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Coup de théâtre: Antonio Piccolo

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Quaderni di Teatro In Fabula

Lettura de Il Sogno di Morfeo,
di Antonio Piccolo e del suo ensemble

di Giuseppe Cerrone 

 

 

Ad Elena Vetrini, che una notte,

ancora in piedi, mi parlò del sogno.

I pensieri ora raccolti sono l’effetto delle discussioni avute con Antonio Piccolo, autore del Sogno di Morfeo, attraverso gli anni. Cominciò a Napoli, a via Fico al Purgatorio, quando l’opera era in gestazione, e continuò in ogni dove il confronto, persino nelle minuscole camere d’albergo dei piccoli borghi dell’Italia appenninica, lì, la sera, si procastinava il riposo parlando di incubi. Di fondamentale importanza restano il materiale video e le prove dal vivo che hanno permesso una felice fruizione del testo.      

 I

È ben nota la difficile personalità del padre del Surrealismo, André Breton. Le tensioni, le offese, le polemiche, nate da diversità di vedute, sostanzialmente politiche, con Daumal, Artaud, Bataille, accusati ingenerosamente dall’ingombrante leader, di “professionismo”, ossia di coltivare meschini interessi privati. Daumal ed Artaud lasceranno il movimento e non vi faranno ritorno, Bataille, invece, dopo la pubblicazione della rivista “Documents”, della quale sarà strenuo promotore, avrà modo di ritrovare il maestro, mettendo via vecchi dissapori (sarà una conciliazione ahimè debole, di breve durata; nuovi rancori emergeranno con forza per sospette simpatie fasciste, peraltro infondate, di Bataille).

È indubbio che il carattere di Breton, consumati i fatti di Spagna, la guerra civile, la reazione franchista, foraggiata dai tiranni dell’Asse, unico vero nemico, vada addolcendosi. Di questa placata effervescenza, si gioverà Jodorowsky, quando, nei primi anni cinquanta del secolo scorso, a Parigi, lasciata la patria con un avventuroso viaggio in mare, farà la sua conoscenza (una banale conversazione notturna al telefono, Breton parlava un fluente spagnolo, seguita, sette anni più tardi, da un tête-à-tête al caffè La Promenade de Venus). Tale frequentazione ebbe diversi esiti, non tutti memorabili. Tuttavia fu Breton ad indicare a Jodorowsky un curioso volumetto: “I sogni e il modo di dirigerli” di Hervey de Saint Denis, pubblicato nel 1867. Questo saggio misconosciuto segna l’inizio degli studi jodorowskiani sul sogno lucido. Studi per i quali il maestro non ha badato a spese, spostandosi da un luogo all’altro del mondo, visitando antiche reliquie, promuovendo seminari, tuffandosi in ogni sorta di pratica devozionale che avesse legami con l’attività onirica, senza tralasciare, naturalmente, il ricordo scritto dei sogni, personali e di amici. Per Jodorowsky andare nel sogno vuol dire crescere, evolvere. Si tratta di un viaggio disseminato di insidie e pericoli con diversi cartelli lungo il percorso a scandire tappe e traguardi intermedi di un processo in realtà senza fine, se la rivoluzione interiore di un solo uomo è già l’esordio di un cambiamento oggettivo che abbraccia l’umanità in generale.

Jean Cocteau (1889-1963)
Le songe du Toréador

La conquista del mondo onirico è vista dal pedagogo e formatore cileno come un’ascensione fatta di innumerevoli gradini. Si va dal più basso, esplorato da principianti e dilettanti curiosi, “ipnonauti” alle prime schermaglie, impegnati nel dominio dei propri incubi, al più alto, qui soltanto le nobili intenzioni dimorano, e consistono nella dimensione strettamente condivisa dei sogni terapeutici. Guaritore e malato si trovano sullo stesso piano, non vi è sudditanza. Solo magica empatia. Ciascuno  ha  accesso al materiale onirico dell’altro, in modo che, nel coricarsi insieme, l’atto dell’imposizione delle mani, sulla parte del corpo debilitata, operi transitivamente nel sonno della persona sofferente. Prima si discute, si mangia pure. Comprensibile quando medico e paziente debbono confessarsi cose tanto gravi, intime.

Comunque tra la base, accessibile a molti come una valle rigogliosa, e la vetta, che richiede uno sforzo cosciente e nessuna vanità oltre che l’espulsione di qualunque istinto gregale, solitamente nocivo, vi sono gli scalini intermedi. Eccone alcuni: 1) lasciare il pianeta, salire verso il cosmo, avvicinare il Mistero. Il sogno non è soltanto mio, fa parte della memoria universale. Giunge da lontano, da quell’Assoluto che ci ama. 2) Incontrare i morti. Nella dimensione dei sogni l’amore ritrova sempre i suoi cari, ancorché defunti. 3) Affrontare gli archetipi divini e i miti. Buddha, Cristo, Confucio, Maitreia sono apparsi a Jodorowsky. 4) Trattare la realtà come un sogno. Analizzare gli accadimenti, in particolare quelli che fanno male, come se fossero simboli dell’inconscio. Quest’ultimo punto è decisivo se si vogliono indovinare scopo ed obiettivi de “Il Sogno di Morfeo” di Antonio Piccolo. Esso è infatti la storia di un trauma che non si compone se non con il ricorso alla forma pura dell’amore, capace di leggere, tra le pieghe dell’essere, le funzioni oscure dell’esistenza, e di farvi fronte. Con Alice, eroina della pièce, cade l’Occidente. Morfeo aspira al risveglio di entrambi. Quando si è in terra, è con le mani che diamo la spinta verso la risalita. Lo sappiamo bene. E lo sa anche l’Eremo dei Sogni.

II

Il buio giunge. Il lume viene spento. I letti sono occupati. Si dorme ma non all’Eremo dei Sogni. Qui Morfeo si frega le mani, non sta nella pelle, frigge d’entusiasmo per l’eccitante mansione: aiutare gli uomini mentre sognano. Rafforzare le visioni, ricordare loro il soffio, l’innata componente caratteriale, le aspirazioni primitive, i desideri inconfessati, l’immaginario nutrito negli anni. Molti non sono versati nel sogno. Hanno bisogno di stimoli. Davvero pochi sono quelli che sanno qualcosa del proprio onirico. Niente paura. Dal disco volante, su all’Eremo dei Sogni, Morfeo, coadiuvato dalla sorellina Notturno e assistito da Artemidoro di Daldi, interviene ogni notte nel subconscio, provocando milioni di allucinazioni. Sembra un primario d’ospedale alle prese con un paziente sotto anestesia nel corso di un delicato intervento. Si opera attorno al dormiente con estrema attenzione, avendo cura di non scuoterlo troppo. Si lavora alla sua salvezza. Purtroppo tanti hanno un immaginario povero e vite deprimenti, ad una dimensione, ed una soltanto. Questo non aiuta.

Le persone avvertono appena l’incessante creazione di immagini che Morfeo, Notturno, Artemidoro generano nei cervelli, poi, appesantite da problemi e responsabilità, si svegliano di soprassalto, madide di sudore. Eppure il “ponte di transizione”, allestito con dovizia da Notturno, dovrebbe favorire i desideri e assecondarli. Nulla da fare. La dialettica è negativa. Il soffio perde con il senno. La realtà ha risvolti orribili che impediscono il decollo. Morfeo ne è dispiaciuto. Vorrebbe abdicare. Rinunciare al dicastero. Dimettersi. La dimensione allegorica è rafforzata da un impianto scenico sapiente. Un cerchio azzurro contiene gli attanti ed “il materiale strumentale”, uno più piccolo, rosso, inscritto al suo interno, accoglie le pallide figure dei dormienti in ambasce. Tutto si svolge nei due cerchi. I cambi di luogo essenziali allo sviluppo, l’incedere del dramma. Colori dominanti sono il bianco, il rosso e l’azzurro, le cui tonalità s’impongono ossessivamente, presenze costanti che recuperano, fellinianamente, un décor da circo. Il circo sognante è solcato da barche bianche come cigni, in una luce opalina mossa da onde azzurrine. Di fatto le barche si muovono su agili rotelline per attraversare il tempo e lo spazio e raggiungere così la psiche dolente dei contemporanei. Si viaggia tra le dimensioni e le stelle. Luci e musica convergono complici nel favorire gli arditi passaggi.

Dall’Eremo alla stanza di Alice, dalla clinica all’antica città di Bubastis, dal deserto soffocante d’Egitto al cupo silenzio del lago d’Averno. “Il ponte di transizione” unisce le dimensioni e abbatte le distanze. Piega lo spazio-tempo come un foglio di carta sul quale due punti, prima uniti da una retta, si trovano dopo coincidenti. Nulla pare difficile all’equipaggio guidato da Morfeo. La nave va. È la legge del teatro, la sua allegoria, si diceva. Se il soffio agonizza, i sogni non possono guarire, e Morfeo non può dispensare salute o salvezza. Noi sappiamo che l’Assoluto Inviolabile contiene tutti i mondi, e che ogni mondo contiene un dicastero, con la specifica aria di competenza, il suo particolare raggio d’azione. Sappiamo che la nostra galassia lattiginosa comprende molti soli e sistemi, i quali, a loro volta, influenzano la vita dei pianeti che vi orbitano attorno. La Terra, comune madre, non sfugge a questo insieme inclusivo. Dipende dal Sole che è governato dalle leggi della Via Lattea, la quale soggiace ai voleri del Cosmo, creato dal Sommo Impersonale.

Questi, assiso nella “Torre di Controllo”, ha affidato a Morfeo, signore dell’Eremo dei Sogni, la salvaguardia e la cura della attività onirica, raccomandando prudenza e discrezione, perfino tenerezza, qualità indispensabili se si vuole vigilare sulle fantasie notturne senza tracimare nella violenza psichica o peggio interferire con gli uffici di ministeri ricoperti da altre divinità solerti. Per anni, addirittura secoli, incitato da Notturno e dall’inappuntabile Artemidoro, zelante quanto mansueto nel gravoso compito di assistente, Morfeo trova soddisfazione in quello che fa. Amministra con sapienza il desiderio che affiora dal subconscio, indirizza l’attività onirica in una zona di lucida consapevolezza che al risveglio i dormienti non dimenticano, anzi portano con sé nell’agone del giorno, sbuffante di officine, industrie, mercati, borse, imprese, redazioni. Insomma, Morfeo, per infiniti kalpa, una distanza temporale difficilmente quantificabile, assapora una gioia illimitata. Gli uomini sognano senza costrizioni, hanno un immaginario che la Natura alimenta di continuo con misteriose apparizioni, inoltre vantano una notevole facoltà fantastica nutrita dai miti.

Questi prestano simboli agli audaci che vogliono vivere sul serio. Nel quadro delle meraviglie il cosmo e i viventi, animali, piante, esseri insenzienti, sono legati da leggi trascendenti in cui tutto si ripercuote su tutto, e nessuno viene calpestato o perduto. Il globo è un giardino incontaminato. Morfeo vibra con gli umani, suggerendo innesti che diventano taciti consigli, e lo fa con divertimento e fierezza, consapevole che la felicità passa dai sogni, ed è lui a dispensarla. Notturno ed Artemidoro rispondono di buon grado, niente sembra turbare lo stato delle cose. Sennonché “la scienza divorò la trascendenza”, scacciò dalla ragione i mostri e gli esseri incestuosi, fece piazza pulita delle leggende e delle superstizioni, abolì il fantastico, iscrisse la Natura alla lega positivista e razionalista, trovò un fondamento per ogni fenomeno, escluse dalla sua area di intervento il miracoloso e il bizzarro, e si chiuse in un’immensa fortezza, impermeabile allo strano, nella quale stipò tutto lo scibile e i dati esperiti. Un bel guaio per Morfeo e i suoi prodi. L’immaginario della gente si rattrappisce. I sogni perdono in forza fantastica. Non aiutano. E comincia a fare capolino la paura. Paura del datore di lavoro, paura di essere scoperti, di tradirsi, paura di deludere i propri cari o di perderli, di non riuscire a comprenderli. Paura di non farcela. Molti si domandano: “e se non realizzo?”, “se non ce la faccio?”, “quanto tempo mi occorre?”, “quanto tempo mi resta?”, “come posso rendermi utile, se sono inviso al mio capo?”, “vorrei tanto tornare indietro, a quando andavamo d’accordo, ma è impossibile”, “perché ad alcuni riesce tutto facile, mentre a me le cose giungono dopo mesi di duro lavoro, e a volte nemmeno?”.

Il quadro è desolante. Il bollettino onirologico lo testimonia. L’apatia è calata sul pianeta. Milioni di uomini caduti nella rete della disperazione. Si sogna nel sonno procurato dagli affanni, però non si vola. Pure Sua Santità delude, dopo una cena accompagnata da molta birra. La massima autorità della chiesa è l’unica celebrità di cui si mostra l’aspirazione notturna e il contenuto del sogno. Qui è evidente il ricorso al gioco verbale e alla metonimia. L’effetto è di notevole irriverenza e ricorda passaggi non meno forti di alcune lezioni di Jacques Lacan (il potere, incapace di librarsi in alto, si sente inadeguato nell’esercizio del sogno, non crede alla dirompente energia dell’occulto). Morfeo è affranto, vorrebbe chiudere baracca e passare oltre, concedersi una lussuosa pensione anticipata. Tuttavia un motivo per sperare c’è. È rappresentato da Alice, giovane studentessa di medicina, che naviga così bene nel sogno da trasformarlo a piacimento in un film intrigante ed arguto. È lei a stabilire come popolarlo, cosa girare, se introdurre o meno nuovi personaggi. Alice è un’oniroesperta. Sa di sognare e domina il sogno. Non teme l’inconscio, anzi lo percepisce come una forza benevola che opera per l’umanità, favorendo la sua evoluzione. Morfeo si appassiona al caso. E con lui, Notturno e Artemidoro, di rimando. Le visioni della fanciulla sono un balsamo inatteso. I tre sono d’accordo sul fatto che Alice possa contagiare la società, costruendo un nuovo immaginario che non rifiuti le creazioni dell’inconscio ma le accolga con fiducia, anche quando destano inquietudine. I sogni ci parlano. Sono messaggi per noi. Vanno vissuti con estrema lucidità come se fossimo svegli, senza paura. Bisogna accogliere il mistero, decifrarlo.

I sogni sono un’opportunità per sanare vecchie ferite, per fare finalmente i conti con il passato, sono un ponte di collegamento tra noi e i morti. Se non scappiamo, cresciamo. E nell’evolverci mediante i sogni, diviene naturale parlarne, scambiare informazioni, scriverne. Ciò alla lunga crea una cultura del sogno che ha riflessi positivi sulle vite diurne. Provate ad immaginare un centro di energia permanente, derivante dai sogni lucidi di milioni di persone. Una banca mondiale del sogno. Un archivio immenso del racconto onirico consultabile da chiunque, da qualunque cittadino, in qualsiasi frangente. Come si comporterebbero al mattino appena svegli? Cosa farebbero di preciso? Credo che comincerebbero a vedere la realtà e gli ostacoli che la segnano come un grande affresco drammatico. I problemi non mancano, le tempeste infuriano, certo. Tuttavia posso esercitare una spinta su questi problemi, queste tempeste. Posso risolverli, come avviene nei sogni, quando li vivo lucidamente. Jodorowsky suggerisce di intervenire nella realtà con lo stesso piglio con cui si affronta, da lucidi, un sogno che ci inquieta. Il regista di Tocopilla, nonché scrittore, drammaturgo, attore, conosceva una persona tormentata da giovani affittuari. Da mesi vivevano negli appartamenti senza pagare. Il maestro sospettava che il difficile rapporto con persone più giovani fosse una costante della vita dell’allievo. Appurò che era così.

L’origine del problema, Jodorowsky la rintracciò nel legame complicato che l’amico aveva intrattenuto col fratello minore. Quando venne al mondo, il maggiore avvertì un senso di sconfitta, percepiva l’abbandono, privato di quelle attenzioni che ora erano tutte per il piccolo. Il consiglio dell’artista fu l’azione fondamentale della riconciliazione. “Va da tuo fratello, invitalo a pranzo, festeggia la vostra unione”. L’atto essenziale, di psicomagia, di sublime alleanza, di sottile riconoscimento, in cui la vita guarda la vita, si scruta allo specchio, avrebbe sciolto ogni cosa. L’effetto, benefico, non tarda a manifestarsi. Gli affittuari molesti se ne vanno, l’uomo torna in possesso della casa e della salute. Morfeo, invero, non può lasciare l’Eremo dei Sogni, la “Carta dei Valori” lo vieta, però influenza lo stesso le nostre vite, suggerisce, in base al materiale strumentale ed anamnestico, complici Notturno ed Artemidoro, consultati con sagacia, gli ambienti adatti al cimento con ciò che ci fa paura. Il senso è chiaro: ciò che ci spaventa è l’alleato migliore sulla strada della consapevolezza. Alice lo sa, l’innato sentire fa sperare. In effetti Alice ha un immaginario ardente che pochi possono uguagliare. Un immaginario che si trasmette agli altri, a patto di usarlo nella realtà, nella incessante esistenza quotidiana. Purtroppo Alice è in coma, ricoverata in ospedale da sei giorni, diciotto ore, cinquantatre minuti. Quasi sette giorni senza svegliarsi, immobile in rianimazione, sette giorni  senza cose, in cui non si incide sul reale, non si opera nel mondo, quel mondo che Morfeo e Jodorowsky vorrebbero diverso, meno preoccupato, più fiducioso, meno contenuto, più aperto, esplosivo, desiderante. Alice rischia di morire. Il primario lo dice ai familiari affranti.

L’Assoluto dalla “Torre di Controllo” comunica a Morfeo, Notturno ed Artemidoro i motivi dell’infortunio, le cause di quella penosa degenza che potrebbe risolversi in un mesto funerale abitato da cavalli neri. Una banale caduta dall’albero, nel tentativo di scavalcare il balcone di casa, in una notte rilassata ed etilica, fugata da bugie e incipienti dolori. Come nella migliore tradizione dei romanzi d’appendice, come, del resto, in alcuni fumetti di/alla Jodorowsky, Morfeo, Notturno ed Eaco, giudice del Regno delle Ombre, chiamato in soccorso nella distretta, provano una sortita nell’inconscio di Alice. Artemidoro, rimasto all’Eremo dei Sogni per non insospettire i Superiori, che mal gradirebbero un Eremo abbandonato e scoperto, in balia dei selvaggi vandali delle galassie, sa bene che Alice necessita di distacco per capire se vuole vivere o meno. Di distanza. In breve deve guardare ai sogni prodotti in clinica da comatosa sposando l’atteggiamento critico. Vuole svegliarsi o preferisce l’inorganico? Freud, nel fondamentale “Al di là del principio del piacere”, illustra questa pulsione negativa che si manifesta come istinto di morte. Eaco la ricorda ad Artemidoro, quasi a ribadire che l’uomo, a volte, è libido che si annienta, autodistrugge. Guardo la realtà lasciando parlare i fatti, facendoli emergere come sono. Se vedo le cose nella loro luce naturale, allora affiorano prive di alterazioni. Alice lo fa con un sogno ricorrente. Lo scompone pezzo per pezzo, aiutata da Notturno, Morfeo ed Eaco. Fino alla ricostruzione capillare degli ultimi istanti di vita cognitiva quando, distratta e brilla, cade al suolo. Il sogno è l’alba di una nuova critica, di una super-realtà in cui si è chiamati a rispondere.

Cosa scegliere? La cabina telefonica, il messaggio al padre preoccupato, la vita o l’albero, la caduta, la morte? Lo spettacolo rompe la quarta parete, infrange la “Carta dei Valori” eppure non scioglie il dilemma. Termina su note sospese. In fondo il coma di Alice è la nostra apatia, il nostro stentato, stagnante sopravvivere. Se Alice non si pronuncia, ingoiata dal buio della regia, è perché a dover decidere siamo noi, o meglio ogni singolo spettatore dell’eccellente dramma di Antonio Piccolo, recitato da attori straordinari, illuminato da musiche pertinenti, esotiche, genialmente fantastiche, a tratti addirittura epiche (che diventano intime, sinuose, dolcissime, meno capricciose, meno convulse quando tocca ad Alice parlare, sognare in diretta per noi). Allora, cosa faremo? Ci sveglieremo come i Vangeli, Gurdjieff e Breton si auguravano, augurandolo ai loro sodali, vivendo con sapienza i sogni per vivere con uguale scaltrezza la realtà, o scivoleremo nel gorgo delle afflizioni verso la stasi e la distruzione? È ai giovani che Antonio si rivolge. Mettete sapienza, già adesso. Dopo, nella maturità un pò stanca e disillusa, potrebbe essere troppo tardi. Non è mai inopportuno, credo, ricordare influenze, correnti e movimenti. Chiudo l’umile nota con un giro di Storia. Naturalmente Jodorowsky venne folgorato dai metodi e dall’insegnamento di Gurdjieff. L’artista sudamericano di origini ebreo-ucraine, così sensibile ai segni, dovette probabilmente definire il 1923 come Anno Mirabile per la Francia ed il mondo.

