’ipocrisia occidentale – leggi: dei governi statunitensi –, Noam Chomsky non abbia certo esitato a condannare l’invasione russa in Ucraina, senza fornire ad essa attenuanti che ne avrebbero sminuito il carattere criminale. Cito da un’intervista all’autore apparsa il 1 marzo sul sito Truthout e poi circolata in rete anche in versione italiana (qui): “Prima di rispondere alla domanda, dobbiamo stabilire alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra paragonabile all’invasione statunitense dell’Iraq e all’invasione Hitler-Stalin della Polonia nel settembre 1939, per fare solo due esempi rilevanti. È ragionevole cercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.”

Quindi non è forse la condanna dell’invasione russa a costituire un’ipocrisia in sé, ma il fatto di porsi come i campioni mondiali della legalità e della libertà dei popoli. Rovelli scrive: “D’un tratto, l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori, il baluardo della libertà, il protettore dei popoli deboli, il garante della legalità, il guardiano della sacralità della vita umana, l’unica speranza per un mondo di pace e giustizia”. Il problema è che, secondo Rovelli, non ci si limita a condannare la politica della Russia, in quanto chi formula la condanna si attribuisce simultaneamente delle virtù, delle qualità, delle prerogative etiche e politiche. Se chi denuncia il crimine, in effetti, è il governo degli Stati Uniti, esso non può darsi anche il ruolo di poliziotto e giudice, ossia porsi al di sopra dei soggetti collettivi che possono sbagliare e quindi incorrere in condanna. Non ha nessuna storia politica né fisionomia morale per porsi al di sopra degli altri popoli, o semplicemente per attirare l’attenzione su di sé e sulle sue presunte virtù in fatto di politica internazionale. Lo sappiamo tutti molto bene. Almeno, quella componente non piccola delle popolazioni statunitensi e europee che hanno manifestato contro le due guerre in Iraq lo sa bene, perché lo ha tempestivamente detto, scritto e gridato nelle piazze. E qui però, rispetto al testo di Rovelli, incontriamo una prima difficoltà. Chi è l’ipocrita in questa faccenda occidentale? Il problema è che il termine usato nel suo testo di denuncia non ci aiuta granché da questo punto di vista. Rovelli scrive: “l’Occidente, tutti insieme in coro, ha cominciato a cantarsi come il detentore dei valori…” Ci sarebbe quindi una sorta di unanimità (“tutti insieme”) che tale soggetto esibirebbe nell’autolodarsi. Immagino che quel termine con la maiuscola stia per un soggetto collettivo, come quando gli scolari scrivono: l’Uomo, per intendere la specie umana, che nella sua dispersione spaziale e temporale mantiene comunque le stesse caratteristiche. Bisognerebbe subito capire quali sono però i confini almeno geografici e storici di questo fantomatico soggetto collettivo, che oggi sembra d’un tratto unanime. Ed è poi così unanime? Chi sono insomma quelli che Rovelli indica come i “tutti insieme”. Ci son dentro canadesi, finlandesi, svizzeri, australiani? E da quando esiste questa entità che include una pluralità di popoli? Si tratta dei canadesi, finlandesi, ecc., di questa generazione? Insomma da quando inizia la storia di questo Occidente? E consideriamo pure che nel “coro” occidentale ci siano almeno gli statunitensi, ma quali? Quelli che hanno votato per il presidente che oggi “parla”, e ovviamente fa sentire la sua voce nel coro, o anche quelli che hanno votato per l’uscente Trump? Tutti i cittadini americani all’unisono rivendicano l’immagine della propria nazione, come l’esempio stesso dell’immacolata e democratica politica estera (e interna)? Questo credo non possiamo dirlo neppure degli elettori di Biden. E che dire dei non elettori, di tutti quelli che non hanno votato né l’uno né l’altro candidato. Come si situano gli astensionisti delle odierne democrazie nel “coro”? Penso poi a tutti i lettori statunitensi di Noam Chomsky, che probabilmente condannano oggi la Russia, senza assolvere i crimini commessi dal loro paese nel corso delle guerre contro l’Iraq. Non sono essi stessi occidentali, come tutti quegli europei che hanno, dal secolo scorso, condannato e contestato l’imperialismo statunitense, e spesso gli imperialismi in quanto tali, anche quelli che non venivano esercitati per forza dal paese in cui vivevano? Credo che, per paradossale che sia, i dipartimenti delle università nordamericane ed europee (ammesso che l’Occidente si fermi qui) hanno prodotto una ricca letteratura che analizza, documenta e denuncia non solo le malefatte dell’imperialismo statunitense e dei suoi sodali, ma anche l’ipocrisia che lo accompagna come discorso legittimante. Forse allora la categoria di “Occidente” non è davvero utile per parlare di questa guerra, e delle posizioni che certi governi prendono, e che sono diffuse e difese da una cerchia abbastanza ristretta di persone. Rovelli, in effetti, arriva a nominarle tali persone: sono esse a costituire il coro, e a renderlo unanime. Sono semplicemente i giornalisti (Rovelli: il coro ripetuto da “ogni articolo di giornale, ogni commentatore televisivo, ogni editoriale”.) Innanzitutto, leggendo la stampa e guardando la televisione, si scopre che il coro non è così unanime, a tal punto che (in Italia) si è creata, su certi media, una sorta di caccia ai commentatori non allineati, subito definiti come “filo-putiniani”. E poi se il contenitore è ancora l’Occidente, dobbiamo includervi, di ogni paese, la stampa più filogovernativa, ma anche tutta quella indipendente, che in Europa e negli Stati Uniti esiste ed è viva, per non parlare poi del giornalismo più o meno militante in rete, ecc.

Sorge, allora, il dubbio che la categoria di “Occidente” sia in realtà una delle prelibatezze concettuali proprie della stampa più allineata, che ama le semplificazioni scolastiche e pedagogiche, tipiche dei sostantivi maiuscolati. Forse un modo per criticare e denunciare questa propaganda può cominciare proprio col decostruire tali fantasmagorie vaghe, in cui ognuno può mettervi (o togliervi) quel che gli aggrada. Una delle poche cose che i miei studi umanistici mi hanno permesso di capire, è che non esistono entità storico-politiche, né culturali, in forma di monoblocco, di sostanza unanime e omogenea, se non nelle forme più grossolane di mistificazione ideologica.

Siamo ancora freschi di terrorismo islamista, attivo e letale sul territorio europeo, e abbiamo dovuto constatare che gli islamisti armati sul suolo francese erano in buona parte di nazionalità francese o belga, così come quelli che sono andati a infoltire in Siria o Iraq le truppe dello Stato Islamico “anti-occidentale”. La verità è che ogni singolo Stato nazionale è attraversato da molteplici conflitti, e che un conflitto fondamentale è quello che oppone governati e governanti, ma anche opinionisti di mass-media e studiosi universitari, anche se una minoranza di questi possono svolgere anche ruoli sulla stampa o in televisione. Non ha molto senso, quindi, prendere a bersaglio quelle rappresentazioni caricaturali, che una certa stampa o tv, e certi esperti da palco, hanno eretto per scopi autocelebrativi. Sicuramente possiamo parlare di “Occidente”, ma a patto di aver sufficientemente definito in modo preventivo a quale realtà ci riferiamo, tentando di evidenziarne i tratti principali su un piano storico-politico o storico-antropologico. Se il soggetto a cui Rovelli si riferisce è rappresentato dalla ristretta popolazione dei giornalisti filogovernativi dei paesi del G7, inclusi gli altri Stati della UE, allora tanto vale che si parli di “stampa occidentale filogovernativa”.

 

Il discorso che faccio non ha come scopo di fare le pulci al testo di Carlo Rovelli, che nel suo intento polemico, e nei suoi presupposti morali, è ben condivisibile. Il problema riguarda il modo in cui ognuno di noi si posizionerà in questa fase storica, sia rispetto al futuro che auspica ma anche rispetto all’eredità che accetterà di salvaguardare e di potenziare. Il declino dell’unilateralismo a guida statunitense apre una fase incerta che, prima di sfociare in un possibile multilateralismo pacifico, rischia di essere risucchiata in un incontrollabile ciclo di caos e guerre. Questa faccenda non può essere percepita solo come un problema d’ordine geo-politico, in cui tutto si fa o disfa con dosi più o meno ragionevoli di diplomazia o forza bruta. Questa fase annuncia o, sarebbe meglio dire, manifesta già un disorientamento sul piano culturale delle identità collettive e individuali delle persone. Di fronte a tale “disordine fuori di sé” (nell’economia, nella produzione, nella società, nel rapporto tra le nazioni, ecc.), la peggior cosa che si può fare è quella di affidarsi a uno “pseudo-ordine dentro di sé”, ossia all’edificazione di identità semplici, mistificanti, nel loro apparente e facile splendore. Questo è purtroppo ciò verso cui indirizza la cultura di destra (Furio Jesi insegna). Ma, a sinistra, il semplice rovesciamento degli emblemi non è sufficiente, e soprattutto non fornisce strumenti per il futuro. Esiste un mito dell’Occidente, ma lo si può combattere solo decostruendolo, mostrando che esso nasconde realtà plurali e contraddittorie, ed è dal confronto con questa complessità che si opera la scelta di accogliere e rigettare. Ognuno di noi è sollecitato a fare chiarezza sulla propria identità, e il tirarsi fuori dalla propria storia dicendo semplicemente “non sono occidentale” o sono “anti-occidentale” non ha granché senso. Ne ha invece precisare quello, ad esempio, che io voglio conservare e potenziare dell’eredità che mi è stata trasmessa, come cittadino italiano, che vive in Europa, e che ha assorbito, nel bene e nel male, l’egemonia culturale statunitense. E, similmente, è importante rigettare quegli aspetti della mia cultura e storia italiana, europea e nordamericana che mi hanno condizionato, ma da cui mi voglio emancipare, in quanto non voglio riconoscermi (più) in essi. E questo fenomeno si accompagna con la curiosità anche per ciò che viene da altri paesi, popoli e culture, sapendo che tutto ciò passa, però, attraverso una pluralità di mediazioni (traduttori, giornalisti e studiosi, scrittori e artisti, censura politica, ecc.).

Questo discorso ovviamente non riguarda solo “noi” (cittadini del G7 o della UE), ma anche i cittadini russi, quelli cinesi, quelli del continente africano, molti dei quali – con scandalo dei nostri opinionisti – vedono in Putin un baluardo contro l’arroganza dei vecchi e nuovi colonialisti “occidentali”. E parlando dei cittadini russi, che cosa vogliono conservare essi della loro storia? La potenza dell’antico impero zarista, nel colonizzare le popolazioni interne o prossime ai suoi confini? La macchina burocratica poliziesca e repressiva, che il partito bolscevico cominciò a mettere in piedi negli anni Venti e che Stalin portò a un grado estremo di efficacia? Oppure si rivolgeranno alla straordinaria e brevissima esperienza della democrazia consiliare (“tutto il potere ai Soviet”)? O ancora a quella forma d’internazionalismo, che malgrado tutto l’Unione Sovietica manteneva in piedi, per contrastare nel mondo l’egemonia militare ed economica statunitense?

Infine, una notazione puntuale. Carlo Rovelli, ad un tratto, scrive: “Eppure i nostri giornalisti surrealisti riescono ribaltare la realtà fino a parlare della logica imperiale di Russia e Cina!” Ora non voglio toccare qui la questione cinese, sia per limiti di conoscenza sia per la sua complessità. Ma qualcosa si può dire sull’imperialismo russo. Innanzitutto, prima che gli Stati Uniti sognassero di divenire l’incontrastata potenza del mondo (sogno che dura soltanto da un trentennio, ed è vieppiù tormentato), essi dovettero dividersi il podio con l’altra superpotenza del pianeta, ossia l’ex Unione Sovietica. Quest’ultima, poi, presa come entità transpolitica, ossia al di là delle specifiche caratteristiche dei suoi regimi politici, ha una storia d’imperialismo ben più antica di quella statunitense, storia che alcuni studiosi fanno risalire al XIII secolo. Ovviamente vi sono imperialismi e imperialismi, quello del Granducato di Mosca non è del tutto simile a quello che Trockij denunciava nella politica staliniana fin dagli anni Venti. E non sorprende il fatto che sia proprio uno dei più importanti e dei primi storici marxisti, Mikhail Pokrovski, ad occuparsi del passato imperialista della propria nazione, nel momento stesso in cui essa sembrava rigettare questo passato. Ironia amara della storia, Pokrovski morì precocemente all’inizio degli anni Trenta, dopo essere però caduto in disgrazia presso Stalin, che considerò il suo lavoro come “anti-marxista”. Quanto all’imperialismo specifico dell’Unione Sovietica, esso fu denunciato molto presto dagli stessi rivoluzionari (e non solo da Trockij), che ovviamente furono marginalizzati o perseguitati dal potere staliniano. Una piccola rassegna di fonti sugli studi dell’imperialismo russo, della sua specificità (un imperialismo “interno”) e delle sue metamorfosi storiche la si può trovare in un articolo apparso per Le monde diplomatique, nell’edizione polacca, e oggi disponibile in rete sul blog del sito Mediapart: Impérialisme russe | Le Club (mediapart.fr).

