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Photomaton: Rino Bianchi

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Molta forza

di Francesco Forlani

nota pubblicata su Focus-in, a proposito del reportage di Rino Bianchi su Cassino.

Nella ventennale corrispondenza con Rino Bianchi non c’è mail, messaggio, scambio che non si sia concluso con questa formula: molta forza. A tutti i fotografi, grandi professionisti, che io abbia potuto incrociare sul mio impervio cammino di fabbricante di riviste letterarie, ho riservato una figurina, un avatar in grado di esprimerne la quintessenza; a Philippe Schlienger la carta del giocatore, a Salvatore Di Vilio quella del maratoneta,  mentre a Rino ho assegnato, da sempre, quella del gladiatore.

Ecco perché quel suo mantra, forza che dà per scontato il coraggio, gli corrisponde ed è forse questa sua qualità che vuol dire determinazione, generosità degli sforzi, studio, a farne il migliore dei ritrattisti di scrittori, insieme all’editore fotografo Giovanni Giovannetti. In tutti i progetti che ci siamo in questi anni scambiati, le nostre riviste Sud e Focus In, o la sua magnifica invenzione della Residenza delle narrazioni, come rarissime figurine Panini, in giro per l’Italia, Rino ha sempre proposto immagini di grande energia, generalmente in bianco e nero ma senza disdegnare il colore, come in questo caso per il suo fotoracconto di Cassino e dei suoi alentours.

In questi tempi da stato d’eccezione, schiaffeggiati da venti di guerra e pandemie, abbiamo rivisto nei servizi di cronaca la figura dei corrispondenti, inviati al fronte, dei reporter di guerra. Rino pur imbracciando la sua macchina come un’arma e vestendo all’americana, con l’attenzione al pratico muoversi tra festival e luoghi quasi dimenticati, è un fotoreporter di pace. Con precisione e dovizia di particolari dei conflitti, Rino legge gli scrittori che fotografa e generalmente si sceglie quelli che ama sulla pagina. Soprattutto riesce a tradurre in segni e forme il discorso interiore, mantenendone intatta la natura, il carattere.

Questa è la ragione per cui molti miei amici scrittori, uomini o donne che siano, vogliono che sia lui a rendere al meglio l’immagine di un cartellone o di una quarta di copertina. Suo è per esempio il ritratto di Helena Janeczek che abbiamo proposto sia in bianco e nero che a colori. Il lettore si troverà, ne siamo sicuri, davanti a due fotografie diverse pur trattandosi, tecnicamente, della stessa immagine. In questo sta la sua grazia, la sua capacità d’intuizione, la stessa che gli fa dire ogni volta: molta forza, ci vuole, aggiungiamo noi.

«L’anno dell’alpaca». Diario di un viaggio e di una pandemia

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di Antonella Falco

Giammarco Sicuro, L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia, Gemma edizioni, 2021

Ogni libro è, a suo modo, un viaggio. Alcuni, però, lo sono un po’ di più. Perché di un viaggio raccontano e del viaggio si nutrono. Sono quei libri attraverso le cui pagine riesci a sentire l’odore dei luoghi, il gusto del cibo, finanche il coraggio e la forza che nascono dalla paura. Sensazioni che diventano ancora più intense se quella che leggi è una storia vera e non il frutto della fervida fantasia di uno scrittore che ha viaggiato solo con la testa, restando comodamente seduto alla sua scrivania. Tale vivida sensazione si ha ad esempio leggendo L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2.

Il racconto inizia e si dipana nel periodo più tragico della pandemia, quello in cui essa ha inizio, cambiando radicalmente le nostre vite e determinando in tutti noi una forte incertezza nei confronti del futuro. Forse proprio per questo motivo i fatti vengono narrati in modo leggero e per quanto possibile spensierato, a tratti surreale. In questo diario di viaggio, per certi versi un moderno libro d’avventura, lo stile brillante e godibile è sorretto da una vena ironica e autoironica che consente all’autore di non soccombere dinanzi alle tragedie che la realtà del momento gli pone sotto gli occhi.

Eppure tutto questo non è cinismo. Lo sguardo di Giammarco resta profondamente umano e fortemente empatico, sensibile al dolore delle persone – specie le più fragili e indifese – e degli animali, rappresentati in questo libro da un alpaca e un lama, denominati rispettivamente Isabela e Esmeralda. L’elemento surreale è costituito proprio dal rapporto con questi due animali di peluche con cui l’autore si trova a dialogare. Acquistati come souvenir per essere regalati alla nonna, al ritorno dal viaggio, diventeranno, prendendo fatalmente vita, i fedeli compagni di lunghi mesi trascorsi, spesso in solitudine, lontano dagli affetti più cari.

Giammarco Sicuro si ritrova infatti con questi due peluche in Perù nel momento in cui in Italia la situazione precipita e il governo decreta il lockdown generale, con conseguente sospensione dei voli, cosa che rende difficoltoso il rientro in patria. Con l’ultimo volo disponibile Giammarco riesce a raggiungere la Spagna, Paese dove rimarrà bloccato per più di due mesi, raccontando da lì – unico inviato Rai in terra spagnola – il diffondersi della pandemia.

È l’inizio di un viaggio intorno al mondo che si concluderà otto mesi dopo. Dalla Spagna dei primi casi accertati, che tuttavia non ha saputo fare tesoro di quanto, qualche settimana prima, era accaduto in Italia, alla Corea del Sud, diventata un modello di gestione del virus, fino al Messico e al Brasile, dove la politica negazionista di Bolsonaro provoca una crescita esponenziale del numero degli infetti e delle vittime, la narrazione procede secondo un tempo che non è quello cronologico:  una scelta stilistica che serve a conferire “movimento” e vivacità al racconto (la successione non diacronica dei fatti fa sì che in ogni capitolo ci si ritrovi in un Paese e in un mese diversi, a ricostruire l’esatta cronologia aiutano però le date, riportate sempre nel sottotitolo), una sorta di montaggio molto cinematografico, con salti temporali in avanti e all’indietro  (d’altra parte Giammarco, a giudicare dal fatto che diverse sono le occasioni in cui nel libro si parla di film, ha tutta l’aria di essere un appassionato cinefilo) che consente di introdurre i personaggi in modo più accattivante per il lettore, ossia “in medias res”, permettendo di scoprirli gradualmente e progressivamente man mano che il racconto procede.

Alcuni di questi personaggi, per la loro spiccata personalità e per la vividezza dei ritratti che di essi fornisce Sicuro, assurgono al ruolo di veri e propri coprotagonisti. È il caso, ad esempio, dei vari “producer”, i collaboratori locali, spesso giornalisti del posto, che lo affiancano nelle sue trasferte da un continente all’altro. C’è Mariano, l’operatore che lavora con lui in Spagna, un argentino irascibile e insofferente all’autorità (si accapiglia quasi sempre con gli agenti di polizia, ma anche, per incompatibilità caratteriale, con Joaquin che è il montatore), ma spassosissimo quando prende bonariamente in giro Giammarco o gli rifila consigli non richiesti sulla sua vita sentimentale o puntualmente si addormenta al volante.

C’è Miriam, una specie di “generalessa” dal piglio deciso e autoritario, giornalista brillante e stakanovista, che affianca Giammarco in Messico e si approfitta un po’ troppo del suo portafogli, regalandosi al ristorante lauti menù abbondantemente annaffiati da vino o birra perché tanto «paga lui». E la dolce Joelma, assurdamente buona, remissiva fino all’inverosimile, capace però di tirar fuori grinta e artigli di fronte ai soprusi degli irritabilissimi agenti di polizia brasiliani, energumeni armati fino ai denti cui tiene coraggiosamente testa.

E l’imperturbabile Jay, il collaboratore sudcoreano, che perde le staffe solo l’ultimo giorno del loro lavoro insieme, quando Giammarco, scherzando, gli propone di sconfinare in Corea del Nord attraverso un fantomatico varco nella rete che delimita la “terra di nessuno”, la zona demilitarizzata, fra le due Coree.

L’anno dell’alpaca ci aiuta a comprendere il modo in cui ci siamo rapportati alla pandemia, passando attraverso fasi diverse, dall’iniziale tendenza a sminuire il pericolo, al graduale cambiamento dei nostri comportamenti, che ci ha visto prendere confidenza con delle misure (l’uso della mascherina, il distanziamento fisico e tutto l’insieme dei protocolli di sicurezza) che in un primo momento ci apparivano strane o esagerate mentre ora sono parte integrante della nostra quotidianità e testimoniano quanto grande sia la capacità di adattamento dell’essere umano anche nelle situazioni più gravi e complicate.

La lettura di questo libro permette anche di riflettere sul diverso approccio alla pandemia messo in atto nei vari continenti: dalla scelta, propria dei Paesi asiatici di chiudere tutto e sacrificare la privacy e i diritti individuali in nome del contenimento del contagio, e quindi del bene collettivo, a quella, adottata da Donald Trump negli Stati Uniti, ma diffusa anche in diversi Paesi del Centro America, Messico in primis, e nel Brasile di Bolsonaro, improntata a un negazionismo che considera cinicamente la morte degli individui più fragili ed esposti al virus (anziani, persone con patologie pregresse, fasce povere della popolazione) come il male minore, preservando così le attività economiche dalla crisi conseguente all’instaurazione di un eventuale lockdown generalizzato.

Due modalità di gestione della pandemia a loro modo spietate e spregiudicate, dinanzi alle quali l’Europa ha cercato di mantenere una posizione equidistante in grado di conciliare l’irrinunciabile necessità di contenere il dilagare del contagio con l’osservanza dei basilari principi di rispetto e solidarietà umani, uscendone in un primo tempo apparentemente sconfitta. Il modello che sembrava rivelarsi vincente sul piano della profilassi era infatti quello sudcoreano, mentre sul piano della prevenzione di una probabile crisi economica sembrava dare frutti incoraggianti il cinico modello trumpiano.

Un altro tema importante che emerge dalla lettura del libro di Giammarco Sicuro è quello riguardante le tribù indigene dell’Amazzonia, e in particolare il tentativo, operato dal governo brasiliano, di utilizzare il Covid-19 come una vera e propria arma per decimare, o comunque indebolire, le tribù locali, al fine di sottrarre loro le terre, disboscare sempre più ettari di foresta e destinarli alla coltivazione intensiva della soia – di cui i latifondisti amazzonici sono diventati i primi produttori al mondo – da piazzare poi sul mercato internazionale, in primo luogo quello cinese.

Tali tribù, ridotte ormai a poche centinaia di individui, sono infatti molto spesso vittime di soprusi da parte delle forze dell’ordine brasiliane, che compiono incursioni nei loro villaggi, minacciando e contagiando gli indigeni, i quali quando si ammalano, non ricevono dallo Stato alcuna assistenza. La scomparsa di queste minoranze etniche comporterebbe la perdita di un rilevante patrimonio linguistico e culturale: in pratica scomparirebbero per sempre le peculiari etnie che da tempo immemorabile abitano, in totale simbiosi con la natura, la rigogliosa foresta amazzonica.

L’anno dell’alpaca è un testo prezioso anche nella misura in cui ci permette di venire a conoscenza di alcune gravi degenerazioni etiche consumatesi all’ombra della pandemia, come quella accaduta al confine tra Messico e Stati Uniti, dove migliaia di donne e uomini messicani hanno varcato il confine per donare plasma a delle multinazionali la cui sede, non a caso, è ubicata poco oltre la linea di confine tra i due Paesi.

A questi messicani era consentito varcare tale linea anche durante il periodo pandemico, quando il confine restava chiuso per tutti gli altri. Le multinazionali del farmaco pagavano queste prestazioni in base al numero di donazioni: i messicani ricevevano il denaro solo dopo aver subito cinque prelievi, qualora avessero sospeso le donazioni prima del quinto non avrebbero avuto diritto ad alcuna ricompensa. In altri casi erano previsti pagamenti più alti se ci si fosse presentati in compagnia di un’altra persona disposta a donare anch’essa il proprio plasma. Così il numero dei prelievi cui un messicano si sottoponeva nell’arco di un anno risultava superiore a cento, ossia più del doppio di quelli consentiti dalla legge italiana, cosa che comportava notevoli rischi per la salute dei donatori.

Quella denunciata da Giammarco Sicuro nel suo libro è una delle tante modalità attraverso cui, in situazioni di emergenza, il mondo ricco ha sfruttato il mondo povero al fine di procurarsi una risorsa che, specie in quel momento, era considerata di fondamentale importanza in quanto gli emoderivati, come ad esempio il plasma iperimmune, erano ritenuti dei validi alleati nella lotta contro il covid.

Leggendo il libro ci rendiamo conto anche di come l’economia di sussistenza brasiliana sia retta fondamentalmente dalle donne, quindi la crisi pandemica ha fatto emergere il ruolo centrale della figura femminile in Paesi che spesso vengono considerati meno emancipati dei nostri Paesi occidentali. Un aspetto, questo, che dovrebbe farci riflettere su società che riteniamo arretrate, dove invece il ruolo della donna è molto più centrale e importante di quello a cui vengono relegate le donne nelle nostre società cosiddette “avanzate”.

Non sorprende, inoltre, che il libro abbia ottenuto il patrocinio dell’Unicef, poiché tante sono le storie di bambini in esso contenute, da quelli che a causa della pandemia hanno visto peggiorare enormemente le loro condizioni di vita a quelli che grazie alla propria inventiva hanno saputo mettere in atto forme di riscatto sociale o trovare piccole ma importanti soluzioni per far fronte all’inconsueta emergenza.

Il volume fornisce inoltre numerosi racconti, curiosità e aneddoti che farebbero la felicità di un appassionato di antropologia culturale, scopriamo, ad esempio, che in Bolivia feti imbalsamati di lama vengono seppelliti, in funzione beneaugurante e apotropaica, ai quattro angoli delle fondamenta di una casa in costruzione o che in Corea del Sud la pesca è affidata alle haenyeo, dette anche madri del mare, «la cui attività è da tempo riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’Unesco», queste abili pescatrici, alcune delle quali molto anziane, si immergono in apnea sfidando con estrema calma le acque gelide e agitate dell’oceano. Scopriamo inoltre che una delle prelibatezze locali è il sannakji, «piatto tipico coreano a base di nakji, un piccolo polpo servito ancora vivo e tagliato in piccoli pezzi. Di solito, viene condito con olio di sesamo e quando arriva in tavola, è ancora in grado di dimenarsi».

L’anno dell’alpaca riesce a toccare diversi registri: fa riflettere e commuovere, ma anche sorridere e, a tratti, ridere di gusto per delle esilaranti e tragicomiche disavventure occorse all’autore, come l’incontro scontro con Nancy (che non è detto sia una ragazza!) in Perù, o l’ingresso tutt’altro che trionfale nel nuovo appartamento madrileno, messo a disposizione dallo zio di Joaquin, dopo che Giammarco era stato costretto a lasciare il precedente appartamento per le proteste dei condomini che mal gradivano le sue uscite quotidiane in pieno lockdown (e vaglielo a spiegare che lui godeva di un permesso stampa!), o il grottesco resoconto dei quattordici giorni di quarantena imposti dal governo sudcoreano.

La pandemia come sfondo, come basso continuo, di un diario di viaggio che racconta anche  molto altro e, fra il molto altro, c’è il ritratto, a volte intimo, di un uomo che il caso ha fatto trovare dall’altra parte del mondo mentre l’Organizzazione mondiale della sanità decretava l’inizio di una devastante pestilenza globale, ma che poi ha scelto di esserci per raccontare, malgrado il flagello della malattia abbia lasciato tutti sgomenti, inermi e smarriti dinanzi all’incognita di un futuro ignoto.

D’altra parte, «la storia esiste solo se qualcuno la racconta». Sono le parole, citate in esergo a uno dei capitoli del libro, di Tiziano Terzani, nume tutelare, assieme a  Ryszard Kapuściński, del giovane inviato Giammarco Sicuro, che forse avrà tremato, almeno un attimo, rendendosi conto di trovarsi al cospetto della Storia, quella con l’iniziale maiuscola, ma non si è sottratto alla doverosa necessità di testimoniarla. Con lo spirito di chi affronta una missione e la consapevolezza di chi si scopre, pur in mezzo a un’epocale tragedia, privilegiato. Con il sorriso, che non lo abbandona neanche nei momenti più cupi e drammatici, e con un alpaca e un lama nello zaino.

ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA Con Alika muore l’umanità

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dalla newsletter dell’⇨ ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA
 
di Maurizio Verona
 
Presidente del Parco Nazionale della Pace
Sindaco di Stazzema
 
Nelle ultime ore è morto un uomo, è stato ucciso un uomo, un marito, un padre.
Aveva 39 anni ed era nigeriano.
Ucciso dall’indifferenza di chi ha pensato di filmare invece di intervenire, di chi minimizza perchè era solo un immigrato.
Io voglio ricordarlo con il suo nome Alika Ogorchukwu assieme a lui a morire è stata la civiltà, è stata l’umanità, si sta uccidendo la convivenza, l’uguaglianza .
Ogni anno che passa torniamo indietro, si distrugge quello che abbiamo costruito.
Pensate alla parola ACCOGLIENZA, oggi è percepita in maniera negativa, accogliere una persona in difficoltà oggi non è visto come un gesto umano positivo, i leader politici oggi fanno campagna elettorale sul RIFIUTO.
Viene da pensare a quei luoghi che nel mezzo della guerra seppero accogliere, proteggere, dividere il pochissimo che c’era facendo poche domande.
Oggi parlano di orribile omicidio, di indifferenza agghiacciante, ma sono le stesse testate televisive che poi invitano i leader che armano questi criminali.
Abbiamo la possibilità di peggiorare, siamo sulla strada giusta per andare incontro alla tragedia della umanità.

cinéDIMANCHE #22 GEORGES PEREC Les lieux d’une fugue [1978]

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DALL’ARCHIVIO: 5 Aprile 2015

 

[ sottotitoli ITA trad. O. Puecher ]

Les lieux d’une fugue in Je suis né
Édition Du Seuil Paris [1990]

Musica da Robert Schumann
KREISLERIANA op.16 [1838]
Fantasie per pianoforte

 
GEORGES PEREC

da W o il ricordo d’infanzia [1975]
 

Non so dove si sono spezzati i fili che mi collegano all’infanzia. Come tutti, o quasi tutti, ho avuto un padre e una madre, un vasino, un lettino, un sonaglietto, e piú tardi una bicicletta che, a quanto pare, non inforcavo mai senza cacciare urla di terrore al solo pensiero che intendessero alzare o perfino togliere le due piccole ruote laterali che mi davano stabilità. Come tutti, ho dimenticato ogni cosa dei miei primi anni d’esistenza.
 
La mia infanzia fa parte di quelle cose di cui so di non sapere granché. Pure, è dietro di me, è il terreno sul quale sono cresciuto, fa parte di me quale che sia la mia tenacia nell’affermare che non mi appartiene piú. Per molto tempo ho tentato di stornare o mascherare queste evidenze, chiudendomi nello status innocuo dell’orfano, dell’ingenerato, del figlio di nessuno. Ma l’infanzia non è nostalgia, né terrore, né paradiso perduto, né vello d’oro, forse orizzonte, punto di partenza, coordinate a partire dalle quali gli assi della mia vita potranno trovare il loro senso.
[pag. 19]
 
Io non so se non ho niente da dire, so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non viene detto perché è l’indicibile (l’indicibile non si rintana nella scrittura ma è quello che, molto prima, l’ha scatenata); so che quello che dico è bianco, è neutro, è segno una volta per tutte di un annientamento. [pag.52]
 
I ricordi ormai esistono, fugaci o tenaci, futili o grevi, ma niente li addensa. Sono come quella scrittura slegata, composta di lettere isolate incapaci di saldarsi fra loro per formare una parola che fu la mia fino all’età di diciassette o diciotto anni, oppure come quei disegni dissociati, scompaginati, i cui elementi sparsi non riuscivano quasi mai a collegarsi l’un l’altro, e con cui, all’epoca di W, diciamo tra gli undici e i quindici anni, ricoprii interi quaderni: figure che niente univa al terreno sul quale avrebbero dovuto poggiare, navi con le vele non legate agli alberi, né gli alberi legati allo scafo, macchine di guerra, ordigni di morte, aerei e veicoli dai meccanismi improbabili, gli ugelli disinseriti, i cavi interrotti, le ruote che giravano a vuoto; le ali degli aerei si staccavano dalla fusoliera, le gambe degli atleti erano staccate dal tronco, le braccia separate dal torso, le mani non garantivano presa. [pag. 83]

Rizzoli, Milano, 1991
trad. Dianella Selvatico Estense

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Maria Borio: “in un sogno diventavo un corpo di medusa”

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Ciò che può unire l’operazione sonora e l’operazione immagine dipende

dalla ricerca dell’energia letterale della superficie.

J.-P. Courtois

 

Zacinto Edizioni ha recentemente pubblicato l’undicesimo  titolo della collana dei Manufatti poetici: Prisma, di Maria Borio.

Ospito qui un estratto dal libro.

 

Nella quarta dimensione

 

Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.

Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo

in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.

Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?

 

In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore

poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti

membrane elastiche di un eidofono e i pensieri

erano immagini di bidimensione, tridimensione,

 

trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici?

All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata

al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare

fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte:

 

ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola,

la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi

che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando

e al plurale – strategie, innocenza?

 

L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere

sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù.

Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male.

Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU

 

o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già

sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia

marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite?

Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco –

 

Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti

affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna

Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere?

Animali e perdono corrono nel bosco.

 

 

La strega di Caracas

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di Oreste Verrini

Il pranzo è alle battute finali; le pietanze sono state servite con cura, impiattate con gusto e attenzione, la stessa che abbiamo messo nel mangiare, con vorace dedizione, quasi ne andasse della nostra vita. Athos è un ottimo cuoco e non lasciare nulla nel piatto è stato il nostro modo per rendere omaggio alla sua competenza.
I caffè, serviti in bicchieri di vetro, con l’immancabile sambuca ad addolcirne il sapore, arrivano al momento in cui la conversazione è virata, nemmeno ricordo il perché, verso l’Uruguay.
E trovarlo il perché non è affatto facile; infatti, una volta saziata la fame più grossa, quella che fa tacere le voci e suonare la melodia di forchette, piatti e bicchieri, le chiacchiere tornano a essere protagoniste e spesso navigano, proprio come una nave alla deriva, senza una meta o un filo conduttore a tracciarne la rotta. Vagano, come è giusto che sia, tra un ricordo e un’affermazione, un dettaglio e una conferma, senza fretta, per il piacere di raccontare ma preferibilmente per ascoltare. Si narra di luoghi del mondo come se fossero i paesi incontrati lungo la statale che dal passo dei Carpinelli porta a Lucca: Montevideo, Buenos Aires e magari Guaiana Francese, Santiago del Cile in un parallelo impossibile con la Nuova Guinea e Auckland, si susseguono e sostituiscono senza alcuna fatica Roggio, Camporgiano, oppure San Romano e Villetta. Talmente abituati a ricordarli, a menzionare storie ed episodi accaduti nei quattro angoli del mondo da trovare così naturale citare le vie, gli alberghi e i ristoranti e la toponomastica di luoghi per molti, e il sottoscritto è tra questi, così lontani e remoti da sembrare fantastici, quasi fossi dentro una storia de Le mille e una notte.
E così di Uruguay finiamo a parlare, attratti dalle descrizioni di Renzo, impegnati a immaginare un grande altopiano pianeggiante, mandrie di bovini e un paese fermo alla metà del 1900 dov’era facile incontrare immigrati italiani affezionati al ricordo della patria lontana e contenti di poter parlare con chi, in Italia, continua a vivere. La parola, l’immagine, il riferimento casuale in grado di accendere il ricordo di una storia arriva improvviso, come sempre del resto. Sono gli occhi a tradirne l’arrivo, si vedono splendere di una luce diversa.
«Vi ho mai ‘conto la storia della bruja?» dice Renzo, piegandosi in avanti, quasi stessimo cospirando.
«La bruca?» ribatto sorpreso.
«Non la bruca, la bruja, la strega. È spagnolo» ribatte, sorridendo e felice di avere una nuova storia mai raccontata prima.
Anche Athos annuisce e sorride, ci sta che lui la conosca, ma dal suo modo di fare, dal silenzio pieno di attesa non è facile capire quanto ricordi e quanto gli piaccia ascoltare.
«Mai» ribatto pronto, la testa che scrolla da una parte all’altra.
«Si andava a mangiare da La Bionda» ricorda Renzo, lo sguardo fisso e la mente ai ricordi lontani.
«Il vero nome non lo ricordo, solo La Bionda. Ci si andava così spesso che era come sentirsi a casa. Un giorno, mentre si chiacchierava le chiesi se lì, in paese, ci fosse qualcosa da fare, da vedere. Senza però precisare a cosa alludessi. La donna, una donnona di quelle energiche, vitali, mi squadrò da capo a piedi, certo voleva valutare la mia prestanza, poi annui, più a sé stessa che a me. Mi fissò dritta negli occhi e mi disse: ‘Ci sarebbe la bruja, la strega. Se te la senti’, concluse. Certo che me la sentivo e la curiosità era tanta, e già mi figuravo entrare in un antro buio, con ombre vive, inquietanti, ragnatele ovunque e magari un enorme paiolo, affumicato, con un fuoco rosso vivo a cingerlo attorno, quasi una corona. La più classica delle streghe nella più classica delle ambientazioni».
Renzo ferma il racconto, sorseggia il caffè, assapora l’aroma che sale dalla tazza. La pausa a effetto ci sta, crea attesa, incuriosisce. Viene quasi voglia di solleticarlo, di fargli fretta. Magari è proprio quello che cerca: che il pubblico chieda di proseguire e si roda nell’attesa. Infine, riprende: «Immaginavo una strega, una vera strega, perciò potete capire la delusione che mi colse quando ci trovammo di fronte, dico trovammo perché andai accompagnato oltre che da La Bionda da un altro marinaio, una donnina minuta, tutta curva, seduta su una sedia, proprio davanti all’uscio di casa. Se ne stava immobile, gli occhi chiusi e la nuca appoggiata al muro. Dormiva o forse meditava, non saprei dirlo. La Bionda ci presentò, dicendo che eravamo venuti per vedere el miracle. La nonnina aprì gli occhi e ci osservò. Occhi neri e vivi, non acquosi come spesso accade ai vecchi. Erano vivi e vigili, attenti. Veri occhi da strega. Quelli sì che un po’ mi fecero tremare. ‘El miracle?’, disse con una vocina gentile, delicata come un fiore. Annuii seppure di quel miracolo non sapessi alcunché. A dire il vero non sapevo nulla di quello che eravamo venuti a fare. Solo che la nonnina era la strega più improbabile al mondo e che la situazione sembrava per lo meno surreale. Certo, io di streghe non ne sapevo nulla, di miracoli ancora meno, ma di situazioni imbarazzanti sì, e quella sembrava esserlo. Forse la bruja percepì il mio disagio, il mio scetticismo, non so. O forse fu solo un caso che si rivolgesse a me. Mi disse: ‘Raccogli un legnetto, uno qualsiasi qua attorno’. Aggiunse: ‘Per favore’. ‘Un legnetto’ mi dissi, ‘e per fare che?’, però mi chinai e cominciai a sondare il terreno in cerca di un legno che meritasse di essere raccolto.
Lo cercai a lungo, più di quanto meritasse la ricerca. Infine, lo vidi, un piccolo stecco, secco da poter essere spezzato con un movimento leggero delle dita. Mi rialzai e glielo porsi certo che lo avrebbe rifiutato, chiedendomi di cercare meglio, che quello stecco non andava bene per una strega. Invece mi sorrise, un sorriso gentile, leggero quanto quel pezzo senza vita. Lo strinse tra le dita della mano destra, il pollice e l’indice, e iniziò a strofinare il legno con un movimento circolare. Sembrava lo accarezzasse, come si potrebbe accarezzare il viso di un neonato, con delicatezza e attenzione. Aveva smesso di guardarci, però sorrideva e nel farlo sembrava stesse masticando delle parole, come se le fossero rimaste in bocca e non riuscisse a inghiottire. Il movimento era ipnotico e ben presto i nostri occhi furono fissi sul pezzo di legno secco e il movimento delle sue dita. Quando vidi apparire quella che sembrava una foglia sobbalzai all’indietro, quasi una mano mi avesse afferrato alle spalle tirandomi» e mentre lo dice, fa lo stesso gesto tirando indietro la schiena. Manca poco che sobbalzo pure io.
«Ma non solo la foglia: continua ancora pochi attimi e quella che parve una gemma cominciò a prendere forma. La strega, non c’erano più dubbi su questo, stava riportando alla vita un legno ormai secco. Avevo la bocca aperta, non una parola, solo infinito stupore. Il mio amico invece si era tappato gli occhi con entrambe le mani e ripeteva, seguendo il ritmo delle carezze: ‘Non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose’». Renzo tace, ci fissa e dice: «Ve lo giuro è, come se accadesse ora. La bruja aveva riportato la vita, ecco in cosa consisteva il miracolo».
Pure io non so che dire, come se stesse accadendo anche ora e assistessi senza trovare una spiegazione. L’unica cosa che riesco a fare è mormorare parole sconclusionate e senza senso, vorrei fare domande, ma non trovo modo di mettere in fila qualcosa di decente. Athos invece riesce a farne, su tutto; è incuriosito dalla scelta dello stecco, dai gesti della donnina, dalla reazione dell’amico marinaio, da come giustificò l’accaduto La Bionda.
«E mica lo giustificò» risponde Renzo, «affatto». Disse che la nonnina parlava con tutti gli esseri del creato, animati o no, non aveva importanza. E questi le davano ascolto e per quanto potevano cercavano di esaudire i suoi desideri. Nel paese lo sapevano tutti e lo accettavano, quasi fosse una cosa naturale.
Renzo non aggiunge altre parole, sarebbero superflue, forse di troppo e spezzerebbero il clima creato. Aveva conosciuto la bruja, l’aveva vista all’opera, lo aveva raccontato, lasciando il pubblico, noi, con la bocca aperta. La degna conclusione di un ottimo pranzo in famiglia.

 

NdR Questo testo di Oreste Verrini fa parte della raccolta “Chiamatemi Marconi – Storie di mare”, edito da Edizioni ETS (2022), nel quale Verrini e Athos Bigongiali hanno riunito i racconti di Renzo, ufficiale marconista partito dalla remota Garfagnana, entroterra della provincia di Lucca, per «vedere il mondo» e vivere tante avventure come Simbad il marinaio.

Il mondo offeso genera libri

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di Romano A. Fiocchi

Giovanna Vignato, Senza una stella sopra la testa, Edizioni del Mondo Offeso, 2021

Ivan Bormann, Il tempo non ha una storia, Edizioni del Mondo Offeso, 2022

 

Lo spirito è quello della Libreria degli Scrittori nella Mosca postrivoluzionaria. Quando, racconta Michail Osorgin, per far fronte all’impossibilità di stampare libri si arrivò addirittura a produrre esemplari unici scritti a mano, purché la letteratura potesse ancora raggiungere i propri lettori. Ma è anche lo spirito intraprendente di Sylvia Beach e della Shakespeare and Company, la libreria che ebbe il coraggio di pubblicare a Parigi, in lingua originale inglese, un testo che nessun editore voleva: «Ulisse», di cui ricorre proprio quest’anno il centenario.

È dunque con questa vocazione, che sottende una visione critica nei confronti del conformismo e dell’appiattimento culturale di certa editoria, che la Libreria del Mondo Offeso è diventata anche casa editrice. Sottolineo anche, perché la libreria milanese, che prende emblematicamente il nome da «Conversazione in Sicilia» di Vittorini e il logo da «Tristano muore» di Tabucchi, mantiene comunque la sua funzione fondamentale: continuare a vendere libri. Si tratta insomma di una sorta di ampliamento della sua offerta culturale, un modo per far sentire la propria stessa voce tra i libri che propone ai lettori.

Il progetto non aspira certo a invadere il mercato, non ne avrebbe né i mezzi né l’ambizione. E non è questo lo scopo. Mira piuttosto a pubblicare un paio di titoli all’anno che per stile e contenuto siano in coerenza con la visione del “mondo offeso”. Questa è in fondo l’arte dell’editoria, direbbe Calasso, ossia la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro. Libri comunque di narrativa e, come tali, che raccontano delle storie, storie belle.