En 1969 Jodorowsky, Topor y Arrabal con tres amigos

Nel 1923, infatti, abbiamo gli esperimenti ipnotici e medianici che precedono di diversi mesi l’uscita del primo manifesto del Surrealismo, unitamente alle dimostrazioni ad Avon, vicino Parigi, dell’Istituto per lo Sviluppo armonioso dell’Uomo, diretto da Gurdjieff (nell’ottobre di quell’anno danze sacre e movimenti del coreografo armeno stupirono il pubblico degli Champs-Élysées). Insomma, sei anni prima della nascita di Jodorowsky, occorsa in Cile nel 1929, Breton e Gurdjieff sconvolgevano, ognuno a suo modo, le intelligenze e destabilizzavano le coscienze. Preparavano il terreno per altre incursioni, nuove analisi, audaci interpretazioni. Passa un quarto di secolo, ed ecco alcuni grandi ingegni scorrere e zampillare felici da quella “doppia fonte”. Sono Arrabal, Topor, Cortàzar, Jodorowsky appunto, Brook. Spargono benefici enormi per i simili. Con notevoli ricadute sul senno. Una è senz’altro “Il Sogno di Morfeo” di Antonio Piccolo.

In cammino tra antagonismo e arte. *

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di Nadia Agustoni

                                                             a Oksana Shachko in memoria

Nella fotografia di un murales di Shamsia Hassani, artista afghana poco più che trentenne, si vede una giovane ragazza, la stessa Hassani, ripresa in sovrapposizione alla sua opera, in un interno dal pavimento squarciato da cui guarda in basso la città, in bilico su una striscia di piastrelle che le impedisce di cadere e circondata da pipistrelli che le volano intorno. La città è Kabul e sul suo volto c’è interesse, curiosità, mai paura. Nata nel 1988 e cresciuta quindi sotto il regime dei primi talebani, Hassani ha raccontato cos’è per lei la libertà, il bisogno di musica, visione e comunicazione. I suoi murales e graffiti hanno ispirato altre/i afghane/i e molte delle sue opere sono visibili in Europa e in America, una anche a Firenze.

Il giorno dopo la presa di Kabul da parte dei nuovi talebani una foto riprende una ragazza, che scrive o disegna sui muri la sua protesta. Seguendo la traccia di questa fotografia sono arrivata a questa artista che mi ha colpito anche perché ha rotto con la tradizione che non permette ai mussulmani di dipingere la figura umana.

Le donne dei suoi murales sono figure idealizzate, con capelli fluttuanti, a volte coperte da un pezzo di burqua e un cuore dipinto sul vestito con una crepa a metà, per ricordarci cos’è realmente vivere un’esistenza fortemente condizionata. Altre volte sulla testa hanno rotoli di pellicola cinematografica e nelle mani strumenti musicali, perché la musica, amatissima dagli afghani, è l’altra grande proibizione dei regime; oppure hanno fiori in mano e sullo sfondo ci sono i barbuti o i carri armati o una strada spezzata e una donna che fa il primo passo e sembra andare verso un luogo lontano. 

L’originalità e il respiro di questi murales, dei graffiti e di alcune installazioni danno l’idea di un lavoro intenso, meditato, in cui il simbolismo ha una grossa valenza, perché i simboli, per tutte le culture d’oriente, sono importanti e tutti li capiscono.

Shamsia Hassani sembra voler trasmettere un’idea di pace che è sempre idea di libertà, e il suo sguardo, dall’acutezza non comune, sembra indicare una breccia, un’uscita, magari partendo da un punto solo in apparenza limitato. Vi è una certa ariosità nelle sue visioni, anche quando indicano un pericolo, perché lasciano dietro di sé l’idea di un altro islam possibile. Un islam vicino al cuore delle donne e dei Sufi, la cui tradizione ha radici antichissime e in cui i “cercatori di verità” appartengono a ogni credo religioso e non poche volte a nessuno.

Ho pensato, guardando il lavoro di Hassani, a quello che Azar Nafisi è riuscita a tramettere alle sue studentesse, con le sue lezioni di letteratura tenute in privato e di nascosto a Teheran (Iran), dove la pratica critica si univa a una libertà cui non una di loro aveva rinunciato.

L’esilio delle donne spesso comincia dentro casa, un’alienazione da se stesse che si ripercuote su ogni aspetto della vita, al cui confronto ogni altro esilio ha solo il sapore di una condizione scelta e/o temporanea. E qui, nella costrizione, l’interiorità assume un grande valore, perché salvare una propria visione della vita, porta con sé una diversità vera. Una diversità che è unicità. Da una condizione si esce con una narrazione che dica quanto è taciuto, ma soprattutto ogni narrazione deve farsi cammino per testimoniare che c’è dell’altro oltre alle cosiddette verità imposte. 

Un’altra giovane artista ha testimoniato la sua verità e la sua vita. Oksana Shachko morta suicida nel 2018, è stata una delle fondatrici delle Femen, gruppo che aveva lasciato nel 2013, per diversità di idee, ma anche per poter dipingere. Shachko, attivista e pittrice, ha vissuto gli ideali politici libertari, soprattutto il femminismo, con una coerenza estrema.

Le Femen hanno portato i loro corpi come bandiere, ovunque ravvisassero un’ingiustizia. Hanno suscitato indignazioni, che andrebbero invece indirizzate contro dittatori, stupratori e pedofili, ma anche molto consenso. Vi sono luoghi al mondo dove nessuna voce fuori dal coro trova ascolto e l’attivismo politico inventa quindi strategie molto dirette, un confronto forte, urlato, ferito, con le autorità, com’è poi anche per Black Lives Matter negli Stati Uniti. Per quanto riguarda le Femen inoltre, bisogna riconoscere, che le loro performance fatte di nudi e slogan scritti sulla pelle, trasformano i loro corpi in graffiti viventi.

Oltre al carcere, Oksana Shachko subì due sequestri, uno a opera dei servizi segreti bielorussi, che la picchiarono, la fecero spogliare e minacciarono di darle fuoco e l’altro da agenti russi che la percossero fino a provocarle diverse lesioni. L’esilio in Francia le aprì il mondo degli squatter e degli artisti, ma pur condividendo tratti di cammino con donne che le hanno voluto bene, le ferite non si sono rimarginate.

Il 23 luglio 2018 si è uccisa impiccandosi all’armadio che aveva nella sua piccola stanza. Una stanza disadorna, dove nella sua estrema povertà e coerenza si è lasciato tutto alle spalle. L’ultimo messaggio su Instagram: “Siete tutti finti”.

I suoi quadri ispirati alle icone della religione ortodossa – da giovanissima Shachko voleva farsi monaca – hanno al centro figure femminili simili ad arcangeli, dipinte con una forte carica di empatia. In uno, l’angelo amazzone è a seno nudo, a cavallo, con un arco misteriosamente privo di frecce, come se non ci fosse un bersaglio da colpire, ma solo uno sguardo lanciato oltre qualunque mondo o forse solo verso di sé e sempre quell’aprirsi di un crepaccio, la terra squarciata su cui il cavallo rimane come sospeso, mentre tutto sembra stia per accadere.

La sua pittura, pur non innovando, ha una freschezza inconsueta. Non inganni l’uso di immagini della tradizione cui apparteneva, perché tutto quello che lei era, quello a cui credeva, confluisce nella sua visione. Anche così Oksana Shachko, pur divisa tra l’aspirazione ai diritti umani e civili per tutti e un’arte che è spesso in mano agli uomini, ha parlato di ciò voleva salvare, un’idea di libertà, creatività dignità, anche per il femminile. Non a caso sono stati pochi i tributi per lei come artista, ma significativi.

* Questo articolo è stato pubblicato con il titolo Donne tra antagonismo e arte in Emma n. 3, rivista semestrale di culture e pensieri libertari; 2022

cinéDIMANCHE #29 FRANK CAPRA L’eterna illusione [1938]

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DALL’ARCHIVIO: 13 novembre 2016

 

 
“Ognuno fa quel che vuole, vero?”
 
di Orsola Puecher

 
Il cast al completo.
Il cast al completo.

Nel ⇨ numero del 19 settembre 1938 della popolare rivista americana LIFE il film You con’t take it with you [“Non puoi portartelo con te” nel senso del capitale e delle cose materiali, titolo molto più esplicito del vago italiano “L’eterna illusione“] è recensito come MOVIE OF THE WEEK. Sulla copertina campeggia l’emergente politico cristiano di origine irlandese Jim Farley, che sarà poi, in quanto gettonatissimo candidato democratico, fra i più accaniti avversari alla terza rielezione di Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca. All’interno leggiamo che “Il gabinetto britannico si precipita a casa per giocare a poker con Hitler“: nel marzo del ’38 dopo l’Austria Hitler si era già annesso la Cecoslovacchia, venti di guerra imminente erano in avvicinamento e “Il Primo Ministro [Chamberlain ritratto al numero 10 di Downing Street al ritorno da una partita di pesca per il week end] e il suo Gabinetto detengono le chiavi della guerra o della pace in Europa.“, e soprattutto “La Germania svela di possedere il più grande cannone da campo semovibile del mondo” con annessa foto minacciosa dell’enorme obice in un tripudio di stendardi sventolanti con svastiche. Poi abbiamo campioni di tennis, una famosa modella del Greenwich Village, Ann Gutkin, la pattinatrice Sonja Henie che va al college, un reportage su viscidi batraci impegnati a sbranarsi dal titolo “Sulla superficie di un pacifico stagno un cameraman scopre drammi d’amore e guerra.” Evidentemente anche là ormai non c’è più pace.
 

I Sycamore-Vanderhof all'opera
I Sycamore-Vanderhof all’opera

 
Nell’ampio servizio a lui dedicato il film di Capra viene definito come “Il ritratto di una stramba famiglia di Manhattan in cui ognuno fa quel che gli pare“.
 
Dietro le quinte.
Dietro le quinte.
Nel capoverso “Come Frank Capra ha fatto un film di successo” si narra la favola americana del bambino di 6 anni, Francesco Rosario di Bisacquino, che emigra dalla Sicilia in California, dove ora guadagna 350.000 dollari all’anno. “Capra ama ridere“, ha “un tenero senso dell’humor, un fulmineo senso di satira sociale, una fede ardente nella natura umana.” Bellissime le foto dietro le quinte del set, dove il regista “non usa mai il megafono, ma studia la personalità degli attori, scoprendo caratteri ancora sconosciuti agli altri registi“, si rilassa suonando lo xilofono di scena, monta ed edita personalmente la pellicola, cura la colonna sonora e la sonorizzazione.
Celluloide.
Celluloide.
L’eterna illusione è uno dei film del cuore della mia infanzia, quella di bambini negli anni ’60, con un piccolo televisore di pochi pollici in bianco e nero, antenna orientabile e rotella tipo radio per la selezione dei canali, dove nel periodo di Natale venivano trasmesssi certi deliziosi film come quelli di Capra, oltre a L’eterna illusione, La vita e’ meravigliosa, Arsenico e vecchi merletti, o Piccole Donne [1949] di Mervin LeRoy, Papa’ Gambalunga [1955] di Jean Negulesco, con Fred Astaire e la giovane attrice e ballerina francese Leslie Caron, Cenerentola a Parigi [1957] con Audrey Hepburn, Il Mago di Oz [1939] di Victor Fleming con Judy Garland e lo stupendo Il favoloso Andersen [1952] con Danny Kaye. Rivedendo oggi “L’eterna illusione” si evidenziano moltissimi contenuti, non è certo soltanto il film corny, sdolcinato e ottimista, accusa fatta a Capra frequentemente, per far da tonico a un paese in depressione; ma ridendo e scherzando vi si denuncia con forza la speculazione del ricco banchiere Kirby, che vuole distruggere un intero isolato di case per impiantare un grande magazzino di vendita di armi, e con ogni mezzo cerca di costringere la famiglia Sycamore-Vanderhof, che unica si oppone al suo progetto, non volendo vendere la casa. L’amore imprevedibile fra suo figlio Tony e Alice, figlia dei Sycamore e sua segretaria, tratteggia due novelli Romeo e Giulietta vittime del capitalismo e delle differenze sociali, fino a un divertente finale in cui tutto si aggiusta, con il riconoscimento da parte della famiglia Kirby che nella vita ci sono altri valori oltre al guadagno: la vittoria della bontà sull’avarizia, l’amore che conquista tutto e l’importanza degli affetti rispetto ai possedimenti materiali. Non ultimo un certo spirito americano democratico originario e positivo che in periodo di dopo Trump non guasta rinverdire.
 

– Lincoln diceva: ” Verso nessuno con astio, verso tutti con carità.”
– Oggi si dice: “Fai come dico io o ti faccio a pezzi.”


 
Si annebbia fra anni lontani, in una casa che non c’è più, il ricordo di aver visto il film insieme a mamma e papà, le poltrone del salotto avvicinate al piccolo monitor, in una delle rare occasioni in cui lui era a casa con noi. E di allora restano soprattutto l’accigliato e melodrammatico maestro di ballo russo, interpretato da Misha Auer, che si presenta sempre, e non a caso, all’ora di mangiare per dare lezioni private alla ispirata e maldestra Essie, il suo intercalare di disapprovazione “Puzza“, che rimase per anni nel lessico famigliare, e il divertimento di mamma che, da ballerina della Scala e insegnante di danza poi, non solo aveva avuto una maestra russa, ma spesso e volentieri prendeva in giro il mondo della danza classica e le sue fisime, con un occhio benevolo per le aspiranti ballerine non molto dotate. Ma soprattuto rimane la strampalata famiglia Vanderhof-Sycamore, dove gli ospiti si fermano per nove anni e ognuno in totale libertà si dedica alle sue passioni, anche effimere e momentanee: danza, musica, francobolli, invenzione di giocattoli, dolcetti Sospiri d’Amore, pittura, scrittura, fabbricazione clandestina di fuochi d’artificio in cantina saturano la casa di suoni, rumori esplosivi, ottimismo e frenetica allegria… un imprinting indelebile. E da allora ce l’ho sempre avuta in mente come modello di convivenza ideale e ho poi cercato di realizzarla, sopravvissuta alla solitudine dei figli unici, nella mia numerosa famiglia, per molti versi simile ai Sycamore-Vanderhof nel sano apparente disordine, nello spirito, nell’eclettismo e nei valori.

– Stavo pensando alla tua famiglia. Vivere con loro dev’essere come vivere in uno dei mondi di Walt Disney. Ognuno fa quel che vuole, vero?
– Si. E’ stata un’idea del nonno. Un giorno ha preso e ha mollato il lavoro. Aveva iniziato a fare l’allevatore. E’ tornato qui e non e’ piu ripartito. Sarebbe potuto diventare ricco, ma sosteneva che non si divertiva.
– E’ fantastico.
– Poi ha iniziato a collezionare francobolli, che sono la sua passione. Viene pagato per valutare altre collezioni, sai? E’ un vero esperto.
– Meraviglioso.
– Mio padre crea fuochi d’artificio perché non e mai cresciuto, credo. E mamma… Sai perché mamma scrive opere teatrali?
– Adora la letteratura e i buoni libri.
– E’ perché otto anni fa ci hanno recapitato per sbaglio una macchina da scrivere.
– Se vi avessero recapitato una zappa, avrebbe iniziato a lavorare i campi?
– Ne sono certa. A patto che le piacesse farlo.


 
Populism or populism?
 
di Francesco Forlani

 
Jacques Tati as seen by Robert Doisneau
Jacques Tati as seen by Robert Doisneau

A lungo ho cercato in rete, nelle videoteche questo film di Frank Capra e quando finalmente sono riuscito a rivederlo, da quella volta in cui ne ero rimasto estasiato in una sala di cinema di St. Germain, ho provato le stesse emozioni, la stessa tenerezza che avevo sentito allora. In realtà c’ero andato su consiglio di Jean Claude Michéa,  amico e filosofo francese assai controverso e che in Italia  Goffredo Fofi ha salutato come uno degli intellettuali francesi più interessanti di questi anni.

Grazie a Michéa ho capito o almeno creduto di capire come la parola populismo contenesse nel proprio orizzonte tutti gli anticorpi alle derive che un uso scorretto dello stesso termine potesse generare. I film di Frank Capra soprattutto quelli precedenti alla seconda guerra mondiale, sostanzialmente vitalisti e populisti nel più autentico senso che se ne possa avere potrebbero senza alcuna difficoltà integrare una delle più felici formule trovate da Christopher Lasch:

Il populismo è la voce autentica della democrazia. Afferma che gli individui hanno diritto al rispetto fin tanto che non se ne dimostrino indegni, ma devono assumere la responsabilità di loro stessi e dei loro atti. Ha una reticenza nel fare eccezioni o a sospendere il giudizio in ragione del fatto che sia ” colpa della società”.

Dal capitoyou_cant_take_it_with_you_1938_posterlo V di La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Christopher Lasch . Estratto da me tradotto dall’edizione francese: La Révolte des élites, Climats, Castelnau-le-Lez, 1996 (p. 113 à 115)

A partire dal titolo You Can’t Take It With You, tradotto un po’ maldestramente in italiano con “L’eterna illusione” , il film che fa cominciare tra l’altro la proficua collaborazione di James Stewart con il regista italo-americano, si enuncia una forma di azione, una sottrazione alle vicende così come pare naturale che debbano andare a finire, ovvero l’acquisto di tutti i terreni necessari al terribile magnate Anthony P. Kirby per poter realizzare l’ennesimo grande “affare”.  A un capitalismo che non fa sconti a nessuno e che soprattutto stabilisce con fermezza la propria superiorità morale perché di classe (vd la scena del tribunale) potrà opporsi soltanto una visione del mondo radicalmente opposta, quella incarnata dal vecchio Martin Vanderhof  che con i suoi insegnamenti tutti incentrati su idee semplici, da common people, della felicità, del lavoro, dell’amore e  su una common decency nella pratica sociale riuscirà a demolire la machinerie generata dalla grande depressione economica.

La vita della famiglia Sycamore-Vanderhof è un vero e proprio inno alla gioia. Immancabile la musica ne governa o piuttosto sgoverna ogni movimento, gesto, trasformando tutto in passi di danza in improvvisazioni all’armonica. Eppure, nonostante la sua stravaganza questa  avrà la meglio sulla famiglia di Kirby  e  non solo  per l’amore che lega  il figlio dell’uomo d’affari destinato a diventare uomo d’affari alla nipote di Vanderhof, che altri non è che la sua segretaria; altro sarà a determinare “la caduta” di chi si credeva troppo in alto ma lasceremo allo spettatore di scoprirlo. Quello che possiamo dire è che il nonno Vanderhof rappresenta il filosofo da “bancone” ( traducendo il più ben efficace termine americano crackerbarrel Yankee philosopher) il semplice pensatore che riesce a fondare sul buon senso la propria lotta al capitalismo finanziario.

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Come ha scritto il mio amico Michéa a proposito del populismo:

“Dall’altra parte dell’ Atlantico, il populismo si proponeva di sostituire il “governo di Wall Street esercitato da Wall Street in favore di Wall Street- secondo la formula di Mary Elisabeth (1850-1933)- con il governo del popolo, attraverso il popolo,  per il popolo”.

Nulla di più lontano dai fenomeni di baraccone prodotti in questi anni dalla destra, per lo più, come Berlusconi, la Lega, le Pen e last but not at least Donald Trump.

«Del più grande dei registi americani » come lo considerava John Cassavetes esistono certamente luci ed ombre; di lui sappiamo che  nei suoi film nulla era lasciato al caso: ” « Bisogna saper fare un film ancor prima di cominciarlo », aveva dichiarato nel 1946. Non si può che pensare con malinconia al fatto che un grande regista come lui rimase per ben trent’anni in silenzio, dal suo ultimo film Rendez-vous in Space, del 1964 fino alla morte nel 1991. Erwan Higuinen in un articolo apparso nei Cahiers du cinéma n°578, nel 2003, scriverà di lui:

Connaissez-vous Frank Capra ? Bien sûr : La vie est belle, Mr Smith…, Mr Deeds…, les contes utopiques, l’optimisme irréductible… Mais pas du tout : cet homme était obsédé par le suicide, issue envisagée et évitée de justesse dans presque tous ses films, jusqu’à State of the Union (1948)

Quest’uomo era ossessionato dal suicidio, uscita di scena immaginata ed evitata per un pelo in quasi tutti i suoi film. Sarà così? Però, intanto, buona visione. E, grazie Frank.