Da “Curriculum vitae. Poesie 1960-1968”

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La collana Biblioteca di poesia, diretta da Massimo Rizzante per l’editore Metauro, è dedicata a rendere accessibili in Italia alcune delle maggiori voci della poesia internazionale ed europea in particolare. In questi anni sono uscite prime antologie di autori inediti in volume, quali il ceco Jan Skácel, il brasiliano Haroldo de Campos, il polacco Tadeusz Różewicz, lo spagnolo Jan José Ángel Valente, il francese Jean-Jacques Viton. Dal mese scorso, è disponibile l’antologia del poeta catalano Gabriel Ferrater, curata da di Pietro U. Dini. Ne presentiamo qui alcuni testi.

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di Gabriel Ferrater

Traduzione di Pietro U. Dini

ATTRAVERSO I TEMPERAMENTI

Alcuni pini troppo sensibili si contorcono

lasciando intendere come si sentano patetici

mentre compiono questo dovere lirico

di esprimere il vento, che pure giunge limpido.

Le radici scricchiolano sorde, e i rami

esultano di dolore per proclamare

che è grave che soffi lo spirito. Il vento,

quando esce dal bosco, è tutto marcio di lamenti.

*

FINE DEL MONDO

Posso ripetere la frase che s’è portata via

il tuo ricordo. Non so più nulla di te.

Questa insistente acqua di parole,

sempre crescente, va sgretolando i margini

della vita che credetti reale.

La terra pietrosa e faticosa

per il camminare, e gli alberi che mi ferivano

gli occhi con un ramo delicato,

tanto vivacemente maligno e convincente

grazie alla prova migliore, quella delle lacrime,

pare non siano nulla. Si arrendono

all’ampio grigiore screziato

di sperma pallido, stomachevole. Tutto cade

con un rumore lento e molle, e fluttua

informe, o s’inabissa per sempre.

Tutto ha senso, soltanto senso, tutto è

così come ho detto. Non so già nulla di te.

*

POSSEDUTO

Sono ben lontano dall’amarti. Quando i vermi

faranno del mio corpo una cena fredda

vi troveranno un retrogusto di te. E sei tu

che indecentemente ti sei amata al mio posto

fino alla curva: sazia di te,

ora ti ecciti, te ne vai dietro

a un altro corpo e mi neghi la pace.

Non sono altro che la tua mano che palpa.

*

TRE LIMONI

Gennaio benigno. Sotto

molta aria verde, le cose

oggi non sono scontrose

né il luogo è arido. Guarda:

tre limoni, posati

sull’aspra lastra.

Giacché si bagnano di sole

e puoi esaminare

senza dubbi né fretta

la metrica semplice

che li lega, pensi

che non significhino nulla?

Guardali, ti basti.

. . . Cuore sedotto,

rinuncia sin d’ora,

taci. Non farai tuo

il gioco dei tre limoni

sull’aspra lastra.

Né sarai in grado

di protestare prima di perderlo.

Nessun sobbalzo della memoria

abolirà la quieta

maniera di estinguersi

che hanno i ricordi.

*

PERÒ NON MI DESTAR

Non entrare ora. Perditi

sulla ghiaia scricchiolante

e tristemente rosata.

Cammina lentamente. Fermati

a guardare come stanno dritte

le foglie dell’alloro.

Non cercare le arance

dal colore troppo schietto.

Ama piuttosto i ridicoli

bambù, come le spine dorsali

degli insetti pazzi o incapaci

che son morti sbattuti a terra.

Concentrati sulle cose rigide

e sugli schemi. I fasci

volgari di linee azzurre:

sono panchine. Sfere

morte: sono i monconi

dei platani del sentiero.

Lascia passare tre ore,

e poi entra. Vedi

tutto quel che è rimasto:

i posacenere strapieni,

la metà dei bicchieri

sporchi di rossetto.

Qui hanno vissuto, e tu

non c’eri. Non hanno visto

nessun tuo gesto, né ti han sentito

dire nulla. Serviti un gin.

Non chiedere il ghiaccio: è stato tutto sciolto.

Puoi sederti, ravvivare il fuoco,

e credere che abbiano vissuto.

*

IL DISTRATTO

Certamente oggi c’erano nuvole,

ma non ho guardato in alto. È tutto il giorno

che vedo volti e pietre e tronchi d’albero,

e porte attraverso cui volti entrano ed escono.

Guardavo da vicino, non mi alzavo da terra.

Ora m’è venuto buio e non ho visto le nuvole.

Bisogna che domani me ne ricordi. L’altro giorno

ho guardato in alto, e oltre la ringhiera

di un terrazzo, una ragazza che s’era

lavata la testa, con un asciugamano

sulle spalle, si passava

una, dieci, venti volte, il pettine fra i capelli.

Le sue braccia assomigliavano ai rami di un albero molto alto.

Erano le quattro del pomeriggio, e c’era vento.

*

IL LETTORE

Fra gli oggetti del mondo, fra i pochi

oggetti che possiedo, c’è un tagliacarte:

una corta lama d’avorio,

nuda tra le mie dita, che si fa dorata o pallida

secondo la luce dei giorni e dei luoghi.

Sono vent’anni che me lo ritrovo in tasca,

non ricordo neppure chi me lo donò.

È ammaccato: molte volte l’ho raccolto da terra

in una mia stanza, o fra i piedi,

dopo aver pagato la notte in un bar.

Mi ha aperto migliaia di pagine: ricordi, menzogne

di altri uomini (e di ben poche donne).

E io non ricordo neppure chi me lo donò.

E non so mentirmi un ricordo in più, qualche mano.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona

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di Antonio Sparzani

Quando trovo un libro che mi piace molto, il mio istinto di rozzo e incapace recensore sarebbe di gridare semplicemente: “lasciate cadere quello che avete in mano e correte subito a comprare il libro tale e leggetelo tutto d’un fiato”. Ma poiché questo non invoglierebbe se non forse i pochi che mi conoscono bene e condividono i miei gusti, mi pare che sia meglio, e anche più giusto, usare mezzi più persuasivi per invogliare il potenziale lettore, raccontandogli almeno qualcosa del libro stesso. Così:

«Oggi ancora, lei, che splende inghirlandata
di magnolia d’oro,
volto di loto in fiore, tenue la linea della pelurie
sul ventre,. . .»

così cominciavo qui, nel 2019, a parlare di un volume di Giuliano Boccali, nel quale l’autore traduceva e illustrava alcuni poemetti (Nuvolo messaggero, Centuria d’amore e Le stanze dell’amor furtivo) della letteratura indiana. Ma lo scorso febbraio è uscito questo suo nuovo libro Il Dio dalle frecce fiorite – miti e leggende dell’amore in India (Il Mulino, 243 pp., €16), tra l’altro molto ben corredato di quasi una trentina di immagini a colori, nel quale l’autore, allargando assai la prospettiva, si propone di dare un quadro più complessivo dell’amore nelle sue molteplici sfaccettature nella letteratura indiana (e il titolo dantesco di questo post è citato da Boccali stesso in uno dei molti racconti).

Quando si iniziano a leggere i primi capitoli, si comincia ad avere davanti agli occhi uno straordinario, rutilante turbinio di storie, di poesie, di vicende, in gran parte mitologiche anche se non completamente, nelle quali dèi supremi (Vishnu, Shiva e la Dea, in sanscrito Devi), il dio creatore (Brahma), dèi meno importanti, antidèi (asura), demoni, umani di varie caste si mescolano continuamente in intrighi, innamoramenti, tradimenti, rinunce, ascetismi alla base dei quali incontrastato – o meglio – talvolta assai contrastato ma sempre presente, comunque regna l’amore, il Leitmotiv dell’intero scritto, come del resto dichiara il sottotitolo.
Mi pare che le prime righe del testo, quelle con le quali inizia il Prologo (il cui titolo, già significativo, è In principio fu il Desiderio), siano la migliore illustrazione possibile di tutto il tema, per cui ve le riporto così come sono:

“Le fattezze di Kamadeva, l’indiano dio dell’amore, certo sono molto affascinanti, anche se piuttosto pericolose, e le sue attività genialmente multiformi, anche se talora disastrose. È stato generato con un atto mentale spontaneo dal Creatore Brahma, invaghito della sua precedente creazione, la sublime Sandhya impareggiabile per bellezza, che infatti incontreremo lungo il filo dei nostri racconti. Al pari del suo collega greco-romano Cupido – kama in sanscrito significa proprio cupido, «desiderio» -, egli si presenta come un meraviglioso giovane armato di arco e frecce, che la fantasia indiana concepisce in maniera molto immaginosa. Infatti l’arco di Kama è di canna da zucchero, la corda è costituita da una fila di grandi api nere, emblema in India del desiderio volubile e insaziabile, mentre le punte delle sue frecce sono fatte di fiori, cinque fiori identificati con precisione: loto bianco, ashoka [saraca asoka], mango, gelsomino e ninfea blu, donde l’epiteto molto frequente di «Dio dalle frecce di fiori», «Dio dalle frecce fiorite». È sprovvisto di ali mentre il suo animale veicolo e compagno è il pappagallo. Suo amico e alleato di elezione è Vasanta, «Primavera» (maschile in sanscrito), pure nato dalla mente di Brahma. In altra, più inquietante circostanza hanno origine sempre dal Creatore le truppe del dio, i Mara, «Assassini» (già!), ai quali viene affidato il compito di confondere le menti di chi è colpito dai suoi dardi e di ostacolare in ogni maniera i ricercatori nella via della conoscenza del mondo. Sull’insegna di Kama è raffigurato. . . un po’ scherzosamente non riveliamo per ora quale animale sia effigiato sulle bandiere del dio, rinviando la risposta al termine del percorso . . .”

Anch’io mi guarderò bene dal fare spoiling rivelando a voi quale sia questo sorprendente e inaspettato animale simbolo, che viene rivelato verso la fine del libro, dirò che non è certo un animalino dolce e grazioso come uno si potrebbe aspettare. Il libro contiene tante storie, la maggior parte delle quali risalgono a testi assai antichi, dal Rigveda e dal Mahābhārata in poi e anche raccontarne per disteso una sola occuperebbe molto spazio. Mi limiterò dunque a cercare di centrare un punto che Boccali, la cui conoscenza e competenza in tutto questo ambito di sapere sembrano davvero sconfinate, sottolinea verso la fine del libro (p. 180) e che suona così:

“Come già si è detto, a partire da Brahma stesso non c’è infatti alcun maschio, dio, asceta, saggio, eremita, re-veggente – ma proprio nessuno – che non abbia ceduto almeno una volta al fascino femminile, pur avendo pronunciato voti che gliela proibivano tassativamente. Il racconto delle loro storie occuperebbe una intera collana di libri, non un solo capitolo di un libro come questo. E ciò inequivocabilmente significa che per la visione indiana diffusa l’esperienza dell’ amore è fondamentale, insostituibile, proprio ai fini dell’adempimento del destino spirituale più alto: conoscenza e amore sono inscindibili, fusi l’una nell’altro. Su questo terreno germoglia e cresce la convinzione espressa dai tantra che il sesso è uno dei mezzi principali per accedere rapidamente ai livelli superiori di coscienza e alla liberazione.”

Aggiungo solo la considerazione (un po’ fuori tema) che mi piacerebbe molto che l’attuale primo ministro Indiano Narendra Modi, fondasse davvero la sua amministrazione sull’amore (così come, in un mondo assai diverso dall’attuale, dovrebbero fare tutti i governanti).

la terribile dea Kali

L’ultima Thule

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di Romano A. Fiocchi

 

Rubes ha terminato il suo racconto. Sembra sfinito. Accanto a lui, appoggiata alla sponda del letto, le braccia bianche, ecco la Serenissima. Le vesti, fluttuanti, sembrano carta velina. Solleva il piccolo scettro di corallo rosso. La sua voce asessuata attraversa la suite con note metalliche.