È così che nel novembre scorso è uscito Senza una stella sopra la testa di Giovanna Vignato. L’ho letto in anteprima, quando era ancora un manoscritto da digrossare con l’editing, come si dice in gergo. Ed è certamente una bella storia. Come sfondo un villaggio di confine, case con i gradini di pietra, vetri alle finestre fissati al telaio con morbido stucco rosso, personaggi diafani, molti dei quali hanno radici nella Galizia austriaca e formano un tutt’uno con l’atmosfera. Che è un po’ magica e un po’ mitologica, come se appartenesse a un non-luogo, o meglio: un luogo immaginario ma verosimile, una Macondo proiettata nelle montagne del nostro estremo Nord-Est. Clusizza, così si chiama il villaggio, è disabitata e invisibile, priva di zenit, ossia “senza una stella sopra la testa”. I Clusacchi, i suoi abitanti, parlano la dolce lingua clusacca, e lavano e rassettano accuratamente le proprie case prima di lasciarle per sempre.

Ma se il romanzo della Vignato è certamente un testo suggestivo, quello del regista triestino Ivan Bormann è di un’originalità straordinaria. Il tempo non ha una storia è un “romanzo brevissimo” –come recita la prima di copertina – scritto in presa diretta, quasi un flusso di coscienza. Volendo fare qualche parallelo: il «Tropico del Capricorno» di Miller, il «Tristano» di Tabucchi, oppure ancora il «Malone» di Beckett. Quello di Bormann è un girovagare nella Storia del Novecento come nella foresta ariostesca, incontrando personaggi inattesi che però qui sono realmente esistiti e hanno fatto la Storia politico-culturale di Trieste e dell’Istria: Guido Keller, Vladimir Gortan, Ligio Zanini, Wanda e Marion Wulz, Angelo Cecchelin, Giovanni Gianone detto Johnny, Bobi Bazlen, Claudio Magris, sino a un’immagine fuggevole dello stesso D’Annunzio.

L’impaginazione di Il tempo non ha una storia – con carattere da macchina per scrivere, ovvero un Courier appositamente modificato – creda l’effetto indovinatissimo di un vecchio ciclostile. Ai capitoli si alternano immagini fotografiche in bianco e nero proiettate in un tunnel, su pagine nere di un’eleganza alla Franco Maria Ricci e, al tempo stesso, di un’inquietudine che lascia il segno. È un romanzo circolare che non solo parte da Trieste e torna a Trieste, in tutti i sensi città di frontiera, ma che inizia dal finale e torna al finale percorrendo un periodo storico che va dall’impresa di Fiume del 1919 agli anni Settanta, corredando le pagine di una tabella cronologica che aiuta il lettore a comprendere dove si stia muovendo Alan, il protagonista. Alan è un uomo del suo tempo che finisce fuori dal tempo e lo rivive attraverso associazioni di idee e salti nei decenni inseguendo i personaggi, entrando e uscendo da tunnel spazio-temporali, viaggiando nel passato come uomo del futuro, sino a spaventare Magris citando brani di racconti che Magris stesso sta ancora scrivendo: “Qui ci deve essere una spia, qualcuno deve aver messo le mani tra le mie carte, e comincia a cercare nella sua borsa, a tirare fuori tutto e a innervosirsi”.

Da buon anarchico, nel suo racconto in terza persona Alan mette in luce nefandezze e lati positivi, falsità e verità, potere e emarginazione, ma soprattutto la cattiveria e la bontà degli esseri umani. Perché Alan, come Ligio Zanini (e come lo stesso Bormann), è un “anarchico nella scrittura, nella vita, nell’anima, libertario, fuori dagli schemi, anche politici se vuole”.

Si arriva alla fine della lettura con la consapevolezza di aver capito qualcosa di più della Storia, soprattutto di avere tra le mani un buon prodotto letterario ed editoriale. Un’ultima chicca: i disegni di copertina di entrambi i volumi sono di Giancarlo Iliprandi (1925-2016), per gentile concessione dell’Associazione che ne porta il nome.

 

Popolo ed esperti

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Attualità di Castoriadis (una nota di lettura)

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di Andrea Inglese

A cura di Raffaele Alberto Ventura è uscito quest’anno, per la Luiss University Press, una raccolta d’interventi e saggi di Cornelius Castoriadis, Contro l’economia: scritti (1949-1997). Il curatore – che possiamo considerare un vecchio amico di Nazione Indiana – ben conosciuto grazie a un fortunato saggio del 2017 (Teoria della classe disagiata, minimum fax) e di altri usciti successivamente, ha realizzato un prezioso lavoro di selezione, raccolta, traduzione e introduzione di undici testi del filosofo (ed economista) greco e francofono Castoriadis. La casa editrice della Luiss si è già distinta per scelte editoriali importanti. Nel suo catalogo troviamo, ad esempio, saggi di Barbara Ehrenreich e Timothy Morton. In questo caso, la proposta va a colmare un grande vuoto. Castoriadis è senza dubbio una delle figure intellettuali più importanti del secondo Novecento in Europa, figura di militante-intellettuale, attivo prima in partiti di orientamento trotzkista e poi nel gruppo autonomo Socialismo o barbarie, ma anche di economista stipendiato dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), di psicanalista e di filosofo, docente dal 1980 all’EHESS (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) di Parigi. (Su NI, ad esempio, lo pubblicammo qui e ne abbiamo già parlato qui). Più dei titoli e dell’ampiezza di interessi e competenze, è però decisivo il percorso intellettuale dell’autore, che lo porta ad attraversare e ad abbandonare il marxismo, senza rinunciare a sostenere un’idea radicale e rivoluzionaria di democrazia, ispirata in modo particolare – ma non esclusivamente – all’esperienza di Atene e dell’antica Grecia. I saggi raccolti da Ventura ritagliano la zona privilegiata della critica all’economia, che questo economista di professione non ha cessato di realizzare fuori e dentro le istituzioni internazionali. Ma in Castoriadis l’universo dell’economia è inseparabile da quello della società e delle “significazioni immaginarie” che quest’ultima – e qui parliamo soprattutto della società occidentale e capitalistica – attribuisce all’attività umana. Criticare l’economia significa non soltanto, in termini marxiani, rendere visibili dei rapporti di forza e delle configurazioni storiche determinate, ma scavare soprattutto all’interno di un sistema di credenze e significati sociali, attraverso cui la società legge e interpreta se stessa.

Il lungo saggio introduttivo di Ventura permette comunque di ricostruire la vicenda dell’intellettuale Castoriadis e lo sviluppo del suo pensiero, soprattutto per un pubblico come quello italiano poco attento alla sua opera. Per i pensatori moderati, si tratta di un pensiero sostanzialmente inservibile, in quanto non ha mai abbandonato un’attitudine radicale sia nella critica della tradizione occidentale sia nell’elaborazione di pratiche politiche contestatarie. Per la tradizione marxista, Castoriadis aveva ripudiato i “libri sacri” e soprattutto criticato senza alcuna remora le vicende storiche del marxismo-leninismo, a partire dalla burocratizzazione dell’Unione Sovietica. Infine, per gli estimatori della decostruzione, il nostro autore presentava una sobrietà di tono e una lucidità di sguardo, che mai rischiava di confondere testo ed extratesto, sublime filologia filosofica e attenzione alle congiunture storico-politiche. Oggi, Castoriadis fa parte di quegli autori difficilmente classificabili, come Günther Anders o Ivan Illich, che meritano più di altri un’assidua lettura, proprio in un momento come il nostro in cui gli ideali di emancipazione sembrano definitivamente compromessi assieme a quelli di progresso economico e tecnologico.

Il testo tratto dalla raccolta di saggi che con il curatore abbiamo deciso di pubblicare data del 1983. Già prima del 1989, Castoriadis aveva compreso che la società post-communista avrebbe vissuto a lungo insabbiata nella falsa alternativa tra tecnocrazia e populismo, dalla quale non siamo ancora usciti. (Le vicende del giorno italiane ce lo ricordano: o Draghi o la Meloni). L’uscita da questa alternativa Castoriadis la indica nella riconsiderazione del concetto di “democrazia”, così come, pur fragilmente, si è presentato alle origini della nostra tradizione. E da qui la riflessione sull’importanza e, nello stesso tempo, sui limiti che devono essere assegnati all’attività e alla parola degli esperti. Un tema questo fondamentale anche per altri autori. Si pensi al già citato Illich, presente in una raccolta di saggi pubblicata in Italia col titolo: Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti (Erickson 2008); oppure a un altro autore importante, e anche lui di area libertaria, quale Paul K. Feyerabend. Ricordiamoci quel che scrive in La scienza in una società libera del 1978: «Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili». Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: «La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati». Frasi che risuonano con altre, che si leggeranno nell’intervento di Castoriadis.

(È una lettura questa che consigliamo vivamente a tutti gli orgogliosi “esperti di qualcosa”, increduli che le loro competenze non arrivino a indirizzare verso le magnifiche sorti il gran numero d’incompetenti.)

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POPOLO ED ESPERTI

di Cornelius Castoriadis

[Questo testo, intitolato “Experts et citoyens”, è tratto dal seminario di Castoriadis all’EHESS poi pubblicato nel volume Ce qui fait la Grèce. Tome 2. La Cité et les lois. Séminaires 1983-1984, e precisamente dalla sessione del 20 aprile 1983. Il seminario affronta di petto un tema centrale per l’autore, ovvero la manifestazione concomitante nella polis greca del V secolo avanti Cristo dell’ideale democratico e della filosofia. R. A. V.]

Per chiarire il principio della democrazia diretta ho tentato di articolare, in opposizione alle concezioni e alle pratiche moderne, tre coppie concettuali che contrappongono tanto delle idee quanto delle realtà: popolo/rappresentanti; popolo/esperti; e popolo/Stato.

Per quanto riguarda la prima coppia, ho già detto che l’idea della rappresentanza è totalmente assente nella filosofia e nella pratica politiche dell’antica Grecia. Innanzitutto perché quando c’è un’elezione, nessuno parla degli eletti come dei “rappresentanti” – sono dei magistrati, il che è del tutto diverso – in quanto non rappresentano nessuno. E poi perché il principio dell’elezione era considerato aristocratico (come sappiamo bene dalla testimonianza di Erodoto per un periodo relativamente antico). Ho inoltre già ricordato che, ogni volta che nella storia moderna è emerso un vero movimento di autoistituzione, esso ha rievocato il principio della democrazia diretta: se ci sono dei delegati, questi non sono soltanto eletti ma revocabili in ogni momento.

Questa revocabilità esisteva già, de facto e de jure, nella democrazia ateniese: ogni magistrato poteva, nell’esercizio delle sue funzioni, in qualsiasi momento, essere contestato, per ragioni di fondo oppure di forma, ed eventualmente revocato. Come ogni disposizione legale, anche questa può portare ad abusi. È noto il più grave, di cui parleremo più avanti, ovvero il processo dei capi militari ateniesi che hanno vinto la battaglia delle Arginuse, nel 406, durante la guerra del Peloponneso. Al loro ritorno, i demagoghi li fecero condannare a morte dall’assemblea, senza rispettare la procedura, con il pretesto che non avevano fatto tutto il necessario per recuperare i cadaveri dei soldati e dei marinai caduti nella battaglia. Atto assolutamente mostruoso, come tanti altri non meno mostruosi che cominciarono a verificarsi poco dopo l’inizio di quella guerra. Hybris, crisi e fallimento della democrazia ateniese – e della democrazia in generale.

Revocabilità e assenza di rappresentanti non vuol dire, lo abbiamo già detto, assenza di qualsiasi leader. In una comunità politica la questione non è quella dell’esistenza o meno di leader bensì quella del rapporto tra i leader e la collettività: in che misura questa mantiene il suo controllo sull’individuo più o meno eccezionale, colui che sa giudicare più rapidamente e vedere più lontano? Ho già citato la celebre frase di Tucidide a proposito della democrazia di Pericle, che sarebbe stata tale solo a parole, e quindi inaccettabile per i Greci.

Questo ci porta alla seconda coppia oppositiva, quella tra popolo ed esperti. Secondo la concezione greca, nessuna categoria di persone può rivendicare una specifica competenza riguardo alla sfera politica.

Le decisioni vengono prese dall’ecclesia dopo aver ascoltato degli oratori, ed eventualmente anche delle persone che detengono un sapere specialistico in merito alla questione discussa. Ma il giudice in materia, ovvero l’esperto supremo, universale, è la comunità politica stessa. Vale a dire che non esistono esperti in politica. Quando si convoca la competenza dell’esperto, la techne, è sempre relativamente a un’attività specifica, riconosciuta come tale nel suo campo particolare. Platone ne parla nel Protagora, dove descrive correttamente sia il funzionamento effettivo della democrazia sia le idee presupposte da questo funzionamento. Gli Ateniesi ascolteranno molto volentieri il tecnico che gli spiegherà il modo migliore di costruire una cinta muraria, un tempio o una nave. Ma colui che osasse dire “Io sono un tecnico delle questioni di governo” verrebbe sommerso dalle risate.

C’è sicuramente una sfera nella quale gli Ateniesi riconoscerebbero una competenza tecnica, ed è l’arte della guerra. Eppure gli stratègoi, i capi militari, vengono eletti, come furono eletti i costruttori dell’Acropoli, come vengono eletti quelli che devono costruire le navi eccetera. In effetti gli stratègoi incaricati dalla polis di dirigere questa faccenda particolare che è la guerra sono dei tecnici, ma poiché questa faccenda è molto più importante delle altre, essi hanno un ruolo a parte rispetto a tutti gli altri magistrati ateniesi. È vero che nel V secolo nessuno può vantare un vero peso sulla politica cittadina senza essere eletto stratega, e Pericle sarà rieletto varie volte. Non significa che negli anni in cui non viene eletto la sua parola non vale niente, ma indubbiamente l’elezione alla carica è una via privilegiata all’esercizio dell’influenza politica. La situazione cambia però nel IV secolo, quando i retori e gli oratori, già influenti nell’assemblea, acquisiscono un peso politico preponderante; gli strateghi vengono ridotti a puri tecnici, nient’altro, e cessano di svolgere un ruolo politico per limitarsi alle loro specifiche funzioni. Per citarne qualcuno: Timoteo, Ificrate, Carete, Cabria… Mentre nel IV secolo erano gli individui eminenti ad aspirare alle cariche militari e generalmente finivano per esercitarle.

La questione degli esperti e della competenza rimanda a un principio assolutamente evidente per i Greci, ripreso più e più volte e formulato nel modo più limpido da Platone: nessun esperto è in grado di giudicare sé stesso, e il giudice più adatto per giudicarlo non è mai un altro esperto. Si tratta di un principio che, come vedremo, crea un problema di coerenza nella filosofia platonica, mentre invece sorprendentemente Aristotele non lo cita. Il punto è che per Platone il criterio del buon esercizio della techne è evidentemente il suo prodotto, il suo risultato – l’albero si giudica dai frutti, come dice il Vangelo – e quindi il giudice della techne è l’utilizzatore del suo prodotto, non l’esperto. Il filosofo torna spesso su questo punto per lui evidente: non è il sellaio che giudica la bontà di una sella di cavallo, ma il cavaliere; non è l’armaiolo che giudica l’armatura ma l’oplita che parte in guerra. Evidente, questa prospettiva lo è soprattutto negli affari militari, come hanno potuto valutare gli americani in Vietnam. Si è molto parlato del celebre M16, il fucile militare difettoso che ha provocato molti morti tra i soldati che lo usavano. I vietcong, che saccheggiavano tutto quello che potevano dai cadaveri americani, financo le scarpe, non si azzardavano a prendere quei fucili, ben sapendo che s’inceppavano ogni due per tre lasciando al nemico il tempo di sparare. Sono state spedite migliaia di lettere dai soldati americani ai loro senatori, ma non sono servite a nulla: gli esperti avevano deciso che quel fucile era il migliore. Ma soltanto l’utilizzatore è il giudice adatto. E chi è l’utilizzatore di tutti quegli esperti che offrono delle technai alla polis? É naturalmente la polis stessa, la comunità dei cittadini. Se giudichiamo alcuni risultati, come l’Acropoli, la scelta non era poi male – è difficile dire che scegliere Fidia sia stato un errore.

Ma dicevo che questo concetto pone un problema nella filosofia politica di Platone. In effetti il suo intero progetto consiste nell’attribuire alla filosofia politica una episteme e una techne specifica: per lui il politico non è un esperto in senso strettamente tecnico, bensì un profondo conoscitore di quello che è giusto e sbagliato per la comunità. E allora dove sta qui il “giudizio degli utilizzatori”? Qui c’è una contraddizione, sulla quale bisognerà tornare.[1]

Non è difficile contrapporre questa visione della competenza con quella che prevale tra i moderni. L’idea dominante, oggi, è che gli esperti debbano essere giudicati da altri esperti. Si tratta peraltro di uno dei fattori di espansione e di crescente irresponsabilità degli apparati burocratici gerarchici. L’immaginario della competenza dice: l’esperto sa, soltanto un altro esperto può giudicarlo o criticarlo. E questa idea va di pari passo con un’altra, che corrisponde alla pratica contemporanea e soprattutto all’immagine che questa vuole dare di sé stessa: che esistano degli esperti politici. Nessuno li chiama in questo modo, ma molti sedicenti politici oggi si presentano e vengono eletti in quanto specialisti dell’universale, tecnici della totalità. Va da sé che si ridicolizza l’idea stessa di democrazia con una simile contraddizione: giustificando il potere dei politici con la competenza politica che loro soli possiedono, si lascia alla popolazione – per definizione “non esperta” – la sola scelta tra diversi “esperti”. Questi uomini, per esempio i candidati a un’elezione, si accusano reciprocamente d’incompetenza, ognuno rivendicando la competenza propria e della propria squadra, per poi chiamare la popolazione a testimone: “Diteci chi è, tra noi due, il vero competente”.

Contraddizione davvero assurda, che tuttavia sta al cuore della sedicente democrazia moderna. L’idea che ci possano essere degli specialisti dell’universale, dei tecnici della totalità, è vuota e non ha alcun rapporto con la realtà. Questa pretesa è legata a un altro fenomeno caratteristico della modernità, la crescente divergenza tra le capacità che servono ad accedere al potere e quelle che servono a governare davvero. È una mia vecchia tesi: nella società moderna, in qualsiasi apparato burocratico-gerarchico, inclusi i partiti politici, l’individuo che vuole arrivare in cima deve salire i gradini della piramide burocratica; e questa ascesa diventerà presto, inevitabilmente, la sua unica preoccupazione. Ma l’ascesa dipende sempre meno dalla capacità di realizzare i compiti che gli sono stati attribuiti e sempre di più dalla pura e semplice capacità di arrampicarsi verso la cima. Le specie che sopravvivono sono le più adatte, insegna il darwinismo, ma dietro alla pura e semplice tautologia sta la vera domanda: adatte a cosa? Adatte a sopravvivere. Insomma gli individui che fanno carriera nell’apparato burocratico sono gli individui più capaci – ma capaci di cosa? Di salire. E come? Facendo ricorso, evidentemente, all’intero arsenale dell’arte intraburocratica delle cricche e dei clan, attraverso la trasformazione di tutte le finalità reali in obiettivi di conflitto tra cricche e clan. A questo punto la definizione stessa di quello che è o non è reale diventa una posta in gioco. Non c’è bisogno di arrivare agli estremi del totalitarismo: pensiamo al dibattito sull’esistenza o l’inesistenza di una crisi economica attualmente in Francia, sottaciuta fino a pochi mesi fa. L’opposizione diceva che non c’era, che era solo un’invenzione del Governo; mentre ora hanno cambiato idea. I loro avversari avrebbero fatto esattamente lo stesso.

Facciamo un altro esempio, questa volta americano. Reagan ha speso miliardi di dollari per un presunto riarmo americano. Il dibattito sembra a prima vista basato su dati obiettivi: qual è il fabbisogno di carri armati, di armi nucleari e convenzionali eccetera. Ma questi obiettivi apparentemente oggettivi vengono trasformati in semplici mezzi, per ogni clan –Governo, Pentagono, tecnici, industriali, Congresso, e così via –, al fine di far prevalere il proprio punto di vista. Vero è che, trattandosi di ordini e di dollari, tutto è perlomeno ancorato a qualcosa che possiamo ancora definire degli interessi materiali. Ma non è sempre così: il vero “interesse” fondamentale è quello della cricca o del clan burocratico, che deve oggi poter sventolare qualche bandiera in nome della quale pretendere di avere più diritto di governare rispetto agli altri. Le poste in gioco “oggettive” si trasformano in semplici strumenti di spartizione tra cricche e clan, e a questo servono gli “esperti”, a questo si riduce spesso la competenza nelle nostre società sedicenti democratiche.

Bisogna vedere che questa progressiva divergenza tra capacità di fare carriera e capacità di governare è un problema che si presenta sistematicamente in quasi tutti i regimi, e che non è assente nemmeno in un regime compiutamente democratico. Prendiamo l’esempio della monarchia assoluta: è raro che un monarca governi del tutto da solo, e infatti sono esistiti dei ministri capaci di lasciare il loro segno nella storia. Ma come si diventa ministro di un monarca assoluto? Per definizione, chi lo diventa non ha mai avuto occasione di dimostrare di essere il migliore per il posto che non ricopre ancora. Sia la realtà storica sia la semplice riflessione suggeriscono che per divenire ministro di un monarca assoluto bisogna piacere al monarca, saperlo manovrare. Si tratta, va detto, di una capacità che non tutti possiedono. La pura e semplice adulazione non basta sempre: ci vuole più delicatezza. Ma questa qualità non ha nulla a che vedere con l’arte di legiferare, amministrare, negoziare o fare la guerra. È tutt’altra cosa. Ma prendiamo il caso di un regime democratico, con o senza virgolette. Che cosa permetterà a qualcuno di affermarsi come leader in una democrazia? Questo dipende dal tipo di regime: se l’essenziale si svolge di fronte all’assemblea, come a Atene, il fatto di parlare bene, la retorica, sono indispensabili. Ma anche a Atene, e infinitamente di più in altri tipi di democrazia, ci vogliono ulteriori capacità molto particolari: sapersi fare degli amici, avere la memoria dei volti e dei nomi, eccellere nel gioco delle influenze. Se incontrate Tizio e che gli dite “Buongiorno, Caio”, sarà difficile salvarsi da una brutta figura, e questo potrebbe avere serie conseguenze. Insomma sono tante le qualità richieste per sedurre, manipolare pubblicamente e privatamente, influenzare, ma sono ben distinte da quelle che servono per formulare proposte politiche e governare realmente.

Questo problema, presente in ogni tipo di regime, è una delle fonti possibili della degenerazione della democrazia. È accaduto a Atene, dove a partire dalla guerra del Peloponneso la capacità oratoria inizia a degradarsi, diventando quella che Platone definisce un’adulazione del demos. I retori hanno fatto del demos un monarca assoluto di cui solleticano le inclinazioni, i suoi istinti più bassi dice lui. Il linguaggio, l’attitudine di Platone sono indubbiamente antidemocratiche, ma la sua diagnosi è corretta se la riferiamo alla fase di declino democratico. I demagoghi ateniesi durante la guerra del Peloponneso, ma anche gran parte degli oratori del IV secolo, sono persone capaci di persuadere, di far accettare alcune proposte grazie alla loro abilità oratoria, ma totalmente incapaci di governare: persone come Cleone, per esempio, non si interessano in nessun modo alle cose pubbliche, o se ne interessano soltanto nella misura in cui servono loro per accedere al potere. Tuttavia bisogna insistere sul fatto che il regime democratico, nel senso più forte del termine, è quello in cui diviene possibile affrontare il problema della divergenza tra capacità di fare carriera e capacità di governare. Innanzitutto perché l’accesso al potere non è ermeticamente separato dalla pratica del potere; e poi perché la capacità di governare non dipende da quello che un solo individuo è in grado di fare da solo per tre, cinque o sette anni, visto che le decisioni sono prese da una collettività le cui capacità politiche sono considerevolmente più importanti. Beninteso l’esempio di Atene serve qui per mostrare che anche questo può essere pervertito. Come dicevamo sopra, nessun regime è immune alla degenerazione, e nessuno può impedire all’umanità di suicidarsi.

Passiamo infine alla terza coppia di termini: il popolo e lo Stato. Ho già ripetuto che la polis greca non era uno Stato nel senso moderno del termine. Il termine “Stato” non esisteva in greco antico, e quando i Greci moderni hanno dovuto trovare una parola hanno sono ricorsi, in modo caratteristico, al termine kratos, che in greco antico indica la forza bruta. Il che è tutto sommato abbastanza comico: lo Stato greco moderno è la forza bruta greca moderna… Quanto al termine politeia, titolo greco del dialogo di Platone che chiamiamo La Repubblica, i tedeschi lo rendono con Der Staat. Il lettore che vive nella Germania di Federico il Grande, in quella di Bismarck, in quella di Hitler o persino in quella del cancelliere Kohl, è quindi condannato a non capire nulla di quello che vi legge. Ma anche il termine latino  , sebbene meno sbagliato, è tutt’altro che perfetto. Il termine politeia rimanda sia all’istituzione/costituzione politica sia al modo in cui le persone si organizzano per gestire i loro affari in generale e i loro affari comuni in particolare (questo indica il verbo politeuesthai). Che il trattato di Aristotele ritrovato alla fine dell’Ottocento e intitolato Athenaion politeia abbia potuto essere tradotto in quasi tutte le lingue come “La Costituzione di Atene” non fa assolutamente onore ai filologi, visto che a Aristotele non sarebbe mai venuto in mente di scrivere una “Costituzione di Atene”: ha scritto una “Costituzione degli Ateniesi”. Svista eclatante da parte di studiosi sicuramente molto eruditi, che pure non hanno colto l’essenziale, quello che invece Tucidide dice esplicitamente – “andres gar polis”, la polis sono le persone – e dà sempre per scontato. Non un’istituzione, non un meccanismo, e nemmeno un territorio, bensì gli uomini, il corpo dei cittadini.

Erodoto racconta che Temistocle, prima della battaglia di Salamina, fatica a imporre agli altri capi greci la sua tattica, che alla fine prevarrà e garantirà la vittoria. E a un certo punto dichiara: “Le nostre mogli e i nostri figli hanno abbandonato l’Attica e sono sull’isola di Salamina, le nostre navi sono là; siamo pronti a partire per andare a fondare Atene altrove”. Bisogna capire la portata di quello che afferma Temistocle. Per le città greche e per gli Ateniesi in particolare, il territorio della polis è sacro. Gli Ateniesi sono uno dei rari popoli greci che addirittura rivendica fieramente la propria origine autoctona. Tutti i miti e le leggende greci parlano di migrazioni, dell’ingresso in Grecia, e invece gli Ateniesi si considerano “nati dalla terra”; quale che sia la vera forza di questa credenza successivamente, essi credevano di essere legati alla terra da tempi immemorabili. E tuttavia Temistocle dice: “Siamo pronti a rifondare Atene altrove”. Vale a dire che c’è una componente territoriale nella definizione delle polis ma che non è il territorio che la definisce essenzialmente, perché a farlo è invece la collettività politica, il corpo dei cittadini. Insomma bisogna ribadire che l’idea di Stato inteso come istituzione distinta, separata dal corpo dei cittadini, sarebbe stata del tutto incomprensibile per un greco.

Qui sta un punto piuttosto difficile e bisogna fare ben attenzione. Gli Ateniesi in quanto comunità politica esistevano su un piano diverso dalla realtà concreta, empirica, rispetto a quella delle 8000 persone radunate in assemblea sulla Pnice in un giorno stabilito. Gli Ateniesi sanno, e agiscono di conseguenza, che esiste una comunità, una polis, che eccede qualsiasi assemblea particolare del demos. Diciamo che a un certo punto hanno firmato un trattato: ebbene cinquant’anni dopo continuano a onorarlo, perché questo impegna l’intera comunità. Come in tutte le società istituite, sussiste una distinzione tra gli Ateniesi astratti ed eterni, per così dire, e gli Ateniesi in carne e ossa che stanno sulla Pnice e prendono tale o talaltra decisione. La collettività istituita non s’identifica assolutamente con la somma empirica dei cittadini presenti fisicamente all’ecclesia, eppure non c’è trascendenza dello Stato, come si dirà all’epoca moderna, non c’è una separazione radicale tra la polis degli Ateniesi come entità politica e gli Ateniesi viventi in tale o talaltro momento. Lasciamo stare le astrazioni e tentiamo di concentrarci su questi fatti solo apparentemente contraddittori, come l’esempio di Temistocle che vuole rifondare la polis altrove, o il fatto che la polis onori impegni presi anche due secoli prima. Nessuna contraddizione qui, semmai delle sequenze di significazioni diverse da quelle che ci aspetteremmo di trovare.

Un altro aspetto del problema del rapporto tra popolo e Stato è che non esiste un apparato di Stato separato dalla comunità politica e che la domina. Ne abbiamo già parlato e ci torneremo: a Atene esiste beninteso un apparato tecnico-amministrativo o tecnico-esecutivo piuttosto sviluppato, in particolare nel V e IV secolo. Sappiamo che sfrutta ampiamente gli schiavi: sono loro che gestiscono la contabilità e il tesoro pubblico, loro che si occupano degli archivi cittadini. Malgrado la loro condizione. Si pensi anche al ruolo dei liberti alla corte degli imperatori romani o di certi eunuchi presso gli imperatori cinesi. Non è il caso di Atene: gli schiavi pubblici sono effettivamente soltanto degli ingranaggi della macchina amministrativa, quale che sia l’importanza delle faccende di cui si occupano. Sono beninteso posti sotto la supervisione di cittadini magistrati, generalmente tirati a sorte. Non esiste insomma una burocrazia permanente o un apparato di Stato, che poi è la stessa cosa. Questa non separazione del potere rispetto alla comunità si manifesta anche nella euthuna, l’obbligo per ogni magistrato di rendere conto delle sue attività davanti a un corpo speciale, come la Boule nel periodo classico e per le magistrature più importanti. Tutti questi aspetti definiscono la metoché, ovvero la partecipazione della collettività al potere. Aristotele definiva il cittadino come colui che metechei, ovvero partecipa all’arché, al potere.

A questo punto si pone la questione di capire che cosa garantisce l’unità di questa comunità politica. Che cosa intendiamo con unità? Fin dove si spinge? Si tratta di una questione fondamentale dal punto di vista del pensiero politico, in generale del tutto negletta. Nel caso delle città greche, il corpo politico riceve l’unità, se così si può dire, come riceve la propria esistenza, a un livello che potremmo chiamare prepolitico. Non dico “naturale”, perché si tratta comunque di un livello sociale, ma prepolitico. Qui, da un punto di vista logico-trascendentale – la questione quid juris, non la questione quid facti – nel momento in cui inizia un processo di autoistituzione o di reistituzione, la comunità che si autoistituisce in un certo senso riceve sé stessa dal proprio passato, con tutto quello che il passato porta e comporta. Da un punto di vista non storico-cronologico ma logico, o se vogliamo verticale, si potrebbero fare delle analogie con la questione, tipicamente moderna, della società civile che si oppone non tanto allo Stato – come nella visione di Hegel e di Marx – quando alla società politica. Da principio abbiamo una realtà data: delle persone che vivono su un territorio determinato, divise in famiglie, in villaggi, in città, con tali usi e costumi, un modo di produzione, ovviamente, una religione eccetera. Si potrebbe dire che, dal punto di vista dell’istituzione politica, tutto questo è, in un certo senso, un materiale. Ma solo in un certo senso. Questa realtà data è prepolitica non in senso cronologico, visto che permane, ma in senso logico appunto. Permane tranne, per l’appunto, in una società che avrebbe pienamente realizzato il totalitarismo, ma questo riteniamo (sperando di non essere mai smentiti) che sia irrealizzabile per definizione: una società orwelliana come in 1984, dove lo Stato si arroga il diritto di controllare Winston Smith persino quando va in bagno o fa l’amore con sua moglie. Vorrei in ogni caso attirare l’attenzione su questo elemento importante: il dato prepolitico è in un certo senso materiale della realtà politica; ma in un altro senso, essenziale, è qualcos’altro, ovvero la vita concreta delle persone. Non possiamo approfondire ulteriormente la questione, ma la tendenza a trattare tutto questo unicamente come un materiale è uno dei problemi principali della filosofia politica – e non soltanto della filosofia politica. Facciamo un esempio un po’ estremo: per i Khmer rossi, l’appartenenza degli individui a una famiglia e il fatto di avere un patronimico erano un puro materiale che poteva essere plasmato in funzione degli obiettivi politici dello Stato; si sono dunque separate le famiglie, imposti nuovi nomi alle persone, sradicato e deportato eccetera. Si dirà che questa non è filosofia politica ma totalitarismo. Si può discutere sul fatto che il totalitarismo sia una forma di filosofia politica, ma di certo è una forma di politica.