 

Una ragazza interessata

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di Andrea Guano

 

Speriamo che stasera la Roberta ci sia, al corso. Questo e solo questo pensai mentre spingevo la porta scalcinata del club alpino italiano, dove, due volte la settimana, un vecchio ma ancora gagliardo maestro ci impartiva lezioni sulla tecnica dello sci di fondo. Non che me ne fregasse granché dello sci di fondo, ma il mio amico Giulio, vedendomi giù di corda più del solito, me lo aveva raccomandato caldamente, dicendomi che mi avrebbe aiutato a trovare un po’ di energia. Credimi, Thomas, ti gioverà, durante il giorno ti muovi troppo poco. Avevo cercato di replicare dicendo che quasi ogni giorno facevo una passeggiata, che in casa avevo due pesi di 3 chili ciascuno e che li usavo di solito un paio di volte la settimana per circa dieci minuti. Ma Giulio disse convintamente no, Thomas, non basta il movimento che fai. Dammi retta, vieni al corso di sci di fondo, ogni inverno facciamo almeno sei uscite sulle migliori piste che abbiamo, a volte ne facciamo anche otto, di gite, stiamo fuori tutto il giorno, lì vedrai cosa significa muoversi, ti ossigenerai, la sera sarai stanco e dormirai come si deve, senza dover prendere le tue maledette pastiglie, capirai cos’è il vero sonno. Dammi retta una volta tanto, Cristo! Era stato convincente, Giulio. E se anche non riuscivo mai ad arrivare a fine mese, avevo deciso di investire trenta euro al mese e mi ero iscritto al club alpino italiano, anche se mi ero detto: questo investimento sono soldi buttati, Thomas, non caverai un ragno dal buco, anzi ti deprimerai di più, con gli altri non hai mai legato molto, finirà che non parlerai con nessuno e, durante le lezioni, ti isolerai in fondo alla sala e ti distrarrai come al solito, pensando alle partite della prossima schedina, o a tre buoni numeri da giocare al lotto. Ma soprattutto al tuo Genoa, penserai, agli allenatori che, in questi anni, si sono avvicendati inesorabilmente sulla panchina, ai giocatori che si dimostreranno come al solito dei brocchi, deludendo le tue aspettative di inizio stagione, in fase di calciomercato. Invece, alla fin fine mi ero iscritto e ricordo che le prime lezioni erano state agghiaccianti. Non ero per nulla a mio agio, come non ero mai stato a mio agio in nessun posto. Tu non sei fatto per stare in mezzo alla gente, Thomas, non facevo altro che dirmi, maledicendo il fatto di essermi lasciato convincere dal mio amico Giulio. Sei troppo influenzabile, pensai, mentre ero inchiodato sulla sedia, nell’ultima fila. Le prime due o tre volte non riuscivo neppure a guardare in faccia gli iscritti che, come scopersi in seguito, erano ventisei. Ventisei lavoratori, appassionati della montagna, che provavano una grande soddisfazione nel partecipare a quel corso per migliorare la propria conoscenza dello sci di fondo e migliorare il proprio stile. Io invece non desideravo migliorarmi in niente, né tantomeno nello sci di fondo. Eppure ero lì, incomprensibilmente ero in quella sala fatiscente, piena di sedie spaiate, con una scrivania altrettanto fatiscente dietro alla quale due volte la settimana, il martedì e il giovedì, sedeva il maestro di sci, il signor Mauro Callegaris, che ci istruiva riguardo alla tecnica dello sci di fondo, e altre baggianate di cui non mi importava un accidente di niente. Le prime due lezioni ricordo che ebbi più volte – direi costantemente – la voglia irrefrenabile di andarmene. Adesso mi alzo e me ne vado e non mi farò più vedere, così pensavo e sentivo che le gambe erano pronte a scattare in modo che mi alzassi in piedi e uscissi. Ma poi qualcosa avvenne in me, e presi la decisione folle di restare, anche perché notai Gisella. Avrei dovuto notarla prima, fin dal primo giorno, ma la notai alla terza lezione. Mi colpirono gli occhi, di un azzurro intenso, e le gambe, la riservatezza che dimostrava e il modo con cui si aggiustava i capelli dietro le orecchie. Quel momento fu come una folgorazione: era davvero una ragazza carina, Gisella, non come le ragazze che abitavano nel mio scalcinato palazzo, non come Mariella o Gina, che incontro per le scale quasi ogni giorno e che faccio fatica a guardare negli occhi tanto sono brutte. Mio malgrado, senza che me ne accorgessi, sentii il mio cuore – di solito in uno stato di stasi – aumentare i battiti e provai persino una lieve eccitazione. Fu in quel momento, ripeto, che decisi di restare e frequentare il corso. E stasera, siamo ormai all’ottava lezione, percorro il breve corridoio e raggiungo la sala fatiscente in cui si tengono le lezioni, entro e provo un forte moto di disappunto a non vedere Gisella. Di solito, lei è una delle prime ad arrivare e a sedersi nella prima o seconda fila, mentre io dall’ultima fila, mi sono spostato un paio di file avanti, per guardarla meglio. Saluto i presenti – non più di otto, i coniugi Gennaro, entrambi giovani e sempre ridenti, Paolo, un bancario isolato, tranquillo, e poi Arturo, la Roberta, un’infermiera del San Martino che non so perché mi dà l’impressione di essere qui più per cercare marito che per migliorare il suo sci di fondo. Vado a sedermi nella terza fila – è la prima volta che lo faccio – e aspetto e, sebbene la cosa mi disturbi, non posso fare a meno di pensare insistentemente a Gisella. Un pensiero ossessivo, direi paragonabile a quello che mi pervade per il mio Genoa, che è la mia vera ragione di vita. Dal famoso giorno in cui la notai confesso che ogni volta che la vedevo tutti i martedì e i giovedì ero sempre piuttosto turbato e sebbene desiderassi salutarla e anche parlarle le rivolgevo delle fuggevoli occhiate e, se per caso lei si girava e i nostri sguardi si incrociavano, cercavo di imbastire un sorriso e subito mi ficcavo le mani in tasca e stornavo lo sguardo, fissandolo perlopiù sulla foto di un maestro di sci, che ormai non frequentava più il circolo, mentre percorreva un tratto di pista con bello stile. È inutile negarlo con te stesso, Thomas, mi dicevo ogni volta che vedevo Gisella, lei è una ragazza che ti piace, e anche parecchio, ma penso che contrariamente a te, stia economicamente piuttosto bene, è sempre elegante, con dei vestitini che le stanno a meraviglia, che denotano gusto e stile. Forse, per la prima volta nella tua vita vorresti conoscerla, e magari uscire con lei, ma credo che voi due siete incompatibili, per via della situazione miserrima in cui ti trovi. Cerca di non pensarci a Gisella, Thomas, così mi dicevo durante le lezioni e anche quando uscivo e ero a casa, ma spesso mi accorgevo che, anche a casa, o per strada, la sua immagine si sovrapponeva, nei miei pensieri, a quella del Genoa, squadra per la quale tifo fin da quando avevo i calzoni corti, il suo corpo e il suo sguardo prendevano il posto del volto e delle gambe di Badely, o di Destro, e questo mi disturbava, ma anche mi faceva piacere, mai ho pensato insistentemente a qualcosa o a qualcuno per più di uno o due minuti, se si eccettua appunto le questioni, sempre preoccupanti, che riguardano il mio Genoa, squadra da me amata in modo profondo. Più volte, mentre ero sull’autobus o sul lavoro, o anche mentre cenavo, pensavo all’evoluzione o involuzione che riguarda il mio Genoa, ma da quando avevo iniziato il corso, se si eccettuano le prime due lezioni durante le quali il mio cervello era terribilmente confuso, al Genoa, alla società, e a Ballardini che ci stava salvando, si intrufolava nei miei pensieri la deliziosa figura di Gisella. Di solito, i miei pensieri, le mie ansie le tengo per me, non ne parlo con nessuno, è del tutto inutile, ho sempre pensato, parlare con qualcuno dei propri problemi, se accenni a un tuo problema la gente non sta ad ascoltarti ma fugge a gambe levate, neppure mia zia Lina, che si butterebbe nel fuoco per me mi capirebbe, né mi capirebbe Giuseppe col quale parlo solo e soltanto delle problematiche del Genoa, né con Giulio, che pure, di mestiere, deve risolvere problemi dalla mattina alla sera, facendo l’ingegnere. Ma dopo la sesta o settima volta che la vedevo, Gisella, dopo che le avevo anche rivolto brevemente la parola e di nuovo, insistentemente, avevo sentito il mio cuore uscire dalla sua abulia e cominciare a battere direi insensatamente, avevo deciso di parlarne con il mio amico Giulio, non appena usciti dal club alpino. Gli spiegai tutto per filo e per segno, per quanto possano essere lucidi i miei pensieri, che in genere sono quanto mai nebulosi e confusi. Ma bravo il nostro Thomas, disse il mio amico, mettendomi una mano sulla spalla e stringendomela. Gisella la conosco, è una brava ragazza, si è sposata ma si è subito separata. Con ragione, direi. Sì, Gisella potrebbe essere la ragazza che fa per te. Frequentala e parlale, chissà che la cosa non vada in porto. Tanto ottimismo da parte del mio amico mi parve eccessivo, e glielo dissi anche, a chiare lettere. Ma no, ma no, disse lui, piuttosto sei tu che sei troppo pessimista, Thomas. Sarebbe l’ora che ti dessi una svegliata e ti facessi una ragazza, mica puoi sempre star solo come un cane. Un cane, già. Senza volerlo, Giulio aveva colto nel segno. Così mi sento spesso io: un cane malconcio, spelacchiato, con le ossa rotte e la testa bassa, che vagabonda per le strade senza scopo e senza meta. Può un cane avere una ragazza? Certo che sì: come padroncina. Ma io odiavo i padroni, e non mi sentivo cane fino in fondo. Ma Giulio aveva un tono incoraggiante, persuasivo. E io pensai che le cose, una volta tanto, potessero andare diversamente. Credi? Riuscii soltanto a dire, Ma certo, Thomas, sforzati, esci dal tuo guscio, tenta. Vedrai che ti andrà bene. Quella sera tornai a casa non dico di buonumore, ma con il morale leggermente più sollevato. Ciononostante, ogni volta che entravo nella sede fatiscente del club alpino italiano non riuscivo ad avvicinarmi a Gisella. Mi sentivo strattonato da due forze opposte. A volte mi alzavo dalla mia sedia sgangherata e muovevo un passo verso Gisella, e subito mi alzavo o andavo nella direzione opposta. Ogni sera uscivo dalla sede del CAI con la fronte e le mani sudate per la tensione accumulata durante la serata. Ero contratto, nervoso come e, quel che è peggio, più di quando steccava il mio Genoa. Tornando a casa mi ripetevo il solito mantra: toglietela dalla testa finché sei in tempo, Thomas, scardinala dai tuoi neuroni, cancellala dalla tua memoria, fai una brace dei ricordi di lei finché sei in tempo e non ti faccia più male di quanto te ne abbia già fatto. Ma il giorno dopo, oltre la domenica, che era il giorno più bello, quello che aspettavo con maggior ansia, perché giocava la squadra del mio cuore, aspettavo con ansia il martedì, senza poi riuscire a cavare un ragno da un buco. Poi arrivò la prima gita sulla neve, gita alla quale non volevo assolutamente partecipare. È del tutto inutile che vada, mi dissi, se anche vado non riuscirò a scambiare una sillaba con Gisella. Lei è un’ottima sciatrice di fondo, mi dissi, mentre io sono un pessimo, per non dire orrido, sciatore di fondo. Perché diavolo devo andare, non facevo che dirmi ossessivamente, ma l’insistenza del mio amico Giulio e il desiderio di poter conoscere meglio Gisella, o addirittura sedermi accanto a lei, mi indussero a tentare l’avventura. È giusto che una volta tanto io dia retta al mio amico Giulio, mi dissi, non ho voglia ma andrò, pur non essendo lo sci congeniale alle mie capacità. Trovai un paio di pantaloni elastici e una giacca a vento che misi su un maglione pesante e mi recai all’appuntamento, che era fissato alle cinque del mattino in piazza della Vittoria.  Non mi piacciono le gite, tantomeno quelle in montagna, ma quella mattina ero lì, a ficcare nel bagagliaio centrale gli sci che mi aveva gentilmente prestato Giulio: salii sul pullman ma non ebbi il coraggio di sedermi accanto a Gisella, anche perché il posto era occupato da un tipo tozzo, con la barba, all’incirca della mia età. Mi sedetti accanto a Giulio, non smettendola un istante di adocchiare Gisella. La vidi ridere e scherzare col tipo tozzo e barbuto, e questo mi procurò un sentimento di gelosia del tutto ingiustificata. Avrei dovuto non venire, mi dissi, è stato uno sbaglio imperdonabile farmi convincere da Giulio. Noi due siamo diversi, abbiamo diverse mentalità, la mia non è certo migliore, anzi, ma il nostro modo di vedere la vita è diverso, inconciliabile, lui si è sposato e io no, lui ha un vero lavoro, pagato profumatamente, e io non ho né un lavoro né il becco di un quattrino, e quei pochi che attraversano le mie tasche subito me li gioco, lui è un eccellente sciatore come Gisella, io non ho mai sciato. Peccato che oggi non giocasse il Genoa, altrimenti non avrei avuto alcuna esitazione. Solo la prospettiva di una giornata estremamente vuota mi spinse ad accettare questa gita, che sarebbe stata densa di conseguenze, in quanto Gisella avrebbe finito per entrarmi nella testa ancora più di quanto ci fosse già entrata. Lungo l’intero tragitto non feci altro che ripetermi queste parole, aggiungendo ad esse insulti, improperi rivolti a me, alla mia dabbenaggine, e a Giulio o a Gisella, che cominciavo a odiare. Quando arrivammo a Entracque, così pensai mentre guardavo l’entrata della sala nella quale si tenevano le lezioni, vedendo entrare altri membri del club ma non lei. Dove diavolo sarà Gisella, mi chiedevo guardando solo e soltanto l’entrata, provando un dolore fisico. A Entracque l’esperienza è stata un autentico disastro, così pensai. Gisella sparì subito e la persi di vista, ed io rimasi col mio amico Giulio, ma non nel senso che Giulio rimase accanto a me, no, sbaglio, non dico la verità, per circa un quarto d’ora Giulio rimase accanto a me, mi aiutò a infilare gli sci, mi dette alcune raccomandazioni per eseguire correttamente lo skating, poi mi lasciò e lo vidi sciare come un dannato, mentre io rimasi da solo, su una pista del tutto sconosciuta, a cercare maldestramente di eseguire un passo alternato, cosa che non riuscii a fare, anche perché non riuscivo a concentrarmi sugli sci: pensavo sempre a Gisella e al tipo tozzo con la barba con il quale l’avevo vista sparire. Facevo un passo, due passi, muovevo forsennatamente le braccia che non ho mai avuto molto forti, anzi, a pensarci sono sempre stato parecchio debole, specie dopo che avevo lasciato il mio sport prediletto, ossia il nuoto. Spingevo e spingevo, col solo risultato di rendermi ridicolo. Sarebbe meglio, molto meglio che te ne fossi rimasto a casa, Thomas, mi dissi, così ricordo pensai, oggi non ci sono le partite, d’accordo, ma un altro modo per passare la giornata l’avresti trovato, magari saresti andato a farti due passi alla Foce, benché la Foce, la domenica, sia piena di gente, affollata fino all’inverosimile, e io non amo la folla, ma meglio la folla che questa gita a Entracque, meglio la folla, il brusio, meglio mille persone che camminano con l’aria beatamente idiota che questo posto, questa neve che odio, ricordo pensai mentre tenevo gli occhi fissi alla porta d’entrata. Tutt’a un tratto ebbi un sussulto: eccola, Gisella. Finalmente. Mi agitai sulla sedia, ma ebbi un momento di pura felicità. Il signor Calligaris aspettava giusto Gisella prima di cominciare la lezione. Lei si sedette in prima fila. Mi sembrò più carina del solito. Ci siamo? Chiese il maestro Calligaris. Molti risposero di sì. E lui cominciò la lezione che, sebbene mi sforzassi, non riuscivo a seguire. Pensavo di nuova a quella gita a Entracque, solo venti giorni fa, all’amarezza che avevo addosso quando, verso sera, salimmo sul pullman per tornarcene a casa. Non sopportavo l’allegria di Gisella, il suo continuo ridere nonostante la fatica. Non mi lanciò nemmeno una fuggevole occhiata. Si sedette e continuò a parlare col tipo tozzo, barbuto, il quale aveva stampata in faccia un’aria assolutamente estasiata. Mi lasciai cadere sul mio posto, e non badai nemmeno alle parole di Giulio che mi chiedeva come era andata. Avevo il cervello come una lavagna bianca, e divenne nera quando seppi che il Genoa aveva perduto malamente con la Lazio, cosa che mi depresse oltre ogni limite. Cosa speravi, Thomas, mi dissi, sii sincero con te stesso, ti aspettavi forse una giornata diversa? Se era questo che ti aspettavi ti sei sbagliato di grosso. Era del tutto naturale che la giornata andasse così. Dovevi fare una passeggiata alla Foce, nella bella e spaziosa corso Italia, anziché essere qui, a cercare di esercitarti in uno sport a te contrario. Non hai mai amato lo sci, che consideri come l’ippica, come il golf. Solo il calcio ho sempre amato, e il nuoto, quindi è stato da sconsiderati dar retta al tuo amico Giulio. Feci l’intero viaggio di ritorno bestemmiando me stesso e tutto il pullman, e ovviamente Gisella. Adesso, invece, che mancavano tre lezioni alla fine del corso, e io cercai di fissare la mia attenzione sul professor Calligaris, guardai la sua faccia di cinquantacinquenne pacifico, buon lavoratore, buon padre di famiglia, guardai i suoi capelli radi, il mento sfuggente, le labbra sottili, il suo sorriso perenne che doveva aver avuto stampato sulla faccia già dalla tenera età, e cercai di capire meglio le sue parole con le quali cercava di spiegarci accuratamente le tecniche dei due stili di sci di fondo, e in parte, tanta era ferma la mia volontà capii qualcosa di quel che diceva, anche se sapevo benissimo che, se mai fossi tornato su una pista di sci di fondo, mai e poi mai avrei saputo mettere in pratica quelle sue parole espresse con passione e estrema bonomia, mai, neppure dopo anni avrei saputo compiere dieci o venti metri da perfetto sciatore. Tu sei rimasto qui questi due mesi, in questo dannato corso, solo e soltanto per Gisella, che neppure si volta e mi saluta o soltanto mi degna di uno sguardo. Alzati e vattene, Thomas, congedati senza dare spiegazioni e non farti mai più vedere, esci da quella porta e non farti più vedere, non dare più notizie di te. Ma non ebbi la forza di alzarmi, rimasi inchiodato alla mia sedia in preda alla disperazione più nera, finché vidi tutti alzarsi e solo in quel momento pensai che ci fosse la solita pausa durante la quale si prendeva un caffè alla solita macchinetta finché, una bella sera, circa quindici giorni fa, si era rotta e non era ancora stata aggiustata. Invece, con sorpresa mi accorsi che la lezione era finita. Raccolsi il mio giubbotto, mi accodai agli altri compagni di corso che, chiacchierando e ridendo e scambiandosi impressioni, si apprestavano ad uscire. Mi consolai vedendo che il tipo tozzo e barbuto non si avvicinò a Gisella, ma rimase a parlare con Lorella, l’infermiera del San Martino, la quale era visibilmente soddisfatta. Uscimmo e mi resi conto che pioveva, maledizione, pioveva che dio la mandava, ed io ero senza ombrello e senza macchina. Giulio mi disse che quella sera avrebbe potuto accompagnarmi solo per un pezzetto di strada ma non a casa. Fu in quel momento che mi si avvicinò Gisella e mi disse, sei senza macchina, Thomas, se vuoi ti accompagno. Non credetti alle mie orecchie, mi dissi che quelle parole non erano reali ma solo il frutto della mia immaginazione. Finché Gisella mi ripeté, vuoi che ti dia un passaggio, Thomas. Farfugliai un sì, in preda a una gioia incontenibile. Vieni, è qui vicino, mi disse Gisella, aprendo l’ombrello. Mi accostai a lei, con la vaga impressione di vivere in un film. Sfioravo il suo braccio, i suoi fianchi, e ciò mi inebriava. Dovresti scostarti, Thomas, magari bagnarti ma non starle così vicino. Ero terribilmente confuso e eccitato. Non mi è mai capitato di parlare con molte ragazze, e le volte che l’ho fatto erano ragazze bruttine, con le quali, tuttavia, non mi trovavo comunque a mio agio. Raggiungemmo la macchina e ci imbucammo rapidamente nell’abitacolo. Lei accese il motore, avviò il tergi cristalli e si avviò. Mi chiese dove abitavo ed io risposi a Marassi, in via Bertuccioni. Sentivo il suo meraviglioso profumo, non so se fosse Dior o Givenchy o vattelapesca, non ho mai avuto dimestichezza con i profumi, ho sempre conosciuto i cattivi odori, gli afrori stordenti, ma mai i profumi. La mia non era una vita profumata, la mia vita era pestilenziale. In quel particolare momento ero persino convinto di puzzare, convinzione, questa, che mi porto spesso appresso, visto che sudo alla minima occasione, specie quando mi emoziono. Speriamo che il mio odore non si senta, mi dissi, ma poi mi rasserenai perché era talmente buono e deciso il profumo di Gisella che il mio odore non si poteva sentire. Mentre percorrevamo il tragitto che portava a casa mia parlammo, o meglio parlò lei, gli argomenti non erano alti: lo sci, anzitutto, uno sport grazie al quale riusciva a sentirsi viva, allegra, libera.  Poi di shopping generalizzato, da effettuarsi in negozi di scarpa o presso svariati Grandi Magazzini o, quando le finanze lo permettevano, presso i più lussuosi negozi di Genova, come i fratelli Rossetti o Bagnara Sport, dove tra l’altro aveva acquistato una magnifica tuta, gli sci e gli scarponi. Quando mi chiese che sci avessi mi vergognai, come può solo vergognarsi un cane, perché gli sci non li possiedo, ogni volta me li presta il mio amico Giulio, come non possiedo tuta e scarponi. E perciò feci finta di non aver sentito, ma lei non insistette e mi chiese come mai fossi venuto senza macchina. Questa domanda mi mise proprio ko, nel senso che neppure uno straccio di macchina possiedo, non possiedo niente di niente: né una casa né una macchina né uno scooter. Se devo uscire di casa, o passeggio o prendo il bus, ma il bus lo prendo il meno possibile, di solito preferisco camminare, respirare a pieni polmoni l’aria fetida della città, comunque sgranchirmi le gambe. Mentii dicendo che preferivo non averla una macchina, che preferivo tenermi in forma camminando. Camminare, muovere le gambe è l’unica risorsa economica di cui dispone l’uomo per mantenersi in forma. Le palestre sono nocive, pensai, mentre la strada no. Gisella disse che facevo bene a camminare, ma a lei non piaceva tanto, preferiva la palestra, nella quale andava tre volte la settimana, altrimenti non sarebbe riuscita a percorrere la bellezza di quindici chilometri sulle piste di sci di fondo sparse nel Nord Italia. Senza allenarmi in palestra non ce la farei, Thomas, credimi. Dissi che la capivo anche se non era vero. Tenni poi per me ciò che pensavo dello sci di fondo, che era uno sport da me odiato quanti altri miei, più dell’ippica, più del golf, più della lotta libera. Rispondevo solo con i si e dei no, mentre lei parlava a ruota libera, allegra, gioviale, spensierata, tanto che pensai di nuovo, no Thomas, questa ragazza non fa per te, è troppo poco problematica, troppo allegra, e poi guarda com’è vestita, è di una eleganza che tu non hai e non avrai mai, sempre con i tuoi jeans addosso, per giunta sdruciti e sporchi, così com’è sdrucito e sporco il tuo giubbotto. Guardavo la strada che stavamo percorrendo a discreta velocità e pensavo se era il caso di invitare Gisella a bere un caffè in un bar, ma l’acqua veniva che Dio la mandava, scrosci da far paura che si riversavano con violenza inaudita sui vetri e che i tergicristalli facevano una fatica improba a creare piccoli squarci attraverso i quali poter vedere la strada, per cui scartai l’idea, accogliendone un’altra che mi sembrava del tutto irrealizzabile: invitarla a salire in casa mia, che ormai, trovandoci in quel momento in corso De Stefanis, era vicina un paio di minuti al massimo. Gisella affrontò con perizia la curva che immette in via Bertuccioni, quella proprio di fronte ai Distinti del Ferraris, lo stadio in cui gioca il mio Genoa. Venti secondi dopo fummo davanti al numero cinque di via Bertuccioni. Gisella accostò e subito ebbi la netta impressione che non fosse affatto intenzionata a liquidarmi, ma anzi desiderasse ancora parlare. Io non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. Quasi tremavo. Guardandomi di sotto in su Gisella mi chiese se lo sci di fondo mi piaceva, mettendomi così in seria difficoltà. Non posso mentirle, ma neppure dirle la verità, ossia che detesto lo sci di fondo. Se le dico la verità si irriterà, e rischierò di far buon viso a cattivo gioco, mi dirà che deve andare a casa, e dovrò uscire alla svelta, d’altro canto mentirle non mi va. Siccome non potevo star zitto, dissi che era uno sport che dovevo ancora sperimentare, lo sci di fondo. Non ero certo che mi piacesse, ma neppure mi dispiaceva. Lei mi parlò invece dell’euforia che le trasmetteva, e del fatto che, grazie allo sci, e alle lezioni di sci tenute magistralmente dal signor Calligaris, aveva ritrovato il suo equilibrio e la vita aveva cominciato di nuovo a sorriderle. Sì, Thomas, mi disse Gisella, adesso posso dire che la vita mi sorride. Io chiesi perché la vita fosse tornata a sorriderle, e lei mi guardò di nuovo di sotto in su, uno sguardo dolcissimo e nello stesso tempo conturbante, e mi disse perché, non lo sai? Io mentii dicendo che no, non sapevo nulla, al che lei disse che si era separata, e che la cosa le aveva procurato un forte periodo di depressione, un periodo nero, anzi nerissimo, che era durato due anni, ma dal quale adesso era definitivamente uscita non grazie all’aiuto di uno psichiatra né di uno psicologo, sebbene per un certo periodo fosse stato necessario ricorrere agli psicofarmaci, e qui toccò un punto dolente perché anch’io, da anni, ricorro agli psicofarmaci. Naturalmente non dissi nulla sugli psicofarmaci, non volevo che Gisella mi considerasse uno squilibrato o un depresso cronico. Sì, posso dire di essere uscita dal periodo nero, adesso farmaci non ne prendo più disse guardandomi apertamente negli occhi. In quel momento provai l’irresistibile tentazione di attrarla a me e baciarla, ma non sapevo come sarebbe andata a finire, se lei si fosse ritratta, assestandomi addirittura uno schiaffo, o se invece avrebbe corrisposto il bacio. La trovavo più bella e affascinante di quanto l’avessi mai trovata. Sta’ attento, Thomas, mi dissi, con questa ragazza potresti bruciarti in modo irrimediabile, dal quale non so se riusciresti a tirarti fuori. Con Barbara, diversi anni fa, sebbene non ti piacesse come Gisella, per il fatto che ti aveva lasciato quando tu eri deciso a metter su famiglia, avevi passato mesi d’inferno, che solo dosi massicce di psicofarmaci ti avevano aiutato a superare, ma in questo caso non so se i farmaci ti basterebbero, anzi, di sicuro gli psicofarmaci sarebbero insufficienti, non è ancora stata inventata la formula che consenta di superare i momenti terribili, quelli che gettano una persona in uno stato di assoluta prostrazione. Le piccole e anche grandi depressioni trovano un minimo conforto con gli psicofarmaci, a caro prezzo, ovviamente, al prezzo di una sonnolenza e intontimento perenne, e altri effetti collaterali che non voglio star qui a descrivere, ma i grandi dolori, le morti delle persone care, gli abbandoni trovano un blandissimo conforto con le pastiglie, non esiste al mondo uno psicofarmaco che ridia in effetti un po’ di serenità, pensai, Gisella potrebbe ridonarti una vita piena e soddisfacente, ma potrebbe anche gettarti in uno stato psicofisico a cui in questo momento non voglio neppure pensare. Gisella disse era un periodo sì positivo, ma che in fondo si annoiava un po’. Dopo l’abbandono del marito, doveva ricostituire una cerchia di amicizie con le quali trascorrere serate e domeniche, perché doveva pensare al periodo in cui lo sci di fondo sarebbe terminato, e la primavera e l’estate sono sì stagioni meravigliose ma se sei solo perdono di significato, si sviliscono, e io dicevo sì sì certo. A quanto pareva le avrebbe fatto piacere se ci fossimo visti qualche altra volta, se magari fossimo andati a mangiare una pizza, e ad ogni proposta trasecolavo, involontariamente, il mio cuore esultava in un modo così incontenibile che temetti si percepisse, addirittura si sentisse la mia gioia. Ci facemmo addirittura qualche risata quando, tornando a parlare degli iscritti al corso, poi, all’improvviso, mi chiese se conoscevo Giulio da tanto tempo e io dissi di sì, che erano anni, anche se per la verità lo frequentavo poco. Poi lei sparò a bruciapelo: lavori insieme a lui? A quel punto capii che aveva sempre pensato che io fossi un collega di Giulio, ossia fossi un ingegnere, mestiere che io non sarei assolutamente in grado di svolgere. Provavo un disagio immenso, e con qualche imbarazzo dissi no, non sono collega di Giulio. Al che lei mi chiese: non fai lo stesso mestiere? Dissi di no, che non facevo lo stesso mestiere. E allora cosa fai? Con imbarazzo crescente dissi, nulla, sono disoccupato. Di tanto in tanto trovo qualche lavoricchio, diciamo due o tre volte l’anno per un mese, a volte addirittura per due o tre. Me ne accorsi subito, all’istante: il suo volto così piacevole si oscurò. Disse ah, sei disoccupato? E io dissi sì, sono disoccupato. È un periodaccio. Non si trova lavoro. Lei guardò fisso davanti a sé, il tergicristallo che lavorava come un matto, su e giù su e giù, quel tanto che bastava a intravedere la strada. Ecco, lo sapevo, ha distolto subito lo sguardo da me, mi dissi, è bastato che le dicessi che non sono un ingegnere ma sono disoccupato, e subito lei ha smesso di guardarmi. Avrei dovuto mentire, mi dissi, dire che ero caporeparto in qualche grande azienda, o un rappresentante di gioielli, o uno stilista e lei avrebbe mi avrebbe guardato all’infinito, persino con adorazione. E fui tentato di dirle che non ero disoccupato, le sembravo un disoccupato, avevo la faccia da disoccupato. Scherzavo, sciocchina, avrei dovuto dirle. Ma la mia onestà di fondo me lo impedì e ribadii che ero disoccupato, e che era difficile che trovassi un lavoro, un po’ perché non ce n’era un po’ perché con la massa di immigrati che erano arrivati e che lavoravano per pochissimi soldi, lavorare con una paga, poniamo, di cinque euro l’ora era veramente una grande impresa. Lei mi ascoltò le braccia tese sul volante, lo sguardo fisso davanti a sé e disse: capisco. Poi aggiunse: be’, Thomas, direi che è l’ora di andare a casa. Io guardai il mio Casio da 20 euro: le undici e venti. Poi dissi, sì, è l’ora. Non mi chiese, Gisella, se avevo un ombrello, non mi disse, te lo presto io. Non si preoccupò in nessun modo: cavoli miei. Aprii la porta e mi fiondai fuori, m se anche c’erano sì o sette otto metri per arrivare al portone mi bagnai dalla testa ai piedi. Non avevo neppure aperto il portone che lei era già schizzata via. Respirai a pieni polmoni, anche per respingere le lacrime che stavano per salirmi agli occhi. Sensibilità. Ho una sensibilità malata, così mi dissi, pensai. Se non avessi una sensibilità malata non starei qui a dannarmi l’anima per questo abbandono, che è e sarà definitivo. Gisella è perduta, così mi dissi, pensai. Non la recupererò più, non mi telefonerà per uscire una sera e mangiare una pizza insieme. Non mi telefonerà mai più, e se anche chiedessi il suo numero a Giulio e le telefonassi lei si negherebbe o butterebbe giù il telefono. Adesso devo togliermela dalla mente, Gisella, una volta per tutte. Ciò che non ho fatto, che mi sono rifiutato di fare, in questi mesi, devo farlo adesso, che pure mi sono emotivamente sbilanciato. Stasera, dopo anni e anni, avrei potuto cominciare una relazione, e invece tutto è andato a rotoli. Irrimediabilmente, pensai e, salendo le scale, poiché non ho aderito all’acquisizione di un più che modesto ascensore, mi ripetei questa parola che mi parve terribile, micidiale: irrimediabilmente. Quando giunsi davanti alla porta di casa avrei battuto ripetutamente la testa contro la porta, affinché un dolore attenuasse l’altro o lo destituisse, invece la aprii ripetendomi: irrimediabilmente. Questa parola mi straziava solo a pensarla, gettandomi in uno stato di profonda prostrazione. Pensai di andare in cucina e, dal cassetto delle medicine, prendere un paio di pastiglie di Xanax e un antidepressivo. Ma non potevo negare di essere terribilmente eccitato. Sei moralmente distrutto, Thomas, ma non puoi negare di essere eccitato. E questa eccitazione non puoi sforzarti di trattenerla, devi sfogarla, altrimenti staresti doppiamente male, e il dolore già ti serra la gola. Come un burattino senza più forza e volontà mi trascinai in bagno, mi sedetti sulla tazza e mi ripetei la parola irrimediabilmente. Non potei fare a meno di prendermi in mano il mio cazzo gonfio e pulsante di desiderio, cominciando a masturbarmi lentamente. Mi sforzavo di pensare ad altro, al mio Genoa per esempio, ma la figura di Gisella mi si presentava davanti con tutta la sua prorompente fisicità. La figura di Gisella si sovrapponeva a quella, pur adorata, di Criscito, e le gambe a quelle di Schöne, per le quali, Giuseppe lo sapeva, nutrivo una vera e propria venerazione, avendo egli giocato nell’Aiax, vale a dire una delle più forti squadre del mondo. Ma Gisella si imponeva e presi a masturbarmi con maggiore forza e determinazione, e in effetti il dolore per l’abbandono si attenuò e prevalse il piacere, un piacere inesauribile, inarrestabile, che esplose in un fiotto di sperma irrimediabile.