Anno 2070 dell’era della civiltà occidentale, 1448 dell’era musulmana, 1786 dell’era copta, 5830 dalla creazione ebraica del mondo, data giuliana: 2477159,74197. Questo è il termine che avevano prefissato per collocare nel tempo la mia definitiva cancellazione dalle carte geografiche. Evento burocratico che non ha avuto luogo per la mancata manifestazione del corrispondente evento fisico, erroneamente calcolato. Insomma non fui – come dicevano gli esperti – inghiottita dalle acque della laguna. Tutto qui. La mia, quella che sentite, è una voce autentica e non “una voce registrata dall’atmosfera, una sorta di eco rimasta in sospensione come le particelle d’acqua di un arcobaleno”. Il 16 agosto 1993, in occasione dell’apertura del negoziato sul clima, il Fondo Mondiale per la Natura presentò a Ginevra un rapporto che preannunciava le catastrofiche condizioni in cui prima o poi avrei versato. L’associazione aveva fondato le sue previsioni sulla seguente premessa: era scientificamente – leggi: statisticamente – provato che nel Ventesimo secolo la temperatura media del pianeta aveva subìto un aumento di almeno mezzo grado centigrado e i gas industriali, quelli che provocavano il surriscaldamento dell’atmosfera, erano stati prodotti in quantità via via crescente. Se le emissioni fossero continuate a quel ritmo, l’atmosfera sarebbe andata incontro ad un surriscaldamento di zero virgola tre gradi ogni decennio e i mari, sciogliendosi i ghiacciai, a un innalzamento di circa sei centimetri. Il Mediterraneo in particolare avrebbe accresciuto il suo livello di sessantacinque centimetri entro l’anno 2070. Nella mia laguna il fenomeno sarebbe stato tre volte più marcato. Se a tutto questo si fosse aggiunto il mio sprofondamento naturale, cinque centimetri ogni dieci anni – con presumibile tendenza a un peggioramento galoppante – significa che per l’anno 2100 sarebbero emersi dalla laguna soltanto il campanile di San Marco e quello di poche altre chiese, con l’effetto pittoresco ma poco edificante del trecentesco campanile di Sant’Anna nel lago di Resia.

Non avevano previsto, tutti quegli esperti, che i calcoli e le statistiche non valevano nulla se applicati alla più inverosimile delle città. Infatti non solo non sprofondai – vivere sull’acqua è sempre stata la mia vocazione – ma vidi inghiottire il resto del mondo da un mälström di paurose proporzioni. Nessun abitante della terraferma cercò rifugio sulle mie centodiciassette isole, come fecero all’epoca dell’invasione longobarda, proprio perché si temeva che fossero le prime ad inabissarsi. I veneziani residenti mi abbandonarono per la stessa paura e cercarono scampo altrove, trovandovi invece la morte per annegamento. L’oceano globale si mangiò tutto. La Terra si fece una palla d’acqua, come una cisti sierosa e immonda. L’uomo fu punito per la sua stupidità. E io lì, ad assistere impotente, sola.

Proprio sola non ero. Se si potesse guardare nei miei ricordi, se mai potessi avere ricordi, vedrei una figura goffa, avvolta in un soprabitone grigio, ferma sul limitare di un binario tronco della stazione di Santa Lucia. È irrigidita in quella posa da non so quanto tempo e osserva l’infinita distesa delle acque. Ogni tanto scuote la testa. Al suo fianco c’è la Morte, tricorno nero, tabarraccio scuro, bautta e maschera bianca in volto. Di fronte a loro galleggia inerte, in un punto impreciso dell’oceano, il relitto di una gondola. Galleggia sopra non so quale terra sommersa e chissà quanta strada ha già percorso, alla deriva sopra i ruderi sparsi delle civiltà umane. Niente e nessuno a bordo. Non un fiore di plastica. Non un cuscino ricamato con arabeschi. Non una fisarmonica abbandonata. Non un remo. La gondola è nuda.

[…]

da Romano Augusto Fiocchi, Il tessitore del vento, 368 pagine, Ronzani, 2022.

Due libri, e una lezione di vita, di Goffredo Fofi

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Roma, ottobre 2021. Goffredo Fofi in uno scatto di Simona Caleo

di Davide Orecchio

Sono usciti da poche settimane, e contemporaneamente, due libri di Goffredo Fofi. Il primo, pubblicato da E/O, è Cari agli dei. Il secondo, per minimum fax, è Son nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021, una raccolta di testi già editi curata da Emiliano Morreale. Andrebbero letti uno di seguito all’altro, magari cominciando con Cari agli dei. Io ho fatto così e mentre leggevo riconoscevo un dialogo, come se i libri fossero due persone – o una persona sdoppiata – che si raccontavano una storia (piccolo appunto a editori e curatori: gli indici dei nomi sarebbero stati utilissimi, peccato).

Che storia è? Una storia importante. Così come l’autore che l’ha vissuta e la racconta. Un’altra storia – intellettuale, politica, militante – del secondo Novecento italiano fino ai nostri giorni, e che riguarda, in una condivisa matrice “eretica”, persone, comunità, idee, riviste della sinistra italiana. Una sinistra minoritaria. Fuori dalle grandi chiese politiche che hanno dominato quel secolo. Mai bolscevizzata, né autoritaria né ubbidiente, non gerarchizzata. Spesso, se non sempre, sconfitta. Ma talmente vitale da parlarci ancora con argomenti e percorsi biografici esemplari, che non sono forse esauriti, a differenza di tanto materiale di quel secolo che risulta ormai inutile, se non tossico, per noi.

Goffredo Fofi (1937) è di quella storia un protagonista. Come ha spiegato efficacemente Massimo Onofri su Avvenire, il lungo percorso di questo intellettuale, prima educatore, poi tessitore seminale di gruppi, e critico letterario e cinematografico, si può sintetizzare in una scelta di vita comunitaria (francescana) dove il socialismo guarda all’anarchia e qualsivoglia proprietà è rifiutata con coerenza. 

Protagonista, senz’altro. Ma, invece di mettersi al centro, in Cari agli dei Fofi fa un passo di lato e sceglie di raccontare i compagni di strada, le amiche e gli amici senza i quali la vita non avrebbe senso. Compone così un’autobiografia attraverso le vite degli altri. Le tante vite incontrate nel suo instancabile viaggiare e conoscere. Questo è certamente un aspetto di Cari agli dei, libro che potrebbe sembrare molto triste ma forse non lo è.

Perché triste? Perché Cari agli dei è un libro di lutti, una raccolta di ritratti di persone morte troppo presto, “prematuramente”. Morti che si sono consumate, spiega Fofi nell’introduzione, nel quadro della “sconfitta storica del socialismo”. Citando Aldo Capitini e rendendogli omaggio, Fofi parla di “compresenza dei morti e dei viventi” nelle nostre vite. E spiega: “i morti sono presenti, sono tra noi, e dovremmo tenerne ben conto noi vivi, angosciati dal dover muoverci dentro un presente preoccupante e avvilente”. Perché – prosegue Fofi – “non tutto è stato inutile nel mondo che abbiamo conosciuto, negli anni che abbiamo vissuto, in quel poco che siamo riusciti a fare dalla parte del giusto e del vero (…) e qualche risultato abbiamo ottenuto anche se fragile e di breve durata”.

Cari agli dei è una foto di gruppo di persone che continuano a vivere in Fofi. E forse – questo l’auspicio dell’autore – potrebbero vivere anche in altri. È quindi un repertorio di exempla e parla a chi viene dopo, ai viventi, e a chi tra di loro vorrà trarre ispirazione da queste vite di intellettuali militanti, educatori, psicologi, scrittrici, poeti, sindacalisti, sacerdoti… spesso operatori delle istituzioni vocati a cambiarle, le istituzioni, profondamente, radicalmente e da dentro. Figli e figlie di un’epoca “in movimento” e non individualista, e che credeva nelle trasformazioni collettive.

La raccolta ospita 26 ritratti più una nota autobiografica sull’Umbria natale del 1944. Preziose per me le pagine su Alexander Langer o Grazia Cherchi, su Marco Lombardo Radice o Maurizio Flores D’Arcais. E quelle dedicate all’unico caro agli dei che io abbia avuto la fortuna di conoscere, Alessandro Leogrande. Pagine piene di amore e rimpianto per un giovane e insostituibile compagno e collaboratore di Fofi: “perdendo Alessandro abbiamo perso una guida, ed è stato ben difficile, purtroppo, trovarne altre della sua statura nella generazione venuta dopo la sua, soprattutto nel campo dell’analisi politica, del giudizio politico, dell’intervento politico”.

La storia raccontata in questi due libri non è solo di individui ma di gruppi e di riviste, di viaggi e di luoghi (la Sicilia “battesimale” di Danilo Dolci, Torino e Milano, Napoli, Roma), infine di decadi, con in mezzo una data spartiacque per Fofi, quel 1978 dopo il quale si chiude una stagione di militanza collettiva e tutto cambia. Ed è davvero un dialogo. Ad esempio i ritratti di Raniero Panzieri, Dario Lanzardo e Vittorio Rieser – tra gli animatori del gruppo torinese frequentato da Fofi soprattutto negli anni ’60, gli anni dei Quaderni rossi – sarebbero meno comprensibili se non si potessero leggere, in Son nato scemo e morirò cretino, le pagine su “La città del monopolio” (1963), estratte da quell’inchiesta sull’immigrazione meridionale a Torino che Fofi pubblicò per Feltrinelli (ma doveva uscire per Einaudi!) collaborando strettamente con Panzieri. 

L’antologia curata con intelligenza da Morreale per minimum fax ha poi, forse, un pregio in più, una utilità (Fofi parla spesso del dovere di scrivere libri che siano utili) che emerge non solo dalla sua natura di rendiconto documentale di un lungo percorso nel secondo Novecento italiano, ma anche dalla scansione cronologica, appunto, che offre al lettore un quadro nitido, storico, delle epoche e delle situazioni nelle quali sono nati i testi di Fofi. 

Son nato scemo e morirò cretino è libro denso, un tesoro pieno di articoli e tracce (critica letteraria, cinema, società, storia, politica, Nord e industrializzazione, Sud e povertà). Mi limito a segnalare, con ingiusta parzialità: “Frammenti di diario” (1960), “Lettera a Lotta continua sulla violenza” (1978), “Sognare all’indietro” (1981, con pagine illuminanti su Walter Veltroni e un certo “stile da prima liceo”), “Storie di treno” (1989), “Promemoria per una rivista” (1990, chiunque voglia fare una rivista lo dovrebbe leggere), “La fine del comunismo” (1991). E poi le pagine di critica cinematografica, dove Fofi dà il meglio di sé e Morreale lo sa bene; tra queste: “Orson Welles” (1963), “La commedia del miracolo” (1964), “Per una veridica filmografia del verace Totò” (1967), “Il cinema italiano: servi e padroni” (1971), “Cimino, cacciatore senza preda” (1979), “Introduzione al cinema di Ciprì e Maresco” (1999).

Buona lettura.

Dal “Faldone” (zero-cinquantanove, novantotto-novantanove)

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[Questi testi sono tratti da Faldone zero-cinquantanove, novantotto-novantanove. Poesie 1992-2020. Estratti, II, Aragno, 2022]. (Per una lettura migliore, si consiglia di zoomare su ogni singolo testo.)

di Vincenzo Ostuni

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FAQ

Mots-clés__Compleanno

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Paulette Goddard in "Modern Times" di Charlie Chaplin, 1936

Compleanno
di Elisabetta Abignente

Madonna, B-Day Song -> play

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Paulette Goddard in “Modern Times” di Charlie Chaplin, 1936

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Da: Francesco Targhetta, Le vite potenziali, Mondadori, Milano 2018, pp. 161-162.