Esiste dunque una vita prepolitica, che in parte è estranea al punto di vista dell’istituzione politica. Determinare quale sia questa parte è in sé un problema enorme, che dipende precisamente dalla posizione politica di ognuno. Prendiamo l’esempio della società civile nel senso che gli è stato dato alla fine del Settecento, ovvero essenzialmente la sfera economica. Per gli uni, sarà considerata come non pertinente, ovvero estranea alla sfera politica, o comunque non trasformabile; mentre per altri – i socialisti, i marxisti – sarà invece considerata come decisiva. Quello che conta oggi per noi consiste nell’osservare in che modo il movimento di reistituzione si pone rispetto alla sfera prepolitica in senso astratto, logico, non cronologico del termine.

La storica riforma di Clistene (508/507) ci offre un esempio estremamente incisivo, e un ricco spunto di riflessione, su quali possono essere i rapporti tra la sfera politica e il dato prepolitico con cui il movimento istituente si confronta. Clistene appartiene a un’importante famiglia, gli Alcmeonidi, ma dopo la disfatta dei Pisistratidi e del regime oligarchico che è seguito per qualche anno, a spingere la sua ascesa è stato soprattutto il movimento del demos mirato a stabilire un potere della collettività. Questa presentava all’epoca delle divisioni che abbiamo definito prepolitiche, perlomeno dal punto di vista del movimento di reistituzione.  Gli Ateniesi sono divisi, come ogni città ionica, in quattro phulai (tribù) tradizionali; ma lo sono inoltre in funzione dei conflitti politici che si sono sviluppati ben prima di Pisistrato e che sono continuati anche dopo la caduta dei Pisistratidi. Le fazioni che ne sono risultate hanno un radicamento geografico ma anche, per così dire, socioeconomico: per semplificare potremmo dire che esistono un “partito” contadino, uno urbano e uno marinaro. Clistene, che vale qui come simbolo e nome di un più ampio processo politico, rinuncia a quel punto alla divisione in quattro tribù e ne crea dieci nuove, che sono a loro volta divise in tre trittie, distribuendo le magistrature in modo uguale tra le tribù (ci saranno dunque, per esempio, dieci strateghi). Ogni tribù è composta da un terzo contadino, uno urbano e uno marinaro, e quindi in nessuna predomina uno di questi tre terzi. Questo ci mostra che per instaurare l’unità della comunità politica è stato necessario spezzare alcune divisioni tradizionali: non si tratta di distruggere o di sterminare, nessuno viene mandato nei gulag, ma di mettere da parte certi elementi, perché la vita politica si svolge altrove. La nuova Atene non è una coalizione di gruppi sociali – contadini, marinai, cittadini (ovvero artigiani e commercianti). Non è nemmeno un conglomerato che raduna questi gruppi artificialmente. In ognuna delle trittie viene conservata l’organizzazione di base in demi – villaggi o più precisamente municipalità – che sono in un certo senso delle unità prepolitiche. Le antiche tribù ioniche conservano alcune funzioni religiose. Insomma l’elemento prepolitico passa in secondo piano ma non viene dissolto. La comunità politica è un’unità che si articola, non può far altro che articolarsi: non ci troviamo di fronte a una massa in cui qualcuno sta in rapporto diretto con il potere; eppure gli elementi preesistenti, senza essere soppressi, si stemperano di fronte alla nuova unità. Per avere una vera democrazia, è necessario che l’accesso a ogni magistratura sia uguale per ogni segmento di popolazione, ma questi segmenti non sono più “naturali” bensì definiti in vista del funzionamento politico. La Rivoluzione francese, che da questo punto di vista è andata oltre tutti gli altri, ha fatto cose simili: pensiamo a come le antiche province sono state sostituite dai dipartimenti eccetera, nel suo movimento di reistituzione della società. Diciamo subito che troppo spesso questa riorganizzazione del dato prepolitico in funzione di considerazioni politiche è in un certo modo troppo razionale, troppo astratta e perciò stesso inadeguata, se non oppressiva per la società. Ma nel caso della riforma di Clistene, assistiamo alla creazione di uno spazio politico che si articola su segmentazioni prepolitiche senza farsi determinare o asservire da loro.

Fatte queste precisazioni sulla questione dell’unità della comunità politica, vorrei commentare ancora due importanti disposizioni che mostrano in modo eminente lo “spirito delle leggi” dell’Atene clisteniana – e senza nemmeno citare quelle contro la tirannide. Innanzitutto l’ostracismo (il termine viene da ostrakon, la tessera di ceramica impiegata per votare). Questa disposizione, che inizia probabilmente a essere applicata attorno all’anno 487, permette all’assemblea, sotto certe condizioni, di condannare un cittadino a un esilio di dieci anni, senza che tuttavia costui perda né i diritti civici né i beni, e senza un connotato disonorante per colui che la subisce. La proposta deve rispettare certe specifiche forme e la decisione presa da almeno seimila cittadini, anche se i testi non chiariscono se si tratta di un quorum o del numero di voti a favore richiesti. A essere chiaro, invece, è che non si tratta di una misura che si poteva prendere alla leggera: per quanto sia complesso interpretare dai testi la vera natura dell’ostracismo, secondo gran parte degli autori questo riguardava soprattutto quegli individui di cui si poteva temere che inseguissero qualche forma di potere personale o potessero instaurare una tirannide. Eppure nel caso di Aristide, ostracizzato nel 482, due anni prima della grande invasione di Serse, come anche in quello di Cimone vent’anni dopo, non sembra esserci nessun rischio di tirannide. Preferisco dunque dare un’altra interpretazione, anch’essa molto antica: quando l’antagonismo politico raggiunge una soglia troppo elevata, magari cristallizzandosi su due persone che incarnano due campi opposti, e l’unità del corpo politico è minacciata, si cerca di rimediare allontanando per un decennio il rappresentante di uno dei due campi. Nel 482, per esempio, effettivamente sussiste un antagonismo tra il partito di Temistocle (più democratico in un certo senso, partigiano di una certa politica militare nei confronti dei Persiani, della creazione di un potere marittimo e della costruzione di una flotta importante) e quello di Aristide (portavoce di una tendenza più conservatrice e rurale). Due anni dopo la sua condanna, d’altronde, Aristide riceverà l’amnistia, perché le differenze si erano stemperate di fronte al comune nemico. Non bisogna dimenticare che i Greci in generale, e gli Ateniesi in particolare, avevano serie ragioni di cercare di limitare l’intensità dell’antagonismo e del conflitto politico nella città, per via della loro naturale inclinazione verso la divisione e il conflitto interno in tutte le sue forme: dissensi, guerre civili, ed eventualmente massacri.

Ma la disposizione più sorprendente da questo punto di vista, soprattutto per una sensibilità moderna, è quella che Aristotele segnala nella Politica (1330a20), di cui vi ho già parlato. Quando bisogna prendere una decisione su un conflitto con una città confinante, i cittadini che abitano vicino alla frontiera sono esclusi dalla deliberazione. Questo perché ovviamente rischiano di preoccuparsi dei rischi che pesano sui loro campi, raccolti bruciati e ulivi tagliati, invece che dell’interesse generale della polis: insomma perché non sono in grado di pronunciarsi in quanto cittadini. La decisione comune riguarda la comunità e porta sul generale, e se ci sono persone alle quali non è possibile chiedere di far astrazione della loro particolarità, essi non dovranno partecipare al voto. È evidente la differenza radicale tra questa concezione della politica e del corpo politico e quella contemporanea, secondo cui la politica non è altro, de facto e de jure, che una specie di insaccato composto da tanti interessi particolari. Si parla di bene comune ma in realtà si pensa a come mediare tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle aziende, degli insegnanti e degli allievi, dei malati e degli studenti di medicina, dei ministri della salute e di quelli dell’educazione, dei partiti socialisti e di quelli comunisti, o dei centristi e dei gollisti, dei viticoltori e degli utenti di autobus… Questa è la politica oggi. Nulla di più lontano rispetto all’idea antica secondo cui è necessario tenersi a distanza, per quanto possibile, da tutti gli interessi particolari.

Va da sé che questo non è mai del tutto possibile, o meglio che questo è tanto più difficile quanto la società è divisa tra gruppi d’interesse. Vorrei tornare qui ad Hannah Arendt, che diceva che nella politica greca antica c’è una cancellazione di quello che lei chiama il “sociale”, e che questo principio dovrebbe essere generalizzato. Credo che abbia torto, perché nella concezione greca della politica (direi in ogni concezione della politica degna di questo nome), la politica riguarda la generalità, e la comunità non può permettere che le decisioni siano adottate in funzione di interessi particolari, settoriali. Si può dunque dire, assieme a Arendt, che bisogna escludere l’economico e il sociale dalla sfera del politico; oppure si può dire, come faccio io (ed è completamente diverso), che per evitare ogni interferenza degli interessi sulla sfera politica bisogna trasformare la materia sociale in modo tale che queste divisioni d’interessi non possano più determinare l’essenza del gioco politico. È sbagliato scivolare logicamente dall’idea giustissima che la politica non coincide con la sfera degli interessi (o precisamente non coincide con la sfera degli interessi biologici), all’idea che si debba escludere dalla politica il sociale e l’economico. Perché significa ignorare che dal momento in cui la divisione degli interessi assume una grande importanza in una società – come avviene inevitabilmente non appena ci si allontana dalle società arcaiche – diventa utopistico immaginare una sfera politica che funzioni autonomamente dalla sfera sociale ed economica. Questo problema – intravisto e rapidamente occultato, su cui inciampano sia la Rivoluzione francese che la Costituzione americana – è anche, in un certo senso, quello di Tocqueville. La relativa uguaglianza sociale che ravvisava in America era secondo lui la condizione stessa del gioco democratico, e proprio nella tendenza generale verso l’uguaglianza delle condizioni vedeva il segno caratteristico della modernità. Ma la questione economica e sociale non viene di fatto presa in considerazione dal primo movimento istituente nelle colonie del New England. Arendt se ne rallegra, come se questo non fosse precisamente uno dei fattori determinanti di quell’evoluzione della società americana che lei stessa deplora. Per Tocqueville la questione è diversa, anche perché scriveva negli anni 1835-’40 (il suo viaggio è del 1831-’32), ma anche tenendo conto di questo bisogna riconoscere che il suo sguardo è stranamente selettivo, perché la differenziazione economica è già fortemente presente e ha già un’influenza sul funzionamento delle istituzioni. La questione, quale si pone per noi oggi, è questa: fino a dove deve andare, fino a dove può andare, e a che prezzo forse, la trasformazione della materia socioeconomica, se vogliamo che un autogoverno della società sia possibile? A ogni modo il sociale, nel senso limitato dato da Arendt al termine (che non è né il senso classico né quello che gli do io), la sfera economico-sociale se vogliamo, non può essere abbandonato con il pretesto che la politica non ha nulla a che vedere con gli interessi particolari.

[1] [Castoriadis dedica un seminario a Platone nel 1986, ora in C. Castoriadis, Sur Le Politique de Platon, Seuil, Paris 1999]

Come fossimo il fuoco

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di Marco Florio

pomeriggio – andavamo dietro giacomo – io e sara – io e sara del resto, eravamo giacomo – io perche mi divertiva vederlo smontare e rimontare cose – di sara non sapevo il perche – forse solo una delle tante ritrovatasi ad andarci dietro un po’ per sbaglio – giacomo in genere non era uno da sensazioni forti, non di sua iniziativa, a meno che qualcuno non lo proponeva – in quel caso cambiava atteggiamento, in modo repentino, diventava come una questione cruciale – c’erano curve, dappertutto, di ogni tipo – iniziava sempre così, con una serie di curve – e poi arrivavamo – arrivavamo nei posti – e giacomo prendeva a fare la sua – partiva e cominciava a montare le cose – entrava nei posti – usciva dai posti – io cercavo di non perderlo – intesseva rapporti sociali – prendeva nota – segnava numeri di telefono – aggiungeva contatti social – stringeva mani – assecondava prospettive – anche con gente famosa – a volte anche con personaggi pubblici – per lui erano tutti gli stessi – andava, montava le cose e poi passava al locale successivo – al posto seguente – al prossimo contesto – diceva “vienimi a trovare” – diceva “ti faccio suonare io a roma” – alla piazzetta o vicoletto consecutivo, dopo una sequenza di vicissitudini, dopo una sequenza di stretti cunicoli e di parabole da centro storico – quando si voltava non cercava mai me con lo sguardo, al massimo sara – ma sara la perdevamo, sempre – arrivavamo da qualche parte dopodiché lei se ne andava, per conto suo, e io andavo dietro giacomo – e giacomo andava da un posto a un altro dopodiché cominciava a voltarsi a cercare sara con lo sguardo, e non la trovava – e allora giacomo andava in cerca di sara e io lo seguivo – se riuscivamo a trovarla, il tempo di montare la situazione e smontarla che ripartivamo lasciandoci di nuovo sara dietro – non era un fatto di bisogni – non era che cercavamo qualcosa – nessuno lì cercava niente davvero – era solo per non fermarsi – non restare sospesi da nessuna parte – i luoghi che visitavamo non ci interessavano realmente – uno valeva l’altro – era come consumare le persone, giusto il momento che serviva, poi le gettavamo via, a guisa di cicche di sigarette fumate neanche a metà ma tanto avevamo il pacchetto pieno e un’altra stecca nello zaino – così sentivamo di possedere una certezza – a volte però capitava che le sigarette terminavano – ma non in quell’occasione comunque – giacomo non andava dietro le sensazioni, ciononostante se tutti intorno bevevano doveva bere anche lui – se tutti tenevano in mano un bicchiere di plastica doveva farlo anche lui – era come se assorbiva le cose e poi, come una spugna, si strizzava da sé una volta lontano e tornava asciutto – se tutti bevevano, lui doveva bere, anche se c’era un’ora di fila – e io finivo dietro la fila con lui a guardare la gente di schiena – a volte rimorchiava una ragazza e io restavo solo e tornavo da sara – ma non allora comunque – se tutti latravano giacomo doveva latrare – se tutti menavano giacomo doveva menare o almeno doveva starci in mezzo – il problema era che talora nessuno urlava e nessuno ballava né diceva niente – ogni tanto gli altri se ne stavano silenziosi, seduti negli angoli e lui rimaneva asciutto – in ogni caso quella sera non era andata così – poi a forza di camminare finiva che il terreno terminava e davanti a noi rimaneva solo il mare – non sapevo il perche ma in certi momenti era come se non riusciva a permanere nello stesso posto troppo a lungo – aveva bisogno di continuare a muoversi – e così capitava che arrivavamo davanti al porto e per non restarcene là fermi proseguivamo fino in fondo allo spazio lungo e sottile dove attraccavano le barche, fin sotto – io non facevo neanche domande, gli camminavo solo dietro, tanto non mi rispondeva e comunque non era importante – solo che a un certo punto lo spazio si esauriva e oltre non restava altro che il mare – non potevamo certo buttarci dentro – a volte capitava che quel momento collimava con il tramonto – a quel punto giacomo si fermava, si guardava attorno e capiva di essere arrivato troppo lontano – iniziava a chiedermi dove diamine fosse sara ma senza aspettarsi una risposta, tanto lo sapeva che ero stato con lui tutto il tempo – trovavo curioso che nel suo volteggiare tra il mare, l’orizzonte e poi le case bianche stile grecia con tutti i vicoli alle mie spalle, lo sguardo non si soffermava mai su di me, ero come un palo della luce, era come se parlava da solo, e sembrava proprio che si sentiva veramente solo – poi provavo con una frase, “torniamo in piazzetta punto interrogativo”, “torniamo al nome del locale punto interrogativo” – lui prendeva il telefono, faceva una successione di chiamate in una successione di secondi – musica alta, la gente non capiva, poi prendeva a bestemmiare – c’era sempre quel momento – il momento di vuoto in cui non poteva camminare né in salita né in discesa e lo spazio finiva – il livello del mare, così lo chiamavamo – “sto a livello del mare” significava che qualcosa non andava, un posto dal quale uno voleva solo allontanarsi, ma era un po’ complicato e a me veniva anche un po’ da ridere a vederlo perdere il senno e gridare da solo contro il niente, ma mentre ridevo, la sentivo anche io la paura, e ridevo e avevo paura e poi ricominciavamo a camminare e poi a correre e a fare i gradini a due alla volta, a tre alla volta, a procedere tra vicoli e  locali, tra sorrisi e sguardi che cercavano consenso ma poi erogavano dissenso, tra ingressi, uscite, file, bicchieri di plastica, musica forte, “permesso, chiedo scusa, levati dal cazzo, ma ndo sta sara, ma tu c’hai il numero suo punto interrogativo, ma a te ti risponde punto interrogativo, ma ndo cazzo sta sara, ma ndo sta, a mà, veramente, a ndo sta”, e io vedevo il suo volto modificarsi progressivamente in disperazione, forse quasi panico, non riuscivo a capirlo bene perche lo scorgevo solo a tratti e intanto non arrivavamo mai e quelli erano i momenti peggiori e la gente cominciava a dire “sara ti cercava”, “ti voleva quella ragazza bionda”, “era andata al nome del posto”, “si era avviata al nome di un altro posto”, “l’ho vista vicino al nome di un posto”, il ritrovo appresso, la zona appresso, non finivano mai – giacomo prendeva a sudare – diventava per davvero una spugna, gonfio in volto – la gente rideva e diceva “che sei uscito a fare un tuffo punto interrogativo” – no, era solo arrivato al livello del mare

notte – dicevo giacomo in genere non andava dietro alle sensazioni, tranne quando qualcuno faceva la proposta – io ero uno che faceva sempre la proposta – tiravo fuori una bottiglietta d’acqua e ci buttavo dentro la proposta e poi gliela passavo – mi guardava, mi chiedeva se era la proposta senza aspettarsi una risposta vera – io prendevo a ridere e gliela passavo senza rispondere e lui si alimentava senza aspettarsi una risposta – quelle serate erano le peggiori per giacomo perche arrivato a un certo punto non riusciva più a spremere la spugna e allora assorbiva e assorbiva e poi si dilatava tutto e finiva a terra da qualche parte a dormire con la bava alla bocca e la testa piena di consensi, contatti e strette di mano – sicché di solito tornavo da sara, e insieme a lei ritornavamo da giacomo e ce lo caricavamo in macchina e in questa sequenza in genere inizio a ridere perche lui non riesce a stare dritto sul sedile di dietro e si accascia a destra e a sinistra a seconda delle curve e ci manca poco che non vada a sbattere contro lo sportello – no ma comunque quella sera non finisce così – quella sera – delle volte prendiamo a correre – entriamo in posti dove non centriamo niente – poi ci allontanano e scappiamo – in strade dove solitamente uno non passa mai a piedi – ci si passa solo in macchina – ci passiamo fuggendo – nel senso allontanandoci dal centro invece che avvicinandoci – posti che è come se uno li vedesse per la prima volta perche ci è sempre scorso solo in macchina – uno li conosce esclusivamente da dietro un finestrino – poi scende, cammina e inizia ad accelerare – e si accorge che esistono spazi sterminati di località nuove dove uno non è mai stato davvero – li annovera solo come parte di un movimento rettilineo costante – non come entità statiche – poi uno esce, decide di seguire giacomo e senza volerlo si ritrova in questi posti – a lui non piacciono – ma comunque in qualche modo ci finiamo – solo che non abbiamo tempo di guardarci attorno perche le guardie giurate ci inseguono e ci prendono a pietrate – ci mettiamo a correre – è pieno di posti così – parcheggi privati – campeggi – luoghi dove non dovremmo essere – siamo quei luoghi – poi a un certo punto a forza di scappare arriviamo a una tale rotonda – è un bivio – voltiamo a sinistra e c’è questa abbazia abbandonata forse piena di fantasmi in mezzo alla campagna – e riprendiamo a salire verso il paese – dove sono ancora luci e suoni – meglio muoversi – l’aria si fa fredda – ci appostiamo su una curva – sara è passata a prenderci – ora andiamo verso nome di un  paese

fuori dal pronto soccorso – mattina – tanta luce, all’esterno è quieto – a volte va a finire così – saliamo su un pullman – diretti da qualche parte, come nome di un posto oppure nome di un posto –  scendiamo in stazione – montiamo su di un treno – pieno di piccoli gruppi come il nostro – sparuti – bianchi in mezzo a tanta luce – cercano un angolo di buio dentro gli scompartimenti – giacomo inizia a montare e smontare – un vagone, poi un altro, nessuno guarda davvero dove siamo diretti – lo sfondo appare sempre in un certo modo lo stesso – un indistinto ammasso di ambienti e paesaggi mescolati verso un lato del finestrino – un terminal di quelli più grossi – il centro di qualcosa – autobus – nuove piazzette – nuove situazioni – ci seguono alcuni dal treno non ancora smontati – qui il contesto è più spazioso, ma pur sempre vicino al mare – l’ho notato prima dalla ferrovia – sento una leggera paura, in località di questo tipo è anche più facile disperdersi – giacomo invece viene da nome di un posto, sa come muoversi, è una grande città – le persone diventano numerose – le vedo accatastate a mucchietti lungo il bagnasciuga di una spiaggia – a terra con la schiena sui muretti del lungomare – innalzano grossi fuochi e prendono a saltarci tutto intorno – è ancora giorno, il calore delle fiamme rischia di ustionare perche non è visibile alla luce del sole – colonne di fumo nero si innalzano all’orizzonte – entrano di obliquo nel profilo piatto dei palazzi della città – figure scure e cosparse di cenere volteggiano attorno grossi falò quasi occulti ai bagliori della prima sera – si stipano qua e là vicino gli angoli delle strade – qualcuno corre e si lancia contro le cose – ne vedo gruppetti nella parte di sopra degli autobus e sui tetti dei chioschi del litorale – scaricano legna – la trasportano – ci buttano sopra anche gli ombrelloni e le sdraio – resti di un pedalò, alimentano la danza – restituisce un sacco di fuliggine scura – insieme a quella bianca dei fumogeni o dei lacrimogeni appare quasi una strana composizione – mentre mi tirano dalla schiena, mi trascinano dentro un furgone di metallo, giacomo mi fa segno di lanciargli la bottiglietta di plastica – lo faccio solo per ridere del suo volto quando capisce che è vuota – le figure buie all’interno sono tutte sedute a terra – cercano riparo dalle ultime luci – il mezzo non fa a tempo ad arrivare alla stazione di polizia – le cose a un certo punto, non saprei dire quando, devono essere cadute vittima del panico – il furgone prende fuoco – nessuno si ricorda di aprire lo sportello – no un attimo, si apre – fuori c’è giacomo – dice “ma ndo cazzo sta sara” – non credo la troverà – sara non era neanche con noi sul treno alla partenza – non provo nemmeno ad assecondarlo – ormai l’ho perso – mi allontano verso uno di quegli imponenti incendi di cui parlavo – una volta in spiaggia mi suona il telefono – “ma si può sapere a ndo stai” – ritorno da giacomo – iniziamo a camminare – sempre più in fretta – lui è già un bagno di sudore – ci sediamo sotto una fermata – aspettiamo – aspettiamo ancora – silenzio – giacomo fa su e giù davanti la panchina – io, per lui, sono come la panchina – l’autobus non riesce neppure ad avvicinarsi – pezzi di esseri umani ricoperti di polvere di legname carbonizzato vi si buttano sopra o cercano di entrare dai sottili finestrini – così il mezzo prosegue senza lasciarci salire – decidiamo di continuare a piedi – man mano che scorriamo il lungo mare – fette di personalità saltano fuori dalle strade a piccole ondate – dicevo un po’ alla volta gli accessi alla zona dove ci troviamo vengono ostruiti dalla polizia – cumuli di individui, ricoprono segmenti del suolo della carreggiata – e più proseguiamo più il contesto diventa off limits per chi arriva da fuori – così non potendo più tornare dentro la city, possiamo solo scegliere se continuare a destra o a sinistra lungo la costa – giacomo però vuole raggiungere la banchisa del porto – grumi, ammassi di cose, i lampioni non riflettono i loro volti, si barcamenano, quasi scaraventati dal vento, come fossero buste di plastica vuote, vanno a sbattere, poi si ribaltano e continuano la corsa, tentano di non rimanere indietro, di non restare soli, provano a raggiungere i veicoli, solo che non ci riescono, e mentre camminiamo – giacomo si direbbe non averli neanche notati – mentre andiamo avanti prendono a raggrupparsi sui lati del molo – su quelle rocce artificiali di forma quadrata – uccelli morti ai raggi scomparsi della fine del giorno – si inoltrano piano all’interno delle imbarcazioni parcheggiate – bianche come auto da matrimonio – le loro impronte e le orme delle loro tracce ridicolizzano nomi inspirati a fiabe da mille e una notte o a fotomodelle dai nomi esotici  – sedili di alcantara e divanetti di pelle pregni di qualcosa che ricorda il catrame – grasso e carbone tritato sui pavimenti in legno lucido ormai da buttare – qualcuna ha anche la piscina – luci diffuse colorate da interno illuminano alcuni di noi lenti dentro quelle grosse auto da cerimonie mai più celebrate – la cosa non sfugge di certo a giacomo – e quando le barche cominciano una alla volta – il tempo che quei soggetti capiscano come funzioni un motore – dicevo il tempo di vedere le barche allontanarsi che giacomo punta la più vicina – una delle ultime rimaste – ci sale dentro come un disperato nel tentativo di non restare isolato, di non essere abbandonato sul molo – i proprietari all’interno provano a bloccarlo, un altro aziona il motore – io glielo impedisco, li spingo in acqua e poi trattengo giacomo dal desiderio di aiutarli con una mano e con l’altra spingo una leva verso l’alto al massimo – un’idiozia – il mezzo s’impenna in modo repentino e noi ci dobbiamo aggrappare alle cose per non finire in acqua mentre la barca se ne va via da sola e io spero che i padroni di sotto non siano caduti in prossimità dell’elica

notte – non so in che direzione andare – vado dove vanno gli altri puntini luminosi – verso una grande isola di luce in mezzo al buio – speriamo di non collidere tra noi – per questo giacomo non cessa di urlare da sopra la cabina sovrastando il suono del motore – cerca di chiamare l’attenzione – ma tutti continuano dritto senza curarsi di niente – devo badare al timone altrimenti cercherei delle bottiglie da passargli – capiamo di essere arrivati non dal contatto visivo, bensì dai suoni – tonfi, sempre più grandi, sempre più disperati – le imbarcazioni, grosse e piccole, collidono tra loro e tutte collidono contro il bordo del porticciolo minuscolo dove ci siamo incastrati, dio non voglia qualcuno finisca in acqua – uno si immagina chissà quanto dista l’altra sponda, e invece sono bastate meno di due ore – potremmo essere finiti in nome di uno stato o nome di uno stato, potrebbe essere anche nome di uno stato a questo punto – tanto un posto vale l’altro – una persona vale l’altra – dobbiamo provare a raggiungere l’isola di luce ancora lontana, lì in alto – ma se cadiamo di sotto siamo spacciati – lembi di personaggi usano passerelle di legno di quelle per attraccare col fine di superare i motoscafi – man mano nuovi yacht si aggregano alla massa – quelli di dietro ci arrivano addosso e fanno sobbalzare noi che facciamo sobbalzare gli altri – diventiamo parte di un contesto effimero, incerto, provvisorio – come un grande moto oscillatorio, un movimento di propagazione a onde – passiamo delicatamente da una occasione speciale all’altra – da una ricorrenza particolare alla seguente – da un momento solenne al successivo – tutti rigorosamente ricoperti di alcantara – tutti ridotti a un cesso di un cinereo appiccicoso – quell’isola di luce, in realtà non è un’isola di luce – sono solo dei blindati che ci puntano contro i fari – non vediamo un accidente di cosa ci sia dietro – procediamo per sensazione – quando da bambini pensavamo “non andate verso la luce” e quegli insetti puntualmente ci andavano – come ci avviciniamo ci piovono addosso delle cose – cose di ogni tipo – a me sembrano reti – faccio a giacomo il gesto dell’accendino – me lo infila attraverso i gangli mentre vengo lentamente issato via – devo avere ancora una proposta da qualche parte – una volta filtrato dall’altro lato, riesco a vedere finalmente il paesaggio – un accidenti perche è notte – però c’è un paese in alto – mi caricano nel rimorchio scoperto di un cammion – osservo cerchi di fumo espandersi dalle boccate della mia proposta, ergersi e sparire indietro lungo il cammino – gli umani di fianco sono abbastanza quieti qui al buio – c’è una sorta di grossa radura in mezzo a un accidenti perche è notte – ci sono dei cancelli, dei reticolati, torrette – lì sdraiato in mezzo alla spianata, circondato dai pini, riesco finalmente a vederle – dico le stelle – isole di luce lontane – dico non subito – dopo che salta l’alimentazione elettrica e le guardie di fuori comincino ad abbandonarsi alla paura – si sentono sempre di meno – me ne resto un po’ a non pensare a niente – io e altri dieci o quindici di questi esseri – nessuno parla – l’erba è morbida e l’aria non è fredda – un altro po’ e si odono i grilli – da lontano neanche un suono – e prima che possa continuare a registrare gli eventi il cervello se ne va da qualche altra parte

mattina – non so bene se si sia trattato di sonno oppure di una disfunzione da over proposte – mi sveglio e intorno a me non c’è nulla – inizio a camminare – e poi cammino ancora – non mi rendo conto neanche per quanto – è pieno di insetti, mi ronzano attorno per via del sudore – provo a transitare sull’argine all’ombra della strada – una strada che non porta da nessuna parte, lo capisco benissimo – una serie di salite e discese che si alternano – una serie di curve che si avvicendano – vegetazione e radure che si succedono – zone di freddo a zone di calore – non distinguo il contesto climatico – neanche una macchina o un tre ruote di passaggio – ogni tanto mi alimento con un fico, raccolgo una pera o un altro tipo di fico che cresce su di un cactus – a terra strani frutti secchi, scuri e piatti, lunghi come banane ma duri come pezzi di legno, che sulla lingua sanno di qualcosa – fanno passare la fame – gli alberi intorno sembrano antichi, molto antichi, diventano ricurvi e levigati dal tempo simili a rocce, frantumati, recisi da increspature fino a dividersi completamente in due o tre pezzi separati – ogni tanto i resti di un muro, resti di altre cose, cose antiche – archi – grotte – ci sono delle grotte – ma non si vedono granché, nascoste dalle piante di fichi come sono – ma se ci si butta attraverso ci si ritrova sotto un tetto di pietra – volte – serpente – ci sono delle volte – altorilievi – focolari e abbeveratoi scolpiti dentro il macigno – tutto abbandonato – lastre – lastre di marmo sgretolate – ne è pieno il terreno – altorilievi sulle volte sopra le tombe ricavate dalla rupe – proseguono il profilo naturale delle colonne della grotta stessa – come se invece di costruire si fosse semplicemente adattato l’ambiente preesistente – delle composizioni floreali – riesco a vederne ancora il porpora del pigmento scontratosi con un taglio di luce obliquo – il pavimento è ricoperto anche da escrementi – dico escrementi per davvero – lì dal fondo dove mi trovo uno scorcio attraverso l’ingresso, aldilà del verde e tutto il paesaggio con i clivi, distinguo il blu del mare – un contesto immobile – equilibrato – in armonia – lascio la grotta prima che mi crolli tutto in testa – le radici dei fichi infatti bucano il soffitto e avvolgono la struttura rendendola completamente instabile – un gregge di pecore all’esterno – aspetto che il pastore le conduca in un recinto per farmi trasportare da una qualche altra parte