 

 

Visita alla Maison Jean Cocteau

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di Ornella Tajani

Quando arrivo a Milly-la-Forêt piove. Ci sono venuta con un’auto a noleggio, vista la difficoltà di raggiungere il posto tramite mezzi pubblici: da Parigi bisogna prendere la RER fino a Massy e poi una delle occasionali navette locali, oppure un costoso taxi privato. Parcheggio la 500 rosso smagliante sotto delle acacie gocciolanti e scendo.

Il borgo, tutto in pietra e immerso nel verde, è curato e graziosissimo, uno dei più antichi del Parc Naturel Régional du Gâtinais. Conosco il nome di questo paesino, poetico e un po’ lezioso, dai tempi della tesi di laurea su Jean Cocteau: qui l’autore ha vissuto dal ’47 al ’63, fino alla morte. Aveva acquistato la Maison che sto per visitare insieme all’attore e compagno Jean Marais, grazie ai proventi del film La belle et la bête. La villa, riaperta lo scorso maggio, costituiva anticamente la dépendance del castello del XIII secolo che le sorge accanto; dal 2010 ha accolto il pubblico a fasi alterne, dapprima grazie all’interesse e ai fondi del mecenate Pierre Berger, alla morte del quale la casa ha rischiato di chiudere, per poi passare sotto l’egida del Consiglio Regionale dell’Île-de-France.

Come ho scritto altrove, non sono una grande amante delle case-museo, spesso private del loro soffio vitale, imbalsamate nella condizione di attrazione turistica; per Cocteau, però, che mi ha accompagnata per anni, faccio un’eccezione e, mentre mi avvio nel vialetto che conduce all’ingresso, un po’ di emozione c’è.

©Maison Jean Cocteau

La cornice della Maison è costituita da un grande giardino, poi trasformato in frutteto e attraversato da un canale, nel quale sono distribuite opere appartenute all’autore: una testa in pietra da lui acquistata, incredibilmente somigliante a uno dei suoi disegni (nonché a Marais stesso), così come delle sfingi, poste ai lati di uno degli ingressi, che furono un regalo dell’attore. Nella parte posteriore è stata allestita un’installazione di Les EpouxP dal titolo L’indifférence des astres, costituita da grandi lenzuola bianche stese fra gli alberi, attraversate da striature iridescenti: bisogna inquadrarle con la fotocamera dello smartphone per vederle animarsi ed evocare, così, l’universo fantasmatico della Belle et la bête. Sembra un’idea indovinata, ma tutti ci proviamo invano: «c’est raté», sentenzia lapidaria una visitatrice, allontanandosi.

È quasi ora, mi dirigo verso la pergola dalla quale partirà la visita. Il tour dell’edificio è possibile solo accompagnati da una guida e dura trenta minuti: i tempi sono un po’ stretti, così come gli spazi. Mi accorgo che i membri del mio gruppo hanno quasi tutti teste canute e non posso non pensare che l’effervescenza dell’opera e del personaggio di Cocteau travolgerebbe invece qualsiasi adolescente o ventenne di oggi: lui che ha scritto Les enfants terribles in diciassette giorni, mentre era in clinica per disintossicarsi dall’oppio, che ha creato personaggi gender fluid ante litteram, che ha descritto in maniera mirabile gli struggimenti dell’amore non corrisposto, etero o omo che fosse; lui che è stato per una vita ossessionato da un’immagine di uomo ideale, infinite volte riproducibile (e riprodotta in migliaia di disegni) e sempre fatale.

La guida arriva un po’ in ritardo, affannata dal tour precedente: «Siete troppi!», esclama sorridendo, alludendo al viavai di turisti senz’altro maggiore nel mese di agosto. Si comincia con quella che era stata la cucina della casa, sulla cui struttura era intervenuto lo stesso Cocteau, nella quale hanno allestito un tabellone di foto e dati biografici che non avrei il tempo di guardare neanche volendo, dato che la guida sta facendo la sua introduzione: succede insomma un po’ come durante i convegni, in cui è impossibile leggere il testo sulle slide proiettate mentre il relatore sta dicendo altro (eppure la formula viene riproposta sistematicamente). Faccio in tempo a vedere un ritratto dell’autore che non conoscevo, fotografato in Egitto, con le piramidi alle spalle.

Si passa poi nel salone, in cui troneggia il tavolo da corrispondenza circondato da una molteplicità di oggetti più o meno eccentrici: non è chiarissimo se la loro disposizione sia sempre stata questa o se – come credo – la stanza sia diventata in parte il ricettacolo di elementi prelevati da altre camere, ad esempio dal piano chiuso al pubblico. Su un tavolino c’è un bel calco delle mani di Cocteau, della cui eleganza lui andava molto fiero, difatti in vari scatti lo si vede mostrarle compiaciuto; nel resto della stanza sono disseminati diversi doni di amici, fra i quali quelli di Coco Chanel.

©Maison Jean Cocteau

Al piano di sopra si visitano l’anticamera-studiolo dalle pareti tappezzate in tessuto leopardato, con una lavagna che reca ancora appunti autografi, e la camera dal letto rosa, disposto in diagonale perché l’autore, al risveglio, amava vedere i merli della torre di fronte (Marais dormiva invece in un’altra stanza); il muro è decorato da un disegno del figlioccio ed erede Édouard Dermit. Alle pareti di ogni corridoio campeggiano numerosi ritratti di Cocteau, fra cui celebri foto di Man Ray.

 

 

©Maison Jean Cocteau

Ciò che però manca, in questa casa, è il segno del talento di un artista così eclettico – drammaturgo, romanziere, saggista, regista, pittore, creatore di mosaici e ceramiche, di tessuti e gioielli -, eppure sempre così «poeta», tanto da classificare le sue opere in poésie de théâtre, poésie de roman, poésie critique, poésie de cinéma e persino poésie plastique: fatta eccezione per i pochi disegni esposti all’ingresso, non c’è traccia dei suoi numerosi schizzi, dipinti, sculture, oggetti decorati, e lo spazio è troppo poco per godersi la lettura delle occasionali citazioni tratte da suoi testi e riprodotte sui muri. Mancanza non colmata neanche dalle due piccole esposizioni temporanee, aperte fino al 31 ottobre per festeggiare la riapertura: la prima dedicata al «bestiario incantato» dell’autore, in cui sono esposte sculture di animali che gli erano appartenute; la seconda, molto didattica, consacrata al balletto Parade, concepito da Cocteau nel 1917 per rispondere all’imperativo dell’impresario russo Diaghilev, che gli aveva ordinato «Stupiscimi!» (l’autore ci riuscì, insieme a Picasso che curò le scene e a Satie che compose la musica: per descrivere questa pièce Apollinaire coniò l’aggettivo «surrealista»). La visita della casa, dunque, sembra concepita soprattutto per appassionati di cabinets de curiosités, e potrebbe deludere chi avesse voglia di sentire o riconoscere il vero esprit cocteauiano: ad allontanare il rischio, però, contribuiscono sia la vicina e bella Chapelle Saint-Blaise des Simples che, sebbene non inclusa nel circuito della Maison, fu interamente decorata dall’autore e ospita oggi le sue spoglie; sia il giardino incantato che circonda la casa, nel quale Cocteau era solito ammirare «l’assurda e magnifica testardaggine delle piante»; si capisce così perché vi si fosse stabilito, facendo del luogo un rifugio intimo più che un salotto mondano (nonostante le occasionali visite di amici celebri), e perché, quando lo scoprì, disse di aver finalmente trovato «un cadre», una cornice serena e un po’ magica in cui vivere e lavorare.