Arrivò il suo compleanno, e Luciano notò come fosse sempre più numerosa la schiera di enti e istituti che ne celebravano l’occorrenza, con una proporzione inversa rispetto alle persona a cui poteva attribuire un volto. Quel giorno i primi auguri li ricevette dalla banca, prima via mail e poi allo sportello automatico: appena inserì il bancomat nella fessura illuminata di verde, sullo schermo apparve una torta, precisamente una meringata, che Luciano non avrebbe mangiato mai. A questi seguirono gli auguri via mail dell’Enel e del fornitore del gas, i quali approfittarono dell’evenienza per proporre a Luciano alcune offerte vantaggiose che tuttavia sarebbe stato ingenuo definire regali. Era innegabile, in ogni caso, la presenza di una premura nei suoi confronti da parte di chi lo dotava dei servizi essenziali alla sua vita, mentre non si poteva dire altrettanto dei vecchi amici che sempre più raramente si ricordavano di scrivergli anche soltanto un messaggio predefinito, un “Buon compleanno!” antico e sobrio, privo degli orpelli che portava con sé la crescente necessità di risultare simpatici. Forse proprio perché a lui sarebbe bastato così poco, non gli arrivava niente.
Il problema, rifletté Luciano, non era l’assenza di tempo, ma di cura: nessuno che avesse una faccia si curava più di lui, tranne i suoi. Quando a metà pomeriggio lo invitarono a cena, non poté declinare, e trascorse buona parte della serata a guardarli, anche mentre mangiava il tiramisù che Mariuccia aveva preparato per l’occasione […].
In realtà, pensò poi, rientrando a Marghera sotto la luce ammutolita della sera, molti suoi colleghi nemmeno sapevano quando lui compisse gli anni: sono informazioni che a un certo punto della vita non si chiedono più. Gli altri esistono in una percentuale sempre minore, e lui era sempre e solo coinciso con gli altri.
Arrivata la mezzanotte, spense il cellulare e, con una specie di sollievo, accolse l’arrivo di un giorno anonimo, in cui finalmente non sarebbe più stato al centro della propria attenzione.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Nuovi autismi #23 – I miei buchi

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di Giacomo Sartori [dall’archivio di NI: pezzo pubblicato il 13 giugno 2012]

I buchi che faccio per lavoro si dividono in due tipi, quelli piccoli e quelli grandi. I buchi piccoli li scavo con uno strumento apposito, una sorta di spropositato cavaturaccioli che avvito nel terreno come si stappa una bottiglia di vino. Di solito chiedo il permesso al proprietario del campo e finisce che parliamo di terreni o anche appunto di uve e di vini. Qualche volta propino alcuni consigli su come accudire e curare la terra: nel fondo degli occhi aperti al sole e al vento colgo lampi di interesse, anche se a me sembra di ripetere sempre le stesse cose. Spesso invece capisco che l’essere umano che ho davanti è ormai sazio di frasi e immagini: ritiene di sapere già tutto.

In certe zone i coltivatori mi accolgono con ruvidi sorrisi che prendo per incoraggiamenti, in altre sono sospettosi, ma a ben vedere la variabilità individuale prevale sempre sulle specificità microgeografiche. Del resto in anni di scavi non ho mai trovato due contadini assolutamente identici, anche se certo a volte le similitudini saltano agli occhi. Se mi mettessi di buzzo buono potrei approntare una tassonomia con classi e sottoclassi e varianti, corredata magari da una chiave dicotomica. Io però sono pagato per classificare la terra, non le persone, e quindi lascio tale compito a chi è incaricato di questo, a chi ne ha i titoli. Ringrazio l’agricoltore di turno, lo saluto, e mi dedico al mio lavoro.

Certe volte invece ho fretta o anche solo non sono in vena di chiacchiere, e allora scavalco con i miei orpelli elettronici steccati o recinzioni, mi infilo in spiragli di cancelli. Beninteso è sempre un po’ eccitante penetrare senza permesso in un campo e agire di nascosto, pur sapendo che si tratta di un reato lieve. Talvolta vengo scoperto o anche assalito con male parole: la collera di solito svapora però nel vuoto del cielo, perché la mia voce è pacata, per non dire un po’ rassegnata: assorbe ogni livore come una spugna. Spiego che io non voglio fare niente di male, sono anzi lì per cercare di migliorare le cose. Chiarisco che per me è importante conoscere e capire la terra, saperla ascoltare. Un pomeriggio un contadino infuriato con il mondo mi ha detto che avevo proprio una brutta faccia, e io per qualche giorno mi sono domandato se per caso quell’uomo dall’arroganza strampalata avesse ragione. Raramente mi vengono lanciati contro cani feroci, il che forse è la disavventura più grande che possa capitare a un rilevatore: non è simpatico confrontarsi con delle fauci ansanti e umide di bava lucida, restie a qualsiasi mediazione verbale. A parte queste eccezioni scavare i miei buchi piccoli è faticoso ma anche bello: trovo appagante spostarmi dove mi aggrada, senza tirarmi dietro pesanti valige e senza dipendere da nessuno. Pur non essendolo affatto, come a ben vedere non lo si è mai, mi sento libero.

Di solito sono i giovani che svolgono questa mansione ritenuta poco qualificata, io però continuo a cimentarmi, da una parte perché non ho fatto molta carriera, e dall’altra perché per indole mi separo malvolentieri dagli aspetti più basici dell’esistenza. Ma soprattutto considero esaltante scoprire i recessi ormai inaccessibili ai nostri occhi automobilistici e telematici, il caleidoscopio di odori della terra e della vegetazione, le diverse consistenze sotto la suola, i diversi tipi di silenzio. Non ho difficoltà a ammetterlo: molto spesso mi innamoro delle zone che batto, come si sprofonda nell’amore parlando e conoscendosi ogni giorno un po’ di più, senza quasi accorgersene. Ricordo con commozione certi struggenti ruderi soffocati dai roveti che mi hanno accolto in pomeriggi abbacinati di sole, alcuni inaspettati strapiombi su valli o fiumare, certe vaste scivolate sul mare, certe prospettive quasi solo minerali dove ardevano le ginestre, certe aride cascate di argilla grigio-azzurra, un sottobosco imbottito di madido e elasticissimo muschio. Perfino dietro capannoni abbandonati o pollicolture dismesse ho trovato scorci che mi hanno incantato, ho sollevato pugni di magnifica terra. Sono i miei amori lavorativi. Poi naturalmente il tempo rosicchia il merletto dei dettagli, e i contorni diventano tenui e quasi astratti, come succede anche con gli amori normali.

I buchi grandi li faccio fare con un escavatore, e quindi tutto diventa più impersonale e macchinoso. Sto a guardare il bestione metallico esattamente come facevo da bambino quando d’estate mio padre mi portava con lui sui cantieri. Nel frattempo il mondo è cambiato molto, ma l’odore dei gas di scarico dei possenti motori diesel mischiato a quello della terra appena smossa è rimasto lo stesso, e anche il mio stupore: nel turbinio di gas e fragori meccanici e minerali torno bambino. Mi dico che quei pochi giorni annui sui cantieri sono la circostanza che mi ha reso più felice nella mia vita. Poi però mi scrollo di dosso la nostalgia, e dico ai miei collaboratori come operare e a cosa fare attenzione. Perché i buchi grandi non sono qualcosa che si faccia da soli, sono una delicata incombenza di gruppo, e questo comporta vantaggi ma anche svantaggi, a partire proprio dalla perdita della solitudine e degli abissi che l’accompagnano.

Io non so mai esattamente cosa troverò nei miei buchi, grandi o piccoli che siano, e proprio lì sta la calamita che tiene avvinghiati il mio cervello e il mio respiro. Dopo tanti anni ho quasi sempre idee preconcette, e spesso ci imbrocco, a volte però quello che salta fuori non ha niente a che fare con ciò che mi aspettavo. Mi arrendo quindi all’illogicità dell’esperienza concreta, e cerco possibili spiegazioni, nuove interpretazioni, conscio che anche quelle sono destinate prima o dopo a decadere. Non dico che non sia stimolante, ma l’inquietudine potrebbe pur sempre stringere le sue ronde di bestia affamata, potrebbe avvicinarsi fino a rendersi visibile, riesumando i turbamenti della mia preistoria. Naturalmente questi scacchi più o meno clamorosi sono metafore della vita, come moltissime azioni umane viste con un sufficiente distacco diventano allegorie dell’esistenza alla quale concorrono e nel tumulto della quale si mimetizzano.

Quando scavo i miei buchi non penso ai danni che produco, mi sembra anzi di darmi da fare per difendere la terra, per salvarla. Mi dico che le informazioni che passerò all’organismo per il quale opero, a cominciare dalle prove inconfutabili delle ferite apportate dall’avidità e dall’incuria, serviranno a evitare che gli uomini devastino ulteriormente la matrice sulla quale camminano e che dà loro da mangiare, o comunque a limitare la loro azione devastatrice. Per questo ci metto tanto impegno, per questo la mia concentrazione è assoluta, ha qualcosa di ipnotico. Mentre osservo il cucchiaio dello scavatore che addenta il terreno, rivoltando strati variopinti che hanno impiegato millenni a formarsi, e che nessuno ha mai toccato, non posso però illudermi di operare solo per il bene. Proprio quella buca che appronto per salvare la terra rappresenta un’ulteriore lesione, si somma a tutte le lacerazioni precedenti e a quelle che verranno: a dispetto delle mie belle intenzioni la mia è un’opera distruttrice, come a ben vedere lo sono tutte le attività umane. Anch’io come tanti uomini devasto, le mie buone intenzioni non sono che un paravento pretestuoso, un puntello necessario al mio equilibrio psichico.

La carta vincente dell’uomo è stata proprio perfezionarsi nelle razzie e nelle stragi sfuggendo all’azione predatrice delle altre specie, svincolandosi insomma dalla dittatura spietata degli ecosistemi naturali, mi dico tra un’unghiata e la successiva della benna. L’attuale saccheggio risolutivo non è quindi una deriva, mi dico, ma la vittoria finale, la nostra apoteosi: stiamo finalmente consumando tutto, disintegrando ogni cosa. Ce l’abbiamo fatta. Dovremo essere fieri, invece di piangerci addosso, invece di enfatizzare gli svantaggi consustanziali a quello stesso vandalismo sistematico che ci dà tanta ebbrezza.

Come tutti gli esseri umani sono però anch’io incoerente: una volta finito di scavare il mio buco grande non penso alle minacce del futuro, mi lascio andare al piacere. Mi seppellisco nel ventre scuro e fresco saturo di sentori di muffe, e godo a essere il primo a vedere i segreti dischiusi dalla benna di acciaio, godo a accedere a quei messaggi così intimi e così essenziali della terra. Mi stordiscono i suoi colori caldi di affresco, mi inebria prenderla nella mano e soppesarne la consistenza sempre diversa. Bando alle ciance, mi dico poi, e comincio il mio cosiddetto lavoro scientifico. Le prendo il polso, le misuro la pressione e l’eventuale febbre. Ho sempre avuto difficoltà a capire le persone che si lamentano del lavoro che fanno: il mio è un entusiasmante gioco. Un gioco molto serio, quasi solenne, come tutti i giochi più nobili. Quando si è adulti solo lavorando si può davvero giocare, sbarrando la strada alle orde di pensieri sul retro del cervello.

Certe volte mentre torno a casa con i vestiti macchiati di quello che mia moglie chiama fango, e che per me è bellissima terra, i pensieri dolorosi ce la fanno a riprendere il controllo della mia testa. Mi dico che sono anch’io un infame distruttore. L’automobile che conduco è uno strumento di scialo e di dissipazione, gli oggetti di cui mi circondo sono il mio contributo allo smantellamento e all’ecatombe, a ben vedere quello che mangio con la mia dieta troppo ricca non potrà essere reintegrato. Provo allora nostalgia per l’ingenuità dell’umanità che mi ha preceduto, rimpiango l’epoca nella quale io stesso non ero cosciente della valenza mortifera del mio agire. In quei momenti mi riprometto che farò il possibile per invertire la tendenza, o comunque per limitare i danni. Questa volta nel mio piccolo devo fare qualcosa, mi dico. Non è vero che non c’è soluzione, mi dico. Non basta però il cinque per mille al WWF, devo fare di più, mi dico. Rispolvero antichi e bellicosi propositi, mi riprometto di intervenire e di militare.

So però che sono chimere, legate per certi versi alla stanchezza e all’insoddisfazione del mio stomaco. So che continuerò a agire come ho sempre fatto, conformandomi al cinico fatalismo e all’irresponsabilità che furoreggiano nel programma radiofonico sul quale sono sintonizzato. Le armi che ho scelto, inermi e forse superflue, sono le parole. Non sono però nemmeno tanto ingenuo da pensare che le mie ferite sommate a quelle dei miei congeneri avranno ragione sul pianeta che chiamiamo terra. Non ho questa presunzione che si fa sempre più strada: so che la terra è vissuta molto bene senza di noi, so che la sua atmosfera e la sua superficie rugosa è stato metamorfosata da organismi altrettanto scaltri di noi, e verrà a patti con ogni probabilità con esseri viventi ancora più scaltri. O al limite si riposerà con un salutare silenzio minerale.