dì – il parcheggio del porto – non sembrerebbe – un porto diverso – uno grosso dove scaricano navi piene di container – lo scalo commerciale – è pieno di ammazza zanzare – quelle racchette che danno la scossa – questo mi ricordano – i poliziotti sparano coi teaser alla gente – recinzioni – recinzioni elettrificate – le navi continuano a partire come niente fosse – la gente continua a pensare ai problemi propri – qua fuori nel parcheggio, invece non è affatto come niente fosse – folate di fumo, a ondate investono tutto davanti a noi – però solo a ondate, dipende dal vento – perciò a tratti scorgiamo di fronte e quelli a tratti ci scorgono – teloni di gomma, di quelli che usano nelle fiere – ce ne sono di blu e di tutti i colori – vengono issati sui cancelli – ci sono diverse file di cancelli, perciò ne servono ancora – ne servono altri – uno di solito pensa una nave non può partire e basta come fanno certe linee della metro alla fine dei concerti, che smettono di controllare quanta gente sale, chiudono gli sportelli e procedono, tanto prima o poi i passeggeri scenderanno, tempo due o tre fermate – non è che uno si arrampica su dei teli di gomma e si lascia scivolare stile acqua park a due o tre dita dall’alta tensione, giù verso file di – come si chiamano – polizia di frontiera, portuale – che attendono con gli arpioni puntati – quasi fosse una roba da niente – uno pensa non è che va, brucia le cose e passa oltre, trattando il fuoco come una sorta di strano passepartout per ovunque, il fuoco e il vento – uno dice non funziona così, non è così semplice – non è che prende, va e scaglia bombe incendiarie contro i tipi portuali – che tra l’altro quelli non sono arpioni, sono dardi, sono fucili narcotizzanti – sì, non funziona in questo modo, non va là, dispiega una grossa rete da pesca colorata arrotolata di lungo, con le estremità legate a dei razzi pirotecnici, accende i razzi e lascia che la rete si srotoli e si distenda in alto, molto in alto, verso la folla di tizi costieri e rimane a vedere come un pezzo alla volta si aggroviglino da soli nei gangli, si stipino e cadano a terra a grappoli, nel contempo che una folla di esseri latranti e dimenanti quasi non fossero più individui, ma neanche fiere, si proiettino a frotte verso l’ostacolo successivo, tra i rossi e i blu dei fuochi pirotecnici e colonne fumarie di colori diversi, superando cataste di scudi di gomma e caschi con dentro delle persone, persone vere – non so neanche che lingua parlino – tanto fa lo stesso – va a finire sempre così – uno si immagina enormi apparati, strutture gigantesche, ordini di enti dalle dimensioni e dai poteri immani – e poi li vede sfaldarsi, li vede come li vedo io adesso, dissolversi in un niente, un momento di indecisione – palazzi enormi, strade infinite, milioni di persone al sevizio, impilarsi e inciampare gli uni sugli altri – da sé – senza che uno abbia fatto chissà cosa – ci sono solo passato attraverso – mi sono solo avvicinato – lasciatomi trasportare – apprestato a un fuoco, una sera, su una spiaggia – che tirava vento e non avevamo niente da fare – alimentato delle fiamme – intrapreso una corsa intorno a un punto, proseguito in giro per la città, fino alla fine delle cose, la fine della terra, il livello del mare. Che mi passano di fianco sfreccianti questi che eravamo noi la sera scorsa, ero io, loro sono io. Supero oggetti, strutture, agenti, scavalco container, certi si introducono all’interno intanto che ancora vengono issati, ci ergiamo sulla cima delle cose, sulle gru e le impalcature gialle, per lasciare che il nostro occhio giunga lontano, oltre gli impedimenti, nel momento in cui oasi luminose si azionano sullo sfondo. Dove vanno a finire le creature ormai gettate via? Forse esattamente nel punto in cui convergo io adesso, noi, su un cargo colmo di container. Un tale suppone “non può certo arraffare e congedarsi di tale maniera”, e invece salpiamo così, intrisi di polvere e nudi per metà, carichi di ferite e contusioni. Si pronuncia spesso la frase esemplare, si fa una proposta insolita e qualcuno aggiunge “credi nessuno abbia mai tentato?”, ed insiste “presume di sbrigarsela in questo modo”, già, nel modo in cui me la sono sbrigata io. Persevera anche con la nave distante, solitaria, senza capitano e senza marinai, se mi sforzo lo scopro ancora lì, sulla riva che sogghigna, distinguo ancora le sue labbra schiudersi “è arrivato il genio”. Quasi si dovesse necessariamente mettere tutto prima per iscritto, sottoporlo al vaglio della critica e dell’opinione, all’esamina di un talk show animato da tuttologi a basso costo buoni a rappresentare la media di qualcosa, possedere un progetto, ultra dettagliato, categoricamente, come se uno non potesse semplicemente emigrare e vedere dove approdasse, evitando di prefiggersi una meta, una tabella di marcia, essere componente, non lasciandosi rinchiudere in contenitori, scatole e tessere di partito, diventare elemento di una marea, organismo di una distesa di plancton, corallo di una barriera, fenicottero di uno stormo rosa e bianco, esteso, di cui non si scorge capo né coda, che si poggia su di un lago d’acqua salata, il quale non si intende sia vero e proprio suolo o solo una continuazione del cielo, se lo stormo sia atterrato o stia ancora volando. Dinnanzi ho una bella fetta di mare. Sogno popolazioni del sud est asiatico, nel tremila e cinquecento avanti cristo, piccoli gruppi su imbarcazioni rudimentali che presero il largo. Se avessero dovuto conoscere un percorso esatto o avere una destinazione precisa non sarebbero mai salpati, invece tutto sommato arrivarono. Nuova guinea, figi, nuova zelanda, isola di pasqua, madagascar, non mossi da sete di conoscenza, cercarono solo un posto dove respirare. Studiarono il moto della corrente, il volo degli uccelli per sapere dove trovare terra ferma, usarono il poco che avevano a disposizione, il poco che sapevano. Ogni tre o quattro di quelle barche fondarono dei mondi sconosciuti, diedero vita a nuove lingue, società ignote. Adesso li consideriamo residui di qualcosa che dovrebbero essere ma non sono. Se torneremo ad ostentare invadenza con i nostri bicchieri di materiale organico e creme a basso impatto ambientale, loro isseranno da capo le vele. Approderanno su taluni atolli di plastica galleggiante dove nessuno metterà mai piede. Residui del nostro mondo, scarti. Intraprenderanno l’avventura di nuovo, solo per poter riprendere fiato, solo per un po’ di spazio, un pezzo di spiaggia priva di gommoni e di fari che li invitino a rincasare. Una collocazione presso la quale sentirsi liberi di non costruire una carriera, non montare relazioni. Approdati su qualsiasi sponda improvviseranno palafitte e la chiameranno casa. Il dì sarà come la sera ed i giorni non trascorreranno nell’attesa di un evento. Non desiderare altro che diventare parte di una incessante espansione, movimento migratorio millenario, storia sprovvista di inizio e attracco, che si dissipa attraverso le ere. Successione di eventi semovente su di una linea circolare, non orizzontale. A forza di apporre accadimenti rilevanti, non si deduce ormai più a partire da quale si sia dato inizio al conteggio. Quale sia stato il primogenito tra loro, quasi non interessasse. Viaggiare lungo una direttrice tracciata attorno una gigantesca montagna tondeggiante dalle imponenti pareti spuntata fuori dal nulla al centro di una pianura completamente spianata. Una montagna sacra. Dove non piove mai ed i graffiti e le pitture tracciate su essa si trovano lì a partire da un momento qualsiasi nell’asse temporale identificato come sempre. Uno scorrere magico in cui i viventi coabitano con gli antenati e gli avi tramite disegni fatti come se non appartenessero a qualcuno. Ognuno prolunga le linee e le forme dell’altro, sino a non essere più plausibile ricondurli ad un autore, intuirne il dominio. Pitture che illustrano l’espandersi di una specie, il suo percorso evolutivo. Tra tutte quelle impronte bianche e nere, rivediamo la nostra, traccia di uno di questi organismi, unità infinitesimale di evento biologico che ha generato l’insieme, fissa in perpetuo, associata con una circonferenza scevra di soluzione di continuità, un affresco di proprietà di nessuno, il disco di una eredità genetica. Apparteniamo a quel disco. Ruota stregata, millenaria, senza cima né radici. Che gira su sé stessa all’infinito. Se finanche laggiù non dovesse restare spazio, ebbene leveremo l’ancora daccapo, con pochi strumenti, il poco che sapremo, diretti su osservatori orbitanti fatti di rimasugli di satelliti vecchi e ossidati, sui quali nemmeno un abitante sosterebbe, ad esporre maglie da recupero nel pelago spaziale appositamente per catturare scorie alimentari in prossimità di rotte per pianeti più attraenti. Issare trabucchi dedicati a lenzare container pieni di cibo destinati alla terra. Ammireremo il creato ormai celato da luci, strade e palazzi. Spiegheremo le vele e trasmigreremo, adagio areneremo nei pressi di un lido vergine, sito remoto e escluso dalle mappe europee, quantomeno per il prossimo migliaio di anni, paraggi dove prendere un ultimo fiato. Sottovalutare norme di sicurezza e piani di fuga. Sprecare i nostri giorni invece che investirli. Rinunciare ad accumulare nozioni e a partecipare all’idea di progresso. Essere niente, essere non consapevolezza di sé. Memoria della propria persona smarrita. Circuiti e schede madri che comunicano l’assenza alla velocità della luce. Vacuità è ciò che ci lasciamo a ridosso. Aldilà del presente ancora, a favore di un astro detto sirio, mondo che circumnaviga sistema binario con due soli, ove non v’è mai veramente notte o giorno. Inverosimile che possa esistere. Riaccendersi nella stella dove ci si è accesi, rimettersi in moto riconducendosi a casa. Illustrazioni sprovviste di tecnica, ad occhi chiusi, gesticolate forsennatamente sul muro e contemplare poi uno scarabocchio, esattamente come immaginato, ma allo stesso tempo diverso da quello accanto. Così esso diviene simbolo, significato. Estensione di sé. Eppure incognite restano il modo in cui è scaturito l’atto e il suo obiettivo.

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Marco Florio nasce a San Severo nel 1989, si diploma in belle arti nel 2018, scrive dal 2020, attualmente specializzando presso l’accademia albertina.

 

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Una lettera di Niccolò Machiavelli sull’«amore»

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di Niccolò Machiavelli

{Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dalle Lettere di Niccolò Machiavelli, Salerno editrice, nell’edizione diretta e coordinata da Francesco Bausi. Il volume raccoglie, in tre tomi, il carteggio privato di Niccolò Machiavelli, comprendente 82 lettere sue e 272 missive di corrispondenti. Si tratta di testi che apportano un contributo determinante per la conoscenza della biografia, della personalità e della cultura di Machiavelli, oltre che della storia fiorentina e italiana nel primo quarto del XVI secolo.

L’estratto che segue è la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 25 febbraio 1514. Spiega Francesco Bausi nella nota introduttiva: «A suggello di [una] sezione comico-erotica del carteggio col Vettori, che occupa due mesi tondi (dal 24 dicembre 1513 al 25 febbraio 1514), M. gli invia un’epistola occupata pressoché per intero da una gustosa “novella” che ha per protagonisti i due comuni amici Giuliano Brancacci e Filippo Casavecchia […]. Su un piano più generale questa lettera non fa che sviluppare e concludere l’argomento delle precedenti, confermando con l’efficacia di un vero e proprio exemplum il loro assunto fondamentale, vale a dire l’ipocrisia, l’inutilità e l’innaturalità tanto di qualunque contrapposizione ad excludendum fra amore etero- ed omosessuale, quanto – come si ripete, alla fine, anche qui – delle remore morali e sociali che frenano il libero dispiegarsi della passione erotica. […] Pezzo di bravura superlativo del M. “comico”, la «metamorfosi» del Brancacci si colloca a pieno titolo fra le sue più riuscite prove letterarie. Con la Favola di Belfagor, con la novelletta della vecchia veronese […] e con la Mandragola, essa condivide i temi, specialmente a lui cari e congeniali, dell’inganno, del travestimento, del doppio e dello scambio di persona».

Il testo è riportato senza le note critiche dei curatori: per quelle rimandiamo al volume originale.}

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Magnifico oratori Florentino Francisco Vettorio apud Summum Pontificem suo observandissimo. Rome

Magnifico oratore, io ebbi una vostra lettera dell’altra settimana, e sono indugiatomi ad ora a farvi risposta, perché io desideravo intendere meglio il vero di una novella che io vi scriverrò qui dappiè; poi risponderò alle parti della vostra convenientemente. Egli è accaduto una cosa gentile, ovvero, a chiamarla per il suo diritto nome, una metamorfosi ridicola e degna di essere notata nelle antiche carte; e perché io non voglio che personasi possa dolere di me, ve la narrerò sotto parabole ascose.

Giuliano Brancacci, verbigrazia, vago di andare alla macchia, una sera infra l’altre ne’ passati giorni, sonata l’avemaria della sera, veggendo il tempo tinto, trarre vento e piovegginare un poco (tutti segni da credere che ogni uccello aspetti), tornato a casa si cacciò in piedi un paio di scarpette grosse, cinsesi un carnaiuolo, tolse un frugnuolo, una campanella al braccio e una buona ramata. Passò il ponte alla Carraia, e per la via del Conte de’ Mozzi ne venne a Santa Trinita, e entrato in Borgo Santo Appostolo andò un pezzo serpeggiando per quei chiasci che lo mettono in mezzo; e non trovando uccelli che lo aspettassino, si volse dal vostro battiloro e sotto la Parte Guelfa attraversò Mercato, e per Calimala Francesca si ridusse sotto il Tetto de’ Pisani, dove guardando tritamente tutti quei ripostigli trovò un tordellino, il quale con la ramata, con il lume e con la campanella fu fermo da lui, e con arte fu condotto da lui nel fondo del burrone, sotto la spelonca dove alloggiava il Panzano; e quello intrattenendo e trovatogli la vena larga e piú volte baciatogliene, gli risquittí dua penne della coda, e infine, secondo che gli piú dicono, se lo messe nel carnaiuolo di drieto.

Ma perché il temporale mi sforza a sbucare di sotto coverta, e le parabole non bastano, e questa metafora piú non mi serve, volle intendere il Brancaccio chi costui fosse; il quale gli disse, verbigrazia, essere Michele, nipote di Consiglio Costi. Disse allora il Brancaccio: «Sia col buono anno, tu sei figliuolo di uno uomo dabbene, e se tu sarai savio, tu hai trovata la ventura tua: sappi che io sono Filippo da Casavecchia, e fo bottega nel tal lato; e perché io non ho danari meco, o tu vieni o tu mandi domattina a bottega, e io ti satisfarò». Venuta la mattina, Michele, che era piú presto cattivo che dappoco, mandò un zana a Filippo con una polizza, richiedendoli il debito e ricordandoli l’obbligo; al quale Filippo fece un tristo viso, dicendo: «Chi è costui? O che vuole? Io non ho che fare seco; digli che venga a me». Donde che, ritornato il zana a Michele e narratogli la cosa, non si sbigottí di niente il fanciullo, ma animosamente andato a trovare Filippo, gli rimproverò i benefici ricevuti, e li concluse che se lui non aveva rispetto ad ingannarlo, egli non arebbe rispetto a vituperarlo; tale che, parendo a Filippo essere impacciato, lo tirò drento in bottega e li disse: «Michele, tu sei stato ingannato; io sono uno uomo molto costumato, e non attendo a queste tristizie; sí che egli è meglio pensare come e’ s’abbi a ritrovare questo inganno, e che chi ha ricevuto piacere da te ti ristori, che entrare per questa via, e senza tuo utile vituperare me. Però farai a mio modo; andra’tene a casa, e torna domani a me, e io ti dirò quello a che arò pensato». Partissi il fanciullo tutto confuso; pure, avendo a ritornare, restò paziente. E rimasto Filippo solo, era angustiato dalla novità della cosa, e, scarso di partiti, fluttuava come il mare di Pisa quando una libecciata gli soffia nel forame; per che e’ diceva: «Se io mi sto cheto, e contento Michele con un fiorino, io divento una sua vignuola, fommi suo debitore, confesso il peccato, e di innocente divento reo; se io niego senza trovare il vero della cosa, io ho a stare al paragone di un fanciullo, hommi a giustificare seco, ho a giustificare gli altri, tutti i torti fieno i mia; se io cerco di trovarne il vero, io ne ho a dare carico a qualcuno, potrei non mi apporre, farò questa inimicizia, e con tutto questo non sarò giustificato».

E stando in questa ansietà, per manco tristo partito prese l’ultimo; e fugli in tanto favorevole la fortuna, che la prima mira che pose, la pose al vero brocco, e pensò che il Brancaccio gli avesse fatto questa villania, pensando che egli era macchiaiuolo, e che altre volte gli aveva fatto delle natte, quando lo botò a’ Servi. E andò in su questo a trovare Alberto Lotti, verbigrazia, e narratoli il caso e déttoli l’oppenione sua, e pregatolo avesse a sé Michele, che era suo parente, vedesse se poteva riscontrare questa cosa. Giudicò Alberto, come pratico e intendente, che Filippo avesse buono occhio, e, promessoli la sua opera francamente, mandò per Michele, e abburattatolo un pezzo, li venne a questa conclusione: «Darebbet’egli il cuore, se tu sentissi favellare costui che ha detto di essere Filippo, di riconoscerlo alla boce?». A che il fanciullo replicato di sí, lo menò seco in Santo Ilario, dove e’ sapeva il Brancaccio si riparava, e faccendogli spalle, avendo veduto il Brancaccio che si sedeva fra un monte di brigate a dir novelle, fece che il fanciullo se gli accostò tanto, che l’udí parlare; e girandosegli intorno, veggendolo il Brancaccio, tutto cambiato se li levò dinanzi: donde a ciascuno la cosa parse chiara, di modo che Filippo è rimaso tutto scarico, e il Brancaccio vituperato. E in Firenze in questo carnasciale non si è detto altro, se non: «Se’ tu il Brancaccio, o se’ il Casa?»; «et fuit in toto notissima fabula celo». Io credo che abbiate aúto per altre mani questo avviso; pure io ve l’ho voluto dire piú particulare, perché mi pare cosí mio obbligo.

Alla vostra io non ho che dirvi, se non che seguitiate l’amore totis habenis; e quel piacere che voi piglierete oggi, voi non lo arete a pigliare domani; e se la cosa sta come voi me l’avete scritta, io ho piú invidia a voi che al re di Inghilterra. Priegovi seguitiate la vostra stella, e non ne lasciate andare un iota per cosa del mondo, perché io credo, credetti e crederrò sempre che sia vero quello che dice il Boccaccio, che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi.

Addí 25 di febbraio.
Niccolò Machiavelli in Firenze

cinéDIMANCHE #17 GEORGES PEREC & BERNARD QUEYSANNE Un Homme qui dort [1974]

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DALL’ARCHIVIO: 8 marzo 2015

 

[ sottotitoli trad. O. Puecher ]

di Orsola Puecher

Un uomo che dorme [1967], terzo libro di Georges Perec, è la storia di un tentativo, non riuscito, di ritirarsi dalle cose del mondo, quelle stesse che nel suo precedente romanzo, Les choses,[1965] costituivano una fascinazione assoluta e divorante. Secondo Proust, ispiratore del titolo “Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi.“, ma in questo di uomo, uno studente che ha 25 anni e 29 denti, una borsa di studio di 500 franchi al mese, e che un giorno in cui tutto gli si svuota di colpo di senso, decide di non andare a sostenere un esame di Sociologia, il sonno non ha alcun ordine pacificatore, ma è popolato di sogni inquieti in cui egli è mare nero e nave allo stesso tempo, un corpo diviso in parti separate, un grande occhio che vede se stesso. Nel film che Perec ne ha tratto insieme a Bernard Queysanne in realtà non si riposa mai un istante: seguiamo più che altro il suo vegliare vagamente catatonico nella tana casa rifugio, assediato dai suoni, ticchettio di sveglie, il gocciolio di un rubinetto sul pianerottolo, campane, rumori della strada, dei suoi vicini di casa; lo vediamo in un iterato mettere a bagno calzini, bere Nescafé con il latte condensato, seguire il percorso delle crepe sul soffitto, ripetere ossessivamente un solitario con le carte, che non gli riesce mai; lo accompagniamo in certe brasserie dai menù dozzinali, lo seguiamo nel suo vagabondare silenzioso, incessante, casuale, labirintico e notturno, in una Parigi immersa nel bianco e nero vellutato e lucente della pellicola. E c’ è una voce fuori campo. Le parole in dècalage non corrispondono, se non per brevi momenti di assonanza, alle immagini che scorrono. Una voce femminile, coscienza senza flusso, che parla in seconda persona singolare. TU. Cosi ripetuto, come è della lingua francese, da suonare come un continuo appello al tu estremamente plurale di

colui a cui si parla
colui che parla
colui di cui si parla.

 
tu frit tu

Nota di Perec citata da
David Bellos
Georges Perec. Une vie dans le mots
SEUIL [1993 ]Pag. 366-367

 

La formula del tu di Perec, ha precise percentuali, prevale lo sguardo di un io oggettivato che diventa tu e sfocia in certi momenti in un diario dialogo. La voce narrativa in seconda persona crea una nuova concezione dello spazio del racconto. Evitando la prima persona e con essa l’immedesimazione passiva scrittore-personaggio, lettore-personaggio si crea una distanza di sicurezza, più pertinente ad una presa di coscienza lucida, mai in preda a distorsioni emotive. L’oggettività si crea in una lunga serie di frasi brevi, non coordinate fra loro, sempre al presente. La solitudine ha bisogno di un interlocutore, di un dialogo interiore. Il tu implica un io che parla e un io che ascolta. Per questo personaggio che rifiuta tutti i contatti con il mondo esterno, la notte e la camera sono luogo di rifugio, perché là si è al riparo da tutte le comunicazioni con gli altri. Ma se è possibile sottrarsi allo sguardo degli altri, diviene impossibile evitare il proprio e evitare di prendere coscienza del se come altro. Dell’esistere [ lat. exsistĕre, comp. di ĕx- ‘da, fuori’ e sistĕre ‘porsi, stare, fermarsi’; propr. ‘uscire, levarsi (dalla terra)’ e quindi ‘apparire, esistere’]. E la cosa sorprendente di questa distanza è che, soprattutto nel film, l’asciutta oggettività che ne deriva, provoca un’emozione, spesso una vera e propria commozione, che non ha l’epidermica superficialità dell’immedesimazione, ma tocca corde profonde che con quel tu e con il suo baratro di solitudine, di mancanza di volontà all’azione, nella società dell’attivismo programmatico, hanno una vicinanza che tocca e impaurisce. Riguardo poi a quel cinico, ironico 20% di c)una relazione fra autore e personaggio: Devo farlo morire? No il lettore si dispiacerebbe… (cf. la fine de La montagna incantata), esso dovrebbe esser per chi scrive, burattinaio dei propri personaggi, quel pizzico di dialogo interno alla scrittura, che non dovrebbe mai mancare per evitare trame da fiction, ingredienti fastfood e finali di facile estenuante prevedibilità.

 

Thomas Mann
La montagna incantata
T rd. E. Pocar
Corbaccio

 
E così nel trambusto, nella pioggia, nel crepuscolo, lo perdiamo di vista.
Addio, Hans Castorp, schietto pupillo della vita! La tua storia è terminata. L’abbiamo narrata sino alla fine; non fu né divertente né noiosa, fu una storia ermetica. L’abbiamo raccontata per se stessa, non per amor tuo, poiché tu eri semplice. Ma in fin dei conti era la storia tua; siccome è toccata a te, devi aver avuto una certa accortezza, e noi non neghiamo la simpatia pedagogica che ci prese nel narrarla e potrebbe anche indurci a passare delicatamente un polpastrello sull’angolo d’un occhio al pensiero che non ti vedremo e non ti ascolteremo in avvenire.
Addio… sia che tu sopravviva o muoia! Le tue probabili sorti sono brutte; la mala danza nella quale sei trascinato durerà ancora qualche anno, e noi non ci sentiamo di scommettere forte che ne uscirai salvo. Francamente non ci preoccupiamo gran che se la questione rimane aperta.

 
le riprese
 

GEORGES PEREC
da UN HOMME QUI DORT texte intégral inédit du film
Paris 2007 La vie est belle film associés
 
Ho sempre amato il cinema, i western, le commedie musicali, i thriller e le commedie brillanti. Ma non mi fido molto di questo fascino che l’immagine sembra avere su numerosi scrittori contemporanei. Il cinema per me non è la forma più compiuta della scrittura, quella verso cui una necessità imperiosa mi avrebbe sempre spinto e che sarei infine riuscito, al termine di anni e anni di sforzi, a raggiungere, se non proprio a padroneggiare. Al contrario piuttosto tenderei a pensare che il cinema sia un modo di produzione grossolano e inefficace, interamente assoggettato a un’ideologia mercantile, che, nonostante ciò che si voglia o si faccia, funziona nel 92% dei casi come una costrizione riduttiva.
 
Eppure fare un film di Un uomo che dorme mi sembrava ovvio. E’ stata un’opinione che apparentemente sono stato il solo a condividere: per quel che ne so, nessun regista è mai parso tentato dal soggetto (per non parlare ovviamente dei produttori) e quelli che ho interpellato io stesso – anche se mi dicevano di aver amato il libro – non manifestavano che un entusiasmo tiepido verso questo progetto.
 
Era impossibile che facessi un film (questo film o un altro) ma Bernard Queysanne, a cui ho domandato:
a)se avesse letto il libro, b) se credesse che non fosse stupido il volerne fare un film, c) se volesse, lui, farne un film, ha risposto in modo affermativo alle mie tre domande: questa tripla approvazione ha considerevolmente semplificato i problemi che abbiamo incontrato dopo e ha portato, in un po’ meno di tre anni, a un film oggi compiuto.
 
Del libro non ho granché da dire: era insomma un affare tra lui e me: niente mi obbligava a scriverlo se non la necessità della sua propria esistenza (così è anche, suppongo, per tutti i libri – altrimenti perché scriviamo?) Per il film è meno semplice: ciò che mi sembrava evidente, era forse solamente un certo gusto per la scommessa: fare un lungometraggio con un solo personaggio, nessuna storia, nessuna peripezia, nessun dialogo, ma soltanto un testo letto da una voce fuori campo… Ma quando affermavo che Un Homme Qui Dort era il più “visivo” di tutti i miei libri, sapevo esattamente cosa volessi dire?
 
Fatte tutte le scelte, accettato ogni partito preso, è vedendo il film finito, davanti all’evidenza di questa prima copia che si lascia dietro, una volta per tutte, i nostri dubbi, le nostre incertezze, e quelle migliaia di metri di pellicola e di nastro magnetico triturati, tagliati, montati, aggiustati e riaggiustati, che posso comprendere con più precisione ciò che non mi aspettavo: non un qualsiasi film tratto da un qualsiasi racconto, ma “questo” racconto in vaga forma di labirinto, che ripete di continuo le stesse parole, gli stessi gesti, ripercorre sempre gli stessi itinerari. “Questo” film “parallelo”, dove l’immagine, il testo, e la colonna sonora si organizzano per tessere la più bella lettura che mai scrittore avrebbe potuto sognare per un suo libro. Per quel che mi riguarda questo mi basta completamente.
[trad. O.P.]

 
lettera Perec a Queysanne 
 

BERNARD QUEYRANNE
da UN HOMME QUI DORT texte intégral inédit du film
Paris 2007 La vie est belle film associés
 
Con Georges abbiamo lavorato in osmosi. Abbiamo co-realizzato, co-scritto ma anche co-montato, co-mixato, co-promosso! […] Perec aveva voglia di lavorare con qualcuno che realizzasse il suo primo film. Lavorare con me è un’idea che gli era venuta sicuramente da qualche tempo, ma ha voluto renderla ufficiale inviandomi una lettera anche se ci eravamo sicuramente visti il giorno prima. Lo scritto era importante per Georges e senza dubbio non voleva che questa proposta si annegasse nella parola quotidiana. Mi ha dunque inviato questa lettera dalla Gare di Lyon, prima di una partenza di qualche giorno. Si trattava più di un biglietto che di una lettera. D’altronde egli inviava raramente delle lettere lunghe. Questo biglietto conteneva tre domande: “ 1)Hai letto un Homme qui dort? 2)Pensi che se ne possa fare un film? (io, sì) 3)Ti piacerebbe farne un film?” Contrariamente a quello che ha scritto qui e là, la prima risposta fu negativa, perché non avevo letto altro che Le Cose. Ho dunque comprato e letto Un uomo che dorme e ho pensato che fosse impossibile adattarlo.
Eppure, sì, avevo voglia di fare questo film con Georges Perec.
[…]
E poi ho riletto il libro e mi sono reso conto che mi piaceva il testo quanto il soggetto. Ho detto a Perec: ”Mi piace il tuo testo e mi piacerebbe farne un film muto in bianco e nero, sul quale si sovrappone il tuo testo letto da una voce fuori campo.” […] Dunque lo leggemmo a turno su un piccolo magnetofono. Arrivammo a 2ore e 30 di testo e bisognava tagliare.
Primo vincolo: Georges si rifiutava di riscrivere una sola parola. Decidemmo di realizzare un adattamento con regolo e scalpello. Molto velocemente ci siamo resi conto che la soggettività del personaggio sarebbe scaturita dallo sfalsamento fra il testo e l’immagine. Così abbiamo tolto un capitolo su due, vale a dire tutti i capitoli soggettivi, visto che il libro è costruito su un’ alternanza, un capitolo d’azione, un capitolo di riflessione…
Poi abbiamo tagliato all’interno dei capitoli, Questo lavoro è stato difficile perché bisognava contemporaneamente alleggerire il testo e conservare le ripetizioni, gli elenchi… che fanno parte dello stile di Georges. Molti elementi del libro non ci sono nel film e altri ritornano continuamente. Nel progetto finalmente arrivammo a 1 ora e 20 di testo,
Poi abbiamo ancora tagliato nel montaggio. Talvolta, quando proponevo dei tagli, per degli elementi che trovavo troppo letterari, nel primo capitolo in particolare, scoprii che si trattava di citazioni di Kafka, di Melville, di Duras , Perec ne metteva spesso, perché anche le citazioni facevano parte del suo stile. In più queste citazioni erano molto nascoste. […]
A livello dei rapporti tra il testo, l’immagine e il suono, abbiamo cercato di volta in volta degli sfalsamenti e delle sincronie.
[…] Il film non poteva funzionare se non fossimo giunti a essere nel tempo del personaggio, vale a dire nell’assenza di tempo, a tal punto che il film e quasi al condizionale. […]
E’ possibile che non gli sia successo niente, che si tratti di un flash, prima che il personaggio scriva il suo compito di sociologia! Siamo in un’esperienza mentale.
Il paradosso del nostro lavoro è che, mentre stavamo cercando di cancellare le emozioni dal film, restando il più neutri possibile, volevamo che gli spettatori andassero in profondità, porgendo loro una sorta di specchio. […]
[trad. O.P.]

 
divisioni
 

00:15 ⇨ 06:32 [nessuna voce] Parigi vista dall’alto, non cartolina, uno scorcio di casa demolita, qualche macchina, rumor bianco di fruscii, il silenzio non mai silenzio delle città. Sfuma in entrata il ticchettio di una sveglia, mentre l’inquadratura avvicina un abbaino – per riprendere Perec&Queysanne sono appollaiati con la camera sul cornicione della casa di fronte – cornice di un letto, cornice di un personaggio seduto, cornice del manifesto di un quadro di Magritte – La Reproduction Interdit – dove un uomo si specchia di fronte ma vede solo la sua nuca e invece un libro, Gordon Pym di Poe – avventura dal finale incerto e aleatorio – si specchia perfettamente. Nella parete accanto Relativity – le scale senza fine di Escher. In scene contrapposte tutti i personaggi e le immagini si presentano con brevi apparizioni in contrappunto: linee melodiche ricorrenti ma indipendenti, in relazioni sempre diverse fra loro, l’accordo solo come evento casuale e rapsodico. Stanza, strade, sveglia rumori di passi, la tosse del vicino, la goccia dell’acquaio, le campane. Lo studente si alza, si lava il viso, fa tutto quello che deve fare, il Nescafè con un bollitore elettrico, si specchia nello specchio, ma è incrinato e si vede diviso in tre parti. Si veste, esce normale nel mondo normale, per una meta normale: si precipita per le scale, prende al volo un autobus, arriva in tempo per il suo esame all’Università, scrive, concentrato. Ma poi di nuovo sale il ticchettio della sveglia, lo sguardo si alza dal foglio, con una strana consapevolezza.


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06:34 ⇨ 21:08 Ecco fuori campo “la voce della verità” che smentisce quello che si è visto prima. Era un sosia, un doppio fantomatico e meticoloso? Lo studente è rimasto nel suo letto. Il suo foglio d’esame è vuoto, il suo posto è rimasto vuoto. Smetterà di studiare. La sveglia ricomincia. Così il rito del caffé. I messaggi – sms fisici e concreti – degli amici che sono saliti a cercarlo sono rimasti sotto la porta. La finestra viene chiusa. Stilla regolare la goccia del lavandino sul pianerottolo. Non ti va di vedere nessuno. Qualcosa non va, mentre friggono le patate di un pranzo dozzinale in una brasserie alla Edward Hopper. Passato, presente e futuro ti si confondono. Il tempo si altera nella fascinazione di oggetti banali. Non vuoi che aspettare. Esci a notte fonda come i mostri, seduto in sordidi cinema, la colonna sonora da suspence danza solo riflessi di luce sul volto. Cammini di notte, dormi di giorno. Attesa e oblio. Non hai voglia di andare avanti. Il rumore di un flipper e una scala mobile. Un non vedere e non sentire silenzioso, immobile. La città diventa neutra e muta. Sotto la normalità c’è sempre il filo sotterraneo di queste dimissioni dalla vita, che è una casa vuota metafisica, un salotto coperto da teli grigi, pulviscolo nella luce. La sveglia non suonerà più l’ora del tuo risveglio.