©Maison Jean Cocteau

Progetto per un appendi-nuvole / Projet pour un porte-nuages

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Video progetto
di effeffe
Projet pour un porte-nuages
Poesia L’étranger di Charles Baudelaire
Traduzione in furlèn di Cisco Escalona
Musiche eseguite da Lamberto Curtoni

 

 

L’étranger 1
di
Charles Baudelaire
traduzione di Cisco Escalona

Qui aimes-tu le mieux, homme énigmatique, dis ? Ton père, ta mère, ta soeur ou ton frère ?
Qui tenes d’espirto en core, homo cruciverbo, dime? Pàtete, màtete, sòrete ou brò?
– Je n’ai ni père, ni mère, ni soeur, ni frère.
No tengo pater, mater manco, et sora et brò nimmèn
– Tes amis ?
– Ei cumpari?
– Vous vous servez là d’une parole dont le sens m’est restée jusqu’à ce jour inconnu.
– Facite mode de l’use à la parole scanosciù come son sens ahora, mo e pemmìa
– Ta patrie ?
Pàtera tera?
– J’ignore sous quelle latitude elle est située.
Scanosc el meridìen de sa longitude
– La beauté ?
– La bonance?
– Je l’aimerais volontiers, déesse et immortelle.
– Assaje teniss d’espirto en core, matruna sancta et benedicta issa
– L’or ?
L’ €ur
– Je le hais comme vous haïssez Dieu.
‘N cana me sta comme por vosotros el Patatèr
– Eh ! qu’aimes-tu donc, extraordinaire étranger ?
‘Nzomm, strangio exterefactu , qui tenes d’espirto en core?

– J’aime les nuages… les nuages qui passent… là-bas… là-bas… les merveilleux nuages !
– Tenes d’espirto en core… nubila en celo… acca e allà… oh nubila de mente !

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scuola e utopia: considerazioni su Riscoprire l’insegnamento di Gert Biesta

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di Giovanni Carosotti

Che i fondamenti teorici alla base del processo di riforma della scuola, in atto da ormai tre decenni, non godano di particolare apprezzamento presso l’intellettualità diffusa è fenomeno noto, anche se viene il più possibile occultato o sottostimato. Nonostante l’impegno di molti esponenti del pedagogismo (che è cosa ben diversa dalla disciplina della pedagogia) nel cercare in tutti modi di convincere in merito a presunte nuove e determinanti conquiste su come avvenga il processo d’apprendimento, è facile per i più accorgersi sia del carattere tutt’altro che irreprensibile delle argomentazioni a sostegno, che non possono affatto pretendere di essere considerate niente più che semplici opinioni, e non certo conoscenze acquisite che avrebbero definitivamente falsificato le teorie concorrenti; sia constatare la difficoltà di tali elucubrazioni concettuali a trasformarsi, sul piano empirico, in pratiche virtuose capaci almeno di corroborarsi sulla base dei concreti risultati ottenuti. Assistiamo invece a strategie retoriche che sembrano dover procrastinare i risultati attesi a un tempo indefinito; ragione addotta sarebbe il permanere di atteggiamenti regressivi che impedirebbero il dispiegarsi di ciò che la nuova scienza pedagogica sarebbe in grado di conseguire. Il deficit  sempre maggiore di importanti livelli di conoscenza e abilità, dovuti proprio all’introduzione massiccia di pratiche cosiddette “innovative”, non dà dunque luogo ad atteggiamenti di autocritica o di ripensamento, accettando finalmente un confronto alla pari con impostazioni alternative; più facile addebitare all’incapacità della classe docente, ferma a un modo di insegnare “conservatore”, totalmente ignorante (ovvero non formata) su come avvengono i processi di apprendimento, il mancato successo della didattica innovativa.

Non è un caso dunque che, quando docenti esasperati da questi immotivati attacchi propongano degli appelli di carattere critico, si registri un successo di consensi che mette in difficoltà molti sostenitori della “didattica innovativa”. Un esempio tra i tanti: l’associazione Gessetti colorati, in un intervento piccato per il successo del Manifesto della nuova scuola, così si esprime: «Ma il vero vulnus del Manifesto viene individuato nella mancata attenzione al bisogno di pedagogia che c’è nella scuola, stante il dato di fatto che al centro di tutto, ancora prima dell’insegnamento dei docenti, c’è l’apprendimento degli allievi, rispetto al quale fine l’insegnamento stesso rappresenta uno strumento, ovviamente fondamentale». Un’impostazione argomentativa di questo tipo è sufficiente per non prendere in considerazione il valore delle firme a sostegno di quegli appelli; prestigiosi studiosi, sicuramente luminari nel loro campo disciplinare, ma digiuni dei progressi dello scientismo pedagogico, in particolare della priorità ormai acquisita dal concetto di apprendimento rispetto a quello di insegnamento. Certo è che l’uscita della traduzione dello studio di Gert Biesta (la prima in Italia, nonostante l’autorevolezza del personaggio), dal significativo titolo Riscoprire l’insegnamento ( a cura di Francesco Cappa e Paolo Landri, trad.it di Vincenzo Santarcangelo Cortina, Milano 2022, euro 16) è destinata a porre fine a tale stucchevole retorica.

Il titolo dello studio, Riscoprire l’insegnamento, viene subito giustificato con la volontà di rivalutare l’importanza di tale concetto in campo pedagogico, proprio per rispondere al declassamento cui è stato sottoposto dalla teoria dell’apprendimento.  Ma prima di entrare nel dettaglio, conviene fare un’ultima osservazione preliminare, ricordando un altro intervento di Biesta, nel quale si ribadisce il carattere ontologicamente pluralistico della disciplina pedagogica. Nell’attuale fase storica, ricorda lo studioso, un’impostazione di studi originatasi nei paesi anglosassoni si impegna attivamente per conquistare un’egemonia, se non addirittura per imporre una totale identificazione tra la propria impostazione e la disciplina che intende rappresentare. Interessante è che Biesta faccia un riferimento a una distinzione che rimanda all’annosa questione dei rapporti tra filosofia analitica e continentale. Dove anche in quel caso compare un’evidente intento di delegittimazione, in particolare di un campo verso l’altro. Non a caso Diego Marconi, in un saggio ormai di qualche anno fa a difesa della corrente analitica, candidamente ammetteva: «le contese su filosofia e storia della filosofia sono quasi sempre anche contese su posti di lavoro, equilibri dipartimentali, spazi mediatici. Finché teorici e storici competeranno per le stesse risorse ci sarà sempre chi, dall’una e dall’altra parte, cercherà di guadagnare posti nella competizione vantando la superiorità della propria sottodisciplina o, più radicalmente, mettendo in dubbio il diritto dell’altra a occupare anche solo una quota dello spazio disciplinare disponibile»[1].

Questo mi sembra sia in gioco oggi anche in Italia; con la pretesa del pedagogismo di esercitare un’egemonia pressoché assoluta sulla disciplina pedagogica, legittimandosi in questo ruolo esclusivo presso gli ambienti ministeriali, esso si propone come unico soggetto deputato alla formazione dei docenti e quindi, di fatto, intende prendere il controllo della scuola pubblica, imponendo pratiche corrispondenti alle proprie convinzioni teoriche (per non parlare dalle posizioni di potere guadagnate da alcuni Dipartimenti di Scienze dell’Educazione nel vedersi assegnato questo ruolo esclusivo).

Il primo grande merito di Biesta è quello di sfuggire alle demagogica logica dualistica che fa da sfondo alle consuete polemiche pedagogistiche, dando così prova di raffinata preparazione sia epistemologica sia filosofica. Non è di poco conto questa osservazione, né il riferimento decisivo che Biesta propone al pensiero di Lévinas. É un ritorno alla migliore tradizione della pedagogia, che si sviluppa e si confronta in osmosi con le riflessioni della filosofia, rifiutando la spocchiosa autoreferenzialità del pedagogismo corrente, pronta a fare proprie le superficiali delegittimazioni della tradizione continentale. Ovviamente la profondità con cui lui si accosta alla riflessione filosofica per migliorare le possibilità di investigazione dei problemi che la pedagogia pone è in netto contrasto con l’umiliazione che la filosofia subirebbe se venisse attuata in base allo sciagurato documento Lineamenti per l’insegnamento della filosofia nell’età della conoscenza[2], non a caso in perfetta linea con le dominanti teorie dell’apprendimento. L’onesta e la preparazione filosofica evita il trucco dialettico del pedagogismo di valorizzare se stesso attraverso la derisione delle teorie contrarie, ridotte a caricatura; nel caso specifico, la trasmissione del sapere centrata sull’insegnamento, considerato poco più che una forma di indottrinamento, che relegherebbe il discente a una condizione di passività. Non ci vuole molto a smontare questa pretesa, e nelle valutazioni di Biesta molti colleghi potranno trovare conforto alle evidenze empiriche riscontrabili nella loro esperienza quotidiana: «anche laddove gli insegnanti parlino e gli studenti siedano in silenzio, in realtà, questi ultimi stanno comunque compiendo numerose azioni. Possono naturalmente sentirsi annoiati, alienati, ignorati, così come sfidati, affascinati, ispirati – chi può dirlo? Mi chiedo, inoltre, se qualcuno abbia davvero mai proposto che l’educazione funzioni come un processo di trasmissione e di assorbimento passivo, anche quando è effettivamente organizzata in tal modo». Sia chiaro, come si evince dai toni, non si tratta di difendere un modo di impostare la comunicazione in classe rigidamente e mediocremente trasmissivo; ma di far notare che il ridurre l’insegnamento, caricaturizzandolo, a questa condizione significa comunque partire da un presupposto errato riguardo proprio alla psicologia dell’alunno. Agire sulla soggettività dello studente non dipende tanto dall’impostazione (come vedremo, anche un’impostazione pratico-attiva può relegare l’alunno in condizioni di passività intellettuale), ma da ciò che tra il soggetto che espone e quello che ascolta (e sia chiaro che per Biesta la pratica dell’ascolto ha comunque una estrema rilevanza formativa) vi è un medium, l’oggetto del discorso, il contenuto disciplinare, il quale si inserisce nella relazione e in qualche modo –persino quando questa relazione si svolge nelle modalità più infelici- favorisce una rielaborazione e trasformazione del soggetto. Biesta propone tale considerazione in riferimento a Rancière: «Ciò che Rancière mette in evidenza nel descrivere questa dinamica è che non esiste una relazione diretta tra insegnante/attore e studente/spettatore e dunque nemmeno l’ambizione o la possibilità di una “uniformità di trasmissione”. Vi è sempre un “terzo elemento” -l’opera d’arte, lo spettacolo teatrale, un libro, “o un altro elemento di scrittura”- che è “estraneo a entrambi”, al quale essi possono riferirsi “per verificare insieme ciò che l’allievo ha visto, che cosa ne dice e che cosa ne pensa”. Vi è dunque una radicale apertura interpretativa in relazione a questo elemento[…]». Il concetto di apertura, di evidente ascendenza filosofica, viene interpretato da Biesta come irrompere di un’alterità ancora non definita; il riferimento esplicito è a Lévinas, anche se il termine richiama pure Heidegger, e potrebbe essere interpretato in base alla torsione a cui Celan aveva sottoposto il concetto heideggeriano di apertura.

Osservazione non marginale. Da essa deriva infatti tutta l’insufficienza di una relazione didattica fondata sul principio dell’apprendimento. La teoria dell’apprendimento, in effetti, sembra esprimere una pura autoreferenzialità formale, una metodologia che rispecchia narcisisticamente sé stessa, indifferente ai contenuti, se non per un rapporto nei loro confronti di carattere esclusivamente strumentale: «lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno. Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano “aperti” o “vuoti”, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo». Come sappiamo, a fondamento delle teorie dell’apprendimento vi è una preoccupazione di ordine pratico, cioè far sì che i contenuti di ciò che viene appreso inneschino abilità operative che possano essere spesi in altri ambiti; e devono essere scelti proprio in ragione di questo obiettivo utilitaristico.

Come vedremo, Biesta è ben consapevole che tale preoccupazione, formalmente presa considerando ciò che può essere utile per lo studente, è tutt’altro che immune da ben precisi presupposti ideologici. Ma, prima di valutare questi ultimi, è bene sottolineare la povertà educativa che tali teorie implicano; Biesta ribalta l’accusa tradizionale all’insegnamento di rendere lo studente puramente passivo (e abbiamo già visto quanto tale idea di “passività” sia, dal punto di vista psicologico, inconsistente). È semmai  un rapporto educativo incentrato sull’apprendimento a risultare totalmente ostile all’idea di apertura che dovrebbe presiedere alla relazione educativa. Il presupposto della teoria dell’apprendimento è quello di valorizzare le doti di partenza che l’alunno dimostra di avere, di agire sulla sua soggettività individuale, cercando di svilupparne le doti potenziali, e in quella direzione concepire, ad personam, una sorta di piano didattico personalizzato che miri  a sostituire il curriculum. Contenuti, linguaggi, impostazioni di studio, tutto deve corrispondere a ciò che l’alunno esprime già, in modo da poter estrarre da lui stesso il meglio delle proprie doti. Ma se questo diventa «l’unico modo di concepire il nostro rapporto con il mondo e la nostra posizione in esso, staremmo limitando le nostre possibilità esistenziali, ovvero le nostre possibilità di esistere nel e con il mondo. Il problema fondamentale dell’apprendimento inteso come comprensione e che esso mette al centro il sé e trasforma il mondo in un oggetto per il sé». Da questo punto di vista, un’analisi troppo attenta alla personalità dello studente e ai suoi interessi (si pensi al curriculum dello studente) risulta addirittura negativo: «Conoscere troppo bene i nostri studenti potrebbe sbarrare loro la porta su futuri che non possono essere contemplati in quanto possibilità del presente. Non solo: potrebbe impedire anche a noi insegnanti ed educatori di dischiudere tali futuri, di confidare nel fatto che l’inaspettato sia proprio ciò che potrebbe accadere. É proprio quando non sappiamo chi sono i nostri studenti, quando non sappiamo da dove vengono, quando non abbiamo informazioni sul loro vissuto, che possiamo avvicinarci loro in modi nuovi e inimmaginati, modi che possono anche liberarli dal peso del loro passato, della loro storia personale, dei loro problemi e delle loro patologie.» Ritorna allora il nodo dei contenuti, non certo semplice strumento, ma insieme di esperienze collettive con cui è necessario che ogni soggettività si confronti, e che rappresentano quel medium che si frappone tra docente e discente capace proprio di innescare  meccanismi di liberazione, con l’apertura di orizzonti d’esperienza nuovi. Ma, per poter ottenere quest’effetto, tali contenuti devono proprio rappresentare, nell’immaginario di chi li apprende, l’alterità, l’inimmaginato, il non ancora conosciuto che introduce a nuovi orizzonti di senso. E questo vale anche quando, a un primo impatto, tale alterità può apparire allo studente come estraneità, suscitare sentimento di distanza, una reazione possibile che –con buona pace dei pedagogisti- non sempre va interpretata negativamente. «L’educazione può diventare un incontro con qualcosa che arriva, per così dire, senza motivo: se è qualcosa di veramente nuovo, che giunge dall’esterno, gli studenti potrebbero non avere ancora alcun ancoraggio con quanto ricevono e potrebbero non essere (ancora) in grado di capirne il perché.  Il nuovo che arriva può assomigliare più a un fardello da portare che a un’intuizione familiare, assimilabile a ciò che già sanno e comprendono.» E ancora: «[…] i concetti non sono “semplicemente” concetti e che in molti casi hanno assunto un’esistenza reale nella vita degli studenti, sotto forma di cose amate o odiate, che li interpellavano e si rivolgevano a loro, cose che volevano avere un posto nella loro vita, sebbene per alcuni si sia rivelato più facile accoglierli, fornire loro un luogo dove vivere. Ma è anche accaduto che l’incontro con il concetto, e la richiesta di adottarlo, abbiano spinto gli studenti “al di là” della loro identità di discenti tradizionali, allontanandoli dalla mera comprensione, verso modi molto diversi di essere nel e con il mondo.» Proprio in queste ultime osservazioni si rivela il vero scopo del processo d’istruzione, e la centralità che in esso ricopre la pratica dell’insegnamento. Non si tratta della trasmissione di una sapere tecnico che ci permette di padroneggiare, dal punto di vista pratico, un mondo già dato; ma un insieme di conoscenze che devono essere trasmesse per il fatto proprio di rivelare un mondo che ancora non si conosce, in quanto sono capaci di interrogare sulla legittimità dell’esistente, di metterlo in discussione e di far immaginare all’alunno la possibilità di un «non ancora» o di un «assolutamente altro». «Conoscere non costituisce un atto di dominio o di controllo -il nostro atteggiamento nei confronti del mondo, naturale e sociale, non è tecnologico- ma può forse essere descritto come un processo di ascolto, di preoccupazione, di cura, e forse di un “farsi carico” di esso.»

Risulta chiaro come la prospettiva di Biesta si sottragga e respinga la nefasta teoria del capitale umano, la quale non solo appiattisce il processo d’istruzione sull’esistente, ma carica sullo studente –e non sul contesto sociale in cui agisce- la responsabilità del proprio fallimento: «Si tratta dell’immaginario che interpreta l’istruzione come uno sforzo a carico  del discente e secondo il quale, in ultima analisi, il compito di costruire le proprie conoscenze e di sviluppare le proprie competenze spetti esclusivamente a lui, laddove il compito principale degli insegnanti è solo quello di fornire soluzioni grazie alle quali tali processi possano avvenire autonomamente.» Il rifiuto della teoria delle competenze, che qualcuno oggi stancamente continua a difendere con argomenti privi di ogni spessore, non potrebbe essere più netto: «Allo stesso modo, gli studenti non sono coinvolti nell’assorbimento passivo ma nella costruzione adattiva attiva, attraverso la quale acquisiscono abilità e competenze che li renderanno più capaci di adattarsi alle situazioni future. Anche il senso e il ruolo del curricolo sono cambiati: questo non è più interpretato alla stregua di una serie di contenuti da trasmettere e da acquisire, ma è ridefinito come un insieme di “opportunità d’apprendimento” all’interno e attraverso le quali gli studenti, in modo flessibile e personalizzato, perseguono le loro particolari traiettorie d’apprendimento.»

La finalità dell’insegnamento deve essere invece quella di porre lo studente di fronte all’altro da sé. Splendida la descrizione dell’obiettivo dell’educazione ripreso da Meireu: «La sfida, quindi, è quella di esistere nel mondo senza considerarsene il centro, l’origine, o il fondamento -è esattamente il modo in cui Philippe Meireu descrive il “soggetto-studente” (élève-sujet), colui che è capace di vivere nel mondo, senza occuparne il centro». Più avanti il concetto viene ulteriormente precisato: «[…] l’insegnamento, sostenendo che esso non è una limitazione della libertà dello studente, ma la modalità stessa in cui lo studente-in-quanto-soggetto ha la possibilità di emergere.» Queste affermazioni capovolgono e smentiscono l’ambizione, da parte della didattica fondata sull’apprendimento, di rendere gli studenti attivi; il presunto attivismo delle pratiche innovative fondate sull’apprendimento non è altro che la somministrazione di «pre-pensati» (Giroux), ovvero progetti dall’esito predeterminato (nelle UDA si devono dichiarare in anticipo i risultati attesi); ma nel contempo impediscono l’esercizio del pensiero libero, frustrando una reale autonomia. Gli alunni diventano così automi al servizio di un processo che li trascende, che li sfrutta e rispetto al quale diventano incapaci di comprenderne le ragioni e di osservarlo con modalità critiche. Una falsa libertà già denunciata da Laval e Vergne[3], che nasconde un effettivo autoritarismo, proprio perché si ripromette di condizionare in modo surrettizio i processi di soggettivazione.