Infilo la chiave nella toppa di casa, preparandomi a rispondere alle domande di mia moglie sulla giornata, pregustandomi il bicchiere di vino che ben presto mi verserò. Mi dico che non devo dimenticare però di mettere le batterie in carica. E mentre la nostra gatta cieca si struscia con inarcamenti e disarticolate torsioni del busto sulle mie caviglie mi sento appagato e vagamente felice.

(l’immagine: Santerre (Somme, Piccardia), maggio 2021)

 

Buena Vista Social Club: Lagioia dei classici

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Questa  rubrica è dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. effeffe

 

Nota sui classici

di

Nicola Lagioia

Ogni tanto, qui su Fb (credo raramente per paura del ridicolo) cercherò di prendermi la libertà di scrivere dei post che presumo saranno poco letti, post di cui io stesso non sono sicuro, vale a dire post in cui più che raccontare qualcosa (il che, per me, significa di solito aver trovato una forma), o dare informazioni utili, o dichiarare qualcosa di cui credo o mi illudo di essermi convinto (le prese di posizione non sono il mio forte, gli “inviti al viaggio” sì), proverò a scrivere su questioni di cui sono davvero incerto – e su questioni molto poco popolari immagino -, condividendo sensazioni che altrimenti andrebbero perse, con la speranza che qualcuno più bravo di me le completi da qualche altra parte, magari anche in un altro tempo.
Oppure (se sono false intuizioni, come è possibile) qui possono andare tranquillamente perse e ignorate (si prova a dare un senso alla caducità dei social). Dunque, chiedo scusa in anticipo.
(Potrei far precedere questi post da tre asterischi *** così chi vuole non perde tempo con le mie divagazioni).
Il fatto è che sono ormai 25 anni che – oltre a leggerne di continuo di nuovi – rileggo gli stessi libri, in continuazione, senza venirne mai del tutto a capo. Fondamentalmente si tratta di alcuni cosiddetti capolavori del modernismo europeo, quei libri che, forse, portano alle estreme conseguenze intellettuali ed estetiche (e all’estrema bellezza) la civiltà europea un attimo prima che crolli su se stessa (e, da questo crollo, mi pare, siamo stati generati noi). Questi libri che leggo in continuazione, senza venirne a capo (per questo, forse, mi ci accanisco così tanto) sono sin troppo noti, sono altresì considerati faticosi (non che non lo siano), tuttavia a me sembra contengano un segreto (uno dei bandoli della matassa attuale? l’ago nel pagliaio di una qualche contemporaneità?) che almeno io – e forse questo “io” è un “io” collettivo – non sono riuscito a violare.
Sono, fondamentalmente, questi libri, “La ricerca del tempo perduto” di Proust, “La montagna incantata” di Mann, “L’uomo senza qualità” di Musil, “Gita al faro” e “Miss Dalloway” di Woolf, “Ulisse” di Joyce, “Sotto il vulcano” di Lowry.
Negli ultimi mesi ho ripreso (per l’ennesima volta) “L’uomo senza qualità”. Ho il serio sospetto (ma potrei essere stolto, potrei sbagliarmi) che questi libri avvicinino come scrivevo a un segreto, un’intuizione afferrata la quale sarebbe stato possibile salvare la civiltà europea (e il pensiero occidentale) non solo “prima” delle due guerre mondiali, ma “dopo” (per questo mi interessano ora), quando questa civiltà è tornata a noi – dopo Auschwitz e Hiroshima – in una sorta di forma “fantasmatica” (che è poi, questa forma fantasmatica, quella con cui a me sembra che abbiamo a che fare noi oggi). Aggiungo che in questi libri c’è sempre l’ombra di uno “spirito” che (pur essendo anche molto europeo) trascende il ceppo giudaico-cristiano, non è il romanticismo andato a male dei nazisti né la religione del materialismo comunista, ma qualcos’altro che fatico tantissimo ad attraversare, ma vedo (lo vedo!) come il riflesso dell’acqua su una parete bianca in un giorno d’estate.
Leggendo e rileggendo “L’uomo senza qualità”, per esempio, trovo un incredibile preveggente ragionamento-visione-racconto sul capitalismo attraverso il personaggio del miliardario Paul Arnheim.
Capisco che pochi (anche chi ha letto il libro) ricordino Paul Arnheim. Ma trovo stupefacente come, con decenni di anticipo rispetto alla fine del “gold standard” e poi del “gold exchange standard” (1971) che sancì il vero inizio (o la trasfigurazione decisiva) del capitalismo finanziario, Musil avesse, nel personaggio di Paul Arnheim, riassunto tutto questo in modo strabiliante. C’è una battuta che ho letto su Elon Musk, associata a “Watchmen” di Alan Moore. E cioè che Elon Musk si crederebbe il Dottor Manhattan ma sarebbe solo un Adrian Alexander Veidt (aka Ozymandias). Il problema è che Adrian Alexander Veidt è la versione semplificata del Paul Arnheim di Musil, l’uomo (Arnheim) che tentò di trasfondere la poesia nel capitalismo finanziario (ma anche il contrario) mentre le fondamenta di Cacania tremavano senza che nessuno (nessuno in veglia: ma in sonno e in sogno?) se ne rendesse conto.
Dunque, la prima riflessione mi rendo conto forse fallace forse no è su Arnheim visto dal terzo decennio del XXI secolo.
Seconda notazione. Questo è più un consiglio. Ho riletto l’altra notte con sempre maggiore stupore il capitolo 97 de “L’uomo senza qualità”, cioè il capitolo intitolato “Forze e incombenze segrete in Clarisse”. Ricordavo a stento il personaggio di Clarisse (mentre Agathe ce l’avevo sempre presente). Ebbene… mi è sembrato un capitolo in cui forza poetica, incubo, rivelazione, erotismo, esaltazione ma al tempo stesso sottostima di un personaggio letterario (Clarisse), erano talmente intrecciati, e in un modo così sapiente (il pagliaio dentro il quale c’è l’ago ce ci salverebbe, ma della quale serratura, la serratura della porta del pagliaio, non abbiamo la chiave), che io ho “sentito” leggendo, qualcosa che non era scritta da Musil (non con l’inchiostro, voglio dire) e che (fuori dall’intuizione folgorante del momento) mi è molto difficile riprodurre qua.
E quindi (sia per Clarisse sia per Arnheim) lascio che a farlo – a capirci davvero di più – sia qualcuno più bravo e in gamba di me, al quale magari (sarebbe bellissimo, ma potrebbe non essere) potrei aver dato l’idea che non sono in grado di completare.
Perdonate questi post con tre asterischi *** Prometto che saranno molto pochi.

Quattro romanzi: Nunez, Svensson, Grossman, Kloeble

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di Gianni Biondillo

Sigrid Nunez, L’amico fedele, Garzanti, 220 pagine, traduzione di Stefano Beretta

Lei insegna scrittura creativa all’Università. È americana, ceto medio, colta, ha un romanzo che deve scrivere e una sempre maggiore intolleranza per i suoi studenti che appaiono interessati solo al successo e non innamorati, come lo era lei da studentessa, dei dolori romantici che la letteratura produce. Da giovane aveva avuto come docente uno scrittore affascinante e coltissimo. Il suo mentore. Che ora si è suicidato, lasciandole in eredità un alano, anziano, enorme, dal nome altisonante: Apollo.

Chi è L’amico fedele del titolo del romanzo di Sigrid Nunez? È lo scrittore a cui si rivolge l’io narrante (aderente all’autrice in modo imbarazzante)? È il cane taciturno, distaccato, che la protagonista doveva tenere solo per qualche settimana prima di trovargli una sistemazione? A chi dà del tu per davvero la narratrice?

Romanzo che è anche metaromanzo, questo della Nunez. Libro che parla di libri, costellato di un’inifinità di citazioni, criptiche od esplicite, che spaziano sull’intero canone occidentale. Ogni pensiero della narratrice ha già avuto qualcuno che lo ha espresso meglio. Capisco come un libro così possa aver entusiasmato la critica americana: finalmente un romanzo dove, nei fatti, non succede niente. Dove l’indagine è tutta interiore e allo stesso tempo letteraria. Una specie di rivalsa della scrittura sulla trama.

A chi parla la narratrice? Di che parla? Di amicizia, il più nobile dei sentimenti umani. L’amicizia perduta con l’amico scrittore. L’amicizia nata con Apollo, ancora più sublime e commovente. E il romanzo in fondo non è altro che una lunghissima seduta psicanalitica (molto newyorkese e letteraria) della protagonista che non ha mai accettato la perdita dell’amico, preparandosi alla perdita inevitabile del cane ormai anziano. Una lunga lettera d’addio, a ben vedere. Il suo modo di superare il lutto attraverso la letteratura.

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Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda, 281 pagine, traduzione di Monica Corbetta

Mai avrei immaginato nella vita di entusiasmarmi leggendo un libro che parla di anguille. Potenza della letteratura, capace di rendere ogni argomento un mistero da sondare. Ché Patrik Svensson mica ha scritto semplicemente un libro sulle anguille. Non è un saggio, questo, non è un romanzo, non è neppure un memoir. È un oggetto narrativo indefinibile.

Nel segno dell’anguilla è un libro che parla di passioni e di ossessioni. La passione per la pesca delle anguille del padre e del piccolo Patrik che lo segue nelle notti insonni creando col genitore un legame indicibile (non si dicono praticamente nulla, le poche cose che scambiano riguardano la pesca) e indissolubile. L’ossessione crescente per il misterioso animale che Patrik confessa di non mangiare neppure, trovandolo troppo grasso e saporito. E l’ossessione dell’intera cultura dell’Occidente, che ha dovuto scontrarsi con questo animale curioso, inventando attorno a lui, di secolo in secolo, mitologie e leggende. E poi, alternando capitoli di storia personale a capitoli su scienziati, filosofi, poeti che si sono interessati al mistero dell’anguilla, osserviamo la crescita del narratore, la sua maturità, analoga a quella della scienza che nei secoli – da Aristotele a Spallanzani, da Freud a Schmidt – ha cercato di avvicinarsi al mistero insondabile di questo animale che non sembra neppure un pesce, che nasce in un mare leggendario per attraversare gli oceani e vivere nei fondi limacciosi di rivoli d’acque dolci dell’Europa.

Infine, in parallelo alla fine imminente del padre malato, la fine di una specie animale che esiste da milioni di anni, per colpa dei cambiamenti climatici e dell’intervento umano. Il tempo è l’altro grande tema di questo libro. E l’eternità. Che forse le anguille conoscono e che Svensson cerca di capire osservandole, con passione e ossessione.

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David Grossman, La vita gioca con me, 289 pagine, Mondadori, 2019, traduzione di Alessandra Shomroni

Vera compie novant’anni. Quale migliore occasione per festeggiarla, attorniata da tutta la sua famiglia e dai suoi affettuosi conoscenti del kibbutz? L’esistenza di Vera è stata così intensa che è come se avesse vissuto due vite. Quella della sua giovinezza, in Iugoslavia, dove conobbe l’unico amore della sua vita, Miloš, col quale ha combattuto nella Resistenza. E l’altra vita, quella in Israele, quando si trasferì anni dopo con sua figlia Nina. In mezzo un buco, un vuoto di senso: l’accusa di alto tradimento, il suicidio del marito, la prigionia in un campo di rieducazione, l’abbandono coatto della figlia ancora bambina. Ma è proprio attorno a quel buco, a quel baratro che si gioca il buio profondo di tutti i personaggi presenti in La vita gioca con me.

David Grossman, ispirandosi a un personaggio davvero esistito e davvero ammirato, si pone dalla parte di chi non ha la forza di una irreprensibile dirittura morale quale quella di Vera. Come ci saremmo comportati noi, si chiede implicitamente, di fronte alla possibilità di sfuggire al gulag rinnegando il proprio amore? E quali le conseguenze di tale scelta radicale?