21:08 ⇨ 41:20 La stanza della piccola mansarda è il centro del mondo, in una prospettiva fish-eye, in un vortice architettonico che risucchia, che contiene le cose minime: crepe, lavandino, bacinella, finestra, tappezzeria, i giornali letti e riletti, lo specchio incrinato, i libri allineati. E’ un regno racchiuso dai rumori [rumori del vicino, mormorio della città – auto – ritmo del tempo: goccia come battito del cuore e campane]. Ormai la sveglia si è fermata. Il tempo, crepa nel silenzio, non penetra più nella stanza isola deserta meravigliosa, nella città deserto da attraversare. Non volere più nulla: solo aspettare. Camminare. Apprendistato per DURARE. Hai tutto da imparare. Tutto quello che non s’impara: SOLITUDINE INDIFFERENZA PAZIENZA SILENZIO CANCELLARE VISI INDIRIZZI TELEFONI SORRISI VOCI NON CERCARE NESSUNO CAMMINARE COME UN UOMO SOLO BIGHELLONARE VAGARE VEDERE SENZA GUARDARE GUARDARE SENZA VEDERE TRASPARENZA IMMOBILITA’ INESISTENZA RESTARE SEDUTO RESTARE CORICATO RESTARE IN PIEDI GUARDARE I QUADRI COME MURI GUARDARE I MURI COME QUADRI GUARDARE I MULINELLI D’ACQUA Essere come il galleggiante delle lenze dei pescatori, alla deriva, superato dalla corrente dei bambini che corrono vivaci, sbattendo il righello contro le griglie di ferro. Cammini imponendoti di non uscire dai bianchi della linea spezzata sull’asfalto, hai mete ridicole, necessarie in quanto inutili. Divieti e limiti fittizi. Vorresti essere come un vecchio mummificato, piantato come una meridiana su una panchina, con il sole che gli gira intorno, ma non ci riesci. Ti agiti. La tua vocazione di vecchio è ancora troppo giovane. Le voci delle notizie del giornale, gli annunci che leggi, si accavallano, si sovrappongono, come onde nell’etere, non ne trattieni nessuna, importa solo il passare del tempo e la conquistata “aurea mediocritas” non turbata da nulla. Non ti fai qualificare da ciò che leggi e mangi, che indossi, dalle cose che fai. Mangiare solo per nutrirsi, vestirsi per coprirsi. Nessun edonismo. Giochi a carte da solo, tutta la notte anche, il solitario viene raramente. Si blocca, riprovi. Non è importante la vittoria, ma la densità commovente delle carte e i piani su piani per vincere, la felicità piccola di una carta che va a posto è diventata una ragione di vita. Tutto è vago, ronzante. La respirazione è regolare.


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41:20 ⇨ 50:50 Un rombo, un eco, un ronzio nella città. Il distacco e il disamore per tutto ora è completo. E’ una sensazione di ebbrezza e libertà.
Una felicità quasi perfetta. Una parentesi felice come una statua equestre rampante al centro di una piazza. La felicità senza memorie degli oggetti simbolo, la goccia, i calzini nella bacinella, o una mosca, un ostrica, un albero, un topo, è stata raggiunta.
Scivoli per le strade, intoccabile,protetto dall’usura equilibrata dei tuoi vestiti,dalla neutralità dei tuoi passi. Non è più necessario parlare, ma costruire torri con i fiammiferi. Tutto si equivale. Come uno yoghi non avere più sonno né fame. Camminare solo, seguito dalla propria ombra su di una assolata esplanade. Ogni cosa e il suo contrario. Solo gesti da automa. La sinfonia della città come sfondo. Come un topo da laboratorio dimenticato nel suo labirinto. NEUTRO rispetto a tutto e tutto ha una poesia felice, calma, un quieto abbandono al passo, al respiro. Una voce bianca vocalizza nel rombo.

 

I N Q U I E T U D E 

 

50:51 ⇨ 1:01:18 Immagini della città, una strada, la pioggia, i piccioni su un lampione, un bicchiere di birra – qualcosa si incrina – un treno, la stanza, ancora la strada alberata, una panchina, una piazza, un orologio, un passage vuoto, il vecchio meridiana… ma il rombo comincia ad avere un suono più stridente. Nella stanza isola batte qualcosa, insieme alle campane, il rombo cresce con una nuova angoscia, insonnia, panico, sogni. Ma i topi non sognano e tu contro i sogni cosa puoi fare? Non si mangiano a sangue le unghie martoriandole per ore intere. Non giocano a flipper rabbiosamente, con un ansito e colpi di reni che simulano un atto amoroso. il tilt resta insensibile all’amicizia che provi, all’amore che cerchi, al desiderio che ti lacera. Il vagare per le strade, per i soliti itinerari, diventa febbrile, angosciato. La felicità è diventata infelicità. Un ritmo jazz accompagna la deriva. Anche la città ora è “brutta”, minacciosa, mostruosa. Solarizzata, stinta, ruvida e contrastata nelle immagini. L’infelicità si è insinuata soavamente anche negli oggetti e li svuota del loro fascino. Risuona persino nelle campane, ogni quarto d’ora. L’orgoglio e la felicità, l’ebbrezza solo un trabocchetto. Un’illusione l’essere impenetrabile a tutto, intoccabile. Solo esiste la solitudine, che presto o tardi ogni volta ritrovi di fronte a te. Le parole non dette,le parole d’amore, le risate perse, quando saranno mai ritrovate? Il silenzio ora è terrore. Perso ogni potere d’onnipotenza solitaria.

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1:01:18 ⇨ 1:06:49 Tutto si trasforma in qualcosa di mostruoso. La città sempre più solarizzata è abitata solo da una moltitudine di mostri, guardinghi, senza età, che popolano i luoghi neutri, in cui prima scivolavi intoccabile. Un cumulo di rovine. Sentirsi mostro fra i mostri, afferrato e solitario come loro. Ultimo fra gli ultimi, orfani, vedove, mendicanti e Tutti quelli che vivono con le loro idee fisse. La folla non protegge più con il suo flusso. Tutto è triste, in un incubo che sfiora l’ossessione e la malattia.

 

D E S T R U C T I O N 

 

1:06:49 ⇨ 1:09:12 Sparire nel bianco di una dissolvenza, il piccolo lavandino da bambola della stanza rifugio brucia fra case distrutte e macerie. Ora non hai più rifugi, hai paura. Aspetti che tutto si fermi, anche la pioggia, il tempo… che tutto si sbricioli. Scappi fra le rovine. Anche la stanza è devastata. Un cavallo bianco abbattuto in un macello. Una fine del mondo dove ruggine e nebbia invadono la città. Il lavandino ardente crolla.

 

R E T O U R 

 

1:09:13 ⇨ 1:15:03 Qualcosa comincia a cambiare in un piccolo ritmo ripetuto, modulato, minimale che risale. Riprendi a camminare al centro della strada. Una voce sembra cantare. In una poesia quasi siderale tutto sembra ricomporsi. Ti puoi fermare in Place Clichy ad aspettare che smetta di piovere. L’inquadratura si può riallargare tornando alla stessa immagine dell’inizio del film. La solitudine e l’indifferenza non insegnano nulla. In una citazione nascosta, ma riscritta al contrario, l’illusione di fuggire, di cercare, si placa.

James Joyce
RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE

 
   16 aprile. Via! Via!
L’incanto delle braccia e delle voci: le bianche braccia delle strade, la loro promessa di intimi amplessi e le braccia nere di alte navi che si levano contro la luna, le loro storie di paesi lontani. Sono tese a dire: Siamo sole, vieni. E le voci dicono con loro: Siamo tue simili. E l’aria è densa della loro presenza mentre mi chiamano, il loro simile, preparandosi ad andare, scuotendo le ali della loro gioventù esaltante e terribile.
   26 aprile. Mamma sta mettendo in ordine i miei vestiti nuovi di seconda mano. Ora prega, dice, che io possa imparare nella mia vita, lontano da casa e dagli amici, che cos’è il cuore e che cosa sente. Amen. Così sia. Benvenuta, o vita! Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza.
   27 aprile. Vecchio genitore, vecchio artefice, vienimi in soccorso ora e per sempre.
Dublino, 1904
Trieste, 1914

Georges Perec&Bernard Queysanne
UN HOMME QUI DORT

 
941
01:10:38,420 –> 01:10:41,016
Tua madre non ti ha ricucito i vestiti.
 
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01:10:42,386 –> 01:10:47,241
Non partirai per la milionesima volta
per cercare la realtà dell’esperienza,

 
943
01:10:48,319 –> 01:10:52,617
forgerai nella fucina della tua anima
la coscienza increata della tua razza.

 
944
01:10:54,522 –> 01:11:02,000
Nessun vecchio antenato, nessun vecchio
artigiano ti assisterà
, nè oggi, nè mai.
 

 

  
  

 
cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Nelle città occupate il tempo non esiste: conversazioni con scrittori di Bucha

3

di Ilya Kaminsky 

«I soldati russi hanno alloggiato nel nostro palazzo» mi ha scritto l’amico poeta Lesyk Panaisuk quando la città ucraina di Bucha è stata liberata dall’occupazione russa, il 31 marzo. Alcuni mesi prima, subito dopo l’inizio della guerra, Lesyk aveva lasciato Bucha di fretta, in fuga dai soldati russi.

Anche se la città ora è libera, è ancora pericoloso girare a piedi. I vicini di Lesyk continuano a trovare mine negli atri dei loro palazzi, dentro le pantofole e le lavatrici. Alcuni tornano solo per installare porte e finestre. «Nel nostro quartiere, i soldati russi hanno rotto le porte di quasi tutti gli appartamenti», mi scrive Lesyk per email.

«Una parola ucraina / subisce l’agguato: attraverso la finestra rotta di / una lettera д gli altri paesi guardano come una lettera і / perde la testa,» scrive Lesyk in una delle sue poesie. Continua: «come / il soffitto di una lettera м / crolla sul pavimento».

Lontanissimo dall’Ucraina, leggo le email di Lesyk e nel frattempo anche mio zio risulta disperso. Scrivo ad amici e parenti, mentre a Odesa scoppiano le  bombe. Nessuno sa dove sia.

Intanto ricevo un altro messaggio di Lesyk e gli propongo di cominciare a intervistare altri poeti di Bucha. Le loro risposte alle mie email mi colpiscono quanto la loro poesia. «Ora le parole indossano tutte l’uniforme militare,» scrive Daryna Gladun. «Lascio da parte le metafore per parlare della guerra in termini chiari».

Lo stesso concetto risuona nelle risposte che ricevo da molti scrittori attualmente a Kharkiv, Odesa, Kyiv. Testimonianze vivide e senza pretese: i poeti scrivono dei propri cari – figli, genitori, amici – e delle proprie paure. Al tempo stesso, email dopo email, si sviluppa un discorso epico. Queste voci parlano «in nome di tutte le ghirlande funebri e nastri di plastica / in nome delle bare laccate e delle scarpe laccate delle salme,» come dice una delle poesie di Gladun. Mentre leggo le sue poesie, ricevo finalmente un’email dallo zio dopo due mesi di silenzio. Si è preso il COVID in forma grave e ha passato due mesi in ospedale attaccato al respiratore. Quando ritorna al suo appartamento, nel quartiere Tairovo di Odesa, sta ancora re-imparando a camminare e a stare seduto. Intanto una bomba esplode nel suo isolato, ferendo molte persone e uccidendo un bambino. «Ho scelto il momento sbagliato per ammalarmi,» dice mio zio. Le voci dei poeti che scrivono da Bucha mi offrono una nuova definizione del senso del tempo sotto le bombe, in una zona di guerra, e di che cosa può significare il tempo per noi, che guardiamo gli eventi dalle nostre case sicure, altrove nel mondo.

Il motivo per cui raccogliamo queste testimonianze è documentare i crimini di guerra che vengono commessi in Ucraina e diffondere informazioni al riguardo. Eppure non possiamo fare a meno di cogliere qualcosa di lirico nelle email affrettate di questi scrittori, nelle loro scarne risposte alle interviste, nei brandelli di esperienza. È sorprendente, in questi messaggi, l’attenzione del loro sguardo sul mondo. Leggendoli, torna in mente quel che diceva il filosofo Emil Cioran: «Anche a leghe di distanza dalla poesia, prendiamo ancora parte ad essa in questo bisogno improvviso di urlare – l’ultimo stadio della lirica».

*

Olena Stepanenko

Le prime ore di guerra rimango sveglia metà della notte perché mi hanno diagnosticato il COVID-19. La mattina dopo sentiamo le esplosioni nel campo di volo di Gostomel. Raccogliamo le nostre cose e cominciamo a scendere a piedi dal decimo piano: gli ascensori hanno smesso di funzionare.

Non dimenticherò mai la vista dal nostro terrazzo: granate che saltano in aria, missili che esplodono, elicotteri senza posa. Fumo nero – i russi attaccano l’aeroporto.

Tutti i miei vicini sono fermi uno accanto all’altro a guardare quel che succede. Molti scattano foto.

Sappiamo che non possiamo rimanere, ma non abbiamo una macchina. Passiamo il primo giorno in un appartamento di amici al terzo piano del nostro palazzo. Il giorno dopo, all’alba, un missile russo ci colpisce. È difficile capire che questo luogo – cosparso di pezzi di metallo e alberi spezzati, coperto da uno spesso strato di isolante – era il nostro cortile, di solito così pulito e ordinato.

Raggiungiamo un rifugio dall’altra parte della città. Tornando indietro, non riconosciamo la nostra Via Vokzalna: a 300 metri da casa nostra ci sono i rottami di quattro mezzi corazzati della fanteria russa, in mezzo a tigli e querce spezzati a metà. (Un mese più tardi, in Polonia, leggerò sul giornale che i russi hanno allestito una camera delle torture nel vicino Campo dei Bambini Felici.)

Passiamo due settimane in un appartamento di sconosciuti, senza acqua, luce o gas. Le temperature a volte toccano i dieci gradi sotto zero. Nelle città occupate il tempo non esiste, se n’è andato. La guerra non ha a che fare col tempo; il tempo è stato distrutto completamente a Gostomel, dove la mattina comincia spaccando legna e accendendo il fuoco per cucinare. Nella città occupata, siamo concentrati sulle poche ore in cui il generatore funziona. Aspettiamo solo due cose – l’annuncio della vittoria o un’opportunità di fuga.

Riesco a lasciare Bucha con mio figlio; mio marito rimane in Ucraina. Il primo giorno del “corridoio verde”, il passaggio che permette ai civili di lasciare il paese, aspettiamo per sei ore al freddo con i bambini. Siamo assieme a migliaia di altre donne e bambini – e siamo convinti che moriremo, mentre i russi sui carri armati ridono della nostra disperazione. Aspettare è forse la cosa peggiore che ci può succedere. Possiamo affrontare la fame e il razionamento dell’acqua. Possiamo affrontare il freddo – ci siamo abituati. Ma l’attesa è insopportabile. Quando penso alla gente sepolta viva a Borodyanka sotto le rovine dei grattacieli, comincio a odiare il tempo. Questa gente aspetta all’infinito per giorni e notti nel buio più completo, nel dolore e nella paura. E la loro attesa è vana. Se riuscissi a odiare qualcosa più della Russia e della sua folle orda di “liberatori”, probabilmente odierei il tempo.

Non mi ricordo neanche i nomi delle mie band ucraine preferite. Ho scordato i nomi dei poeti che ammiravo. A volte faccio fatica perfino a ricordare il nome della città dove vivo ora, e cosa ci faccio. Ma il nome dell’uomo che acconsente a prenderci sul suo pullman e a portarci in un posto sicuro, il nome dell’uomo che ha dato a mio figlio il suo primo pezzo di pane in dieci giorni, quello me lo ricordo. Si chiamava Valera.

 

Lesyk Panasiuk

Ti parlerò di tre città: Bucha, Zhytomyr and Khmelnytski.

Khmelnytski è dove Daryna Gladun e io siamo scappati da Bucha. Ci vivono i suoi genitori e i suoi nonni. Non abbiamo una macchina, perché Bucha è una cittadina piccola – a Bucha si passeggia. Prendiamo sull’ultimo treno e poi ci spostiamo a piedi. Camminando nel bosco udiamo delle esplosioni. In mezzo alla foresta non si capisce bene da dove arrivi il rumore; ci sembra che stiano bombardando un piccolo villaggio vicino, al confine fra Zhytomyr e Kyiv, ma più tardi scopriamo che la gente di lì pensava che fossimo noi a essere bombardati. Nel villaggio, sconosciuti si prendono cura di noi e ci accolgono per la notte. Ci danno del cibo per il viaggio. Cambiamo macchina quattro volte, poi saliamo su un minibus stipato diretto a Khmelnytsky. Quando arriviamo, apprendiamo che molte città sono state bombardate subito dopo il nostro passaggio. Khmelnytski è cambiata: ci sono rifugi ovunque, in città, e molta gente gira armata.

Ora ti parlerò di Zhytomyr: la città dove sono nato e cresciuto, dove mia madre viveva col mio patrigno prima della guerra. Si sono trasferiti in un villaggio all’inizio delle ostilità, portando con loro i miei fratelli minori. Mia nonna non vuole andarci; vuole restare nel suo appartamento. Ma le viene un infarto per colpa della guerra. Rimane per tutta la notte, dodici ore, distesa in corridoio. Quando sente di poterlo fare senza pericolo chiama i vicini, che abbattono la porta e fanno venire un’ambulanza. La portano in un ospedale dall’altra parte della città, perché l’ospedale più vicino è stato colpito dai razzi. Ma l’altro ospedale è nei pressi di una scuola militare, e viene bersagliato anch’esso. Fortunatamente l’urto fa saltare soltanto le finestre; sfortunatamente per arrivarci bisogna strisciare tra macerie fumanti e crateri nel terreno. I miei genitori portano mia nonna al villaggio. È nata nel 1946, non ha visto la Seconda Guerra Mondiale, ma la guerra la raggiunge comunque. Sembra di colpo molto vecchia; parte del suo corpo è paralizzata. Anche lì, in un villaggio a sud della regione di Zhytomyr, i contadini trovano nei boschi le trappole esplosive dei russi e qualcuno rimane ucciso.

E adesso ti parlerò di Bucha, la nostra casa. Bucha si vede spesso al telegiornale, in questi giorni. Vediamo casa nostra, le nostre finestre rotte, la gente morta. Qualcuno si è preso una pallottola per strada, qualcun altro è stato torturato. Nel nostro complesso hanno trovato un uomo a cui avevano tagliato naso e orecchie; era un nostro vicino. Fosse e corpi morti – dappertutto, sulle strade dove passeggiavamo ogni giorno, sotto le case di fronte alla nostra, e anche sotto casa nostra.

Per lungo tempo, Bucha è stata una città dove artisti, scienziati, dottori – Nikolay Murashko, Mikhail Bulgakov, Eugene and Borys Paton e altri – andavano a vivere o in visita. Era una città piccola e accogliente, molto bella a vedersi, dove si veniva per stare in pace. Ci si veniva a metter su famiglia. Non ho idea di come potrò tornare a viverci senza pensare a ciò che è successo.

Quanto alla poesia: non credevo che avrei mai scritto di un soldato russo morto con dei vibratori rubati in mano. Ora si può scrivere di tutto. I tabù non esistono più. Le poesie sono più precise e dirette, i versi più decisi, più ampi – a volte troppo decisi, troppo ampi. Vorrei parlare più forte, ancora più forte, per farmi sentire.

 

Julia Stakhivska

Non sono a Bucha; la mia vita ha doppiato la marea. Mi sono trasferita in un’altra parte dell’Ucraina. Potrò tornare nel mio appartamento di Bucha solo dopo lo sminamento. Ho una figlia piccola, e Bucha è pericolosa: devo cercarmi un’altra casa temporanea. Ho perso il mio lavoro preferito: l’Istituto Polacco di Kyiv ha smesso di esistere.

Non riesco a scrivere poesie in questi giorni, ma mi viene facile esprimermi in pubblico. È diventata una specie di terapia verbale: scrivo articoli per la Deutsche Welle, e sto raccogliendo materiale su Bucha per un libro.

Il valore della memoria e il desiderio di tenere nota dei giorni sono cambiati. Quando me ne sono andata, mi si spezzava il cuore a lasciarmi indietro le memorie della mia famiglia scritte da mia bisnonna – una cronaca familiare, che in questi tempi turbolenti poteva fungere da cordone ombelicale, da connessione a qualcosa di più grande di me. Ma poi ho capito: era solo un’illusione di carta. Le memorie ce le ho ancora; il mio compito è di continuare la riga di testo e portarla avanti.

 

Oleh Kotsarev

Sono evacuato con mia figlia e mia moglie nell’Ucraina Occidentale, assieme a migliaia di migranti da altre regioni. Di tanto in tanto sentiamo suonare le sirene antiaeree, ma a parte questo la vita in superficie è abbastanza tranquilla. Il che è confortante, ma a volte mette addosso un senso d’inquietudine surreale. Quanto alla città che ho lasciato – centinaia di persone sono state uccise a Bucha, molti dopo essere stati torturati. Anche i sopravvissuti sono stati torturati. La città è mutilata.

Per me, il tempo è diventato una giostra: tutto passa in un flash, e ci vuole un certo impegno per accorgersi che è una data ora, un dato giorno della settimana o del mese, che tutto accade nell’Anno Domini 2022. Durante la guerra, il tempo è la posizione del sole e delle stelle, la stagione, non i numeri sul telefono o l’angolo fra le lancette dell’orologio. Da un lato, la guerra è senza tempo; dall’altro, è tutta un nervoso tentativo di guardare avanti.

In tempo di guerra, guardi la foto di una strada in una città che hai lasciato da poco e non la riconosci. Non tanto perché è devastata, ma perché te ne sei dimenticato, semplicemente. Eppure ti ricordi di piccole cose inaspettate. Prima che cominciasse l’invasione russa su larga scala, chiedendomi quali fra i libri che ho scritto avrei portato con me in un possibile “esilio” – immaginavo che avrei potuto portarmi pochissime cose, uno o due libri al massimo – facevo fatica a prendere una decisione. Partendo, mi sono portato via la mia ultima raccolta di poesie, intitolata proprio Quel che c’è nella tasca di un uomo. Ma dopo qualche settimana è stato chiaro che avrei dovuto prendere il romanzo Gente nei nidi, che gioca con la storia familiare, la decostruisce, la scompone. È la mia più attiva e vivida connessione col passato. Voglio questa connessione per me stesso e anche per mia figlia – chissà dove saremo in futuro?

 

Daryna Gladun

Sono in terra straniera. Vedo i muri trasparenti di un acquario tutto intorno a me. Guardo per un pezzo le immagini di Bucha al telegiornale prima di riconoscere i luoghi. Nel mio ricordo la città è pulitissima, bella e luminosa. Sogno sempre la stessa cosa, in questi giorni: percorro il corridoio della mia casa temporanea e entro nel mio appartamento di Bucha prima della guerra; prendo un libro dallo scaffale e lo leggo. È ogni volta un libro diverso. Non mi ricordo di cosa parla. Fuori dalle finestre cala il buio. Vado a letto. Mi sveglio perché un uomo sfonda la porta dell’appartamento. Faccio sogni simili tutte le notti. A volte sono le mie stesse urla a svegliarmi.

Da quando è cominciata la guerra, ho cominciato a parlare in modo diretto. Scrivere è diventato molto più facile. Metafore ed eufemismi sembrano superflui. Inutili. La guerra della Russia contro l’Ucraina è molto reale. Mi sembra che le metafore sbavino la realtà: la sfumano e creano una distanza tra la realtà dell’autore e quella del lettore. Se una volta mi piaceva abitare questa realtà sfumata, dal 24 febbraio non più. Ora le mie parole sono diventate più pesanti e meno flessibili. Non si sbriciolano, non si spezzano, non fluiscono una nell’altra.

Ora le parole indossano tutte l’uniforme militare. Arrivano e io non posso oppormi. Non è che le poesie che ho scritto in guerra mi piacciano tutte. Ma ho bisogno di scrivere e di condividere ciò che ho scritto immediatamente. Prima che tutto cominciasse, per un anno non avevo pubblicato poesie online o dato letture pubbliche. Ma adesso tutto quello che scrivo sta al confine tra letteratura e giornalismo. È poesia in uniforme. Lascio da parte le metafore per scrivere della guerra in termini chiari, di modo che i lettori in giro per il mondo siano colpiti dal cinismo, dalla crudeltà e dall’ineluttabilità della guerra che la Russia ha mosso all’Ucraina.

Dal 24 febbraio non percepisco lo scorrere del tempo. Annoto meccanicamente i giorni di guerra nel titolo di singole poesie, ma questa divisione del tempo non è reale. Solo quando la guerra finirà capirò in che direzione si muove l’orologio e a che velocità. Adesso ho un’età infinita e ho solo pochi anni. Finché continua la guerra, oscillo internamente tra questo senso di anzianità onnicomprensiva e il mio stato prenatale. E mi sembra che il mondo oscilli con me.

Parlo del tempo, ma intanto penso a Serhiy, un bambino rifugiato alla stazione di Poznan. Sollevava il suo porcospino e diceva che era un porcospino felice perché era sopravvissuto, mentre gli altri giocattoli erano tristi perché erano a casa, tutti morti. Mi sono sentita come un porcospino giocattolo molto fortunato.

 

Siarhey Prylutski

La mia famiglia passa due settimane nella Bucha occupata. Il primo giorno la guerra si svolge a circa 100 metri da casa nostra. Quella sera vado a fare la spesa al supermercato e passo accanto a un chiosco vicino a casa dove andavamo sempre a comprare sigarette, birra e dolci; l’entrata è già barricata contro i saccheggi.

Al supermercato, quasi tutti sono in ansia. Ma c’è chi non capisce ancora bene che la guerra è cominciata. Un ragazzo sulla ventina è davanti a me alla cassa e scherza allegro con la commessa. La gente attorno a noi si accaparra farina, cereali, cibi in scatola, carne. Lui prende solo un pacchetto di semi e un paio di gin and tonic. Ripete due o tre volte alla commessa, «Questa non me l’aspettavo!»

Nessuno si aspetta che i Russi stiano per trasformare la vita di Bucha in un inferno. Rincasando, vedo un militare locale, nei pressi del quartier generale dei volontari. In meno di un giorno, la gente ha ritirato tutti i soldi dai bancomat. Attraversando a piedi al buio il parco deserto, uno si ritrova a pensare: eccoli arrivati, i tempi bui.

Nei primi giorni di marzo sparisce tutto – acqua, luce, riscaldamento – ci troviamo in una specie di Medioevo del XXI secolo. L’acqua arriva in secchi e bottiglie di plastica da un edificio vicino. Il cibo viene preparato nei cortili dei grattacieli. Da quasi tutti gli ingressi si alzano le fiamme. La gente comincia ad aiutarsi a vicenda più attivamente, e impariamo i nomi di vicini che per anni hanno vissuto accanto a noi.

Gli edifici nella zona occupata diventano “caverne,” buone solo per dormire o rifugiarsi dai bombardamenti. Le notti sono gelide e dobbiamo dormire vestiti. Noi, in un appartamento al primo piano, invece che in cantina: quando arrivano i proiettili dobbiamo ripararci in bagno. A volte i bambini passano la notte lì, mentre gli adulti dormono in corridoio, davanti alla porta d’ingresso.

Il coprifuoco comincia alle 19. Fuori è già buio. È buio anche nell’appartamento – risparmiamo sulle candele. Vado a letto alle 20 o alle 21, e mi sveglio alle 5 o alle 6 a meno che non bombardino di notte. Io, mia moglie e mio figlio di 4 anni viviamo con un’amica e le sue due figlie. In una notte di forti bombardamenti, quando le esplosioni scuotono i muri del bagno, la figlia più grande comincia a dire addio a tutti uno alla volta, nel caso che oggi muoia all’improvviso.

Non si può non sentirsi costantemente coinvolti in quel che accade per tutto il paese: mentre bevi un caffe, c’è gente che non sa dove trovare cibo per i figli a causa del fuoco continuo. A 200 chilometri di distanza qualcuno muore in un bombardamento perché era uscito a comprare il pane, e intanto tu ti fumi una sigaretta in terrazza. Continui a pensare: come starà il nuovo amico che si è rifiutato di partire? È vivo o è nelle mani dei russi? Durante l’occupazione, sembra spesso di vivere una mattinata perpetua; non ti accorgi che fuori si è fatto buio. Quando una città è bombardata, il tempo non esiste, il tempo non ha davvero nessuna importanza – aspetti solo che i proiettili smettano di volare sopra gli edifici.

Posso dirti questo: durante un bombardamento, quando una granata ha colpito un palazzo vicino, non ho provato affatto quello che è scritto nei libri, il senso che “tutta la vita mi passasse davanti agli occhi”. Non ho pensato affatto alla mia vita passata. Al contrario, in quel momento mi si è spenta la memoria. Qualsiasi cosa prima di quel momento è diventata irrilevante. Riuscivo solo a pensare alla sopravvivenza dei bambini vicino a me – mio figlio e il figlio della mia amica. Il mio unico pensiero era che cosa li aspetterebbe se rimanessero senza genitori. Come farebbero a sfuggire da questo incubo.

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Pubblicato il 14 giugno 2022 su The Paris Review. Traduzione dall’inglese di Guido Cupani. Le immagini sono da Wikipedia Commons.

La storia di Extase, uno scandalo lungo 90 anni

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di Roberto Todisco

Il film di Machatý ha recentemente avuto due restauri ed è tornato col suo potere conturbante

«Nel giardino dell’Excelsior, quella sera, si udiva il respiro degli spettatori attentissimi, si udiva un brivido correre per la platea». Queste parole le ha scritte un giovane Michelangelo Antonioni, come corrispondente del Corriere Padano dalla seconda edizione della Mostra del Cinema di Venezia, nel 1934. Il film di cui parla il futuro regista è Extase, del cecoslovacco Gustav Machatý. Oltre a provocare un brivido agli spettatori in laguna, la pellicola, che avrebbe poi vinto un premio alla Mostra, fece molto rumore. L’arcivescovo di Venezia criticò pubblicamente il film. Addirittura si mosse personalmente Mussolini, che pretese una visione privata per giudicare da sé l’impudicizia della pellicola.

Da subito, dunque, il film di Machatý fu bollato come film scandalo ed è diventato celebre per essere stato il primo a mostrare un nudo integrale di donna e la scena di un atto sessuale, seppur solo suggerito dai volti in primo piano dei due amanti, fino a che su quello di lei viene mostrata l’estasi di un orgasmo.

Il film non è passato alla storia solo per l’audacia erotica, ma anche perché a interpretare Eva, la protagonista, fu una diciannovenne austriaca, l’esordiente Hedwig Eva Maria Kiesler, che di lì a qualche anno avrebbe avuto una folgorante carriera americana con il nome di Hedy Lamarr, senza dubbio una delle dive più famose di Hollywood negli anni ‘30 e ‘40. Per molti, la donna più bella del mondo.

La storia di Extase è complessa, fatta di moltiplicazione, distruzione e ricostruzione. Tale complessità è innanzitutto dovuta al fatto che il film nacque giù plurimo: fu infatti girato in tre lingue (prassi comune all’epoca, dal momento che era impossibile il doppiaggio). La versione tedesca e quella cecoslovacca furono interpretate dagli stessi attori principali. Naturalmente Aribert Mog e Hedy Lamarr pronunciavano le battute nelle due diverse lingue nelle scene con dialoghi. Secondo una dichiarazione di Aribert Mog, raccolta dalla stampa dell’epoca, Hedy Lamarr imparò la parte in ceco in una sola settimana (non per togliere meriti all’attrice, ma bisogna sottolineare che i dialoghi del film sono davvero scarni). Quindi per queste due versioni si usarono i medesimi take per le parti senza dialogo, mentre furono realizzate riprese diverse per quelle dialogate. La versione francese, invece, fu interpretata da attori diversi: Pierre Nay nel ruolo di Adam, André Nox in quello del padre di Eva. Una scelta, questa, non condivisa da Machatý ma imposta dal distributore francese, Gaumont.

A rendere un vero rompicapo la ricostruzione di Extase, nell’ottica di risalire cioè alle forme in cui gli spettatori all’epoca lo videro, sono stati soprattutto i problemi che il film ha avuto nel corso degli anni, e diversi in ogni paese, con la censura. Senza contare il fatto che il primo marito di Hedy Lamarr, il fabbricante d’armi in odor di nazismo Fritz Mandl, cercò di acquistarne tutte le copie in circolazione per distruggerlo.