L’insegnamento invece non è «finalizzato al controllo, all’esercizio del potere o all’instaurazione di un ordine per cui lo studente può esistere solo come oggetto, ma evento che richiama la sua soggettività interrompendone l’egocentrismo, il suo essere con-sé e per-sé.» Insomma, bisogna smetterla di pensare che l’alunno possa essere stimolato solo riportando qualsiasi contenuto al suo orizzonte d’esperienza, pratico e linguistico, mai forse come in questi tempi così lontano da profonde motivazioni culturali. Di conseguenza, il ruolo falsamente neutrale del “docente facilitatore” –che si limita a controllare come la processualità predeterminata avvenga solo attraverso i giusti passaggi previsti nelle UDA- diventa profondamente invasivo e autoritario.

Ponendo in evidenza la radicale diversità tra autoritarismo e autorità, volutamente ignorata dai fautori della didattica innovativa, Biesta conferma la necessità che sia preservata l’autorità del docente, in quanto spetta a lui individuare quei contenuti inimmaginati dall’alunno, capaci di scuoterlo e di metterne in forse i talenti e le false certezze. Come già hanno scritto Laval e Vergne –anche loro non a caso strenui difensori della figura docente contro l’ingiustificata svalutazione della stessa da parte dello scientismo pedagogico– è al docente che compete la scelta dei contenuti, che spetta il ruolo di provocare la soggettività dello studente per metterla in crisi di fonte all’inaspettato, e sfidarne l’eventuale iniziale reazione negativa, magari la noia, non arrendendosi nell’esercitare quel ruolo di fascinazione («l’erotizzazione del sapere si oppone ai giganteschi sforzi burocratici di standardizzazione del sapere», Laval-Vergne, p, 221) che ha come oggetto del desiderio il contenuto di cultura, inteso come finalità senza scopo, per dirla con Kant, sganciato da fantomatiche competenze, utili solo a chi di quelle soggettività vuole fare massa di manovra precaria e sfruttata di un mercato del lavoro spietato. «Questo tipo d’insegnamento non ha nulla di autoritario, perché non riduce lo studente a un oggetto, ma presta attenzione alla sua soggettività. Non supera l’autoritarismo opponendosi a esso, (in tal caso, gli studenti sarebbero lasciati interamente a sé, cioè al proprio apprendimento-come-significazione), ma stabilendo un rapporto completamente diverso. Si tratta pur sempre di un rapporto di autorità perché nel passare da ciò che desideriamo a ciò che possiamo considerare desiderabile conferiamo autorità a ciò che è altro da noi – o, detto diversamente, autorizziamo ciò e chi è altro da noi a essere un autore, ovvero un soggetto che parla e si rivolge a noi. […] deve essere praticabile, perché se sostituiamo l’insegnamento-come-controllo con una presunta libertà di significazione, in realtà non facciamo altro che rafforzare la non-libertà dei nostri studenti: negli atti di significazione  gli studenti rimangono con se stessi e ritornano sempre a se stessi, senza mai arrivare al mondo, senza mai raggiungere la (loro) soggettività. Si comincia così a delineare un approccio non egologico all’insegnamento, un approccio che non mira a rafforzare l’Io, ma a interrompere l’oggetto-io, a volgerlo verso il mondo, in modo che possa diventare un soggetto-sé».

È evidente il messaggio politico sotteso al discorso di Biesta; esso non viene presentato secondo la modalità “militante” che ritroviamo in Laval e Vergne, ma forse è ancora più incisivo perché appare come strettamente connaturato al progetto riformatore, falsamente tecnico e falsamente neutrale. Poche sono le pagine in cui ciò viene sottolineato, ma in quelle pagine emerge comunque con assoluta chiarezza. L’obiettivo dell’educazione è lo  stesso indicato dai due autori francesi, ovvero far sì che lo studente sia in grado di sottoporre a critica radicale il sistema che, attraverso la teoria dell’apprendimento, lo vuole subordinato, precario, scarsamente acculturato, incapace di senso critico. Scrive Biesta: «L’idea di emancipazione che emerge da queste teorie coincide con una liberazione dai meccanismi oppressivi del potere. Un passaggio cruciale consiste nel mostrare come funziona il potere – nel demistificarlo, appunto- perché si presume che solo quando si sa come funziona, e come agisce su di noi, sia possibile liberarsi dal suo controllo.» Qualcuno potrebbe affermare che vi sia parzialità nella nostra lettura di tipo economicistico; ma Biesta su questo è chiaro: «Questo è solo un esempio di come possa essere utilizzato -forse potremmo dire sfruttato– il tema dell’insegnamento al fine di perseguire un’agenda politica molto precisa, che vada a vantaggio di un particolare segmento della società e dei suoi specifici interessi. Stando a questa citazione [dell’UNESCO], l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalistica globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché,  prima di “decidere” di farlo.  La “libertà di apprendere” dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […]».

L’espressione neoliberismo appare una sola volta nel volume ma è chiaro che, per la pregnanza che assume nel passo, lì va individuata la ratio sottostante, sfuggente e infida in quanto non dichiarata, di tutta la strumentale teoria dell’apprendimento: «La libertà di significato finisce per assomigliare a una sorta di libertà neoliberista – grazie alla quale chiunque è libero di raccontare la propria “storia”- piuttosto che una libertà politica e democratica, grazie alla quale ci si dovrebbe interrogare  sull’impatto che i “poemi” hanno sui modi in cui viviamo le nostre vite insieme nell’eguaglianza– e non intrappolati ciascuno nella propria storia.»

Ce n‘è abbastanza, soprattutto per tutti quei colleghi che, dopo anni di invasivo lavoro ai fianchi da parte dei documenti ministeriali, hanno introiettata l’idea di non essere aggiornati sulle nuove teorie dell’apprendimento, non avvertendo di trovarsi di fronte a strategie retoriche spesso al limite dell’impostura; il testo di Biesta fornisce solide argomentazioni per potersi contrapporre  a tutte quelle riforme distruttive che sono state introdotte in questi anni, e che hanno avuto la massima legittimazione teorica proprio con l’attuale ministero. E anche svelare l’inconcludenza, la cattiva ideologia, la pessima retorica per l’uso strumentale di concetti in realtà nobili, come «comunità educante», «inclusione» che, cosi come accade per i concetti di “conservatore” e “innovativo” (sottoposti a una crudele decostruzione e capovolgimento da parte di Biesta), vengono declinati dalle autorità per rimporre un modello di scuola totalmente opposto a quei concetti e a quei valori.

Per dimostrare che gli insegnanti non sono ostili al sapere pedagogico, ma alla sua riduzione a una sorta di tecnocrazia; e ribadire il necessario legame tra la riflessione educativa e quella filosofica. Che, nelle pagine di Biesta, avviene soprattutto nel segno di Lévinas; il concetto centrale è il non ancora, che potrebbe richiamare anche Ernst Bloch, pur da Biesta non citato. Ci teniamo a dirlo perché ciò che reputiamo sarebbe utile al dibattito sulla scuola oggi –per opporsi a riforme che si configurano proprio come contrarie a qualsiasi immaginazione utopica, nel loro voler santificare l’esistente- è un forte riferimento al messianismo come apertura di possibilità altre. Un riferimento che compare in un altro interessante studio sulla scuola apparso di recente, La scuola del macchinismo di Davide Viero, che cerca di rifondare il discorso sulla natura dell’istruzione con quei riferimenti capaci di opporsi ai presupposti di qualsiasi sapere teorico inteso nella logica tecnocratica.

Un testo, quello di Biesta che, una volta di più, invita alla resistenza a difesa della scuola e degli studenti.

 

 

 

[1]  D.Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino, 2014, pp.101-102.

2 Mi permetto di rimandare in proposito a G.Carosotti, Quali obiettivi formativi per una filosofia senza critica, in “Comunicazione Filosofica”, n°40, maggio 2018. Si veda anche in proposito la recente presa di posizione, a nostro parere regressiva, di Luciano Floridi.

3 Cfr.C.Laval, F.Vergne, Éducation democratique, La Decouverte, Paris 2021, p.207 (traduzione nostra): gli studiosi si riferiscono alla «demagogia che sotto il pretesto dell’”uguaglianza delle intelligenze” lascia credere che gli alunni sappiano sempre in anticipo quello che devono sapere e possono disporre dei servizi educativi secondo la loro volontà. Questa concezione desocializzata dell’educazione è agli antipodi dell’azione socializzante propria della scuola che, per garantire a ciascuno l’autonomia, non può confondere quest’ultima con il singolo capriccio». Biesta non cita i due studiosi francesi, ma rimandiamo all’analisi del loro testo su questo portale per constatare le notevoli affinità tra i due.

 

 

 

 

 

 

Nell’entroterra kenyota

1

 

di Nick Casini

L’auto è una Suzuki Jimny degli anni Settanta senza cinture di sicurezza e con due panche di legno al posto dei sedili posteriori. Viaggia lanciata verso l’entroterra kenyota, mentre Malindi è già una dozzina di chilometri alle nostre spalle, oltre una coltre di polvere. La strada è un disastro di buche e bambini assiepati lungo la carreggiata, ma Danson fila dritto.

Danson è un uomo robusto, sui cinquant’anni, che in Europa equivalgono almeno a ottanta. Mastica miraa – una pianta dall’effetto eccitante venduta a mazzi nei mercati – e si fruga in bocca di continuo. Ha le gengive rosse come pomodori, i denti color avorio e spinge sul pedale dell’acceleratore per mettere in chiaro che lui non ha nulla a che vedere con i pole pole (piano piano), le hakuna matata (non ci sono problemi) e le altre panzane linguistiche insegnate ai turisti per convincerli della presunta spensieratezza della vita equatoriale.

L’aria ha la consistenza di una ragnatela, il sudore mi cola lungo le gambe e grossi mosconi rovistano sul mio collo. I bambini ci guardano come se uscissero fiamme dalla marmitta del Jimny. Ognuno di loro stringe in mano qualcosa da riempire d’acqua: bottiglie di plastica tagliate a metà, taniche ingiallite, gusci di cocco. Indossano magliette arrivate dall’Europa, a volte enormi per i loro corpi esili, a volte che lasciano l’ombelico scoperto. Molte sono identiche le une alle altre, interi stock celebrativi di vittorie sportive mai avvenute e polo aziendali con loghi in bella vista. Sembra di stare in una pubblicità della Benetton anni Novanta, non fosse per la polvere, i moccichi secchi spiaccicati sui visi dei bambini e il groviglio di piante a fare da sfondo invece del bianco luminoso à la Avedon.

«È vero che in America i ricchi sono tutti secchi e i poveri grassi?»

Guardo Danson e non so bene cosa dire. Non sono lucido. Ho dormito poco, anche se sono andato a letto alle dieci. Ho fissato la paglia del soffitto di camera in cerca di risposte che non c’erano.

Di notte, a meno di non far parte della schiera di emigrati che traggono soddisfazione dal bullizzare i camerieri e le baby prostitute dei night club, a Malindi non c’è niente di decente da fare. Ci sono solo buio e rumori sinistri, maree che si ritirano per decine di metri nella pancia dell’Oceano Indiano, bolsi ristoranti dove suona musica napoletana per gente vestita di bianco. L’illuminazione pubblica non esiste, gli scooter e i tuk tuk sfrecciano nella notte disegnando ombre terrificanti nella vegetazione. Macchine ferme con i fari accesi rischiarano uomini seduti a fumare sigarette sul ciglio della strada. Le case hanno l’aspetto di teschi senza vita.

Silvana e Andrea, i due anziani signori che mi ospitano, non hanno mai socializzato molto con gli altri italiani, e io sto seguendo il loro esempio. Acquistarono un lotto di terreno ad inizio anni Novanta – all’alba del boom immobiliare di Malindi – ma si tennero fin da subito sulle loro. In giro, all’epoca, c’era poco: niente strade asfaltate, niente resort e supermercati, niente cliniche per turisti; solo qualche villa circondata da filo spinato e una burocrazia che pretendeva una tangente ogni volta che c’era da spostare un foglio di carta da un ufficio ad un altro. I villaggi nella foresta – a parte per qualche incursione della Chiesa Cattolica – rimanevano inesplorati. Con un po’ di fortuna, al mercato della mattina si potevano ancora incontrare anziani che ricordavano i bombardamenti italiani durante la Seconda guerra mondiale (sulla costa kenyota c’erano campi d’aviazione Alleati, per questo le bombe). Poi la guerra era passata, ma non gli italiani, che erano tornati negli anni Sessanta con una laurea in ingegneria e l’autorizzazione a fondare il Broglio Space Center. Una distanza dall’equatore di soli trecentocinquanta chilometri rende Malindi una base ideale per lanciare satelliti nello spazio, ma non è quello che agli ingegneri piaceva raccontare al ritorno a casa. I loro cervelli civilizzati avevano occhi solo per l’autenticità e la semplicità della vita da quelle parti, il mito del buon selvaggio contro il miracolo economico fatto di grigiore e cemento. Aragoste vive consegnate a domicilio per un pugno di lire; soldi cambiati in piazza a tassi che in banca te li sogni; Jeep parcheggiate sul bagnasciuga; autisti, camerieri, guardie armate e seconde mogli che tutte insieme, al mese, costavano meno dell’affitto di un bilocale a Milano. Su queste ricchezze – portandosi appresso il solito corredo di soldi da riciclare, furfanti abbronzati e ombre mafiose – era sorta l’ennesima Little Italy del mondo.

Silvana e Andrea sono dentro la beneficenza fino al collo, lo sono sempre stati. Hanno costruito scuole e portato quintali di farina in zone della foresta dove nessun bianco benintenzionato si era mai spinto prima; anche in questo genere di imprese Danson – il loro tuttofare – ha sempre avuto delle responsabilità. Al momento della mia visita sta supervisionando la costruzione della nuova Sabaki Village Elementary School, e non importa se il suo corpo – e i suoi occhi – non sono migliori di quelli dei suoi anziani datori di lavoro: Danson non è il genere di uomo che si tira indietro. E poi, la situazione al Sabaki Village è quella che è: il dottore è appena fuggito con tutti i farmaci – e pure il lettino per fare le visite – e nessuno sa che fine abbia fatto. Qualche mese fa, invece, è stato il capo villaggio a darsela a gambe con i soldi per il cibo, però lui era stato ritrovato perché con i soldi trafugati si era comprato una motocicletta che poi aveva mandato a sbattere contro un albero appena fuori città. Quale sia stato il suo destino, nessuno lo dice. Le cose succedono, e basta. Lo stesso Danson, nonostante la specchiata onestà, non brilla per doti da pianificatore: venuto il momento di dare in sposa la figlia primogenita, ha speso tutto quel che aveva accumulato in anni di lavoro per comprare abiti da cerimonia, quintali di riso e un’intera mucca, che poi aveva macellato all’arma bianca per sfamare dozzine di parenti con alle spalle anni di fame e languori. Finita la cerimonia, Danson aveva rimandato la moglie e i figli alla baracca senza acqua corrente né elettricità dove abitano da sempre.

***

Danson parcheggia il Jimny di fronte al cantiere della Sabaki Village Elementary School. La nuvola di polvere che si solleva aggiunge una superflua nota d’enfasi al nostro arrivo. Ad aspettarci troviamo una dozzina di bambini, e altri spuntano da dietro alberi e cespugli come bersagli del luna park. Alcuni rimangono ad osservarci da lontano, altri si avvicinano per chiedere caramelle. Danson si scrolla i capelli dalla polvere e attraversa la folla tirando finti pugni a destra e a manca. I bambini gli corrono intorno e sgomitano per farsi inseguire. Io gli vado dietro cercando di non sbattere contro nessuno. Non mi sento abbastanza a mio agio per fingere anch’io di picchiarli – ho la pelle bianca e le scarpe ai piedi – quindi mi limito a sorridere.

«Gli adulti – mi spiega Danson – sono a Malindi in cerca di un lavoro per la giornata, o a fingere di farlo. I ragazzi più grandi, quelli che abbiamo visto per strada, hanno le gambe lunghe e quindi vanno a prendere l’acqua. Le donne sfaccendano in giro e si occupano dei neonati».

Scatto qualche foto con la bramosia che solo la miseria esotica riesce ad accendere nell’uomo occidentale. Il villaggio è circondato da appezzamenti di terra rubati alla foresta che sembra che qualcuno abbia provato a coltivare, ma che poi gli sia passata la voglia. C’è una mensa con i tavoli e le panche di cemento (a prova di furto) e dei bagni con i tetti in lamiera e finestre senza infissi. Entrambi gli edifici sono bassi e stretti, simili a caserme, con le mura scrostate e sporche di terra. Le case (capanne) hanno tetti di paglia e pareti di fango assemblate su intelaiature di legno. Un uomo in occhiali da sole sta saldando una grata di ferro alla finestra violata dell’ambulatorio. I bambini più estroversi mi corrono intorno e chiedono di vedere le foto appena scattate, altri scappano a nascondersi appena li guardo. I più esagitati si mettono in pose da adulti e non si muovono finché non fisso la loro immagine in formato digitale e gliela mostro. Danson tira dritto verso l’ambulatorio. Mettere in sicurezza le medicine che arriveranno è un priorità, perché nella foresta – e pure in città – le medicine sono il bene più prezioso. Il mercato di medicinali di contrabbando è fiorente, gli approvvigionamenti scarseggiano, le speculazioni impazzano. Le farmacie sono bunker seminterrati con inferriate più spesse di quelle delle banche.

Il sogno di Silvana e Andrea è quello di fornire al Sabaki Village anche l’elettricità – sarebbe un’opera testamentaria – ma è un sogno che esiste da anni e dai molti risvolti. Non molto lontano, anni fa, un’organizzazione umanitaria riuscì a portare acqua corrente a un villaggio della foresta, un lusso che da quelle parti non si era mai visto. Corso del fiume deviato, pompe, autoclavi e grande gioia per tutti. Fine dei chilometri da fare ogni giorno con taniche e bottiglie in mano, igiene alle stelle (o quasi). Poi il fiume era straripato, e le decine di famiglie che ci avevano costruito le proprie capanneintorno – senza curarsi dei rischi – erano morte. La tragedia non aveva fatto cambiare idea ai locali riguardo bontà del progetto (abituati a veder morire gente di ogni età su base settimanale, anche senza fiumi di mezzo), ma aveva indotto alla cautela gli occidentali, che una volta in più avevano dovuto constatare che da quelle parti – dove la parola povertà non significa non possedere oggetti, ma dover arrivare al giorno dopo – il problema non è fare, ma preservare.

Ci sediamo all’ombra per parlare con il nuovo capo villaggio, appena eletto dall’assemblea degli anziani. È un marcantonio dall’aria bonaria, sembra un giocatore NBA in visita al paese di origine, ha la faccia della persona giusta che sa di essere finita nel posto sbagliato. Indossa una camicia chiara a maniche corte e un paio di pantaloni di lana; la prima cosa che ci chiede è quando arriveranno le medicine. Danson sbuffa e gesticola come un italiano, gli fa intendere che prima di vedere anche solo un’aspirina dovrà dimostrare di avere il controllo della sua gente. Il capo villaggio mi guarda come se gli fosse stato chiesto di andare a piedi sulla luna, e io fossi quello che ha la scala. Mi dice che i bambini hanno bisogno di cure, che non c’è tempo da perdere, poi ne afferra uno per un braccio come fosse un bagaglio e mi mostra i suoi occhi rossi circondati da una sostanza appiccicosa. Il bambino ci mette un attimo a correre via.

Il giorno che sono atterrato a Malindi il mio viaggio si è subito rivelato per quel che sarebbe stato: un ricongiungimento traumatico con una condizione umana priva di sovrastrutture, così diretto da farmi dubitare che tutto quello che mi stava accadendo fosse un sogno o se, piuttosto, il sogno era durato fino a quel momento. Ogni sera, nella fatica di prender sonno, ho provato ad immaginare cosa avrebbe voluto dire abbandonare tutto e venire a vivere in Kenya. Liberarmi dell’angoscia per il futuro remoto, della necessità sociale di diventare qualcuno e tornare alla radice delle cose. Mi sono chiesto se avrei fatto la fine di Marlon Brando in Apocalypse Now, o se sarei impazzito nel tentativo di replicare un altrove che da queste parti non può esistere.

Per Silvana, che lo stesso ragionamento l’ha fatto trent’anni fa, il problema non è mai stato costruire edifici o abituarsi a morti e malattie, ma accettare l’idea di non poter aiutare tutti; convivere, anzi sopravvivere, al pensiero che nel villaggio accanto a quello a cui hai appena recapitato quintali di farina ce n’è un altro con un numero doppio di bambini denutriti rispetto a quanti ne hai appena sfamati. E lo stesso in quello successivo. Una sensazione di impotenza che non va mai via, un’assenza di finale che l’uomo occidentale non è abituato a processare. L’idea che non c’è un traguardo, ma solo la corsa.