A chiederselo, nel romanzo, è Ghili, la nipote, figlia di Nina (donna tormentata dal rapporto irrisolto col monumento vivente che è sua madre) e di Rafi, il figlio del secondo marito di Vera, conosciuto giunta in Israele. Questi quattro personaggi alla fine progettano, ognuno per ragioni differenti, di intraprendere un viaggio nel baratro del tempo, sull’isola di Goli Otok, in quello che fu il campo di prigionia di Vera. Memoria ingannevole e allo stesso tempo scolpita come pietra, amore incondizionato e irruzione tragica della Storia, patto generazionale e dramma familiare: nelle mani di altri scrittori tale e tanto materiale sarebbe deragliato verso un melò lacrimevole e insostenibile. Ma, fortunatamente per noi, Grossman non è uno scrittore come altri.

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Christopher Kloeble, Quasi tutto velocissimo, Keller editore, 2019, 382 pagine, traduzione di Scilla Forti

Fred ha sessant’anni ma è come se ne avesse sei. Ad accudirlo come un padre è stato suo figlio Albert, diciannove anni appena compiuti, cresciuto senza madre in un orfanotrofio gestito da suore, nel cuore della Baviera. Il loro tempo è scaduto, a Fred, che ha passato la vita a contare le macchine verdi passare per strada o a leggere voluminosi vocabolari, mancano pochi mesi di vita. Albert, prima di perderlo, decide di scoprire le sue origini, di sapere chi era davvero sua madre. Ma Fred, l’unico custode della verità, non può essergli d’aiuto. È solo un peso, “un quarto di genitore”, un incapace.

Messa così sembra una storia triste. Ed in effetti i personaggi e le situazioni che Christopher Kloeble mette in campo, sono intimamente tragici: storie di povertà estrema, di manie, di incesti, di infanticidi, di guerre e di follia. Ma la forza di Quasi tutto velocissimo sta nella capacità di rendere credibile anche il più incredibile dei personaggi, di rendere appassionante anche la situazione più urticante. E ce ne sono tanti di personaggi, uno più eccentrico, sbalestrato, surreale dell’altro. Tutti assolutamente sopra le righe, come se, viene da credere, nelle prealpi bavaresi possano vivere solo freak, matti, inetti o klöble, come li chiama l’autore, evidentemente autoironico.

Eppure nessuno di questi viene trattato come un mostro da baraccone. In questa ricerca delle origini, con una storia parallela che parte un secolo prima e si ricongiunge solo alla fine alla trama principale, Kloeble sembra dirci che la norma, nella vita, è l’eccentricità, che le regole sociali sono puro artificio, che dentro ognuno di noi alligna l’assurdo, il torbido, il primitivo, il lutto. Ma anche la compassione, l’amore e persino estasianti momenti di pura felicità.

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(pubblicati precedentemente su Cooperazione nel 2020)

 

V. & V. Nabokov & son

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[Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo un estratto da Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore, Mimesis, 2022.]

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di Chiara Montini

Vera e Vladimir Nabokov decidono di far entrare anche il figlio al servizio della loro piccola impresa letteraria, in principio affidandogli traduzioni sotto la loro supervisione e responsabilità. Non vogliono in alcun modo forzare la mano, ma desiderano trasmettere al discendente l’idea che quell’impresa è e sarà anche sua. È una sfida, soprattutto se pensiamo che Nabokov rappresentava il traduttore in catene. Difficile immaginare Dmitri incatenato a una scrivania a scervellarsi su come tradurre gli impossibili giochi di parole nabokoviani. Con quella bella voce da basso profondo, la passione per gli sport estremi e la velocità, l’attrazione seriale per le donne, il suo metro e novantanove di fascino, Dmitri sembra poco portato per un mestiere introspettivo e sedentario come la traduzione. Ma i genitori non si arrendono, e tentano di “instillare in lui un’etica lavorativa offrendogli allo stesso tempo una professione nel caso non avesse successo come basso, in modo da assicurarsi, tra l’altro, che l’opera di Nabokov restasse un affare di famiglia.”

Che il suo destino fosse già segnato quando Vera gli leggeva la traduzione russa di Alice nel paese delle meraviglie? Oppure quando, quattordicenne, affronterà per la prima volta un romanzo del padre?  Quella prima lettura, Un mondo sinistro, deve essere stato il frutto di una scelta ponderata. È anche una dichiarazione di amore. Il protagonista, Krug, resta attonito di fronte all’affetto infinito che lo lega al figlio facendo eco ai sentimenti dell’autore evocati in Speak, memory. O forse quel disegno comincia a prendere forma quando, dopo aver sondato le reazioni del figlio, gli verranno date a turno tutte le opere nabokoviane in lettura? Comunque siano andate le cose, si tesse nel tempo un filo indissolubile che lega l’attività del grande Nabokov al piccolo. Quel filo passa dapprima attraverso le lingue, poi la letteratura e infine la traduzione. Il progetto si realizza il giorno in cui i Nabokov decidono di lavorare insieme alla traduzione di A Hero of Our Time, il capolavoro di Lermontov.

 

Un impiegato reticente

L’iniziazione che dovrebbe permettere a Dmitri di entrare a pieno titolo nella piccola impresa a conduzione familiare si farà quindi su un romanzo di un “estraneo”, cioè di uno scrittore che non è il padre. Quando Nabokov chiede a Epstein l’incarico di tradurre il classico di Lermontov in collaborazione con il figlio si pone a garante di questo primo lavoro. In una lettera indirizzata all’editore non esita a decantare i meriti di Dmitri, ancora inesperto, con un tantino di esagerazione:

“Il mio protégé altri non è che mio figlio, il quale terminerà il primo ciclo di studi a Harvard in primavera. È un giovane slavista nonché un autore americano emergente. Ha fatto alcune traduzioni molto lodevoli per me, e m’impegnerei a verificare, rivedere e lavorare sul testo proposto.”

Pur lodando il rampollo per le sue doti e per le sue capacità, Vladimir Nabokov si assume la responsabilità sul testo finito per rassicurare l’editore. Cosa comprensibile, poiché la traduzione di A Hero è una prova, un trampolino di lancio per entrare a far parte dell’impresa V&V Nabokov.

Quando Dmitri affronta Lermontov ha la stessa età del padre all’epoca in cui traduceva Colas Breugnon di Romain Rolland (Nikolka Persik). Come il padre, non intraprende il lavoro con particolare entusiasmo perché, come il padre ai tempi di quel lavoro, ha ben altre priorità. Ma se Nabokov, nonostante la procrastinazione iniziale, terminerà con successo, autonomamente e in breve tempo il compito affidatogli, il figlio non finirà la traduzione, ma delegherà ai genitori. A questo proposito Vera scrive sconsolata: “Lo scorso anno Dmitri ha cominciato una traduzione per Doubleday e quest’estate V[ladimir] l’ha finita nell’Utah. Anch’io ho fatto la mia parte”. Eppure, Vera aveva dispensato severi e rigorosi consigli a Dmitri affinché portasse a termine la sua mansione: occorreva conoscere a fondo l’opera, l’epoca e i costumi, leggere le altre traduzioni senza plagiarle, tradurre ogni giorno della settimana senza santificare le feste e dedicare a ogni pagina almeno un’ora e mezzo. Per mitigare quei rigidi imperativi offriva l’assistenza incondizionata sua e del marito. E difatti fu lei a occuparsi del contratto a nome del figlio così come fu lei ad accollarsi gran parte delle prime bozze. Il marito si fa invece carico della revisione e della stesura finale. Con l’ironia che lo distingue, riassume all’amico Edmund Wilson la distribuzione dei compiti come segue: “Dmitri ci ha dato una mano, a me e a Vera, per la nostra traduzione di Lermontov”. Pur portando la firma congiunta di Dmitri e Vladimir Nabokov, indispensabile fu la partecipazione di Vera alla traduzione cui il figlio contribuì in minima parte. Più tardi, non senza un certo insolente candore, ammetterà quanto poco si fosse impegnato in quell’occasione:

“Il primo testo che tradussi con Nabokov non era scritto di suo pugno. Si trattava di Un eroe del nostro tempo di Lermontov. Cominciai il lavoro poco dopo aver terminato gli studi a Harvard per poi continuare, con una buona dose di procrastinazione, nel corso di due inverni di scuola di musica a Cambridge e un’estate di scalate nelle montagne nella Columbia Britannica. Durante un lungo soggiorno a Cambridge nell’inverno del 1955-56, mio Padre usava prendermi in giro con una punta di risentimento ogni volta che si imbatteva nella mia vecchia MG eternamente decappottata, al cui interno si trovava, insieme ad ogni sorta di attrezzatura sportiva, una copia russa del volume di Lermontov in balia delle intemperie, talvolta ricoperta di neve, aperta per giorni e giorni sulla stessa pagina, di cui controllava il numero che annotava con cura.”

Quel tono ironico, che talvolta eguaglia quello del genitore, è eloquente. La dice lunga su quali fossero le sue priorità all’epoca in cui esordisce come traduttore: la musica, le scalate, la sua vecchia auto, vari sport più o meno pericolosi, e infine la traduzione. Queste attività furono il suo vanto e… croce e delizia dei genitori.   Tra l’ingenuo e il faceto Dmitri si pavoneggia: “Il risultato di queste fatiche, alla fine, con una piccola lucidatura di Vladimir e Vera Nabokov è soddisfacente, accurato e leggibile, e la nostra traduzione è diventata un testo di riferimento in molti corsi di letteratura russa.”

Da quel momento, Dmitri comincerà a tradurre esclusivamente le opere del padre dal russo all’inglese e, contrariamente alla madre che agisce in sordina, si distinguerà esibendo la propria firma su tutte le traduzioni in collaborazione con il padre, compreso, ovviamente, A Hero of Our Time.

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Trl (Traduzione a responsabilità limitata)

Forse l’esperienza ha insegnato ai genitori che, visti i problemi riscontrati nel tradurre il capolavoro di Lermontov, il repertorio del figlio dovrebbe “limitarsi” all’opera del padre. L’amato Dmitri ha alcuni vantaggi innegabili per continuare su quella strada: conosce le lingue, l’opera e il lessico paterno meglio di chiunque altro che non sia la madre.

Inoltre, nella sua qualità di figlio di esuli sa bene che cosa significa vivere tra le lingue. La sua biografia è poliglotta, come quella dei genitori e come l’opera paterna. In casa parla russo, ma abbiamo visto che nasce a Berlino per trasferirsi in Francia poi negli Stati Uniti dove si “americanizza”, in Italia e infine in Svizzera. La madrelingua, o meglio la lingua naturale, per lui non è quella della madre, bensì l’inglese che impara a parlare come un autoctono. Un inglese che, contrariamente a quello di Nabokov, eccellente ed erudito, è attuale, idiomatico, spontaneo. Quanto al russo, lo conosce abbastanza bene da poterlo tradurre, anche se sembra fosse “spaventoso” allo scritto: “al suo primo anno di università, Vladimir scriveva a Roman Jakobson, il famoso linguista strutturalista di Harvard, per dirgli che il ragazzo “non vedeva l’ora di seguire i suoi corsi” e aveva urgente bisogno di studiare la grammatica”. Conosce, inoltre, l’opera del padre. I Nabokov gliene leggono i testi ad alta voce fin dalla sua tenera età per poi darglieli in lettura quando è in grado di capirli.  Raggiunta la maturità necessaria, parteciperà alla sua attività creativa come ascoltatore e testimone delle discussioni tra i genitori. Serena Vitale, traduttrice di Vladimir Nabokov, nonché forse l’unica donna che Dmitri fu davvero sul punto di sposare, sostiene che era “– anche per i discorsi sentiti in casa, per quello che gli diceva la madre – uno dei migliori ‘lettori’ dell’opera del padre, capace di intendere sfumature e sottintesi, ecc., che anche a un buon traduttore sfuggono”. Dmitri riconosce con umile onestà quel privilegio:

“Leggere, rileggere e riflettere sulle opere di mio padre col beneficio di averlo conosciuto intimamente, è sicuramente uno di questi. Un altro è l’accesso a materiale privato, che mi permette di sbirciare attraverso gli interstizi e addentrarmi nei meandri del processo creativo nabokoviano. Ultimo e principale è mia madre, che pur nella sua grande modestia, è una studiosa brillante e vanta una conoscenza enciclopedica di Nabokov, della letteratura e delle cose in generale.”