In realtà all’inizio sembrò andare tutto bene. Il film non fu censurato all’uscita in Cecoslovacchia e in Austria, ce lo dicono i visti di censura del 1932. I guai tuttavia iniziarono presto. In Germania il film fu vietato e conobbe una distribuzione solo nel 1935, e con un titolo diverso, Symphonie der Liebe. Si tratta di una versione ampiamente rimaneggiata, per rendere la storia meno “deprecabile”, soprattutto per quanto riguarda la vita matrimoniale che veniva rappresentata: si lasciava intuire che Eva avesse ottenuto il divorzio dal marito. Purtroppo nel 1938 la censura arrivò anche da parte di Praga: dopo Anschluss dell’Austria il clima era cambiato rapidamente in tutta l’area, volgendo al cupo. Di lì a poco la Cecoslovacchia sarebbe stata invasa dalla Germania nazista, e la libertaria corsa di Hedy Lamarr e il suo erotismo dovettero sembrare un ricordo lontano.

In Italia, a seguito dello scandalo in Laguna, il film fu vietato dal regime fascista. Dopo la guerra furono diversi i produttori a presentare all’ufficio di Revisione, cioè alla censura, la richiesta di distribuire il film, che non ottenne mai il visto. A visionarlo fu anche un giovane Andreotti, che nei governi De Gasperi era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, cui all’epoca faceva capo la Direzione Generale Cinema. Negli archivi è stato ritrovato un appunto interno di un dirigente che chiedeva al futuro Divo Giulio di «esaminare l’opportunità di mettere in circolazione un film il quale, dopo i tagli sopportati, risulterebbe seriamente pregiudicato nella sua consistenza e non offrirebbe più quegli elementi di spettacolo che hanno reso famoso il film stesso, il che potrebbe provocare proteste e reazioni da parte della stampa e del pubblico». Anche i censori hanno un’anima, potremmo dire.

Il film, tuttavia, non ebbe problemi solo in Europa. Negli Stati Uniti il distributore Samuel Cummins attese invano dieci mesi l’approvazione alla pubblica proiezione. Alla fine il presidente del Production Code Administration, Joseph Breen, lo definì «pericolosamente indecente». Il film non fu giudicato rispondente ai criteri del Codice Hays ed ebbe una distribuzione limitata, a macchia di leopardo fra alcuni stati, mentre in altri, come la Pennsylvania, venne vietato.

È da considerare, inoltre, che gli interventi censori spesso sono stati diversi in ogni paese o addirittura più localizzati: una singola sala cinematografica, alla maniera del proiezionista di Nuovo Cinema Paradiso, poteva intervenire con le forbici per eliminare scene considerate disturbanti per il proprio pubblico. Questo, come è evidente, ha prodotto una miriade di varianti, la cui genealogia è praticamente impossibile da ricostruire.

Bisogna poi aggiungere che nel corso degli anni qualcuno non ha resistito alla tentazione di ritagliare pezzi di pellicola per poter conservare l’immagine sfolgorante e conturbante del corpo nudo di Hedy Lamarr, facendone una sorta di santino peccaminoso. Fra i frame che più spesso risultano mancanti nelle pellicole, infatti, ci sono quelli di Eva che fa il bagno o di lei che guarda, nuda, il suo cavallo scappare via. Naturalmente è molto probabile che alcune scene, allo stato attuale delle nostre conoscenze, siano da considerarsi perdute.

Da questo abisso di varianti e censure, fortunatamente, negli ultimi anni Extase sta riemergendo in tutto il suo splendore. Il 27 agosto 2019 la versione cecoslovacca, restaurata dal Národní filmový archiv, è stata proiettata in Sala Darsena, al Lido di Venezia, 85 anni dopo la proiezione all’Excelsior, come evento di pre-apertura della 76° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vincendo il Premio Venezia Classici per il miglior film restaurato. Risale invece a poche settimane fa la pubblicazione del DVD del nuovo restauro dell’edizione tedesca realizzato dal Filmarchiv Austria. Si tratta di due avventure filologiche che costituiscono, per la complessità della tradizione del film (4 versioni, decine di edizioni, pochi testimoni superstiti), veri e propri gioielli del restauro cinematografico.

Ma soprattutto sono importanti perché ci danno l’opportunità di vedere un film che possiede «una forza superiore, una forza inquietante», come ha scritto Henry Miller. Lo scrittore paragonò Extase al romanzo di D.H.Lawrence L’amante di Lady Chatterly, pubblicato tre anni prima. Vi riscontrò la stessa “coscienza del sangue”. «È un ritmo del corpo, ritmo del sangue che contrasta con il fluire masturbatorio dell’intelletto. Quando questo ritmo prende il sopravvento porta con sé non solo una nuova tecnica cinematografica, ma anche un nuovo modo di vivere».

A quasi novanta anni dall’uscita del film, naturalmente, non possono essere un nudo di donna, se pure il primo della storia del cinema, intravisto fra le foglie, o il piacere dipinto sul suo volto ad attirare l’attenzione del pubblico (e figuriamoci a scandalizzarlo), né tantomeno può farlo l’ingenua rappresentazione di una vita matrimoniale insoddisfacente. Quello che ancora oggi provoca il brivido descritto dal giovane Antonioni è proprio la “forza superiore” di cui parla Miller, una forza che non sta nei pochissimi dialoghi o nella storia, una forza che pulsa nelle immagini, in ogni singola inquadratura. Come scrisse Christian Bosséno «Extase è, dal punto di vista della fotografia, dell’utilizzo della luce e del linguaggio cinematografico, un’opera appassionante da vedere o rivedere».

Il senso delle generazioni

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Foto di Christo Ras da Pixabay
Foto di Christo Ras da Pixabay

di Roberto Boccaccino

Quando pensiamo all’atto del generare, largamente inteso, o anche semplicemente al concetto di generazione, cercando di dargli un senso, finiamo quasi sempre scoraggiati. Probabilmente perché si tratta di temi che quasi sempre sembrano dover naufragare in discorsi inconcludenti sul senso della vita. E allora lanciamo subito un salvagente, così da evitare il naufragio e poterci concentrare meglio: la vita non ha alcun senso.

Le generazioni, dicevo. Da dove arrivano, come funzionano? Perché ci sono? E non intendo solo l’avvicendarsi di individui, ma soprattutto l’avvicendarsi di informazioni (genetiche e non) che poi diventano ideologie, modelli economici, filoni artistici, studi scientifici, standard biologici, creatività, gesti sportivi, libri, musiche, e tutti gli altri tentativi di salvezza a cui generalmente ci aggrappiamo.

Ogni generazione, umana e non, è l’esigenza di quella precedente di rifarsi da capo. Magari di rifarsi non esattamente uguale, ma un po’ più bella e più intelligente, sia individualmente che socialmente, sia dal punto di vista biologico che culturale. Lo fa riproducendo se stessa, tramandando ogni cosa che sa, cercando di trascriversi, o di riscriversi. Ma – mi chiedo – come ci possiamo aspettare che una generazione futura sia migliore della nostra se tutto quello che ci mettiamo dentro siamo noi? Da dove dovrebbe venir fuori questo meglio (che pure ogni tanto viene fuori)?

La risposta a questa domanda ce la possiamo dare da un paio di punti di vista: uno, più netto e cinico, che guarda il fenomeno da lontanissimo e lo spiega scientificamente, e l’altro che, pur assecondando il primo, cerca di risolvere la cosa senza farci morire di solitudine.

La prima parte della risposta è che quel meglio viene fuori dall’ambiente circostante, dalle vicende che nel frattempo accadono attorno a quel tramandare. È un po’ la base su cui funziona la genetica: quello che conta è trasmettere, riscrivere. Attraverso milioni, miliardi di riproduzioni che inevitabilmente si trovano ad interagire con un ambiente esterno, con delle circostanze che non sono mai esattamente le stesse, arriva la mutazione eccellente. Tra tutte quelle infinite riscritture e trasmissioni che si avvicendano vengono fuori un individuo o più individui che da soli e in maniera imprevedibile – perché la collettività di quegli individui non può avere un vero controllo su questa cosa – rielaborano e ricombinano gli elementi ereditati, uscendo dal mucchio con un nuovo patrimonio genetico. Tirano fuori quei geni silenti, ignorati fino a quel momento, e migliorano loro, quei pochi, il destino dell’intera specie, che nel frattempo è passata e passerà passivamente nello stesso mondo.

E allora a cosa sono serviti tutti gli altri? Non esiste forse un metodo migliore per produrre solo quella parte eccellente? No, non esiste. Tutti quelli che non sono riusciti a cambiare il mondo hanno avuto il compito di far esistere quelli che invece ce l’hanno fatta.

Potrebbe non sembrare così appagante, me ne rendo conto, sentirsi ridotti a servizio di una specie, o di un miglioramento così impersonale e generico. E non lo è per niente in effetti: tramandare il patrimonio genetico – come pure la conoscenza (ci arriviamo) – un’enormità di volte apparentemente inutili è un processo che sembra essere ridondante e dispersivo. E lo è, eppure funziona bene. Dopotutto derivare è una parola che nella sua etimologia ha che fare con l’acqua che viene tratta da un fiume, o da un ruscello. Lui, il ruscello, scorre sempre, la maggior parte della sua acqua passa e va verso il mare, ma parte di essa, ad un certo punto, viene presa e portata altrove. Derivare, in qualche modo, significa uscire da un flusso apparentemente perpetuo, regolare, sempre uguale a se stesso.

E l’acqua derivata, quella che sta nel nostro secchio o nel canale che abbiamo tracciato dal fiume verso il nostro campo, mica è stata selezionata. È solo parte di quell’acqua che scorreva e basta, e che si è trovata in mezzo ad un ambiente fatto di altre variabili, tra le quali noi contadini, che ad un certo punto abbiamo interagito col suo flusso.

La seconda parte di quella risposta può essere data partendo da una prospettiva molto più stretta, dal punto di vista di chi sta dentro il ruscello, diciamo. In effetti ci viene abbastanza naturale cercare di dare significati da vicino, perché prima ancora del senso della vita in generale – che come dicevo ci annoia quasi subito – siamo portati a riflettere sul senso della vita in particolare, la nostra. Insomma, va bene chiedersi che ci fa la vita nell’universo, ma prima volevo capire che ci faccio io. E in questo senso ci può essere d’aiuto osservare alcuni contesti che viviamo in maniera un po’ più consapevole, o di cui almeno sappiamo valutare meglio i risultati.

Nonostante il processo ripetitivo con cui trasferiamo il nostro codice genetico richieda tantissimo tempo e preveda anche un sacco di “tentativi a vuoto”, è un metodo che riproponiamo spesso in vari contesti della nostra esistenza, e in diversi ordini di grandezza: quando si tratta di tramandare conoscenza (come l’educazione, e lo sviluppo sociale), o addirittura di elaborare informazioni all’interno della propria esperienza personale (come ad esempio per la produzione creativa).

Pensiamo all’educazione, al tramandare il sapere.

Devo ammettere che – forse per il pregiudizio di chi è nato e cresciuto in Italia, al Sud – il sistema della trasmissione delle conoscenze non mi ha mai convinto fino in fondo. Mi è sempre sembrata, fino a non molto tempo fa, un’attività nel suo complesso a perdere: nonostante le risorse investite, la maggior parte degli studenti non riesce a svoltare la propria vita, come si spererebbe, figuriamoci a cambiare il mondo. E una parte di essa a volte ripiega proprio sull’insegnare, come piano B di una svolta mai arrivata. Insomma si riceve conoscenza, con tutti i bias del caso, si prova a farci qualcosa di eccezionale e, quando non accade – e non accade la maggior parte delle volte -, si passa quella stessa conoscenza in avanti. Certo nel frattempo aggiorniamo metodi e contenuti, ma sembra essere un processo lentissimo e ininfluente. Insomma, per certi versi non convince.

Eppure si può notare che forse ripropone la stessa dinamica vista con la genetica: istruiamo tutti, o tutti quelli possibili. La pubblica istruzione ha provato, e prova ancora, a soddisfare la nostra necessità di formare le nostre generazioni, di corredarle con tutta la conoscenza di cui disponiamo, imponendo a quanti più individui possibile un’istruzione di base omogenea. Però tra tutti gli studenti che studiano poesia solo in pochi diventano poeti eccellenti, tra quelli che si formano come musicisti solo in pochissimi riescono a comporre delle canzoni d’amore effettivamente impattanti. E lo stesso vale per gli architetti, i matematici, i biologi, i politici, i fisici.

Naturalmente questa percentuale è enormemente influenzata da altri fattori, come la geografia, l’estrazione sociale, il sistema di diritti civili e individuali in cui si è inseriti. Ma anche provando ad immaginare un contesto illusorio, ipoteticamente del tutto paritario, resterebbe questo: l’istruzione è un processo ripetuto ad libitum, che ripropone grossomodo lo stesso bacino di conoscenze, e che riesce a trovare senso solo quando, ogni tanto, in mezzo a questo continuo raccontarsi le stesse cose nasce un insegnante, o uno studente, o una combinazione di entrambi, che prende quella conoscenza e la digerisce in un modo nuovo. È tutto un attendere, ripetere e attendere, nella consapevolezza che se il modo esatto con cui vengono rielaborate le informazioni è imprevedibile – e per certi versi incontrollabile – il fatto che prima o poi accada è invece certo. Quel continuo trascrivere non sarà efficiente ma è certamente efficace.

È un fenomeno che sembra avere a che fare con moltissime pratiche legate alla conoscenza e alla creazione, anche e soprattutto su scala molto più piccola.

Una volta ho frequentato un corso di scrittura creativa nel tentativo vano di sbloccarmi su alcune storie che davvero credevo avrebbero dovuto essere scritte. Tra le tante cose dette e ascoltate me ne colpì una, soprattutto per il fatto che dovevo averla già sentita da qualche altra parte.

La scrittura – quella dei professionisti – è spesso un esercizio di abitudine, di routine. In maniera controintuitiva non ci si deve aspettare che l’ispirazione arrivi per sedersi al computer e scrivere un capolavoro piovutoci in testa divinamente. Non funziona, a meno che non sei Mosè. Al contrario si deve scrivere spesso, praticamente ogni giorno, in modo che quando arrivano i pensieri meravigliosi noi siamo lì capaci di prenderli. A quanto pare la costanza, il protrarsi di un’attività in momenti che spesso possono apparire improduttivi, sono modalità che portano a quelle generazioni fondamentali, a quelle derivazioni che stiamo cercando.

Uno scrittore scrive tendenzialmente molte più pagine di quante poi ne salverà per il suo libro. Sembra che la prima versione di Pedro Paramo di Juan Rulfo fosse di oltre 800 pagine, dopo una prima revisione scese a 600, poi 400 poi 200, per arrivare alle 140 pagine del libro definitivo. Rulfo è stato lì a scrivere centinaia e centinaia di pagine, generando una moltitudine di paragrafi e capitoli che forse non sarebbero stati quelli giusti, e che in effetti sono stati tagliati. Ma anche in questo caso, tutte le pagine scartate hanno avuto il compito di far arrivare Rulfo a quelle buone. Non erano inutili.

E così, in questa dimensione molto ravvicinata, forse riusciamo a dare un’altra veste a quella visione un po’ sconsolante di prima.

La maggior parte del tempo che pensiamo perso e improduttivo diventa la base su cui costruiamo i nostri successi. E non intendo il tempo perso in cui non facciamo niente. Quello serve pure, lo sappiamo bene: l’ozio, il riposo, la maggese. Se ne sente sempre parlare, anche se forse mai a sufficienza. Non parlo di quel tempo lì, parlo del tempo perso a lavorare senza sentire di stare cambiando il mondo. È quello l’unico tempo in cui possiamo creare: l’ispirazione ha bisogno di un nido in cui deporsi, una pratica ripetuta in cui inserirsi, elementi già presenti da ricombinare in modo nuovo.

In quel tempo lì, a modo nostro, stiamo partecipando a quella dinamica di eredità che sembra tramandare inutilmente gesti, conoscenze e azioni, e che invece serve a dare forma esseri evoluti, a una società diversa, ad un’arte nuova.

Istruzioni per fumare Dunhill alla stazione di servizio

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di Riccardo Ielmini

 

Nives Sartori fece un balzo giù dal Cruiser Toyota come una semi diminuita jazz scivolata via da una partitura neoclassica. Era scalza: gli autobloccanti della stazione di servizio trasudavano afa e sporcizia. Lei lo sentì subito e le passò la smania di fare la naïf: sbuffò, afferrò le espadrillas rosse da sotto il cruscotto, diede un colpo di mano alla pianta dei piedi e le indossò. Fredy era già sceso e armeggiava con la pistola del diesel: guardò Nives mettersi di trequarti allo specchio nel lunotto posteriore e darsi una controllata: mica che fosse gualcito lo splendore che a sua madre faceva venire in mente Liz Taylor. Fredy ricordò la volta che la vecchia aveva supplicato sua figlia: Nives amore mio, non finire gonfia come una Big Babol, non fare Lizzy in gara con Richard Burton a chi svuota per primo il frigobar di un hotel su Hollywood Boulevard. Il genere di sceneggiate à la Sartori che lo mettevano in imbarazzo. Comunque: Nives diede anche una tirata alla coda con la quale aveva raccolto i capelli e inforcò i Ray-Ban Jackie, infischiandosene che in una manciata di secondi sarebbe scoccata la mezzanotte. D’altra parte, se gliel’avessero fatto notare, che era buio pesto, firmamento stellato e tutto il resto, lei avrebbe indicato i grandi neon della stazione di servizio e avrebbe proclamato agli dei della giovinezza: «C’è questa luce accecante, cazzo. Voi non lo sentite il fastidio, mica?». Fredy, tornando dalla festa di matrimonio cui l’aveva trascinato lei, aveva giocato d’anticipo sulla spia della riserva e impostato il self su 50 euro. Era ancora mezzo ferito per le cose che si erano detti qualche chilometro prima, ma la ragazza era un animale umano meraviglioso e c’era poco da dire. Altro che quell’ubriacona di Lizzy Taylor.

«Eccoci» disse. «Dovrei indossare le maledette scarpette di cristallo, io. Mica quella sciacqua di Cenerentola. Invece eccomi qui con espadrillas scialbe da piedi gonfi, roba da vecchie contadine di Provenza imbalsamate nella lavanda». Inarcò la schiena sulla curva della scocca. Sbuffò come la gatta sul tetto. «No, no, mica. Io poi la odio, la Provenza. Sicuro roba da stronzi».  Ogni volta che tirava in ballo gli stronzi, Fredy non lo capiva, a chi si riferisse di preciso. E non voleva saperlo, perché sotto sotto aveva il terrore di carezzarla pure lui, la grande landa degli stronzi, per via del suo lavoro in Borsa o per via che lui non era capace come lei di dare dello stronzo a qualcuno, un qualcuno qualunque là fuori.

«E la carrozza? E i lacchè? E il palazzo? Niente di niente. Manco il principe». Sbuffò di nuovo. «Dio, che luci! Accecano, cazzo!».  Calcò forte su principe e cazzo, perché sapeva che Fredy, in mezzo a tutto il suo gorgheggio notturno, su quello avrebbe drizzato le antenne. Lei lo sapeva, cosa gli passava per la testa, a Fredy. Non si era inarcata sulla scocca mica per niente. Mica. Armeggiò con la borsetta e tirò fuori Zippo e un pacchetto di Dunhill. Ne tirò fuori una che fissò fra le labbra. Poi fece scattare lo Zippo una, due, tre, quattro volte, senza accendere: giusto perché lo schiocco metallico ci stava a puntino, sotto quella luce da astronave. Guardò verso il bosco che lambiva la stazione di servizio.

«Toh, forse il palazzo c’è, dopotutto». Era la sagoma di una grande villa, che sbucava come un gigantesco dolmen dal profilo frastagliato della boscaglia. Smise di far schioccare lo Zippo.

Mentre facevano i conti con il ticchettio del contatore del diesel che girava come una slot machine, una Bmw 320 cabrio planò sull’altro lato delle pompe. Scese un tizio, biondo, infilato in un paio di bermuda fiorati, una camicia di lino, aperta fino al terzo bottone e un paio di All Star sdrucite. Sventolò 20 euro che fece sparire nel self. Staccò la pistola, attaccò il rifornimento e disse: «Ciao, belli miei». Nives lo iscrisse dritto dritto nel girone dei figli di paparino, una sottomarca degli stronzi che a lei piaceva da matti stuzzicare per tirarne fuori il peggio, perché solo il peggio quelli si portavano appresso nelle scorribande sul pianeta. Riprese a far schioccare un paio di volte lo Zippo.

«Non si può fumare» disse Fredy all’improvviso. Non era un rimprovero: era un ragazzone di pace dietro i suoi browline. Lui non la rimproverava: le diceva che c’era una regola. Di tutta la vecchia compagnia dei tempi andati, giù, al bowling, Fredy era sempre stato così. E Nives questo lo sapeva, benché fosse arrivata quando la combriccola giù al bowling era già scoppiata da un pezzo e ognuno dei vecchi amici aveva preso più o meno la propria strada.  Nives lo aveva saputo subito, che lui era il tipo da grande fortezza di regole, eccetera: da quando si erano annusati come cerbiatti in un campus estivo messo in piedi dall’Università in una valle walser. Nives lo aveva stanato come il prediletto, prima da lontano, dietro lo schermo notturno di un gigantesco falò; poi più da vicino, nelle sue interminabili chiacchierate di fine giornata; e infine da vicinissimo, in una sera che era stata la loro scintilla seminale. Per Nives era irresistibile che fossero atterrati a quel falò da galassie diversissime: Fredy silenzioso, puntuale, aveva bruciato economia magna cum laude, e poi dritto per dritto a ficcare il naso negli indici FTSE MIB per società di brokeraggio a caccia del grande slam; Nives chiassosa, irregolare, sparpagliata negli andirivieni delle Dunhill e di lunghe tirate sulla Storia delle Ingiustizie (un corso universitario che abitava solo nella sua testa), prima di decidersi a chiudere con la tesi sul priore di Barbiana e buttarsi su una cattedra di lettere nella stessa scuola cattolica in cui aveva imparato a fumare dieci anni prima. Gettò lo Zippo nella borsetta, si staccò dalla portiera del Cruiser, occhieggiò fra le pompe e decise che era il momento per accendere la sua blitzkrieg con il nuovo arrivato.

«Hai da accendere, mica?» gli chiese. Quello armeggiava con lo schermo del cellulare, ma disse: «Non si può fumare qui: l’ha detto anche lui, bella mia».

«Ah. Lui l’ha detto. Però si dà il caso che questa sia una Dunhill».

«Ah be’. Ho visto su YouTube un tizio che si accende una sigaretta alla stazione di servizio; allora il benzinaio carica un estintore da battaglia e glielo spruzza in faccia. Proprio sul muso. Swaash!».

«Non era mica per la sigaretta. È che non era Dunhill. Le Dunhill, con le istruzioni giuste le puoi fumare. Speciali. Foglie alte di tabacco. John Lennon. Giovanni Falcone. E io. Il club Dunhill».

«Con le istruzioni. Come no» fece quello.

«L’ha detto lui. Cos’è, vi siete messi d’accordo?».

«Come no».

Nives rigirò la sigaretta fra le dita e sbuffò. «Eri mica al matrimonio, tu?» domandò. Sapeva già la risposta, perché lei aveva una memoria infallibile e uno così mica se lo sarebbe scordato, anche se si fosse sbarazzato in fretta di un Armani blu navy per indossare quella paccottiglia da hawaiano. Con la coda dell’occhio vide che Fredy aveva quasi finito.

«Quale matrimonio?».

«Nella villa, sopra là» rispose Nives, indicando la massa tonda e buia della collina che sovrastava la Sp29.

«Ah. No, non c’ero. Fanculo i matrimoni, comunque».

«Ah, sì?».

«Gente che mangia e beve. Gente che si imbosca al cesso per una sveltina. Gente che si promette la grande menzogna».

«Mica siamo andati lì per la metà di quella roba».

«Infatti siete in fuga, belli miei».

Fredy e l’altro si avvicinarono alle colonnine a riagganciare la pistola. Avrebbe scelto Fredy per un altro milione di volte.

«Mica in fuga. No, no. Mica hai capito. Io adoro i matrimoni. Io li adoro». Ma con quella frase parlava a Fredy, che la sentisse forte e chiaro.

«Ah, sì? Non mi sembrate granché allegri, però, belli miei».

Nives pensò che belli miei impreziosiva il vuoto della sua gang al giro di birra, al rollo di un paio di canne e al catalogo di ragazze che si sarebbero ripassate alla prima festa di turno. Lo avrebbe incendiato con una vampa di Zippo se quello non avesse fatto un saluto fasullo da cowboy per risalire sulla cabrio.

«Ma vaffanculo» disse Nives ad alta voce, mentre quello era già sulla Sp29. Voleva che Fredy la sentisse bene. Vaffanculo i belli miei scollati dalla bacheca della tua camera bambocciona, vaffanculo te e la sciacqua pescata su misura per te (che per Nives voleva dire una tizia per tirare a campare, comprando cose inutili, girando gastronomie per trovare tutto pronto, infischiandosene della Storia delle Ingiustizie, eccetera). Gridò forte perché sapeva che anche Fredy disprezzava quella roba perché gli ricordava suo padre e sua madre, gli imperdonabili che avevano fatto a pezzi la sua infanzia. Nives guardò verso la villa. Arrivava un rumore arruffato, un ronzio umano che aveva qualcosa di sinistro. Un brusìo da demoni. Fredy non lo sentì. Riagganciata la pistola, fece due passi infilando le mani in tasca. Spasimava per i notturni nelle stazioni di servizio: una silenziosa costellazione di porti sicuri. Una sera, quando aveva tredici, quattordici anni e si era buttato a leggere orribili romanzi di fantascienza, steso sul letto, aveva immaginato di collegare tutte le stazioni di servizio accese nella notte. La mappa degli allarmi agli attacchi alieni, la grande fortezza dove andare a parare quando la sua testa precipitava nello sfacelo dei ricordi, cioè l’inferno che era stata la sua infanzia: le urla e le mani addosso e il gelo negli anni in cui lui e suoi fratelli avevano vissuto con gli imperdonabili. Poi si fermò, si aggiustò i browline al naso e tornò indietro. Guardò intorno. Si accorse di un viottolo di terra battuta che dava alla grande villa. Fredy pensò che era esattamente il tipo di strada che a Nives sarebbe piaciuto infilare, una pancia di buio caldo: sarebbe piaciuto anche a lui, ma ogni volta che pensava di proporre qualcosa di fuoriserie, aveva paura di fare la figura del coglione, e così non diceva niente. Guardò la sagoma della villa: vide un paio di luci accese e stavolta lo sentì anche lui, il ronzio umano. Una portafinestra al primo piano si aprì e un’ombra sgattaiolò fuori, con una sigaretta accesa: lo si capiva dal puntino rosso nel nero della notte. Farfugliava qualcosa. Il brillo del puntino rosso faceva su e giù. La villa non era in pace e Fredy per certe cose non sbagliava. Più di tutto, desiderò appoggiarsi vicino a Nives e aspettare che lei si accendesse quella maledetta sigaretta, regole o non regole. Perché lui era un uomo di pace e non voleva pensarci più, a quello che si erano detti durante il viaggio. Nives, intanto, accese la Dunhill.

 

«Noi mica finiremo come quelli lì. Mica?» aveva detto una mezz’ora prima, appena venuti via dal matrimonio, all’imbocco della Sp29. «Oddio, forse siamo già così, cazzo». Aveva tirato giù il frangisole e si era guardata nello specchietto: «No, no. Per ora tutto in regola. Mica come quelli lì». Nives si riferiva ai «quattro stronzi» con i quali le era toccato dividere il tavolo durante il banchetto, una claque in perpetua trafila di letti, aperitivi, business, shopping: uguali uguali alla noia di una coda di almeno sei chilometri.

«Potresti non dire “cazzo” ogni volta?» aveva risposto Fredy. E aveva aggiunto, sistemando i browline al naso: «Per favore».

«Uffa. Stai tranquillo, non ne ho detto nemmeno uno quando te la sei svignata dal tavolo per andare chissà dove. Anzi. Sei tu che non devi dirmi “per favore”. Mi dà sui nervi. Se vuoi litigare con qualcuno, non gli chiedi mica “per favore”. Io non lo faccio, mica». Si era aggiustata la coda. «No, non glielo chiedi mica, a uno con cui vuoi litigare». Aveva appoggiato il gomito sulla portiera e la guancia sul palmo della mano. «E non hai risposto alla mia domanda. Finiremo mica come quelli. Ma tu non rispondi, mai». A Fredy la parola mai faceva paura, come la parola sempre. Lui era per i titoli in piazza Affari: non ce n’era uno che durasse sempre, non ce n’era uno che non crollasse mai. Con i quasi potevi controllare le cose, non sbavare, stare a galla.

«Non siamo come quelli lì. Penso di no. E non ci diventeremo. A meno che tu non voglia. Io non voglio». Fredy in quelli ci rivedeva suo padre e sua madre che avevano pensato solo alle reciproche dichiarazioni di guerra, infischiandosene di lui e dei suoi fratelli.

«Rassicurante».

«Perché ogni volta devi fare così».

«Ogni volta perché ogni volta è come se non avessi fatto la volta precedente. Tu non ti smuovi mai».

«Io vedo le cose come sono. Non credo diventeremo così. Io non diventerò così».

«Ecco. Tu non ci diventerai, mica. E io? Sai cosa penso? Penso che non ti fidi di me. Sicuro l’avrai pensato: chissà se a lei va bene starsene seduta in mezzo a quelli là, mica?».

«Smettila. Qualunque cosa io dica, non ti andrebbe bene».

«No, senti. La verità è che ho la sensazione che sia io a non andarti bene. Ho l’impressione che io non vada bene. Che non sono abbastanza. Abbastanza cosa, poi. Cosa? Come quella là, la tua Frida?». Nives sapeva che tirare in ballo la Frida, morta e sepolta prima che loro due si incontrassero lo avrebbe fatto saltare per aria: ma la Sp29 le era parso il posto giusto per il bum-crash! fra di loro. «Io mica sono come lei. E lei è bell’e che morta. Io no. Io sono qui, arrivata al momento giusto, e sono il meglio. Cazzo se sono il meglio». Nives era venuta su irregolare negli scadenzari delle cose di questo mondo, ma robusta nelle cose degli esseri ultraterreni, quelle che il tempo non si azzarda a farci la guerra. Quando diceva che era il meglio del tempo di Fredy, sapeva il suo destino e basta: essere per Fredy. Essere la migliore per lui nei tempi dei tempi.

«Cosa c’entra la Frida. Non toccare le mie cose. E smettila di dire “cazzo”». Nives aveva annotato nel suo block-notes aereo che lui non diceva “piantala”: diceva “smettila”. Che è più delicato. Era per questi particolari che Nives lo considerava il migliore per lei nei tempi dei tempi.

«Secondo me la Frida lo diceva. Lo diceva eccome: cazzo di qui, cazzo di là».  Si era stesa di tre quarti sul sedile, guardando fuori dal finestrino. «Quindi noi non diventiamo come quelli là. Ok» aveva sussurrato. Sembrava implorasse il bum-crash! dell’ultima conferma.

«No. Noi no».

«Noi o tu?».

«Noi due. Passami una cicca, per favore».

«E da quando tieni delle cicche? Fanno male. E dove?».

«Lì. Sotto. Ho la bocca secca».

Scovato il pacchetto nel vano porta oggetti, ne aveva presa una e gliel’aveva messa sul palmo della mano, come una particola o un pegno per l’aldilà. «Quindi noi non facciamo il brodo tiepido che stai insieme a qualcuno, ci scopi e ci fai le vacanze e vai a vedere autosaloni e vasi di cristallo per il soggiorno. Noi la nostra vita è semplice-semplice ed è questa: che ci amiamo. Poi ci sposiamo. Poi ci amiamo. Poi facciamo quattro figli. Li amiamo e loro ci amano. Poi ci odiano e noi loro. Ma poi ancora ci amiamo e li amiamo. Poi preghiamo di morire prima di loro. Poi moriamo prima di loro. E dovunque finiamo, abbiamo un segno di riconoscimento. E ci ritroviamo. Io non voglio meno di questo, Fredy». Poi aveva cambiato tono e aveva detto: «Dio che strazio queste scarpe!». Si era chinata, aveva sciolto il laccio che avvolgeva la caviglia e si era tolta le scarpe.

«Quattro figli. E se diventassero come quelli là? Quattro figli che finiscono nel tuo girone degli stronzi?» aveva detto Fredy.

«Fatti loro. Noi ci abbiamo provato. Li abbiamo desiderati diversi. Poi, fatti loro».

Fredy aveva visto i suoi fratelli più grandi diventare congegni affamati sempre di qualcosa che li arrapasse e che tappasse il gigantesco buco allargato sotto le loro vite di figli abbandonati. Se lui non era così, se non sarebbe mai diventato così, era solo perché aveva dato retta a sua nonna, la povera vecchia che li aveva tirati fuori dall’inferno.

«Allora?».

«Non lo so».