Danson mi schiocca le dita davanti al viso e se la ride quando sobbalzo. Mi toglie una zanzara dalla spalla colpendola con uno schiaffo, e la zanzara vola via illesa. Poi si alza e indica un sentiero di terra rossa che si perde nella boscaglia. Le sue braccia sono imperlate di sudore, la spina dorsale lordotica, le cosce tozze come quelle di un centometrista. Donne con ceste poggiate sulla testa ci guardano da lontano.

«Ti va di assaggiare il mango più dolce che tu abbia mai provato in vita tua?»

Le parole degli altri: Mario Benedetti

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Nota a Per Mario Benedetti, Mimesis Edizioni

di Valérie T. Bravaccio 

 

L’impossibilità di assistere ai funerali di Mario Benedetti durante il primo lockdown da covid (marzo 2020) è all’origine del progetto del libro, perché quello era, secondo i tre curatori – Alberto Garlini, Luigia Sorrentino e Gian Mario Villalta – l’«unico modo possibile per essere presenti, insieme nel suo ricordo». Così, per ordine alfabetico, quarantacinque personalità del mondo culturale odierno rendono omaggio al poeta Mario Benedetti. Per lo più, riprendendo brevi testimonianze già apparse in rete sul blog RAI di Luigia Sorrentino . Molti altri omaggi furono espressi al momento della morte di Benedetti (vedi ad es. une autre poésie italienne. ).

C’è chi lo ha conosciuto personalmente e chi no, riproducendo proprio sulla carta, in qualche modo, l’atmosfera particolare dei funerali. Il lettore sembra invitato a osservare un gruppo di persone che raccontano, a turno, aneddoti sul suo carattere (torna spesso che egli era difficile, introverso, ecc.), sintetizzato da Stefano Dal Bianco con l’immagine del coltello e della mozzarella; oppure sulla sua propensione al silenzio: era capace di restare un’ora senza parlare al bar seduto a un tavolo con un amico, come lo ricorda Tommaso Di Dio. Ironico, quando il quotidiano La Repubblica pubblicò la sua fotografia per annunciare la morte del poeta uruguaiano omonimo nel maggio 2009: «ci rideva su» ricorda Claudia Crocco. Accanto ai ricordi di alcuni con Mario Benedetti, c’è chi lo ha soltanto letto e apprezzato (o meno). E quindi, possiamo dire che il progetto iniziale sia stato compiuto e portato a buon porto dai curatori.

Ma, secondo me, c’è qualcosa in più. Il progetto sarebbe diventato anche un’istantanea sulla poesia e il modo di analizzarla oggi. Infatti, due personalità scrivono che, con tanto rispetto, la poesia di Mario Benedetti non è piaciuta loro, giustificandosi riguardo alla storia letteraria («è una tipica poesia di fine secolo» – Roberto Galaverni) e, secondo Andrea Gibellini, il poeta Mario Benedetti è stato «un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale». Poi, c’è chi fa il legame tra l’indole dell’uomo e il suo essere poeta: è introverso perché ha la «capacità di connettere elementi e mondi lontanissimi» come afferma Corrado Benigni; il silenzio in poesia «succede a chi parla con i morti» (Alberto Garlini). Vien fatto di pensare qui a Philippe Denis. Ma, secondo Milo De Angelis, Mario Benedetti aveva la «capacità di far convergere in questo silenzio le parole degli altri». Tuttavia, Gian Mario Villalta avverte che «c’è ancora molto da dire […] sulla forma di questa poesia». Infatti, ogni poeta, come ricorda Andrea Afribo, ha la sua “cultura libresca”, pittorica, ecc., non solo italiana ma anche internazionale, che è entrata ormai (e, cita, giustamente Vittorio Sereni) «nella sua cerchia esistenziale né più né meno che come persone». Oppure, aggiungiamo noi, “seconda natura” (mettiamo, in Giovanni Raboni). A fare luce anche sulla forma, in un modo molto raffinato, è invece Jean-Charles Vegliante. Per esempio, analizzando la metrica del verso “Vedere che non ci sei più, non dire niente” Vegliante afferma che si tratta di un «trimetro hugoliano, traccia delle letture che egli amava». Infatti, come ricorda pure Antonella Anedda, da poeta come lei è, Mario Benedetti leggeva i poeti francesi perché era «in grado di farsi colpire da folate di altri linguaggi (il francese prima di tutti)».

Il progetto iniziale di riunire personalità del mondo culturale odierno per assistere virtualmente ai funerali di uno scrittore, supera le aspettative solite perché offre spunti di riflessione su come analizzare la poesia in generale. La biografia è molto importante, certo, per capire un modo di scrivere, però non si deve dimenticare che a ogni poeta piace anche (o prima di tutto) la lettura. E nel caso la traduzione, ovviamente. La traccia delle sue letture, che siano esse in lingua madre o in lingua straniera, è improntata nella sua scrittura, nel suo modo di scrivere, o stile. E non appare soltanto attraverso tematiche o reimpiego lessicale. Come un’orma nella sabbia, essa può affiorare nella metrica e nel ritmo, per tramandare il battito del cuore; l’energia vitale, appunto. La comunicazione letteraria, come afferma Vegliante, è tra «locutore (io poetico) e interlocutore (tu che stai leggendo), [i quali] si possono ritrovare allora uniti in un discorso intimamente dialogico, a volte interrotto o “a buchi” e tanto più stimolante».

 

 

 

Del solvere e del dissolvere: cartolina da Montelago

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«[…] qualche cosa che / provenga da mutilati orizzonti immaginari

di inconcepibile / travaglio»

Emilio Villa, Sybilla (foedus, foetus)

 

È una specie di proprietà ondivaga, radicata nel travaglio, a fare delle Marche una regione intermittente, che appare e spare da ogni topografia monumentale. Ecco perché Montelago è tutto un tracimare di incontri, di storie inconcluse ma – proprio per questo – traboccanti di avvenire. Questione di Viriditas, parola centrale nel pensiero di Ildegarda di Bingen (protagonista quest’anno di un incontro tra Lucia Tancredi e Loredana Lipperini): il grande verdeggiare del possibile quando lo si pianta con misura provvisoria, come una tenda nella “terra di mezzo”.

A Montelago non c’è spazio per la fissità: luogo di fiaba in itinere, orgogliosamente pericolante; luogo d’incongruenza, del solvere e del dissolvere, di ubriacatura balsamica; luogo di medicamento, prima del mondo e poi dell’immondo, ma senza ecologismi di facciata, perché qui si è ben consapevoli di cosa comporti una moltitudine non addomesticata, una città provvisoria capace – per dirlo con le parole di Piero Camporesi – di fondere «in una sintesi vitale, creativa, deflagrante, il profano con il sacro, l’impuro col puro, l’abominevole con l’incantevole, il selvatico con il domestico, l’orto col bosco, il devoto col sacrilego, il buffone con il savio, il folle con il principe» (La carne impassibile). Una tritura di opposti che dura da vent’anni, ma che fatico a non pensare lunga quanto la storia umana: medicinale perché ossimorica, impegnata nel commercio con la terra e con il cielo; ora estatica, ora assorta in un grande sonno di bimbo arrostito al sole.

 

 

Il popolo di Montelago è, come diceva un filosofo francese, un popolo «che manca», che non esiste ancora, ricostituito volta per volta, attendato dentro il proprio orizzonte di costruzione. Ed è forse per questo che le foto più esaltanti sono quelle che riprendono Montelago dall’alto, in una prospettiva aerea dove la vertigine rovescia l’identità, e si smette di riconoscersi per trovarsi altri: moltitudine in festa, che danza senza sosta la propria rinascita.

 

 

Elogio del calciatore violento: Boban, Cantona, Zidane

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di Daniele Ruini

 

Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione.
(G. Leopardi)

 

Anche in questi mesi estivi durante i quali si consuma il rito del calciomercato, il calcio mostra la sua duplice natura: da un lato, un passatempo per benestanti, in cui la fanno da padrone finanza, gestione manageriale di ogni aspetto, diritti televisivi, cura tecnologica dei giocatori e prezzi (di biglietti, abbonamenti e merchandising) sempre più alti; dall’altro lato, la stessa capacità di sempre di accendere le passioni e le pulsioni dei tifosi, che –nonostante il disgusto verso un mondo gonfiato dai soldi e che ha perso identità­ e spirito comunitario– non smettono di essere emozionalmente sopraffatti ogni volta che un pallone rotola tra i piedi di 22 contendenti.

Messo anch’io di fronte a questo giano bifronte, tra repulsione e trasporto, sono attraversato dalla rievocazione di tre immagini divenute iconiche, tre momenti in cui tre grandi giocatori hanno, per così dire, rotto gli schemi, finendo al centro dell’attenzione non per meriti sportivi quanto per demeriti comportamentali. Censurati e additati come contro-esempi, le loro azioni violente mi sembra possano servire a controbilanciare il moralismo ormai imperversante nel mondo del calcio, dove i calciatori sembrano obbligati ad esibire esistenze tanto patinate quanto integerrime (potrebbe mai esserci un Maradona oggigiorno?), e dove il racconto sportivo rimane spesso soffocato tra enfasi eccessiva e tecnicismi tattici.

I tre momenti risalgono al 1990, al 1995 e al 2006: ovvero durante e subito dopo quegli anni ’90 che, tra decisioni politiche (la sentenza Bosman è del 1995), evoluzioni tecniche (con i calciatori uniformati a quell’atletismo che ha invaso tutti gli sport) e affarismo dilagante (si pensi al sempre più decisivo ruolo dei procuratori), rappresentano una spartiacque tra un prima e un dopo.

E i tre protagonisti non sono calciatori qualunque: si tratta di tre fuoriclasse che, ad un talento naturale, hanno unito una personalità non comune e un carattere facilmente irascibile.

Zvonimir Boban, 13 maggio 1990

Prima di essere uno dei leader del Milan supervincente degli anni ’90 e della nazionale croata, Zvonimir Boban è stato il giovanissimo capitano della Dinamo Zagabria, squadra con cui ha partecipato alle ultime edizioni del campionato jugoslavo prima dello scoppio della Guerra dei Balcani. E fu proprio quando le prime iniziative politiche in Slovenia e Croazia stavano dando il la alla dissoluzione della Jugoslavia che una partita di calcio calamitò su di sé tensioni che andavano ben al di là dello sport.

Il 13 maggio 1990 la Stella Rossa di Belgrado, già matematicamente vincitrice del campionato, si presentò a casa della Dinamo Zagabria, seconda classificata, ma la partita non poté nemmeno essere disputata. I supporter della squadra serba, guidati dal famigerato Arkan e reclutati tra futuri criminali di guerra, scatenarono una vera e propria guerriglia urbana, e le due tifoserie si affrontarono in campo. Vedendo la polizia prendersela soprattutto con i supporter croati, Boban, capitano ventunenne della Dinamo, rimase in campo insieme ad alcuni compagni di squadra a dare man forte ai propri tifosi; e fu in quel momento che la sua rabbia esplose e si scatenò contro un poliziotto colpevole di aver preso a manganellate un tifoso:

 

Una ginocchiata volante scagliata con la grazia di un ballerino e l’orgoglio di chi si sentiva in dovere di difendere una nazione intera dai soprusi del regime. Un atto ribelle che costò all’agente la frattura della mascella e a Boban un processo e la successiva squalifica a 9 mesi.

Éric Cantona, 25 gennaio 1995

Se c’è un giocatore che ha fatto della sua esuberanza e della sua strafottenza un marchio di fabbrica quello è proprio Éric Cantona. Della stessa generazione di Boban, figlio di madre catalana e di padre di origini sarde, Cantona è nato e cresciuto a Marsiglia. Ma con la squadra della sua città, l’Olympique, ha potuto giocare solo un campionato e mezzo: nonostante il suo evidente talento, i dirigenti non ne hanno sopportato le tante irrequietezze disciplinari (tra allenatori mandati a quel paese e risse con i compagni), spedendolo in prestito in altre squadre. Fino a quando, dopo una squalifica per aver lanciato la palla contro un arbitro, Cantona decide di iniziare una seconda vita calcistica in Inghilterra (decisione tutt’altro che scontata all’epoca, soprattutto per un calciatore francese).

Dopo una stagione con il Leeds United, con cui vinse il campionato, Cantona si trasferì al Manchester United, squadra che lo consacrò nella leggenda. Le sue giocate, i suoi gol, il suo colletto alzato e la sua mitica maglia numero 7 (la stessa che sarà indossata da David Beckham e Cristiano Ronaldo: due calciatori simboli perfetti del calcio mediatizzato e così diversi dall’anarchico Cantona) lo renderanno l’idolo dei tifosi e un’icona sportiva.

E a farlo diventare ancora più celebre fu ciò che successe il 25 gennaio 1995, all’inizio del secondo tempo di Crystal Palace-Manchester United: dopo essere stato espulso per un calcio tirato a un difensore avversario, Cantona si avvia verso gli spogliatoi e, improvvisamente, fa questo:

 

Rincorsa, calcio volante e pugno in faccia ai danni di un tifoso del Crystal Palace, reo di averlo offeso. Squalificato fino a fine stagione e condannato a 120 ore di lavoro socialmente utile, ancora nel 2017 Cantona, ritornando sull’episodio, così dichiara:

Ho detto in passato che avrei dovuto colpirlo in modo più forte […]. Non posso pentirmene. È stata una bellissima sensazione.

Una bellissima sensazione. E forse, in fondo, anche un atto di giustizia verso tutti quegli spettatori il cui massimo godimento consiste nell’offendere i calciatori in campo, compresi quelli della propria squadra. Un’usanza purtroppo diffusissima negli stadi di calcio: e allora, qual è il cattivo esempio?

Zinédine Zidane, 9 luglio 2006

Figlio di genitori algerini e cresciuto a Marsiglia come Cantona, Zinédine Zidane è stato forse il più elegante calciatore ad aver calcato un campo di calcio. Campione del mondo con la nazionale francese, vincitore del Pallone d’Oro, faro di Juventus e Real Madrid (squadra che ha poi guidato anche da allenatore ottenendo una serie di vittorie sorprendenti, tra cui tre Champions League consecutive), il fantasista francese ha più volte mostrato in campo un carattere irruento.

Tra i suoi scatti di nervi più celebri vi fu la testata rifilata a un difensore dell’Amburgo nel 2000 punita dalla UEFA con una squalifica di cinque giornate. Ma ovviamente nulla può equiparare la celeberrima testata a Marco Materazzi (trasformata in scultura dall’artista algerino Abdel Abdessemed), atto

che valse a Zidane l’espulsione in quella che fu la sua ultima partita da calciatore: la finale di Coppa del mondo del 2006 persa contro l’Italia.

All’inizio del secondo tempo supplementare, con il risultato bloccato sull’1-1, il campione francese non resiste alle provocazioni verbali del rude difensore italiano e decide di abbatterlo in questo modo:

 

Si poteva scegliere un modo più memorabile per chiudere una carriera straordinaria? Tra il bullo difensore italiano, figlio d’arte e di note simpatie destrorse, e il fuoriclasse che danzava sul pallone e che, anche dopo aver vinto tutto, non ha mai perso la rabbia di chi ha imparato a giocare a calcio in uno dei quartieri più poveri di Marsiglia… beh, non mi è mai sembrato difficile scegliere. Come ha scritto Jay McInerney, «C’è una specie di nobiltà, nell’andare al patibolo tutto solo»: Zidane è uscito di scena condannandosi alla reprimenda pubblica, eppure con quella reazione violenta si è mostrato in tutta la sua nobile fragilità. Chi ha detto che anche da questo non si possa imparare qualcosa?

Il pittore

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di Salvatore Enrico Anselmi

 

Le rocce metamorfiche attestavano il declino del giorno come topazi grezzi, da smussare, come grandi sassi opachi che avrebbero rivelato barlumi e splendore se sfregati a lungo. La componente litica ferruginosa esaltava il colore ambrato, saturo al sole ma reso ottuso dove l’ombra di qualche nuvola s’appoggiava sulla pietra. Allora questa chiazzava, di grigio, la terra e i sassi collocati in ristagno cromatico da sordine simili a velature.

Era il momento del distacco anche da quell’infinitesimo brandello di esistenza appigliata al cielo, ventoso, e ai rami degli alberi stesi sull’orizzonte. Rami avari di foglie, dove le foglie erano strisce coriacee, tinte di verde aspro. Un saluto verso il cielo che dichiarava la sua perennità a dispetto della stagione mutevole e dell’uomo che popolava quella e le stagioni a venire.

Charles decise che fosse giunto il momento di tornare a casa.

Glielo confidava la fine della giornata trascorsa all’aperto nel tentativo di decodificare le leggi prospettiche che attribuivano l’ordine costruttivo alla sostanza cromatica del paesaggio.

Ripose i pennelli e i colori nella cassettina portatile, pulì la tavolozza e la fermò con un elastico, avvolto intorno alla custodia. Ripiegò il cavalletto, privato della tela, e lo mise sotto il braccio. Con la mano libera impugnò un’estremità non ancora dipinta del quadro e ritornò al suo alloggio.

Lì ad aspettarlo Lisa, occupata per tutto il giorno, con i panni da lavare e far asciugare su un filo di fortuna teso tra due chiodi che punteggiavano, interlocutori affilati, generatori di ombre sottili, le pareti laterali alla finestra in camera da letto.

La sollecitazione sui chiodi e l’uso della cordicella, allungata come una trappola che fa inciampare chi non solleva il piede in tempo, aveva fatto sgretolare ancora un po’ l’intonaco. Il calcinaccio era caduto sulla pavimentazione di legno, tra le fibre rugose e quasi taglienti delle travi che correvano parallele a terra. Dichiarava un’ablazione ripetuta e misurabile se confrontata col vuoto lasciato nel muro intorno alle capocchie scure dei puntelli assestati sul bianco.

«È un vero lusso poter contare sui propri indumenti intimi, tirarli fuori dalla valigia, lavarli e lasciarli ad asciugare. È un conforto il solo pensiero di indossarli, finalmente, dopo giorni di vestiti appiccicosi per il sudore. Mi sento meno sporca, se possibile»

Lisa non aveva tutti i torti considerando che da giorni non si erano fermati per più di ventiquattro ore in un posto e avevano continuato a caricare e scaricare dalle corriere i loro bagagli con ritmo parossistico.

Lisa e Charles avevano lasciato la loro casa stabile, la loro città, e il continente ritenuto civile, da almeno sei mesi per concedersi un anno sabatico: Lisa corrispondente dall’Italia per un rotocalco inglese, Charles pittore di professione stanco delle esposizioni a catena, dei galleristi e critici da omaggiare o mandare a quel paese. L’ultima personale era andata bene e aveva venduto quasi tutto. Doveva quindi tornare a lavorare liberamente per poter riempire di nuovo lo studio, riprendere gli inviti ai collezionisti e ai mercanti. La consueta trafila. Prima di cadere ancora nelle maglie dell’esistenza da artista alla moda voleva rinverdire la frequentazione, se non propriamente la conoscenza, perché ormai si conosceva bene, con il sé più libero e disinibito.

Lo faceva scrivendo i suoi pensieri in modo compulsivo su un taccuino, camminando a lungo, fino a tornare sfiancato, dipingendo, assaporando l’amore messo in vendita dove il caso lo portava o dove l’istinto del cacciatore di corpi, lo guidava, dove occhi scuri e sottili, sorrisi emaciati, teli sgargianti lo attiravano dentro case di sabbia cementata e grotte di pietra friabile.

L’amore presunto e dispensato da fattezze estranee lo allontanava ogni giorno, con maggior efficienza, da Lisa che rimaneva, nei pensieri di Charles, lontana e in controluce.

Il suo allontanarsi si era compiuto in modo progressivo, a strattoni sempre più lunghi, ma regolare e cadenzato da una strana pulsione inversa rispetto all’iniziale oggetto di accudimento e amore, la moglie.

In quel periodo la pittura figurativa andava ancora per la maggiore benché le insidie dell’astrattismo cominciassero a minare i fianchi e le certezze dei benpensanti che continuavano ad aprire volentieri il portafoglio per appendere alla parete del caminetto un rassicurante paesaggio campestre, una finestra aperta su un giardino o un tavolo sul limite ingombro di frutta e stoviglie. Avevano ancora vita dura, per innestarsi saldamente sulle pareti delle case, anche in quelle più avvedute e alla moda, le divinità esotiche che sembravano cavate dal legno a viva forza, inquadrate da tre diversi punti d’osservazione, interno-esterno, esterno-interno, animate da un demone occhiuto che cantava alle loro orecchie, provocando reazioni scomposte.