Mettendo il figlio a tradurre il padre, i Nabokov rinforzano l’idea di un’impresa familiare che divulga l’opera del grande autore in varie lingue. Se l’impresa nasce quasi per caso dall’amore tra Vera e Vladimir Nabokov e dalla loro comune passione per le lettere, l’unico figlio della coppia deve la sua posizione di traduttore a contingenze più materiali, a un tentativo di arginare le sue energie centrifughe. Quando Dmitri termina gli studi a Harvard, Nabokov si è potuto guadagnare una certa fama anche negli Stati Uniti. Il lavoro di Vera cresce proporzionalmente a quel successo e occorre qualcuno che possa aiutarla. Dmitri, con l’ausilio del padre e della madre, potrà fare le veci di quel tanto anelato e introvabile “traduttore ideale”. Non possiamo certo affermare che la sua prima traduzione in collaborazione, A Hero, sia stata un esempio di virtuosismo ed etica professionale. Abbiamo visto che il lavoro andò a buon fine solo perché se l’accollarono in gran parte i genitori.

Perché allora entrambe le parti si ostinano a fare di lui un traduttore? Che Dmitri trovi più stimolante tradurre l’opera del padre? Vi sono ragioni per crederlo. Meriterà le lodi dei genitori per la sua versione inglese della sua seconda traduzione (la prima di un testo di Nabokov): Invitation to a Beheading, Invito a una decapitazione. Forse non è un caso che quella traduzione fosse già stata cominciata da Vera, pur restando nel cassetto. Comunque siano andate le cose, quella prima traduzione di un testo di Nabokov pare aprire la strada a nuove responsabilità: “Vladimir è stato felicissimo di sapere che Invitation ti è piaciuto”, scrive Vera Nabokov a Morris Bishop: “Il povero Dmitri non ha avuto grandi riconoscimenti dai giornali, è vero. Per motivi di copyright, era necessario specificare che questa traduzione era stata eseguita “in collaborazione con l’autore”. La prossima volta sarà diverso”.

E invece no, non “sarà diverso” (c’è da chiedersi se Vera crede davvero a quanto scrive). Nabokov continuerà a puntualizzare sistematicamente che le traduzioni inglesi dei suoi testi sono il frutto di una collaborazione con l’autore, il quale si riterrà unico responsabile del risultato finale. Non mi è stato possibile ritrovare i manoscritti di Invitation per poter stabilire quale fu il rispettivo contributo del padre della madre e del figlio, ma come spiega senza malizia lo stesso Dmitri Nabokov in saggi pubblicati dopo la morte dell’autore, la ripartizione dei ruoli è chiara e immutabile: “Il mio compito” –– afferma in un’intervista rilasciata a France Culture – “era di procurargli una traduzione molto, molto letterale che conteneva varie possibilità. Tra queste [Nabokov] ne sceglieva una.” Poi conferma: “La mia versione fungeva da ‘base’, spesso trovava espressioni un po’ maldestre nell’originale che eliminava traducendo […] Gli lasciavo carta bianca. Sapeva che non avrebbe ferito il mio amor proprio di traduttore”. Non contesterà mai né il sapere né l’autorità paterna che gli sono anzi indispensabili:

“I problemi di traduzione, quando mio padre era ancora in vita, si risolvevano facilmente qualora si trovasse nelle vicinanze, a Ithaca, Cambridge, o Montreux. In tal caso, mi potevo rivolgere direttamente a lui. Altrimenti, per certe parole o frasi fornivo due o più opzioni con diverse sfumature. Spesso sceglieva quella che preferiva: in altri casi, invece, rifiutava le alternative proposte e se ne usciva con una brillante trovata nabokoviana che non mi aveva neppure sfiorato la mente. Tra noi regnava un patto inviolabile. Io avrei procurato la traduzione più letterale possibile, sulla quale lui aveva tutta la libertà che desiderava. Talvolta, come nel caso di King, Queen, Knave (Re, regina, fante), aggiungeva o riscriveva interi brani. Oppure, come in “Solus Rex”, o nel capitolo dei Chernyeshevskij in The Gift (Il dono), reinseriva passaggi che erano stati sostituiti da punti di sospensione allo scopo di aggirare i pregiudizi della censura di un’era passata.”

[…] Quando entra a pieno titolo nell’impresa familiare, la collaborazione con Nabokov assomiglia a una pratica di autotraduzione laddove il collaboratore rappresenterebbe una sorta di amanuense specializzato nell’altra lingua. E la sua bozza servirebbe soprattutto a sgravare l’autore dalla parte più cronofagica e prosaica del lavoro. Mai i genitori si lamenteranno pubblicamente dell’operato del figlio che godeva della loro stima e del loro appoggio incondizionato. Il padre, in particolar modo, si dimostrava sempre molto elogiativo nei confronti di quel “traduttore meravigliosamente congeniale” e considera, tra l’altro, la traduzione di Glory “superlativa”,  e “splendida” quella di Cose Trasparenti in italiano firmata dal solo Dmitri. Ma Nabokov senior non conosceva quella lingua, come ammetterà in seguito lo stesso Dmitri per criticare un’altra traduzione italiana incensata dal genitore, quella di Lolita ad opera di Bruno Oddera.

Una cosa i Nabokov l’hanno capita. Nessuna pressione sul figlio lo distrarrà dalle sue attività preferite e prioritarie. Quando non sarà disponibile, si rassegneranno e affideranno la traduzione ad altri bilingui anglofoni. È quanto avviene per Дар, poi The Gift (Il dono), di cui Dmitri traduce il primo capitolo per passare la penna a Scammel. Questi incidenti di percorso non scalfiscono il progetto e la gestione dell’opera di Nabokov resta principalmente un affare di famiglia. Ma a che prezzo?

Sembra quasi che, in attesa del momento ineluttabile in cui il grande autore verrà a mancare, i Nabokov, uniti da un interesse comune, preparino il matrimonio a venire di Dmitri con l’opera, in un gioco di specchi e in un succedersi di ruoli che sfiora l’identificazione. Eppure, almeno in principio, la posta in gioco non è la stessa per i genitori e per il figlio. Non sarà la morte del padre a far precipitare gli eventi e a convincerlo a scegliere la strada tracciatagli dai genitori, bensì un incidente che gli fu fatale.

‘O paese

2

di Giorgio Sica

Ispirato dalla poesia che canta il ritorno al paese, al selvaggio borgo natio che assurge a luogo di purezza ed eroico furore, dove poter amare davvero la donna, liberata dalla retorica stilnovista e tornata finalmente femmina, ho composto un piccolo ciclo di componimenti dal titolo O paese – dedicato a chi sa prendersi una vacanza intorno a una poiana, e perdersi in un filo d’erba.

 

Cedi il cammino agli alberi
lascia il passo alle pecore
è loro la strada dalla notte dei tempi.
Smettila di pensare
incidi il tuo nome sulla corteccia.
Sii come la poiana, la formica, l’arancia
sii una scarpa infangata nella terra.
Sali al paese a bere del vino
il vino forte sincero spremuto
con i piedi rugosi di zio Tonino.
E sarà l’ebbrezza e la gaiezza
di un tuffo a pesce nella selva oscura
tra le mammelle mature di Annina
che conserva negli occhi ovini
lo splendore del latte.

***

“Togliti le mutande”
provai a dirle con la cura
del prete, la dolcezza
della farfalla.
Volevo attentare alla sua noia
molestare la sua indifferenza
risvegliarla come il lombrico
che fa il buco nella mela.
Ma a nulla servì
la mia ostinazione
devota di formica
e cinque dita, feroci,
bruciano ancora sulla guancia.

***

Una mucca ci deve stare
Non so per cosa
Ma una mucca ci deve stare
Come ci sono le donne, le poiane
Come ci sono i calanchi.
Ci deve essere una mucca
Che sia latte e dio
E carne fresca.

***

Alcune vacche hanno un odore
in fondo alla gola,
un odore dell’essere,
e poi c’è la forma del naso,
la luce delle costole, la voce del campanaccio,
il desiderio che trancia i polsi,
che riempie le vene
di animali fucsia.
Alcune vacche hanno gesti assoluti
dolcezze furibonde.

***

ti cercherò quando più non sarai.
forse non esiste la vita dopo la morte
l’aulivo dopo il calanco
il silenzio dopo il muggito.
Ma getterò i miei elettroni a scatafascio nell’universo
dentro una rana
una femmina
una scarpa.

***

Portami con te
dietro al bar, sotto le fronne dell’aulivo
sul bordo del calanco, portami con te
dentro al caffè, al pronto soccorso
spiegami all’infermiere,
salvami dalla suora e dalla furia
del barelliere.
Portami dal meccanico, portami dal dentista
dal fabbro che il ferro batte
portami dall’anestesista,
che m’addormenti il cuore.
Ma risparmiami l’idraulico e bacia
il filo teso di questo amore
con quella lingua bovina
profumata d’erba.

***

ERMETICA

Furono guance e froge oppure branchie
lo scintillio fugace della perla
l’estasi del campanaccio.
Sempre amore mi mosse
e l’eco della luna
il grido della vacchetella
persa nell’inchiostro
del calanco.

***

Trovati uno scalino, siediti e riposa.
Sfogliala piano questa tua rosa,
petalo a petalo, mentre parli del vino,
mentre lo bevi con lo zio Tonino.
Aspetta che scenda la notte
saluta le stelle, svuota la botte
e corri alla casa di tutta una vita.
Prendi il quaderno, la gomma e la matita.
È così facile essere un poeta.

 

Willy e luglio

0

di Arjuna Cecchetti

Okay, vederla tuffarsi dal pontile non era da mozzare il fiato, le mancava qualche curva nei punti giusti, per lo stesso motivo non mozzava il fiato nemmeno quando risaliva spingendo con le braccia sulle tavole di legno. Però Willy era capace di stenderti nel bel mezzo di una mattina indaffarata, nella calca lungo i corridoi della scuola, fra i tavoli della mensa e ovunque capitasse di incontrarla. Willy era in grado di stenderti persino in quei giorni in cui tutto sembra andare storto e sei costretto a pensare a un mucchio di cose senza senso. Willy ti mozzava il fiato perché non aveva mai fretta, aveva l’aria di essere concentrata su quello che stava facendo nel preciso momento in cui era. Willy non possedeva alcuna abitudine che la proiettasse avanti nel tempo. Non truccava gli occhi e non usava profumi dolciastri, insomma, non tentava in alcun modo di distrarre gli altri su ciò che stava accadendo. Non prometteva nessun dopo. Ad esempio durante uno scambio di battute con un sandwich in mano, Willy dava l’impressione di seguire il discorso e non di pensare a tutt’altra cosa. In quel momento era capace di stenderti, non lo faceva a posta, era solo colpa degli occhi rotondi, dei capelli in ordine color biondo cenere e delle sue labbra che erano mai chiuse sul serio, lasciando uno spazio aperto che ricordava le cose desiderate. Il resto della realtà sfumava, diventava uno sfondo con l’unico scopo di incorniciarle il volto.

Era per tutto questo che Diego aveva deciso di uscirci, che l’aveva baciata e che ci aveva fatto l’amore, ma era successo in inverno e non sarebbe dovuto durare tanto.

“Di’, non fa troppo caldo? Forse non è stata una buona idea venire.”

Willy non rispose, rimase ferma in piedi a sgocciolare sulle tavole del pontile.

“A cosa stai pensando Willy?”

“Venivo qui da bambina.”

“E ti piace davvero qui?”

“Mi ci portava papà, lui si metteva laggiù.”

Willy fece il gesto di tirare indietro la canna da pesca come quando il pesce abbocca.

“Di’, hai mai provato?”

“Qualche volta, ma lo trovavo noioso, preferivo fare il bagno anche se gli spaventavo i pesci. Perché non fai un tuffo?”

“L’acqua è marcia, come fai tu a tuffarti?”

Willy di nuovo non rispose, si era distesa sulle tavole del pontile, le gocce scivolavano dal suo corpo bianco fino alle assi. Willy luccicava al sole. Il corpo di quella ragazza non possedeva le curve di Mary, questo gli era evidente. Mary sapeva muoversi così come piaceva a lui, e non solo a lui. Mary era un’altra cosa, i suoi amici lo avrebbero invidiato se fosse arrivato con lei. Invece quando c’era Willy con lui, le poche volte che erano stati al cinema oppure in un locale del centro, i ragazzi erano sempre impacciati, niente battute, niente argomenti, niente risate. Willy non era mai impacciata o forse lo era sempre. In ogni caso anche lui non era del tutto a suo agio quando c’era Willy e i suoi amici nello stesso posto.

Erano passati lunghi minuti e lei non si era mossa. Supina sul pontile, respirava lentamente, ma lui era certo che non dormisse. Una o due volte una carpa dal ventre verdastro si era rigirata sulla superficie del lago sbattendo sull’acqua scura. Un istante dopo una folata di brezza calda aveva fatto rumoreggiare il canneto. Nient’altro si era mosso in quel posto per tutto quel tempo.