«Cosa, non sai?».

«Boh. Mettermi alle strette così».

«Qualcuno deve farlo, bello mio». Nives aveva teso la corda sul vuoto, e non conosceva altri modi di campare se non camminarci sopra. Da qualche tempo aveva messo a fuoco il desiderio, e sapeva che il desiderio è di una materia che non va su e giù come dannatissimi indici di borsa. Sta sempre lassù nel suo zenit, il desiderio. Fredy era esausto ed era entrato in una palude di silenzio. Poi era arrivata l’asticella bassa del serbatoio, e la stazione di servizio.

 

Ora erano sotto i grandi neon e Fredy la guardava. Si abbarbicò ad immaginare un flash di futuro: Nives a piedi nudi che indossa una sua camicia, lui mezzo steso sul divano con una bambina che gli respira addosso. Una fantasia che spazzava via le porcate di senso comune con cui si era schiantato al tavolo del matrimonio. Lo facevano commuovere, i bastioni della gioia prefigurata in quella scena. Però poi: una che diceva “cazzo” ogni mezza frase, poteva tirare su quattro figli? Una che lo braccava con tutto quel gran teatro, poteva far durare quel suo impareggiabile progetto di vita semplice-semplice? Fredy ingaggiò il corpo a corpo con la gioia che aveva provato, perché se le ricordava, le liti furibonde dei suoi, che facevano a botte e latravano come Schutzstaffel. Lui aveva provato a dimenticare la notte in cui sua nonna aveva trascinato lui e i suoi fratelli fuori da quella casa perbene dove sarebbero stati perduti per sempre. Lui ci provava a venirne fuori, dal portone della sua infanzia, ma testa e cuore sembravano intrappolati fra le quattro mura di quella gattabuia.

Nives intanto si era staccata dal Cruiser e aveva fatto una decina di passi verso il bosco. Era alla sterrata che portava alla villa, già oltre la linea di luce della stazione di servizio. Fredy la guardò: una gatta flessuosa come Lizzy Taylor all’apice del suo incanto. La guardò scivolare sulle espadrillas, entrare nel semibuio con la scia di fumo della sigaretta che segnava il suo cammino come i sassolini di Hansel e Gretel. Poteva starci davvero un destino fuori categoria, la vita semplice-semplice da matrimonio e quattro figli e tutto il resto? La guardò e si lasciò gioire, perché la ragzza non era una capace di fumare Dunhill seduta su 35 metri cubi di combustibile, pensando solo a un destino da Cenerentola, lei? Mica era una così, lei? Mica c’era da perdersi un’occasione così, mica?

Nives si fermò e si girò verso di lui: «Ssst! Senti…senti!».

Fred aggiustò gli occhiali sul naso. Prima gli arrivarono le grida. Poi, uscendo anche lui dal cono dei neon, piantò gli occhi sulle luci accese al primo piano. Vide le tende che si muovevano alla brezza estiva, e poi cominciò a sentire distintamente le grida, gli insulti, i colpi e rimase lì, fermo, piantato, con il solo desiderio che Nives tornasse indietro, che lui non avesse fatto rifornimento, che non fossero mai stati al matrimonio. Ma Nives aveva già messo in cantiere altri dieci passi in avanti, e ormai era dentro il viottolo sterrato. E in quel momento tutti e due la videro arrivare: un’ombra minuscola, frenetica, che via via prendeva la forma miracolosa di una bambina, scalza e con indosso un pigiamino corto. Era una bambina in corsa. Una bambina che piangeva. Nives guardò ancora indietro, verso Fredy. Aveva ancora i Ray-ban e li levò veloce. Nella penombra Fredy non poteva vederle gli occhi, ma lo sapeva, che cosa avrebbero deciso, quegli occhi. Nives corse incontro alla piccola, mentre le grida si facevano più tremende dei rumori di cose e corpi che cadevano e si perdevano per sempre. Fredy guardò Nives che prendeva in braccio la bambina e sentì che le chiedeva: «Come ti chiami?». Quindi tornò indietro con la piccola in braccio e gli disse: «Non possiamo lasciarla qui, mica?» e gli passò fra le dita la sua Dunhill ancora accesa. Fredy prese la sigaretta e sentì la mano libera di Nives stringersi al suo braccio, mentre passava e si dirigeva correndo verso il Cruiser: in un attimo era già rientrata nel bagliore dei neon. Prima di fare ciò che doveva, per un secondo Fredy rimase lì, la Dunhill fra le dita, elegante, guardando verso la villa e lasciando che ad ogni urlo, ad ogni tonfo il suo cuore rimettesse piede nello sfacelo. Gli tornò in mente che in quell’altra tremenda notte, nel trambusto di sua nonna che li caricava su una vecchia Volvo rossa per tirarli fuori dal disastro, in quella notte non era riuscito a portarsi dietro i pesciolini rossi, e non ne aveva saputo più niente. Forse Nives, se fosse stata con lui, sarebbe tornata indietro. Anzi, sarebbe tornata indietro di certo. Mica si può lasciarli lì, i pesciolini rossi delle mie brame, mica si può, no?  L’avrebbe vista venir fuori dall’inferno, con la Dunhill penzolante sulle labbra, la boccia di vetro sottobraccio, con dentro l’acqua e i pesciolini rossi e tutto il resto della sua infanzia.

 

Limina moralia: Boris Vian

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Illustrazione copertina di Marta Goldin.

Da qualche mese sto collaborando con Limina Rivista, con delle autotraduzioni dal francese di piccoli assaggi ( essais) letterari pubblicati in oltre vent’anni sulla rivista parigina l’Atelier du Roman diretta da Lakis Proguidis. Dopo Philip K Dick, Franz Kafka, Anna Maria Ortese, Charles Dickens è stata la volta di Boris Vian.

Buona lettura.

Illustrazione copertina di Marta Goldin.

Prologo

Amo questa canzone. L’ho sempre amata, più precisamente da quando l’ho scoperta in Francia poco dopo il mio arrivo a Parigi nei primissimi anni Novanta. Mi ero appena iscritto a un corso di lingua, intensivo, all’Alliance Française e un’insegnante “creativa” ed entusiasta ci aveva proposto a un certo punto un’analisi di questa canzone leggendaria. Ed è così che noi, per lo più studenti poco più che ventenni, provenienti da paesi e storie tanto diversi, ne siamo venuti a conoscenza, l’abbiamo tradotta, parafrasata, in francese, dal vero francese al nostro, un francese plausibile, non potendon ediscutere tra noi nelle nostre lingue materne. E proprio verso la fine della lettura del testo seguito all’ascolto della canzone, il mio vicino, scultore giapponese, adulto vero e non plausibile come noi, fino a quel momento impassibile e in disparte, con alzata di mano e con una calma tutta orientale aveva tolto il coperchio della casseruola in cui bolliva il paradosso più profondo della nostra arte occidentale.

“Madame, io proprio non capisco – fin qui tutto normale visto che non era francese – ma perché l’autore, dopo averci detto che diserterà perché non vuole uccidere dei poveri diavoli né tanto meno morire, e men che mai dare il suo sangue per una causa in cui non crede, com’è che poi nel finale ce lo troviamo ad avvertire i gendarmi che quanto a lui non avrà armi e che gli potranno dunque sparare senza nessuna resistenza? Ma non ci aveva appena detto che non voleva tirare le cuoia?”

Non che Thor avesse impiegato proprio quell’espressione e la memoria, vale la pena ricordarlo, può giocare sempre brutti scherzi a meno che l’esperienza non si associ a un’emozione forte e infatti una cosa non la dimenticherò mai: la faccia della professoressa, come di chi avesse ricevuto uno schiaffo inatteso e violento da un sedicente complice, insomma l’ennesimo caso di fuoco amico. Fortunatamente per tutti, la campanella della fine della lezione ci liberò dall’aula piombata nel silenzio, prigioniera della solitudine del maestro e del vuoto lasciato da una domanda impertinente rivolta dal più brillante degli allievi. Nei giardini dell’Alliance, mi sono seduto accanto a Thor, gli ho chiesto di rullare una sigaretta anche per me e, mentre si apprestava nella delicata operazione d’inserimento della cartina nel suo aggeggio un attimo prima di piazzare il tabacco, gli ho raccontato dell’articolo che avevo letto pochi giorni prima su un quotidiano a proposito del French paradoxe. Ci siamo accesi le sigarette e dopo un tiro denso di significato lui ha detto:

“Francese cosa?”
“Mi spiego meglio: dei ricercatori hanno scoperto che nel Sud-Ovest, il cui regime alimentare è generalmente piuttosto ricco di grassi, foie gras, confit de canard, andouillettes, per non parlare delle 1200 varietà di formaggi esistenti in tutta la Francia o dell’elevato tasso alcolico dei loro vini, il numero di infarti è solo di 80 ogni 100.000 individui all’anno, quattro volte meno che negli Stati Uniti, capisci ora? E i cretesi, quanto a loro, se la cavano ancora meglio con solo 38 casi ogni 100.000 abitanti, lo sapevi?”
“Tu MENTI!” aveva ribattuto un po’ piccato.
“Tutti i cretesi mentono, ma che significa questo”, pensai davvero. E me ne sono andato ringraziandolo per la sigaretta.

Amo questa canzone, l’ho sempre amata nonostante Thor. Anche quando ho scoperto che Le Déserteur, destò non poco scandalo a causa del suo finale. Sembra infatti che la versione iniziale degli ultimi due versi fosse la seguente:

«Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je tiendrai une arme,
Et que je sais tirer
…»

Sembra che Boris Vian avesse accettato la modifica suggerita dall’amico Mouloudji (la canzone era stata scritta alla fine della guerra d’Indocina, nel 1954, poco prima della guerra d’Algeria) per preservare lo spirito pacifista della canzone, ben nota a tutti con il suo vero finale:

«Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n’aurai pas d’armes
Et qu’ils pourront tirer.»

È stata Françoise Renaudot a svelare l’arcano nel suo libro Il était une fois Boris Vian, contraddetta però dalla testimonianza di un amico di Boris Vian, Harold Berg. Ad ogni modo, in entrambi i casi (diciamo alla Sullivan, il ribelle e alla Vian, il jazzista), l’osservazione di Thor è rimasta più che mai pertinente.

Amo questa canzone, l’amo anche in italiano. È stata superbamente tradotta e cantata meravigliosamente da Ivano Fossati, cantante-filosofo che ascolto da sempre. Mi piace la sua versione anche per una piccola e felice infedeltà che si rivela nella prima strofa:

«Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir…»

Canta Boris Vian, mentre nella versione italiana, Ivano Fossati ce la racconta così:

«Egregio Presidente
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra quest’altro lunedì.»

A mio parere, la grande libertà del disertore-traduttore ha permesso alla canzone di farsi cantare con grande agilità in italiano nonostante le chiare scappatelle dalla versione originale. La scelta del traduttore italiano, sicuramente motivata da ragioni di prosodia, mi sembra, sebbene infedele, molto felice, sia nella mise en abyme delle due lingue, la prima parte fredda, amministrativa (quella dei signori della guerra), e calda (quella del disertore), come nella sonorità delle parole scelte.
L’anomalia sta piuttosto nel fatto che l’ingiunzione a presentarsi il mercoledì nella versione francese, in quella nostrana diventi lunedì, come se intimamente il nostro sapesse che per essere sicuro di trovare l’italiano all’appuntamento del mercoledì sarebbe stato meglio dirgli che la data era il lunedì. Nella versione inglese, infatti, troviamo Before Wednesday night che ci riporta al fatidico mercoledì.
Nonostante i tanti elementi acquisiti negli ultimi vent’anni di vita adulta, lo spirito di Thor ha stregato i miei giorni, simile a quello del comunismo nei paesini democristiani del sud Italia del dopoguerra. Prigioniero a tal punto del paradosso, che quando, qualche tempo dopo, ho ricevuto il racconto scritto da un mio amico scrittore, compagno di branda quando eravamo alla Nunziatella, Marco Pelliccia, contenuto in un bellissimo libro sulla Costituzione italiana, La legge dei figli, edito da Meridiano Zero, gli ho rimproverato il fatto che qualcosa non andasse, e non certo sul piano stilistico e strettamente letterario. Marco vi raccontava infatti la storia di un poliziotto deciso a rendersi giustizia da solo nei confronti dell’uomo che guidando in stato d’ebbrezza aveva travolto sua figlia, uccidendola sul colpo. Quando il poliziotto deve scegliere tra l’esecuzione del suo diktat interiore e la sua adesione allo stato di diritto, adesione che aveva guidato fin lì ogni momento della sua vita, rinuncia alla sua vendetta quando sta sul punto di passare all’atto e preferisce uccidersi come per raggiungere l’amata figlia. Mi alzai, alzai il dito e gli feci la stessa osservazione che Thor, l’imperatore d’Oriente, aveva anni addietro profferito in una piccola e calda aula nel settimo arrondissement di Parigi.

“Sai, Marco – gli ho scritto – anche il suicidio è un atto contro lo stato di diritto”.
E qualche tempo dopo mi ha risposto laconico: “Forse, chissà”.

Epilogo (finto)

Forse, ecco la risposta, come non averci pensato prima! Se solo avessi potuto riavvolgere il nastro del tempo e tornare a quel famoso pomeriggio nel cortile dell’Alliance Française, questo avrei dovuto rispondere a Thor.
Sì, forse!
Certamente! Ma allora, forse cosa? E punto e daccapo.
Mi sono immerso nell’opera di Boris Vian, tutta, nelle sue creazioni multiple, patafisiche, con vero e falso nome, strumentali e vocalistiche, teatrali e politiche per arrestare la corsa dello spiritello di Thor che vagava nel mio corpo come un diavolo a sua volta posseduto da qualcos’altro di ben peggiore. Ho persino comprato l’audiolibro de L’Écume des jours e più di una volta sono stato perfino tentato di scrivere a Isabelle Carré, la voce recitante – la sua foto in copertina aveva giocato un ruolo fondamentale – per chiederle il perché del sortilegio.
Boris Vian, dal canto suo, avrebbe allora sfidato le leggi del sistema “litteratur” sparigliando le carte sul tavolo dei salotti bene della capitale. Ha appena incassato il rifiuto del Prix de la Pléiade, qualcosa di simile al nostrano Premio Calvino,  per il magnifico L’Écume des jours, se la sta passando male, ha bisogno di soldi e del successo che La schiuma dei giorni non era riuscito a dargli nonostante le critiche favorevoli di Queneau e Sartre.
E fu proprio lui a inventarsi nell’estate del ’46 davanti a un cinema degli Champs-Elysées, l’idea di un capolavoro per un editore in crisi, Jean d’Halluin, fondatore des Éditions du Scorpion, alla ricerca del «colpo grosso», una cosa alla Miller, un caso letterario come il Tropico del Cancro.
Della genealogia di J’irai cracher sur vos tombes, esiste su France Culture un magnifico dossier intitolato che vivamente consiglio per i francofoni, Docteur Vian et Mister Sullivan, l’affaire “J’irai cracher sur vos tombes”, documentario di Hélène Delye, regia di Véronique Samouiloff.

«Il 5 agosto del 1946 Boris et Michelle Vian sono in vacanza in Vandea con il figlio Patrick, che si è beccato gli orecchioni. Fu proprio mentre lo accudiva di notte che Boris Vian scrisse Sputerò sulle vostre tombe. Il 20 agosto, il romanzo è bell’e finito. La storia racconta di Lee Anderson, un meticcio del sud degli Stati Uniti, spinto dal desiderio di vendicare il fratello, linciato a morte perché innamorato di una donna bianca. È un romanzo noir, che denuncia il razzismo. Ed è anche una storia cruda, dove sesso e violenza giocano un ruolo predominante. Boris Vian decide di far credere che il libro sia opera di un romanziere americano per il quale s’inventa un nome: Vernon Sullivan. Ufficialmente, lui è soltanto il traduttore. Solo sua moglie Michelle e l’editore Jean d’Halluin sanno cosa sia accaduto dietro le quinte.»

Vian

Trent`anni prima che Romain Gary si prendesse gioco della società delle lettere francesi, pubblicando il capolavoro La Vie devant soi, sotto falso nome e premio vero, il Goncourt, a Boris Vian il colpo era riuscito con un cocktail esplosivo di politica e pornografia; certo si trovò tutti contro, dalla Giustizia per oltraggio al pudore, alla critica, ma non i lettori che in poco meno di due anni furono ben 110.000.

Nonostante tutto questo Boris Vian aveva permesso a un umile scultore giapponese di devastare come uno tsunami le solide coste dello spirito cartesiano dell’Hexagone trasformando il 34 rue de Fleurus (delle Ninfee?) in una Pearl Harbor europea?
Ho quindi studiato a fondo tutto, perfino i collage a lui dedicati da Jacques Prévert e consultato tutto il materiale audiovisivo presente sul Web. Sul sito dell’INA (equivalente del nostro Istituto Luce) si può per esempio ammirare un meraviglioso intervento di Christian Bourgois che rende omaggio ai fedeli lettori dell’opera di Boris Vian: e già perché erano stati loro a decretarne il successo editoriale degli anni Settanta. Un successo postumo, diciamo, ma comunque un successo!
Eppure.
Nonostante tutto il mio da fare non ho trovato una risposta alla fine. In tutto quello che ho potuto leggere, vedere, consultare, non c’era un rigo, una nota a margine, una strofa di canzone, non un disegno che mi permettesse, come uno spicchio d’aglio, di rompere l’incantesimo, allontanare dal campo mentale definito da Thor, la sua beffarda risata orientale: insomma, per usare un francesismo, ero fottuto!

Epilogo (vero)

O per dirla meglio, lo sarei stato se non avessi, per caso, trovato un’intervista a Boris Vian realizzata per un canale televisivo giapponese e in cui, meraviglia delle meraviglie, vediamo, su Yout-Ubu-roi, il mio maestro cantare in un poco plausibile italiano una serenata dada, accompagnato da una chitarra molto strana, Mozzani, fabbricata dal fratello liutaio.
Alla domanda del giornalista su cosa stesse cantando, Boris Vian – la sua somiglianza fisica con Vladimir Majakovskij è sbalorditiva – candidamente risponde:

“So I never went to Italy so I have to write a song about it to know it.”

Thor, sei mio! Non vi sono paradossi in Boris Vian perché è lui stesso un paradosso, e se è vero che per il colesterolo ne esiste uno buono e uno cattivo, come per la cazzimma, quella cattiva di Thor, che Boris tutto fa brodo, perché ogni cosa appartiene al mondo del possibile; cioè, potevamo andare in Italia senza averci mai messo piede, andare in guerra senza aver sparato un colpo o battersi contro il razzismo facendo propria la battaglia di tanti amici jazzisti afroamericani. Quale ingiustizia peggiore esiste nella creazione di quella d’imporre alla parola il fatto di essere realtà e non, al contrario, attribuirle la sua vocazione maggiore, ovvero di esserne l’esploratrice, privando la stessa parola della sua missione più intima, cioè il carotaggio del regno dei possibili. La verità della sfida letteraria, che sia una canzone, una poesia o un romanzo, non è forse proprio in questa estensione del dominio della creazione, capace di estendere la realtà alla sua dimensione perfino paradossale ma più autentica.
Così come, tra tutti i cretesi, ce ne sarà sicuramente uno che dice la verità, alla maniera di Franz Kafka che ci racconta l’America più vera senza mai esserci stato, possiamo dire che Boris Vian rinasce ogni volta che citiamo una sua frase, ne recitiamo un verso, ne cantiamo un strofa delle sue canzoni, consapevoli che insieme a lui anche ogni mondo da lui esplorato rinasce. Scopriamo le cose, le rendiamo possibili nel momento stesso in cui le esploriamo, anche se quelle cose sotto altre formeci abitavano già. In Le relazioni pericolose di Vadim c’è un breve dialogo che vede Boris Vian, attore, offrirci una degna controreplica al discorso:

Juliette, vous ne vous occupez jamais de moi.
Mais je vous aime bien, Prévan.
Ce «bien» me crève le cœur.
Vous avez un cœur?
Oui, depuis que Valmont nous a fait nous rencontrer.
Vous devriez lui être reconnaissant: c’est rare aujourd’hui d’avoir un cœur.

“Juliette, lei non si prende affatto cura di me.”
“Eppure le voglio bene, Prévan.”
“È quel «bene» che mi fa male al cuore.”
“Perché? Lei ne ha uno?”
“Sì, da quando Valmont ci ha presentati.”
“Dovrebbe allora essergliene grato: è raro di questi tempi possederne uno.”

Raccontano che quando il cuore di Boris Vian gli è stato strappato dal petto nella sala del cinema Marbeuf, durante la prima proiezione del film tratto dal suo romanzo J’irai cracher sur vos tombes, pochi secondi prima di accasciarsi avesse imprecato: “Americani un cazzo!”.
Certe delusioni possono giocare brutti scherzi; ritrovarsi dieci anni dopo l’uscita del romanzo nuovamente delusi dall’ambiente, dai produttori del film, dalla pessima recitazione degli attori davvero poco plausibili come americani sarà stato sicuramente insopportabile. Oppure era il cuore a battergli troppo come Vian sapeva, come i suoi amici più intimi che lo vedevano pulsare da sotto la camicia senza però mai farne parola.
Ripenso a Thor, mi verso dello Chasse-Spleen nel bicchiere e, brindando a lui, canticchio una strofa di Je bois, precisamente quella in cui il Principe di St Germain dice:

«Je bois
Systématiquement

Pour oublier tous mes emmerdements

Illustrazione copertina di Marta Goldin.

L’Apocalisse è una festa

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di Adriano Ercolani

 

Da alcuni mesi, nelle mie letture digitali, mi è capitato di incontrare un nome ricorrente, a firma di articoli ben scritti e solidamente strutturati su temi a me cari: l’opera di Tarkovskij, il cinema di Carmelo Bene, la cosmogonia gnostica, gli archetipi (in un’accezione sorprendentemente non junghiana).

Il nome è quello di Ludovico Cantisani.

Colpito dalla preparazione indubbia e la forsennata prolificità (tratto che mi ha suggerito un’immediata vicinanza interiore), ho deciso di contattare questo autore così affine per gusti e interessi.

Una volta scoperto che entrambi vivevamo a Roma, è sorto spontaneo il classico invito a prenderci un caffè.

Mi aspettavo un colto professore cinquantenne: mi sono ritrovato un ragazzo poco più che ventenne, di origini lucane, dagli occhi ardenti e l’umorismo tagliente.

Cantisani è un esempio, raro, di come si possa conciliare qualità e produttività:  ha già pubblicato cinque libri (cinque!) di cinema, tutti per Artdigiland.

Non si tratta di bignami sbrigativi, scritti a tirar via: sono saggi accurati, dalla bibliografia rigorosa, spesso corredati da interviste corpose ai protagonisti, volumi ben ragionati in cui già emerge uno sguardo critico consapevole. Non per nulla, pur non essendo pubblicati per case editrici da cinquina del Premio Strega, sono stati presentati a Radio 3 e recensiti su testate quali Repubblica, il Venerdì e Left. In particolar modo, trovo interessante come a partire dal saggio L’Apocalisse è una festa la sua attenzione come studioso si sia spostata dal cinema verso un progetto più ampio di antropologia della narrazione.

Ma Cantisani non è solo un critico e un saggista: giovanissimo, è entrato nel mondo del cinema al fianco di Luciano Tovoli, tra i maggiori direttori della fotografia del cinema italiano (lo sguardo ipnotico e visionario di Suspiria di Dario Argento, per intenderci, ma non solo), e si specializza nel settore della produzione cinematografica.

Incontrare una figura così vivace e stimolante, in un momento in cui le testate di approfondimento culturale dibattono sui peli delle ascelle delle influencer come avanguardia della rivoluzione, mi ha imposto moralmente di parlarne pubblicamente.

O, meglio ancora, di far ascoltare la sua voce.

Ecco la nostra conversazione sulla sua già ragguardevole produzione saggistica.

La tua attività è molteplice e proteiforme. Vuoi descriverci il tuo percorso fino a oggi?

Il “molteplice” deriva da un mio implacabile impulso ad improvvisare, il “proteiforme” è figlio di una mia estrema facilità alla noia. Ho avuto a monte un percorso scolastico decisamente sui generis, non tanto sul fronte dei risultati quanto nel rapporto con l’istituzione scolastica – benché io debba tantissimo ad alcuni singoli professori come Enrico Castelli, Antonella Fucecchi e Fabrizio Manieri. Alla fine del quarto anno di classico ho optato per finire gli studi da privatista, nello stesso Liceo Tasso che avevo fino a quel momento frequentato, più o meno nello stesso momento in cui ho iniziato a lavorare nel mondo del cinema. Nell’estate del 2019 ho infatti girato Penelopes, un cortometraggio-studio sull’Ulisse di Joyce la cui sceneggiatura piacque molto al grande autore della fotografia Luciano Tovoli, che accettò di fotografare il corto e di co-produrlo. Penelopes, di cui ero sia regista che produttore, ha partecipato a diversi festival tra Italia e Irlanda, e mi ha permesso di conoscere l’Augustus Color, un’importante società di cinema che curò generosamente la post-produzione di quel corto. Sono da poco tornato da un viaggio a Lisbona, dove abbiamo girato alcune scene di un documentario sul film Sostiene Pereira di Roberto Faenza, tratto dal romanzo di Tabucchi, che l’Augustus di recente ha restaurato; adesso sono alle prese con le ultime giornate di ripresa di un documentario sulla storia della Technicolor Italia, nato da un’idea di Christian Raimo, diretto da Mario Musumeci e prodotto dalla Estra Digital, per il quale abbiamo avuto l’onore di intervistare anche il tre volte premio Oscar Vittorio Storaro. Con una mia società di produzione, Ithaka, che ha base a Cinecittà, ho gestito assieme a Fabio Crisante e al mio socio Simone Marra alcuni appalti di progetti di cinema nelle scuole. Cinematograficamente parlando, in questo momento mi sto concentrando soprattutto sulla produzione, mentre l’approfondimento concettuale sto cercando di portarlo avanti a livello di saggistica.

Dovendo tracciare una linea, quali sono i tuoi interessi di fondo?

Al di là di questa divisione di fondo tra côté produttivo e côté culturale, i miei principali interessi sono la semiotica e la mistica – intendendo entrambi i termini nell’accezione più ampia possibile. Il cinema rappresenta una fusione privilegiata tra questi due campi, tra il linguaggio portato al parossismo delle sue possibilità meta-analitiche, e la scoperta di una dimensione ineffabile, inesprimibile, in cui il linguaggio naufraga e dove valgono solo le immagini. Non è però il mio unico interesse, anzi, quanto più lavoro nella dimensione industriale del cinema, tanto più scopro vitali altri campi del sapere umanistico. Leggendo un saggio di Carlo Ginzburg sull’immagine ho scoperto che Siegfried Kracauer nella sua Theory of Film scriveva che il cinema è solo un pretesto; penso sia maledettamente vero. Tra Bazin, che concepiva il cinema come un linguaggio, e Deleuze, che tra l’Immagine-movimento e l’Immagine-tempo lasciava affiorare una concezione del cinema come forma di pensiero, ultimamente mi sento più vicino a Bazin – molto più di quanto vorrei. Solo rare volte – in Malick in modo sommo – il cinema scavalca sé stesso, la sua sintassi, il fardello della narrazione. Solo in questi momenti la “settima arte” è al colmo delle sue possibilità, e riassume in sé, come voleva Bergman, tutte le altre arti e linguaggi; altrimenti resta ancillaria rispetto alla letteratura e al teatro. Il cinema, in un certo senso, resta una potenzialità raramente esplorata fino in fondo.

Parlando del tuo ultimo libro L’eroico Masini, cosa ti ha colpito di questa figura fino a farti dedicare una monografia così corposa?

Il libro L’eroico Masini. Un direttore della fotografia tra Carmelo Bene e i fratelli Taviani     nasce da una proposta di Silvia Tarquini, la fondatrice di Artdigiland, una casa editrice italo-irlandese con un’importante collana sui direttori della fotografia. Per questa collana erano già usciti libri-intervista a maestri della luce come Luca Bigazzi, Beppe Lanci, Pino Pinori e lo stesso Tovoli, con il quale anzi ero entrato a suo tempo in contatto proprio grazie a Silvia. Prima de  L’eroico Masini avevo curato io stesso due libri-intervista a Vladan Radovic, tra i maggiori d.o.p. del cinema italiano contemporaneo, uno monografico su Il traditore di Bellocchio e uno più ampio su tutta la sua carriera, Arcobaleni di grigi e nuovi colori, generosamente sostenuto da Arri Italia e da D-Vision; e mi ero trovato anche a curare Conversazioni su Favolacce, sul secondo film dei D’Innocenzo; questo libro su Masini è stato un nuovo tassello di una collaborazione già da tempo avviata. La fase preparatoria de   L’eroico Masini ha rappresentato per me l’occasione di conoscere e studiare approfonditamente il cinema di Carmelo Bene, sul quale continuo a interrogarmi anche a distanza di anni dalla prima visione. Arrivato alla scena della crocifissione mancata nella  Salomè, mi accorsi definitivamente di avere sotto gli occhi qualcosa di fronte al quale gran parte dei film che avevo visto negli anni passati semplicemente perdevano di senso.

Cosa ha rappresentato per te l’incontro con Masini?

Come ho provato ad elaborare in un articolo scritto per Limina Rivista (https://www.liminarivista.it/comma-22/gli-occhi-che-hanno-visto-la-vista-in-margine-a-un-libro-intervista-con-mario-masini-su-carmelo-bene/), quello con Mario è stato uno degli incontri più straordinari della mia vita. Paradossalmente, mi ha insegnato innanzitutto a relativizzare il cinema, dal momento che, dopo due decenni di onorata carriera come direttore della fotografia e subito dopo aver fotografato Padre Padrone dei Taviani che aveva vinto a sorpresa la Palma d’Oro a Cannes, Masini ha abbandonato il cinema per darsi all’insegnamento nelle scuole steineriane. Questo fatto rappresentò una grande soddisfazione per Carmelo Bene, che lo vide come una conferma del fatto che dopo aver attraversato i suoi set era impossibile continuare a fare cinema in senso tradizionale: ma, smentendo tutto e tutti, negli anni novanta Mario è tornato sul set, lavorando anche a un importante film africano come TEZA.

Da cosa viene il titolo L’Eroico Masini, e come si sono svolte le interviste con lui? Su quali aspetti della cinematografia di Bene ti sei voluto concentrare?

Mario Masini ha fotografato quattro su cinque degli “anti-film” di Bene, Nostra Signora dei Turchi, Don Giovanni, la Salomé e Un Amleto di meno. Fu Carmelo Bene stesso a dargli l’appellativo di “eroico”, per come era riuscito a girare quattro film con complessi giochi visivi lavorando praticamente da solo, almeno fino alla Salomé. Nell’intervistarlo,  attingendo anche alla mia personale esperienza al fianco di Tovoli, ho cercato di dare il giusto risalto all’aspetto tecnico del cinema beniano, dal momento che C.B., nonostante i suoi strali contro il cinema “nato morto” e contro l’immagine  tout court, aveva una notevole conoscenza dei mezzi tecnici e del linguaggio audiovisivo – il fatto che poi arrivasse a calpestare letteralmente la pellicola, come racconta Mario nel corso del libro, non gli precludeva un’intuizione geniale del nesso che lega tecnica e semiotica. Mario vive da tempo a Stoccarda, quindi abbiamo realizzato tutto il libro grazie a lunghe sessioni Skype; spero di poterlo incontrare in occasione dei vari festival estivi a cui siamo stati invitati. Avendo curato ormai diversi libri-intervista, con un altro paio già pronti e di prossima pubblicazione, devo confessare di vedere L’eroico Masini  come un punto di approdo di un percorso da critico cinematografico o “intervistatore” che non penso possa durare ancora molto. La mia prossima pubblicazione sarà    Il meridionalista dell’immagine, uno studio sul cinema e la televisione di Vittorio De Seta che uscirà per l’editore lucano Edigrafema, con un bel pattage di interviste; ma nell’ultimo periodo sto cercando di concentrarmi sulla saggistica, andando anche al di là del cinema.

Quali sono i tuoi numi tutelari o autori di riferimento?