Diego stesso non  aveva cambiato posizione, le gambe cominciavano ad indolenzirsi. Da un’ora quasi se ne stava nell’unica porzione del pontile dove il canneto circostante riusciva a proiettare un’ombra secca e frastagliata.

“Che facciamo stasera? I ragazzi si vedono al bar, poi andranno sicuramente da Luca, è il compleanno della sorella. Hanno la piscina. Ti piacerebbe?”

“Mi piacerebbe.”

Era a lui che non sarebbe piaciuto. Non gli piaceva mai quando c’era Willy in mezzo ai suoi amici. Peggio era quando c’erano Willy, gli amici e una festa. Gli sarebbe toccata la solita recita. Starsene tranquillo per gran parte della serata e poi trovare un modo di riportare Willy dai suoi il prima possibile. E solo dopo averla vista risalire per il vialetto di ghiaia e dopo aver visto la luce dell’ingresso accendersi, lui avrebbe rimesso in prima l’automobile e sarebbe tornato alla festa a fare finalmente quello che gli riusciva bene. Mettersi in mostra, farsi vedere da Mary, farsi vedere dagli altri e dimostrare al mondo che nella sua vita Willy era un breve sbaglio di cui si sarebbe liberato presto.

Presto ma quando?

“Di’, ma non dici che ti annoi con loro?”

“No.”

“Sicura che vuoi andare?”

“Io vengo se ti va di andare insieme. Non sono stata invitata, non posso presentarmi da sola.”

Non c’era nessun segno di irritazione nella voce di Willy, non era il tipo da irritarsi per quel genere di cose.

“Puoi fare ciò che vuoi Willy. I miei amici sono i tuoi. Quanti mesi sono che usciamo insieme?”

“Dal cinque febbraio, sono sei.”

Lui non pensava fossero così tanti. Willy teneva le palpebre abbassate, non lo stava guardando. Lui prese a contare i mesi con le dita della mani. Sei. Tanti.

“Andiamo?”

“Un attimo. L’acqua era fredda e il sole mi sta asciugando, vorrei restare un altro po’ per fargli finire l’opera.”

Il ventre piatto si alzava leggermente ad ogni respiro. Il bikini umido lasciava emergere i capezzoli. Il seno era piccolo e certe volte sul letto, sorridendo, lei si era scusata con lui per non avere un bel seno come piace ai maschi. Ma lui non pensava a quel seno acerbo come a qualcosa che non andasse. Willy non era quel genere di bellezza. Almeno su questo lui era d’accordo con sé stesso, Willy le era piaciuta per altro. Per cosa?

“Puoi passarmi il telo?”

La spugna bianca rifletteva il sole abbagliando. Afferrò il telo e lo lanciò attraverso l’aria immobile dell’estate. Il telo atterrò accanto a lei.

“Grazie.”

Lei si mise seduta dandogli la schiena, avvolgendo le spalle con la spugna.

“Ci sono quasi.”

Nel frattempo lui aveva preso la canottiera azzurra di Willy. La canottiera era stata là, piegata tutto il tempo, accanto alla gonna. Diego ci stava affondando il naso, cercava l’odore di Willy. Lei aveva un odore suo. Le altre sembravano sempre non averne. Willy era ancora di spalle e poi si è alzata. Era in piedi a pochi passi da lui. Migliaia di riflessi si alzavano dalla superficie dell’acqua, i bagliori illuminavano lo spazio attorno alle gambe magre e dritte. Cosa ne sarebbe stato di lei se l’avesse lasciata? Doveva convincersi che non era affar suo cosa ne sarebbe stato. L’avrebbe lasciata senz’altro. Sei mesi è tanto tempo. Ma non si erano visti spesso, tre o quattro volte al mese, nelle ultime settimane anche meno. Quel sabato avevano deciso di passare il pomeriggio al lago proprio perché non si vedevano da alcuni giorni. Dalla fine delle lezioni addirittura. Lui trasse un respiro profondo, più profondo di altri. Cercò le sigarette. Erano accanto alla gonna di lei. Ne accese una.

“Vuoi una sigaretta?”

“Si.”

“Prendi.”

Willy ne prese una con le dita leggermente bagnate e provò inutilmente ad accenderla con l’accendino.

“Tieni, prendi la mia.”

Lui ne accese un’altra. Erano più vicini ora. Cosa aveva Willy, perché ancora non era uscita dalla sua vita?

“Quindi stasera?”

“C’ho riflettuto. Andiamo insieme. Ma non devo passare da casa, se passo dai miei poi non mi fanno uscire un’altra volta.”

“Ma dovrai fare una doccia, cambiarti. Queste cose qui, no?”

“La doccia posso farla da te, e per i vestiti vanno bene questi, li ho messi puliti.”

“Dio mio è pur sempre un compleanno! Ci vorrà un vestito, un paio di orecchini, che ne so io.”

“Non irritarti su.”

“Chi si irrita! È solo che sei così… Così difficile.”

Mentre diceva questo non era potuto rimanere seduto, si era alzato, pronto per tornare all’automobile del padre.”Dai vestiamoci.” Quindi, Diego, aveva indossato la camicia. Willy, invece, aveva ancora il telo bianco sulle spalle e la sigaretta in mano. Fece cadere il telo e poi tentò di tirare su la gonna continuando a fumare. Tolse il costume bagnato e indossò le mutandine. Tenendo la sigaretta fra le labbra sganciò il bikini.

“Ti dispiace passarmela?”

Lui prese la canottiera azzurra, desiderava annusarla un’ultima volta, ma lei lo stava guardando. Willy la infilò senza smettere di fumare.

“Guarda!”

“Cosa?”

“Là.”

Willy stava indicando una macchia scura sul cielo azzurro.

“Quello è un nibbio bruno. Potrebbero essercene molti da queste parti. Sono strani i nibbi.”

“Sono falchi no?”

“Più o meno. Guarda deve aver visto qualcosa. Restiamo immobili.”

Rimasero fermi. Il nibbio aveva smesso di volteggiare sopra le acque nere del lago. Il sole era alto, l’azzurro del cielo era infinito. La sagoma del rapace si stagliava scura mentre i raggi solari attraversavano le penne della coda biforcuta. Poi il rapace si era gettato in picchiata verso l’acqua, tuffando gli artigli sotto la superficie, alzando schizzi argentati e sbattendo le ali per rallentare e ripartire. Infine era risalito in alto con qualcosa di guizzante fra gli artigli. Il pesce aveva continuato a mandare riflessi per tutto il resto del volo, poi il nibbio era sparito fra le chiome dei salici circostanti.

“Siamo stati fortunati.”

“Bello, si. Era un pesce quello, giusto Willy?”

“Si. Siamo stati fortunati. Quante altre volte ci capiterà di vedere un nibbio che pesca? Io dico al massimo altre due o tre volte nella vita.”

“Una volta mi ha attraversato un’istrice.” In realtà, Diego, non sapeva perché avesse detto dell’istrice. Il suo obiettivo era interrompere la conversazione, tornare all’automobile, lasciarsi il lago alle spalle, viaggiare col finestrino abbassato per togliersi la calura di dosso e riportare Willy dai suoi. Ci sarebbe stato bene un gelato, magari, per non essere scortese. Allora perché dire dell’istrice e allungare la conversazione?

“Spero tu non lo abbia investito.”

“Ma no, i fari lo hanno illuminato. Ricordo che all’inizio non avevo capito cosa fosse. Cioè chi se lo aspettava un istrice con gli aculei bianchi e neri in mezzo alla strada. Era appena dopo la curva. Ma ti va un gelato… Un drink?” Ecco, la conversazione ora doveva virare sul viaggio di ritorno.

“Ha fatto rumore?”

“Chi?”

“L’istrice.”

“Non so, no.” Invece si. Diego ricordava quel rumore, c’era stato un fischio, una specie di fischio, e poi gli aculei avevano sbattuto fra loro producendo un suono che era stato come quando passa il vento ripetutamente fra la chioma di un albero. L’animale impaurito aveva tremato a lungo in mezzo alla strada e gli aculei avevano continuato a sbattere e lui aveva continuato a sentire quel rumore che era difficile da spiegare soprattutto su un animale vivo. Solo dopo qualche istante l’istrice era ritornato oltre il margine della strada, dentro i cespugli. Era accaduto due o tre anni prima, perché se ne ricordava ancora?

“Andiamo adesso, Willy, ti prego.”

“Eccomi, metto i sandali.”

Anche lui aveva bisogno delle scarpe.

“Willy, hai visto i miei mocassini?”

“Forse li hai tolti quando eravamo in auto?”

Probabilmente aveva tolto i mocassini quando si erano baciati, in auto, prima di scendere. Quando lui aveva creduto di poter fare l’amore e lei aveva detto invece che desiderava tuffarsi il prima possibile per colpa del caldo. Ma i mocassini non erano nell’auto. Lui fece vagare lo sguardo attraverso la densa aria bollente che stagnava sul lago e poi li vide. Li aveva lasciati all’inizio del pontile. Certo che sarebbe stato piacevole fare l’amore un’altra volta con Willy. Magari poteva avvicinarsi e abbracciarla da dietro e farlo lì sul pontile. C’erano solo loro due in quel posto dimenticato. Una volta ancora e poi l’avrebbe lasciata. Doveva lasciarla. Mary glielo aveva chiesto esplicitamente. Una sera gli aveva detto Come fai a uscire con lei? È pazza, lo sanno tutti. Non voglio dividerti con lei, ti do una settimana dopodiché fra noi è finita.

I suoi mocassini di ottima pelle erano là, dove terminava la sponda del lago e cominciavano le assi del pontile. Si abbassò per prenderli e la puzza di melma lacustre gli entrò nel naso. Sbuffò dalle narici per ricacciarla fuori. Intorno a lui ronzavano gli insetti neri. Che diavolo ci faceva lì insieme a  Willy?

Lei aveva infilato i sandali, era pronta, aveva la borsa di tela sulla spalla e stava guardando verso il lago un’ultima volta. Intorno a lei il verde della vegetazione e lo scuro dell’acqua erano sovrastati dalla calura estiva. Nulla sembrava muoversi. Solo quei maledetti moscerini che lo stavano aggredendo mentre infilava le scarpe. Perché accettava questo?

Improvvisamente qualcosa si mosse difronte a lui, qualcosa che era dentro alla melma nera del lago, qualcosa di viscido e goffo. Un rospo si era mosso fra il fango vischioso. Ora che lo aveva individuato poteva osservarlo bene. L’anfibio stava scalando una zolla di fango fra la decomposizione vegetale depositata sul fondo del canneto. Le zampe posteriori scalciavano a vuoto nel tentativo di allontanarsi. Quel rospo stava scappando da lui? Avrebbe potuto allungare una mano e afferrarlo. Aveva l’impulso di farlo. Lo stava per fare. Il braccio era pronto, la mano era aperta e le dita protese. Ma perché?

Si voltò di scatto, dovevano andarsene subito. Si voltò verso il pontile. Era vuoto. Willy non c’era, le sue cose non c’erano, il pacchetto di sigarette non c’era, l’automobile non c’era, la serata al compleanno non c’era, i cocktail non c’erano, la musica non c’era, Mary non c’era, la piscina non c’era. C’era solo lui a nove anni, coi piedi nudi sulle tavole del pontile, la schiena abbronzata, il torso nudo, la collana di perline rosse, i capelli ricci sconvolti dalla corsa e un sorriso di soddisfazione sul viso sudato. C’era lui a nove anni sulla punta di quel pontile sopra le acque scure del lago.

Il bambino si era voltato verso gli amici. Laggiù, fra le canne palustri, stavano avanzando il fratellino mezzano e la sorella minore, anche loro affannati dalla corsa. E poi c’era una quarta bambina, una bambina alta e magra, senza maglietta. La schiena era dritta e i capelli di paglia le scendevano lunghi fino al petto e fra le ciocche chiare, lui, aveva notato i seni appena accennati. Willy.

E allora il lui bambino di nove anni ha cominciato a ridere, a ridere rumorosamente. Fiero, ha mostrato agli altri bambini del lago quello di cui era capace, alzando il braccio verso l’azzurro del cielo e mostrando loro  il grosso rospo nero che teneva per una zampetta. Il rospo scalciava l’aria e la pelle viscida dell’anfibio riluceva al sole di Luglio.