Tre modelli ispiratori assoluti, ma andando ben al di là di ogni culturalismo, sono Roberto Calasso, Carmelo Bene e Franco Battiato. A livello saggistico, i miei due numi tutelari sono sicuramente Ernesto de Martino e René Girard; del primo, avendo io origini lucane e calabresi, avevo sentito parlare sin dall’infanzia, e l’ho approfondito monograficamente durante il primo lockdown; quanto a Girard, leggere Il capro espiatorio fu una delle più grandi folgorazioni della mia vita, e ho avuto il piacere di approfondire il suo pensiero anche grazie alla mia frequentazione con il Centro Studi italiano a lui dedicato. La mia prima grossa infatuazione concettuale fu a dire il vero per la psicoanalisi freudiana, ormai quattro anni fa; ma da allora ho letto gran parte delle opere anche di Jung ed Hillman. Non so sinceramente dove collocarmi, sia nell’eterna diatriba tra le diverse scuole di pensiero psicoanalitico, sia nel discorso epistemologico sul senso della psicoanalisi tout court; la mia unica certezza è che la nozione di archetipo, anche al costo di “de-junghianizzarla”, è e resterà al centro di molte delle mie riflessioni. Gli ultimi due autori che ho approfondito in ordine di tempo sono stati Carl Schmitt e il teologo Sergio Quinzio, di cui mi ha appassionato molto il concetto di cinosi, l’idea che Dio, per creare il mondo, si sia svuotato, aprendosi potenzialmente anche alla sconfitta. A breve uscirà per Bianco & Nero, la rivista del Centro Sperimentale adesso diretta da Alberto Crespi, un mio articolo che rappresenta un tentativo di applicare il concetto paolino-schmittiano di katechon alla fantascienza a sfondo ecologico.

Ne L’apocalisse è una festa ti occupi di antropologia della narrazione, rifacendoti a uno studioso come de Martino. Da cosa è nata l’idea del saggio e come ti sei approcciato all’opera di de Martino? 

L’Apocalisse è una festa. Il cinema della fine del mondo e l’antropologia di Ernesto de Martino, uscito a novembre nella collana saggistica di Artdigiland, è stato il primo, forse embrionale risultato della folgorazione provata leggendo, durante il lockdown di marzo-maggio 2020, gli appunti che de Martino aveva accumulato per il suo incompiuto La fine del mondo, nella nuova edizione Einaudi. La fine del mondo avrebbe rappresentato un passo in avanti radicale nel percorso di de Martino rispetto ai saggi del de Martino meridionalista, che già erano capolavori o quantomeno capisaldi dell’etnografica praticata prima “da tavolino” e poi, egregiamente, “sul campo”. Anche e forse ancor di più nella forma inconclusa, work-in-progress, frammentaria in cui ci è arrivata quest’opera a causa della prematura morte di de Martino, La fine del mondo è ricca di spunti fertilissimi e di intuizioni geniali che portano l’antropologia ben al di là rispetto ai suoi confini abituali. Il legame con de Martino è diventato per me quasi un fatto di sangue, e una delle emozioni più grandi della mia vita l’ho avuta quando sono andato, assieme a Goffredo Fofi, a consegnare una copia del L’Apocalisse è una festa a Vittoria De Palma, l’ultranovantenne vedova di de Martino, ultima testimone vivente delle leggendarie spedizioni etnografiche del ’59.

Qual è il nesso tra de Martino e il cinema?

 Ne La fine del mondo i riferimenti al cinema sono davvero pochi, benché de Martino fosse stato, nell’ultima parte della sua carriera, molto attento alle potenzialità etnografiche del documentario; nondimeno, leggendo La fine del mondo, mi è apparso evidente che tutto ciò che lui scriveva sul binomio “apocalisse culturale” e “apocalisse psicopatologica”, dilungandosi tra l’antico rituale latino del mundus patet e la letteratura esistenzialista in voga nei suoi anni, poteva facilmente essere applicato al cinema. Un’applicazione contemporanea del concetto di “apocalisse culturale”, una variante secolarizzata di quei miti antichi che si relazionavano con la possibilità di una fine del mondo per poi risolverla, esorcizzarla, la si ritrova facilmente nei blockbuster catastrofisti all’americana; che, per inciso, con le loro redemption stories per cui tutti i protagonisti si riscattano mentre i potenti della terra vengonk umiliati recuperano elementi dell’escatologia cristiana – gli “ultimi che saranno i primi” – molto più di quanto a un primo sguardo appaia (https://www.artdigiland.com/blog/2020/3/21/apocalissi-culturali-e-apocalissi-psicopatologiche-lescatologia-di-roland-emmerich). Dall’altro lato, un capolavoro del cinema d’autore come Melancholia di Lars von Trier rappresenta, in un altro medium, esattamente quello che de Martino intendeva rilevando “apocalissi psicopatologiche” e vissuti di fine del mondo nella letteratura esistenzialista dei vari Sartre, Camus e Moravia, oltre che nei testi di psichiatria consultati a suo tempo da de Martino.

Quanto pensi che il sentimento apocalittico sia diffuso tra gli autori del Novecento?

Dopo l’iniziale folgorazione demartiniana, il concetto di apocalisse l’ho ritrovato in molti autori, in primis i già citati Schmitt, Quinzio e Girard. Di fronte alla fascinazione che si prova in ogni catastrofe, e di fronte a quell’abitudine fin troppo umana di gridare alla fine del mondo di fronte a ogni mero cambiamento, vale sempre l’implicito monito di Umberto Eco di non essere né troppo apocalittici né troppo integrati. Dall’altro lato, prendendo spunto dalle riflessioni para-etimologiche di Heidegger sulla verità a partire dal greco aletheia – ma anche dall’ambiguità semantica di un altro grandioso termine greco quale è theoria – ultimamente mi sono interrogato molto anche sulle implicazioni epistemologiche dell’apocalisse. Che apocalisse in greco voglia dire “rivelazione” è un fatto piuttosto noto, ma se nella lettura heideggeriana aletheia andava tradotto come “svelatezza”, è tanto facile quanto sinistro immaginare un’equazione. Il titolo L’Apocalisse è una festa fu un’intuizione del tutto irrelata, a quei tempi non avevo ancora letto un rigo di Heidegger, ma a volte mi sembra che una parte importante del percorso compiuto dopo quel primo saggio abbia tentato di parafrasare quel titolo. Come ho cercato di argomentare in un testo extra-cinematografico apparso per Limina sul tema dell’eschaton a partire da Derrida (https://www.liminarivista.it/oltre-la-soglia/eschaton-quel-bisogno-della-filosofia-occidentale-di-sognare-la-propria-fine/), si può arrivare a dire che l’apocalisse è la festa della verità. Una verità palesemente assassina – il che ci porta ai tragici.

Hai già pubblicato per Artdigiland, appunto, questo capitolo che è solo la prima parte di un progetto molto ambizioso. Vuoi parlarcene?

 

L’Apocalisse è una festa è un saggio che ho scritto di getto durante il lockdown, basandomi quasi unicamente su La fine del mondo di de Martino con qualche contributo da Girard e dallo Jung di Un mito moderno. Continuando a riflettere su quel saggio, anche in occasione delle presentazioni che abbiamo fatto non appena il Covid ce lo ha permesso – tra le più belle, quella al Cine Détour di Roma e quelle ai festival lucani di cinema di Salandra e di Pisticci – mi sono accorto di aver sfiorato, inopinatamente, una linea di pensiero che poteva espandersi ben al di là di un singolo libro. Sulla definizione, resto incerto tra “antropologia della narrazione” e “critica dell’immaginario”. Dai tempi de L’Apocalisse è una festa, ho aggiunto in bibliografia, oltre a Girard, a de Martino, e ai padri fondatori della psicoanalisi, anche Eco, Barthes, Joseph Campbell, Deleuze, Foucault, Calasso, Riberi, Ginzburg, Scholem, Benjamin, Taubes, e appunto Heidegger con la sua nozione di verità. Attingendo alle loro opere, sto tentando un solve et coagula che auspicabilmente permetta, con un certo rigore ermeneutico ma al tempo stesso con un’interdisciplinarietà lontana da ogni accademismo, di comprendere e cogliere, attraverso le narrazioni, le criticità, i fantasmi irrisolti e i punti fermi della nostra società e della nostra cultura in senso ampio.

In questo percorso di antropologia della narrazione quali sono le tematiche che pensi di approfondire in futuro?

Le macro-aree su cui concentrarmi, un saggio alla volta, mi sono abbastanza chiare: il cinema dei supereroi, il cinema di fantascienza e poi, mettendo da parte il cinema, l’esistenzialismo in senso ampio, il tema del Ritorno colto diacronicamente, e lo spirito tragico dei greci. Se le tematiche e gli autori di riferimento di questo progetto di antropologia della narrazione mi sono chiari, è la questione del metodo quella su cui mi interrogo. Per ora accumulo materiali di ogni tipo: per me il maggiore merito de L’Apocalisse è una festa resta quello di aver trattato un capitolo dopo l’altro prima Sacrificio di Tarkovskij e poi i B-movie giapponesi su Godzilla, e sto cercando di continuare ad attenermi alla stessa logica al tempo stesso analitica e scanzonata anche in questi libri futuri. Il tempo delle maschere, un tentativo di indagine sul fondamento messianico dei film di supereroi in rapporto con la crisi delle istituzioni democratiche occidentali, è a buon punto, e spero possa vedere presto la luce. Il tema di maggiore fascinazione per me resta comunque il tragico greco, da approfondire in tutte le sue evoluzioni anche contemporanee alla luce di concetti quali “epifania negativa”, e l’ambiguità del termine theorein (https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/maschere-di-gomma-ed-epifanie-negative-lhorror-americano-e-la-tragedia-greca/). Ma scandagliare questi temi non è mai innocuo, se è vero che, come scrisse nel modo più sintetico Vincenzo Di Benedetto, “nella tragedia greca, il vero male deriva dal conoscere”. Chi scrive, è sempre esangue.

Annie Ernaux e “Le jeune homme”

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di Ornella Tajani

 

Le roman est impossible.
A. E.

Annie Ernaux conferma il suo talento in ogni testo che scrive, anche nell’ultimo Le jeune homme, apparso in Francia a maggio per Gallimard: il racconto della passione per un ragazzo di vent’anni, nel momento in cui lei era già una scrittrice cinquantenne, diventa una sorta di dispositivo immaginifico della memoria, sia sul piano dell’esperienza, sia su quello della scrittura. I mesi trascorsi con A. scorrono per l’autrice sopra una sorta di nastro di Krapp: tutto è già stato vissuto, le strade di Rouen in cui passeggia con lui sono le stesse che percorreva quando era una studentessa di lettere; l’ospedale dirimpetto all’appartamento in cui fanno l’amore è quello in cui era stata ricoverata in seguito al tentativo di aborto clandestino raccontato in L’événement.

Questo è senz’altro uno dei punti di forza di Ernaux: ogni nuovo testo è un tassello di una medesima opera più grande, unitaria, un’auto-socio-biografia che racconta il suo percorso di donna, di intellettuale, e nel farlo dipinge sullo sfondo l’affresco di un’epoca e uno spazio attraversati dalla lotta di classe.

Le storie di Ernaux non sono mai soltanto ciò che sembrano: ogni episodio travalica i confini del vissuto e produce riflessione, discorso. È questo uno dei sensi dell’esergo: «Si je ne les écris pas, les choses ne sont pas allées jusqu’à leur terme, elles ont été seulement vécues». L’idea della scrittura come compimento e (ri)significazione insegue un’elaborazione che aggira il percorso psicanalitico e ripercorre le tracce di esempi letterari classici: se proustianamente il ricordo è una forma di passione, per l’autrice la passione è già una forma di scrittura, e qui di ricordo. A questo proposito, l’incipit può trarre in inganno e sulle prime apparire stucchevole: «Souvent j’ai fait l’amour pour m’obliger à écrire», ma a ben guardare si rivela una provocazione; l’amore, anche fisico, è sempre per Ernaux il motore di un’analisi introspettiva che si spinge ben oltre la relazione di volta in volta narrata. Qui il ragazzo amato rappresenta «le passé incorporé», e, più avanti, è visto da lei come la propria stessa morte: «il était ma mort» (il giovane amante come incarnazione della propria morte è, peraltro, una figura tipica nell’opera di Jean Cocteau).

Quasi tutto il senso del racconto è racchiuso in ciò che A. dice nel momento in cui vede una foto di lei da giovane, al tempo in cui l’autrice aveva la sua stessa età: «cette photo-là, elle me fait de la tristesse» – frase emblematica di una dolorosa impossibilità, ma che ben suggerisce il gigantesco déjà-vu (déjà-vécu) che è al centro di questo piccolo libro.

Gita al lago

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di Paola Ivaldi

Durante una breve passeggiata solitaria verso il lago Lod, poco sopra il comune di Chamois, in Val d’Aosta, mi è capitato di assistere, mio malgrado, a uno scontro famigliare, il classico litigio per un nonnulla che, visto da lontano, con il favore dunque del distacco e della neutralità, fa capire come spesso queste collisioni possano rivelare molto più di ciò che sembrano.

Lui. Aveva piazzato la grossa macchina fotografica sul cavalletto, a bordo lago, e vi si aggirava attorno con movimenti un po’ a scatti, un fare pedante, un atteggiamento che tuttavia, nel suo complesso, gli conferiva l’apparenza di uno che sa il fatto suo, con grande borsone al seguito probabilmente pieno di obbiettivi e chissà che altro ancora.

Nel percorrere il sentiero mi trovavo a una trentina di metri da lui e ho pensato distrattamente che fosse un appassionato di fotografia in fiduciosa attesa di un proprio carpe diem. Tiro dritto per completare il giro del lago e poi sedermi al sole a mangiarmi il panino in santa pace quando mi accorgo della presenza, sulla sponda quasi opposta alla mia, di un bambino urlante che corre all’impazzata in rapido avvicinamento, seguito a breve distanza dalla mamma, verso il fotografo: suo padre dunque. Nelle mezze stagioni può capitare che attorno allo specchio d’acqua non vi sia anima viva. Quella volta, si era in aprile, eravamo in quattro e potrebbe anche darsi il caso che loro non mi avessero neppure notata. Il fatto è che quando l’uomo li ha visti entrambi, ormai a pochi metri da lui, ha iniziato a sbraitare.

“Noooo… Ma siete già qui? Oh, ma dico: non è possibile! Vi chiedo cinque minuti, e voi siete: già qui! Guarda, lascia stare, non importa, però cazzo non è possibile, no, non è nemmeno più possibile, per me, avere cinque minuti di pace, per fare una foto, dico una. Ma lascia perdere, basta! Metto via tutto e non se ne parla più. Baaasta: ho detto! Ho detto bastaaaa” e avanti così. La moglie non si sentiva se parlasse o quale eventuale risposta tentasse di imbastire; il figlio, di pochi anni, stava immobile, ammutolito, pareva una statuina.

Da lontano, camminando, ogni tanto mi voltavo e li osservavo: lui aveva smontato tutta la sua postazione in fretta e furia, i gesti ampiamente teatrali. Poi si sono allontanati, tutti e tre in fila indiana, verso uno dei tavoli dell’area attrezzata. Prima che sparissero nel bosco e li perdessi definitivamente di vista ho solo più afferrato lo sgarbo con il quale lui diceva a lei: “… ma che panino e panino, cosa vuoi che me ne freghi dei vostri fottuti panini: mangiateveli tutti voi, a me è passata la fame”.

Proseguo il cammino tutto intorno al lago, chiedendomi attonita perché. Come si possa spiegare una reazione così spropositata per una foto. Ho guardato per qualche attimo il lago da dove all’incirca si era piazzato lui, ma non vi ho colto nulla di straordinario, né nell’eventuale inquadratura né nella luce o nei colori; nell’insieme non c’era da aspettarsi granché da quello scatto mancato se non la foto di un lago di montagna: una foto qualsiasi di un laghetto qualsiasi.

Mi sentivo imbarazzata per loro, provavo tenerezza soprattutto per la moglie e il figlioletto, immaginandomeli mangiare in silenzio i loro fottuti panini, preparati qualche ora prima con cura, avvolti uno dopo l’altro, nei tovaglioli di carta a quadretti e poi nella stagnola, pregustando il momento in cui avrebbero riaperto, uno dopo l’altro, tutti i loro pacchettini argentati: “Che bello: si va al lago!”.

Anche lui, comunque, nella sua apparente performance recitativa suscitava tristezza. Perché quando si giunge a simili reazioni per futili motivi, oggettivamente futili, c’è un disagio che cova, la coppia ha perso, o sta perdendo, per strada molti pezzi. Può essere di tutto. Da lontano non si può sapere né giudicare, ma osservando e ascoltando provavo sensazioni, un disagio di coscienza, ripensando a tutte le volte che ero stata io a dare in escandescenze per delle emerite sciocchezze. A tutte le volte che accade. A tutte le coppie che.

Se ci pensiamo, se riuscissimo di più a pensare a noi stessi con un sano distacco, che non è indifferenza, ma cambio radicale di prospettive, scopriremmo che assomigliamo, in quei frangenti, a degli spennacchiati galletti da combattimento che si azzuffano per un lombrico.

La parte del soccombente e quella, monologante, dell’urlatore possono essere declinate a entrambi i ruoli genitoriali. I figli sono l’involontario pubblico, assistono alle metamorfosi di papà e mamma, soffrendo in silenzio e poi avventandosi eventualmente sul panino per poi giocare con la pallina ricavata dall’aver serrato in pugno, forte forte, tutta la pellicola di alluminio.

Io, a proposito di mangiare, nel frattempo avevo rinunciato alla mia sosta e puntavo ormai a scendere verso il paese. Lungo il sentiero sto per incrociare due coppie decisamente in là negli anni, nella tipica formazione: gli uomini davanti, le donne dietro, a una distanza tale che a ognuno dei due gruppetti è consentita la libertà di parola.

La cosa sorprendente, perché in effetti capita di rado, è che passando accanto alle due donne colgo al volo queste parole: “No, ma guarda, io lo devo proprio dire: per me incontrare Elio è stata una enorme fortuna. Sai quando senti di essere fatti uno per l’altra? Ecco: ci piacciono le stesse cose, stiamo bene insieme, siamo felici, stiamo davvero così bene insieme che io dico sì: che è proprio una fortuna!”.

Lasciandomele alle spalle mi sono chiesta per un lungo attimo quale dei due uomini, che stavo nel frattempo già superando, potesse essere Elio: il signore che stava discorrendo amabilmente di prostatite, o l’altro che annuendo mansueto ascoltava l’amico? Oppure ancora, ipotesi decisamente più ardita: un terzo uomo in quel momento assente dallo scenario alpino?

Elio Elio… non saprò mai chi tu fossi, ma dopo tutto non mi importa granché, le mie vedute essendo sufficientemente ampie per contemplare anche la terza delle ipotesi. Quel giorno, intanto, mi accontentai dell’entusiasmo: il solare entusiasmo con il quale la donna aveva ammesso la propria fortuna, le parole genuinamente amorevoli confidate all’amica sorridente mi bastarono per riconciliarmi con l’arcana complessità dei rapporti di coppia.

 

STRADARIO AGGIORNATO DI TUTTI I MIEI BACI

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di Daniela Ranieri

Ospitiamo molto volentieri la prima metà di un capitolo (intitolato “A. Daltonismo”) della bellissima tassonomia mascolina/amorosa di Daniela Ranieri, pubblicata da Ponte alle Grazie

Cerchi la cattiva coscienza? La troverai nelle per­sone dal vile sentimentalismo, che rinnegano la verità per amore.

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, estate 1880

Dire «mh» è il suo modo di farmi capire che mi ama. A volte è interrogativo: «Mh?», e vuol dire «Cerca di essere ragionevole, cioè sii il meno possibile te stessa».
Non dice spesso «ti amo», inteso come segnale in chiaro: fuori codice mh-esco, intendo; le volte in cui l’ha detto posso quasi contarle:

– Quando salvo gli insetti senza ammazzarli e li accompagno delicatamente fuori dalla finestra. Due volte mi ha detto: «Oh: quanto ti amo», dal che ho capito che per lui significa qualcosa come «sei una persona veramente apprezzabile, ho fatto una scelta giusta, tutto sommato».
– Al telefono dopo due settimane di separazione; in questi casi non vuol dire tanto «sbrigati a venire», quanto «no, non ti ho sostituito con la prima donna disponibile che m’è capitato di incontrare, e ci sono buone speranze che ciò non avvenga nel breve periodo». Naturalmente questa potrebbe anche essere una strategia per tenermi tranquilla, e lui sa che io lo penso, infatti rispondo «va bene» e lui interpreta correttamente replicando «deve andar bene per forza, giacché è così» (sottinteso: non che ti ami, ma che non ti abbia sostituito, né con la prima né con la seconda con cui avrei potuto farlo); è il «ti amo» con funzione anti-entropica e veridittiva.
– Quando mi viene una buona battuta che lo fa ridere di cuore, e allora mi abbraccia dichiarando amore e ridendo come un barbaro, mangiandomi il cervello direttamente dalla scatola cranica, come un gelato al cocco dalla sua noce svuotata; qui vuol dire qualcosa come «risate così ne ho fatte solo con gli amici dopo qualche bicchiere; a ben vedere, ho fatto un affare».
– Quando dico qualcosa di assolutamente folle o troppo irragionevole. Come quando, durante una gita a un santuario nei pressi di Agrigento che mi prometteva essere luogo pressoché irraggiungibile e segreto, gli ho chiesto: «Con quante donne ci sei venuto?» Esasperato, si è fermato un attimo a guardare per terra (beve se ha un bicchiere davanti, o si osserva le scarpe se sta al computer: a chiamare a raccolta la pazienza dei santi); ha allargato le braccia e detto: «Come sarebbe a dire?» Mi commuove la sua fiducia in me, che lo fa sbalordire ogni qual volta io violo il nostro patto silente, come l’avessi trafitto con un ferro. Guardandomi fisso (come i gatti quando li deludi), a ficcarmelo bene in testa, a svegliarmi dal mio torpore emotivo, ha detto: «Adesso amo te, no?» Già, che lui crede che il tempo passi, che gli eventi non siano tutti simultanei. Talvolta questa asserzione vale come premessa di qualcosa che però non viene esplicitato, ma che io so essere: «È evidente che se non ti sbatto fuori di casa o non ti lascio per strada a fare l’autostop è perché ci sono di mezzo i sentimenti»; altre volte come diga concettuale: «Dacché ti amo adesso, godo di una totale amnistia su atti del passato»; altre volte ancora, come conclusione di: «Come posso uscire da questa relazione onorevolmente senza ferirla? In realtà, benché lei non lo capisca, non posso farlo senza ferire anche me, stante l’impedimento alla mia tranquillità mentale rappresentato dal fatto di amarla», eccetera.
– Quando sta lavorando alla scrivania e io lo abbraccio arrivando dietro le sue spalle. Allora si allunga all’indietro e mi accarezza il collo con la testa e le orecchie, come i cani, e sussurra «gioia…», che vuol dire «amore…», che qui vuol dire: «Toh, non ricordavo che tu fossi qui, devo dire che la cosa non mi dispiace affatto». Queste sono le occasioni in cui mi rimane difficile non credere, anche a scassinarla con l’intelletto, alla verità espressa dalla altrimenti incomprensibile, inattendibile e popolarissima affermazione.

È l’unico uomo che non si sognerebbe mai di dirmi che sono intelligente: per lui sarebbe una grave scortesia porsi a un livello superiore, tale da poter guardare alla mia intelligenza. Ritenendomi intelligente, sa che preferisco che mi si dica che sono bella. Questo mi dà la certezza che non è in competizione con me, ma anche il sospetto che non gliene importi poi molto di tutta la mia filosofia e dei bei libri che ho letto, e che una donna di superiore bellezza che gli desse spago potrebbe benissimo sostituirmi.
Un giorno, per dirimere la questione, gli ho chiesto: «Se potessi scegliere, andresti a cena con Marilyn o con Hannah Arendt?» Attrice o filosofa? Come mi vuoi?
E lui: «Con Marilyn, naturalmente; ma le parlerei tutto il tempo di Hannah Arendt». Quale tipo di donna me lo porterà via? Implicitamente gli imputo la colpa di avere flirtato con me quel giorno, al bar di Siracusa, cadendo (io) nel paradosso che per dimostrarmi a priori la sua serietà e la sua refrattarietà a incontri del genere, avrebbe dovuto non mettersi con me. Ecco come fa, il signorotto catanese, con le femmine appena conosciute!: se le porta a casa. Credo che mi ami veramente. Ma a quanto ne so – e di verità in amore capisco ben poco – io ho bisogno non già di menzogna, bensì di un che di indeterminato, immaginativo, nascosto, insomma di non rivelato. Cioè io nel massimamente vero esigo una quota di verità non ancora scoperta, che come tale può anche essere il suo contrario. Se come essere etico io reclamo la verità, come essere desiderante devo contemplare la non-verità. Un bel casino. Quando mi chiede con una curiosità da cui non è esclusa l’esasperazione cosa mi manchi, cosa cerchi ancora, perché non mi trasferisca da lui e non mi lasci andare del tutto alle rapide della vita, io vorrei spiegargli che mi manca avere desiderato di amarlo: io l’ho amato, invece, subito: in un momento in cui amarsi non era lecito né persino immaginabile. Lui mi ha invitato a casa sua e varcandone la soglia siamo entrati simultaneamente dentro il territorio senza scampo dell’amore. Forse avrei voluto che il nostro incontro, sotto la calura della piazza gialla, contenesse una bolla di indeterminatezza: che ci sfiorassimo, ad esempio, senza piacerci, per capire poi di voler oltrepassare la membrana tra il prima e il dopo. Invece, noi siamo stati subito nel dopo, subito d’accordo, contraenti che si accontentano. «Ti amo tanto», dice Sofia Loren a Cary Grant in Orgoglio e passione, praticamente subito dopo averlo conosciuto. Mi domando: dopo quanto tempo si sa che è amore? Poiché non può essere amore, quel subitaneo attaccamento, dev’essere qualcos’altro. Cosa? C’è un legame tra amore e conoscenza: solo che per me è sempre stato un rapporto inversamente proporzionale. Io non l’amerò, in futuro, come e quanto l’ho amato al secondo sguardo, quando mi parve un ladro.

da “L’avversario” di GIOVANNI TUZET

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[ in questi versi il presente di cose minute – a volte anche banali e sgradevoli – si compenetra – si mescola – si confonde con il presente storico – il passato remoto di vite – città – evi – ere e attimi ]

di Giovanni Tuzet

Le mura
 
Queste case abitano un confine.
Posano su mura dal corpo disfatto
in pietrame e mattoni,
ora in erba immersi, ora
coperti d’asfalto. C’era una guerra
se c’era un confine; e un nemico se
c’era una cinta. O la sola
paura vinceva.
È la casa dei miei ad Aquileia
lunga e stretta come la gente
in Friuli, spunta da mura
romane presso un dissepolto
anfiteatro che fu prima
distrutto dagli unni, rastrellato
per elevare un campanile
ora è una conca coperta di vigna.
La casa a Ferrara dove ho vissuto,
compreso e scritto sta nel castro
bizantino, s’innesta in uno storto
quadrato di vie acciottolate dove
i militi d’oriente scremavano.
Nella corte alta e stretta di rossi
mattoni un papale silenzio, un profumo
di gardenia in maggio e un treno
nelle notti d’estate quando
stavo alla finestra, nudo
d’amore e malinconia.
Questa casa a Milano sovrasta
le mura spagnole. Un alto
palazzo dagli anni Sessanta, pulito,
distinto, che mi riserva una
chiusa mansarda da cui, in punta
di piedi, puoi vedere la punta
del Duomo. Mentre le mura
si stendono ai lati, di stanchi
mattoni rossicci e un traffico
le striscia ed erode incessante.
Un altro inutile confine
dove resto senza un nemico
e il mattino ascolto i cassonetti
per la raccolta differenziata del vetro
svuotati di botto. Più oltre ci
sono gli eventi, c’è la città
ci sono gli stilisti, ci sono i gay c’è tutto
ma i versi indifesi mi legano qui
felicemente
a cantare e ridere solo
come un raro felino
che sulle mura ci piscia
e gode e a volte lacrima.


Souvenir
 
Ricordi che ci misero una pannocchia
bruciata a Parigi davanti all’uscio
per i nostri urli innamorati?
 
Ora scommetto che non lo fate,
tu e il tuo fringuello,
e fate i bravi
e i vicini vi salutano.


I sogni
 
Cosa sognano i feti?
Non hanno mica evidenze empiriche
di com’è fatto il mondo:
certamente non sanno se il fiume
resti verde, la trota scivoli nel lago
una rampa costruiscano le ruspe
e la Foresta nera
al cadere della luce, si popoli
di streghe. I loro sensi tabula rasa –
eccetto il fluire del cibo
e le filtrate percezioni.
I feti sbadigliano addirittura
e ti chiedi che motivo ne abbiano;
al che felpata la scienza risponde
immaginando: che serva a impaurire gli animali
come il cane
che si blocca se la bocca nella culla
si spalanca.
O forse i loro sogni speculari
a testa in giù, fanno la strega
popolata di foreste,
le ruspe costruite da una rampa
e il lago scivolato sulla trota –
senza che il fiume contenga un colore.
Dormi, bambino, che c’è tempo
per apprendere l’ordine. Aspetta
e sbadiglia se t’annoi, che c’è tempo
d’arrivare alle maniglie. Dormi
e sogna ciò che vuoi.



Affreschi

1.
Nelle lunette s’accucciano rapaci
(falchi e gufi) che catturano le prede
e appena al di sotto
le scritte latine
maestose, dai saloni alle cappelle.

2.
Rivedo il vecchio appoggiato al sasso
che accoppa le formiche
seguendole seduto
le calpesta in punta.

3.
Ebbe piacere e stupore per la gru
che si libra ad altezze vertiginose.
Stupore che una cosa così grande,
dotata di lance-zampe
che in un soffio fugge fra i nuvoli,
fosse abbattuta da una punta.
Piacere per la bellezza della caduta:
cadeva volteggiando, la gru, in una danza,
scoprendo ora il ventre, ora le ali chiuse.



Autunno

Cammina un’ape sull’ocra pavimento
indotta forse dallo scirocco ubriaco
a penetrare un altro mondo
verso il nocciola della lisca a piastrelle
intorpidita.
Sarò veloce, efficace più di te
ape tardiva
perché natura me lo impone
specie in giornate remissive come questa
se la specie dorme su deboli polpacci
e chiede il suo gene di essere difeso
e se anche non fosse non avrei esitazione
ad usare una ciabatta legnosa
contro la tua insistenza di reduce,
ape tardiva che ti ostini, come un relitto
incapace d’affondare fino al giorno dei giorni
quando il miracolo si scarta e le foglie
da gialle tornano tenere e verdi
e anche il tuo tornio rinasce.


Bebelplatz
 
Cercavo tre cose distinte: dei libri
che parlassero di te in una lingua spenta;
una chiesa dove al buio
posare e sentire la luce;
dei bunker o falangi di muro
per avere alle nari la polvere
dell’ostinato.
Invece, benché in progress
ho trovato una limpida piazza
e da una gru, canarina, suoni
da fermarsi e guardare in cima
vedendo un numero biblico
d’uccelli di varia specie e dimensione
accorgendomi allora che il cielo non è altro
che il loro concerto:
verso il tramonto corrono al metallo dei rami
e in file perfette preparano il dormire
senza una pausa di note finché dura la luce
e piccoli gruppi vengono e vanno da altre
altezze ma tutti attirati, come avessero
una fibra di ferro, dal cuore di magnete
s’infilano nel gotico degli ingranaggi
come un nido da sempre esistito
a un’altezza proverbiale, celeste,
celata ai sordi e che vale
tutti i dorsi, le cupole e i muri
che il mondo trattiene precario.


da L’avversario di Giovanni Tuzet
con uno scritto di Raffaello Palumbo Mosca
collana di poesia Nereidi
pagg.88 – euro 10
ISBN: 978-88-97374-57-2
(anno di pubblicazione: 2021)
Vydia Editore

Nato a Ferrara nel 1972, Giovanni Tuzet vive fra Aquileia (Udine) e Milano. Si è misurato con diversi generi e discipline, fra cui il contrabbasso jazz, credendo in una circolarità virtuosa.
Come poeta, oltre a testi sparsi, ha pubblicato: 365-primo (Liberty House 1999), 365-secondo (Liberty House 2000), 365-terzo (Raffaelli 2010), Logiche e mancine (Giuliano Ladolfi Editore 2017) e L’avversario (Vydia 2021).
In un friulano improbabile e ibridato ha scritto le Male lingue (Circolo culturale Menocchio 2009), mentre le Trazioni (Christophe Chomant Éditeur 2010) sono testi francesi di fine Ottocento e inizio Novecento (Apollinaire, Cendrars, ecc.) trasformati e collocati nel nostro tempo e spazio.
Come narratore ha pubblicato La città ideale (Marietti 2017), dove idee di vario ordine – filosofico, politico, giuridico – si innestano su tracce di viaggio, spunti di cronaca e brevi racconti.
Non sa cosa scriverà prossimamente ma, oltre a una sintesi poetica, vorrebbe compilare una raccolta di “Pensieri” à la Pascal o Leopardi. Sul mondo, sulla vita.