Prima del ritorno all’ordine era quello il periodo durante il quale non ci si voleva allontanare affatto dall’ordine confortevole delle forme, oggetti o esseri umani che fossero, affinché l’ordine apparente delle cose che popolavano il mondo fosse anche l’ordine costitutivo dell’arte.

Ma a guardar bene in controluce, tra gli incavi molati delle coppe dalle quali tutti bevevano, una fessurazione cingeva il cristallo. Quella soluzione di continuità combaciava con l’attimo precedente alla perdita dell’ordine, vissuto da sempre insieme come un cane da grembo sul grembo della sua padrona, come l’istinto predatorio contro la vittima, come il giallo delle patate vicino all’arrosto brunito, che catalogava, incasellandole, le cose e gli uomini, i loro sentimenti e le loro passioni, i deuteronomi, gli assiomi, le buone regole imposte dai legislatori senza vizi e recepite dagli esecutori senza qualità apparenti se non quella di applicare la norma alla fattispecie di vita.

«Finché i vasi di fiori, le montagne al tramonto, i fianchi rosa e veritieri in un nudo di donna avranno la meglio sulle facce a tre occhi e gli zigomi incavati da maschere tribali, non mi dovrò preoccupare!» – Affermava Charles con sicurezza sufficiente ad allargargli la bocca sulla faccia levigata di quel bravo ragazzo che nel contempo sembrava un figlio di buona donna. Soprattutto quando sorrideva a occhi stretti come fessure e gli si piegava la pelle agli angoli delle labbra.

Lisa replicava che i vasi si rompono, che non c’è sempre il sole al tramonto e che prima o poi le maschere avrebbero mandato in soffitta i nudi femminili con i due seni, le due braccia e le due gambe d’ordinanza.

«Dovresti saperlo che prima o poi le novità, intelligenti o dozzinali, si diffondono e scalzano il vecchio!»

Charles non apprezzò, ma sorrise lo stesso accompagnando l’inarcamento della bocca con un sospiro, uno sbuffo d’aria annoiato.

Il giorno successivo si spostarono ancora, lungo la via del deserto di sassi che diventava d’argilla più fine e sabbia, fino a Morcete, città segnata nelle carte come l’ultima prima delle grandi dune. Lì i collegamenti col resto del mondo, – posta, viveri, medicinali, carovane di beduini pagati dagli europei, – ci arrivavano ancora. E allora una volta alla settimana giungevano notizie sulla ruggente vedovanza per la morte degli scrupoli in politica interna, per il barrire delle deliberazioni economiche internazionali allo scopo di incrementare gli utili, per il grugnire ippopotamico dei grassi arricchiti, contrapposto allo stridio dei sempre più emaciati secchi digiunatori del terzo mondo alle prese con la carestia.

Raggiunse Morcete anche una carovana di Argagni, nomadi e stanziali a stagioni alterne, che avevano scortato fino a lì una missione di geografi incaricati dalla Società internazionale di rilevamento topografico, con sede a Montpellier, di ridisegnare i rilievi grafici della zona. Era un aggiornamento dovuto, sia in caso di pace, sia in caso di guerra. Si dovevano conoscere comunque bene i territori da conquistare così come quelli da cominciare a governare. La geografia non aveva bandiere, non si riconosceva in un uno o in un altro regime, non esprimeva giudizi di valore. Registrava alture, circonvoluzione dei gioghi e degli avvallamenti, letto striminzito dei corsi d’acqua, estensione delle oasi, qualità delle strade dove c’erano e opportunità di tracciarne, dove non c’erano mai state.

Tra gli studiosi, armati di tutti quegli strumenti, semoventi o statici su tre piedi, che potevano occhieggiare, misurandola, l’avanzata dei fenomeni erosivi, lavorava anche Maurice, giovane ricercatore, geografo specializzato nell’analisi dei valori igrometrici e di variazione della temperatura nei climi caldi sahariani, che allungò l’estensibile delle sue lenti anche su Lisa.

Quando una sera Lisa si allontanò per andare a cercare frescura sul lato est della massicciata posta tra un vicolo di confine e i giardini di palmizi, Maurice la seguì. In quella circostanza Lisa dimostrò a sé stessa e a Maurice che non sempre il tramonto è assolato, che un vaso fragile sin dal momento della sua foggiatura si può rompere alla minima pressione e che gli zigomi ossuti di una maschera potevano rappresentare, meglio che due guance rosee, la calata sulla terra degli dei che sovrintendono le ombre.

Maurice ne fu compiaciuto e raggiunse lo scopo prefissato, prefissato da qualche giorno, deciso come data e raggiungimento indifferibili. Deciso.

Anche Lisa aveva deliberato, senza dichiararlo a nessuno, nemmeno a sé stessa riflessa allo specchio, nemmeno all’ombra sagomata che si allungava dai suoi piedi fino alle dune più vicine, che avrebbe voluto tradire Charles con quel ragazzo, visto armeggiare da vari giorni con ignoti strumenti di misurazione.

Lisa e Maurice esaudirono i loro desideri e misero in atto le rispettive, coincidenti, deliberazioni, dapprima dentro una tenda da campo, usata come infermeria, fortunatamente rimasta vuota per la durata del loro pomeriggio di esclusiva, personale appropriazione reciproca. In seguito in una camera afosa, inutilmente arieggiata, solo per smuovere strati di aria calda su altri strati di aria calda, all’Hotel Internazionale che grondava dalla facciata, dominante il centro della città, sudore e intonaco caramellato.

Ai primi incontri ne seguirono altri, mentre Charles tentava di estorcere alle alture color topazio l’enigma nascosto della loro miscela cromatica, soprattutto quella che scendeva sui fianchi in ombra, chiazzati dall’alone più scuro proiettato dalle nuvole.

Una sera, di ritorno da una lunga sessione pomeridiana, Charles decise di fermarsi in centro, una breve deviazione dopo giorni interi trascorsi tra i sassi e le salamandre, che dalla superficie terrosa sarchiavano in cerca di ombra e acqua nascoste più in profondità, sotto i sassi.

Anche la sosta a Morcete smosse alcune pietre.

Mentre Charles spigolava con lo sguardo segni evidenti di civiltà, facendo rimbalzare gli occhi da un’insegna dipinta di fresco alle luci ammiccanti dei club aperti dagli europei stanziali, Lisa gli apparve pochi metri più avanti, di lato e solo in parte coperta da un gruppo di ubriachi che giocavano a dadi, sulla veranda dell’Internazionale.

Usciva dall’androne caramello dell’albergo avvinghiata a Maurice, per quella forza di ancoraggio persistente tra due corpi che si sono appena disgiunti e che la prudenza, le buone maniere, il pericolo d’essere sorpresi non sono sufficienti ad allentare.

Lisa si accorse in tempo di Charles, mentre Charles ebbe come l’impressione che Lisa, già distante da Maurice, se ne fosse allontanata poco prima. Forse perché l’aveva visto. Charles ne ebbe il sospetto, erano i soli bianchi, in mezzo a gente del posto, in uscita dalla veranda, anche se Maurice, appena sfilato il braccio dalla vita di Lisa, aveva scantonato verso il gruppo di giocatori e simulava interesse per il lancio dei dadi puntando due monete sul secondo rimbalzo. I dadi, surriscaldati dal fiato alcolico degli scommettitori che ci avevano alitato sopra, ruzzolavano su un campo da gioco improvvisato, una lamina di ferro smangiata dalla ruggine tenuta in equilibrio sulle gambe da due giocatori. I dadi riportavano, sul pallore delle facce, gli abituali segni scuri da un minimo di uno a un massimo di sei per ognuno, la sortita di una scommessa che poteva aggiudicare il successo al sotterfugio o rilasciare la dichiarazione di tradimento appena compiuto. L’alea del dubbio o la certezza dell’inganno, la probabile, verosimile avventura appena consumata o la casta coincidenza del trovarsi nello stesso luogo allo stesso momento per puro caso, cominciava a tracciare circonferenze concentriche intorno alla testa di Charles

Del resto Lisa come poteva conoscere Maurice già così bene dopo poco tempo dall’arrivo in città? Lisa così poco conciliante al tempo dei primi approcci anni prima? Lisa così pudica a inizio matrimonio al punto da non spogliarsi per tutto il viaggio di nozze prima di stendersi a letto? Lisa allieva impreparata alla quale Charles aveva fornito per primo i rudimenti delle regole grammaticali e del calcolo?

Ma Lisa, scaltra grazie ai sillabari, erudita dal sussidiario fornitole da Charles e resa più veloce nel conteggio sempre dallo stesso maestro, da tempo padroneggiava la sintassi delle secondarie giustificate dalle principali e inoltrava, con successo, il pensiero logico nella risoluzione delle equazioni.

Lisa salutò Charles, come se niente fosse, con un bacio, scivolato sul mento come per sbaglio, e un abbraccio fiacco.

«Sono stata tutto il pomeriggio alla sala da tè con Agnes. Sai era da tempo, da quando ci siamo ritrovate qui in città che mi voleva invitare per un pomeriggio tra signore. Abbiamo spettegolato un po’. Abbiamo parlato male degli uomini, soprattutto di te e di quel rammollito del marito che beve sempre e, sbronzo, s’addormenta col sigaro in bocca!»

«Hai un profumo aspro addosso, un profumo muschiato, maschile. Hai cambiato essenza cara?»

«Ah sì, no è il nuovo aroma di Agnes, me l’ha fatto provare. Un po’ azzardato non credi?»

«Sì, senza dubbio. Non te lo consiglio, non ti si addice»

Vezzeggiato da Lisa, narcotizzato dall’acqua muschiata che aveva voluto credere fosse davvero un tentativo azzardato da Agnes, Charles bevve fino in fondo il bicchiere improbabile di millesimato alla colonia, innaffiato con un pomeriggio, chiacchiere e tè tra signore.

Mentre sciorinava la più consueta e quindi meno sospetta delle spiegazioni per essere stata intercettata all’uscita da un albergo, Lisa sudava e, mentre sudava, credeva che avrebbe commesso un errore, un passo falso, che si sarebbe tradita come una principiante a traguardo quasi raggiunto. Ma non accadde. Mentì sorridendo e rese credibile il pomeriggio trascorso nella sala da tè a spettegolare.

Gli incontri con Maurice continuarono a ripetersi ma fuori dalla portata indiscreta di un qualsiasi conoscente che non bada soltanto ai fatti suoi o di Charles a zonzo senza meta. Si davano appuntamento in periferia dove Charles, non andava mai, oppure s’imbarcavano per due intere giornate di viaggio a ritroso verso il mondo appena più civile nella penultima città abitabile prima delle grandi dune. Qui affittavano una stanza in un alberghetto poco frequentato, certi che all’uscita non avrebbero incontrato Charles col sospetto dipinto in faccia di essere stato tradito. L’albergatore era compiacente. Dopo qualche tempo sapeva quando Lisa e Maurice sarebbero arrivati, quello che avrebbero chiesto, quanto sarebbero rimasti. Risultava chiaro che non abitassero in città e che l’unica da dove provenivano, sempre nello stesso giorno e alla stessa ora, fosse Morcete.

Preparava in anticipo la loro camera, cambiava sempre le lenzuola, lasciava sul tavolo una caraffa di acqua e pane allo zenzero, bruciava polvere d’incenso vanigliato che piantava in petto un languore dal quale si sprigionava un senso di mollezza e renitenza. Un giorno, dopo aver atteso il loro arrivo, posizionato pane allo zenzero e asperso fumo di vaniglia, assicuratosi che i due, lasciato l’albergo si allontanassero ignari di essere seguiti, gli mise alle costole suo figlio. Nadir era un ragazzino sveglio, che riuscì a piazzarsi accanto all’autista della corriera per Morcete senza pagare. Avrebbe dovuto seguire i due, tornati nella loro città, convincere di nuovo a farsi caricare su un mezzo di fortuna e riferire nei dettagli tutto quello che era riuscito a sapere. Ne seppe a sufficienza per informare il padre. Nadir accompagnò il padre direttamente da Charles affinché questi gli confermasse che l’ansia crescente nei confronti della moglie, spesso fuori casa anche per qualche giorno di seguito, era fondata perché la moglie stava mettendo in atto un tradimento in piena regola.

Charles rimase sveglio due giorni e due notti, in rovinosa meditazione su cosa fare.

Al terzo uscì presto per andare comunque a dipingere. Era alle prese con l’ennesimo paesaggio, al quale consegnare le tonalità calde delle rocce ferruginose e il verde degli alberi. Mentre Charles tentava di cavare risposte dal panorama, su come rendere il tono marcio e polveroso dei rami, il grigio terroso depositato sui tronchi e il tono scurito dalle ombre sui fianchi delle alture, l’albergatore avrebbe dovuto fare il suo per il quale aveva già intascato metà della somma pattuita: assalimento in camera per Lisa, un colpo di pistola alle spalle di Maurice quando questi avesse ripreso a misurare la regione intorno a Morcete.

Quel giorno, tuttavia, Maurice non era andato al campo d’osservazione, con una scusa circa il suo stato di salute, e aveva raggiunto l’amante in camera. Quando l’albergatore sgusciò da dietro lo stipite della porta, sicuro di dover affrontare la sola resistenza della donna, fu a sua volta aggredito dall’irruenza di Maurice che gli si scaraventò addosso. Come una palla di cannone espulsa a scoppio ed emissione parallela al terreno di battaglia, come una scheggia saltata via che perde forza e velocità solo dopo essersi conficcata.

Gli fu, a testa bassa, sull’addome e lo atterrò.

Seguì una colluttazione violenta.

I due si dimenavano nel tentativo, uno di affondare il coltello nell’avversario, l’altro di sottrarsi ai colpi, bloccargli il polso e fermare la mano. Rotolarono in una direzione e in quella opposta, con le gambe dimenate che scalciavano a mezz’aria. Mentre si rotolavano, il pavimento di legno, cigolante come una vecchia porta, assorbiva i tonfi restituendo suoni soffocati. Le imprecazioni per lo sforzo rimbalzavano sui muri impastati d’intonaco e paglia, stesi sull’anima interna tirata su coi mattoni, e venivano restituiti più fiacchi, come se la paglia e i mattoni stessi ne avessero assorbito i toni aspri che s’andavano a incagliare nel corpo vuoto dei foratini e negli interstizi della paglia. Quella decantazione sonora non ne attutiva, però, il portato violento, perché violenta doveva essere l’aggressione per guadagnare denaro, e altrettanto violenta era stata la reazione a questa, per salvare e salvarsi la vita. Due affermazioni contrapposte si contendevano, confliggenti, il centro dell’azione. In preda a una crisi d’isteria, Lisa saltò sul letto e lì rimase rannicchiata. Si portava le mani al viso, alla bocca, singhiozzava e urlava.

Nel frattempo anche Nadir entrò nella stanza.

Retrocedette quasi subito contro lo stipite della porta, impaurito perché il padre stava gridando. Schiacciato a terra Maurice fu costretto a soccombere con un braccio ripiegato dietro la schiena e l’avversario gli infilò la lama tra una costola e l’altra, la ritraeva e colpiva ancora, come se l’affondo fosse agevole e come se prima di quel giorno non avesse fatto altro per guadagnarsi da vivere.

Sembrava che non fosse abituato a sorridere ai clienti e a sgrassare dal sudicio i pavimenti delle camere, quanto invece a usare un’arma tagliente. Nella ripetizione del gesto violento non si muoveva da albergatore mezzano, non abituato alla mattanza, ma da sicario prezzolato ed esperto. Almeno per un po’.

Lisa saltò a quattro zampe sul letto e da lì sulla schiena dell’uccisore, in preda a una furia suicida. Gli fu addosso, come una gatta elettrica e pazza. Sembrò poterne avere ragione per avergli infilato le unghie in bocca e negli occhi. L’uomo tuttavia esercitò i muscoli con forza agevole per respingerla e farla cadere a terra. La testa di Lisa percosse violentemente il muro. Le caddero sopra frammenti di intonaco a pioggia e i capelli, rossi per il sangue fuoriuscito dalla ferita all’occipite, s’imbiancarono di calcinacci. Una corona farinosa le coprì la testa, una ghirlanda di brina, una calotta di neve, un’aspersione di sale sulla fronte e sulle guance. Fino alla bocca che s’abbandonava a un rilassamento malsano.

Ma anche l’albergatore, nella furia della colluttazione, s’era ferito da solo, alla coscia e tranciate di netto le vene dell’avambraccio sinistro che fiottava sangue e gli faceva perdere gradualmente la vita. Perché la vita non lo abbandonò subito e in quell’intervallo, di smarrimento agghiacciato, fu assaltato dallo sconforto, ultimativo, per essere stato tradito da sé stesso e dal suo coltello che da anni portava infilato alla cintura. Fu come il tradimento di un amico, di un oggetto fino a quel momento fedele, il voltarsi di lama, di uno strumento che non aveva mai provato a offendere il proprietario.

Talvolta il cane morde il padrone.

Nadir dovette assistere a ognuna di queste scene, a ognuno di questi commiati dal respiro, dallo sguardo, dall’azione, dal confidare in sé e negli oggetti da sempre prossimi al corpo e docili alla mano.

Rimase seduto a terra con le spalle appoggiate contro il muro e piangeva.

S’asciugava le lacrime e tirava su col naso.

Si alzò e scese le scale, uscì in strada e cominciò a percorrere all’indietro la strada che l’aveva portato lì.

Rintracciò Charles e, per dimostrare che chi doveva essere ucciso era stato ucciso, gli consegnò un ciuffo di capelli infarinati d’intonaco e l’anello che Maurice portava all’anulare destro con inciso il suo nome.

Pretese di incassare lui il resto della somma pattuita tra Charles e suo padre. E ci riuscì. La contò e la mise in un tascapane a tracolla che faceva parte della tenuta da viaggio di Maurice quando questi si tirava appresso qualche treppiede lenticolato e studiava il terreno.

«Perché sei venuto tu a prendere il denaro?» – Gli chiese Charles – «Dov’è tuo padre?»

«Oggi non poteva. Non si sentiva bene. È andato a farsi medicare una ferita alla gamba e al braccio che s’è fatto ieri. Però m’ha lasciato questo per difendermi, finché rimango solo tutt’oggi.»

E dal tascapane tirò fuori il coltello che era stato del padre. Per tagliare l’aria, mimava l’affondo tra una costola e l’altra e provava un senso di crudele soddisfazione.

Con quei soldi si sarebbe da subito comprato da mangiare: carne e formaggio di capra.

Il resto lo arrotolò dentro la camicia. Mentre camminava la cartamoneta lo solleticava sul fianco e sulla pancia. Era una sensazione nuova alla quale abituarsi. Si assestò per ridurre il gonfiore sotto il tessuto, affinché non desse nell’occhio e non rischiare che qualche ragazzino appena più grande gli sfilasse i soldi da sotto il naso.

Si sistemò di nuovo e pensò che con quei soldi avrebbe potuto comprare un paio di scarpe, due candele, zolfanelli, sapone e quello che di volta in volta la giornata da trascorrere a scuola per imparare a leggere e a scrivere avrebbe richiesto, quello di cui la trafila in una bottega, per imparare un mestiere, avrebbe avuto bisogno, quello che un lavoro da adulti gli avrebbe imposto. Gessetti colorati, una martellina con la punta arrotondata da una parte e tagliente dall’altra per lavorare il rame e l’argento dei piatti che i bianchi compravano sempre volentieri, un vestito scuro su uno sparato bianco di camicia sotto, per dimostrare come fosse già pronto per cominciare da inserviente in un grande albergo.

Dieci anni in un albergo, magari l’Internazionale, e se lo sarebbe comprato pure lui un grande albergo, con l’intonaco caramellato, una veranda intorno sostenuta da pilastri di legno bianco a traforo.

Con le scarpe nuove, il formaggio di capra che gli rimbalzava tra i denti, le candele ammollate in mano, che si scioglievano per il caldo, Nadir guardava le montagne e comprese che per imitare il color topazio spento delle rocce metamorfiche, piagate dal sole, avrebbe dovuto aggiungere un punto di grigio e un po’ di verde, il verde marcio colore delle foglie accartocciate sui rami degli alberi.

Chissà perché Messier Charles non c’ha ancora pensato? Domani glielo devo dire.

Potrei diventare un artista anch’io!

 

 

Prima fascismu, adés no sai – FEDERICO TAVAN

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001

poesie di Federico Tavan, fotografie di Danilo De Marco

 

[dall’archivio di NI: pezzo pubblicato, nell’ambito di una carrellata di poeti friulani, l’11 febbraio 2015]

002 Federico Tavan

 

 

 

 

 

 

Adés

Prima fascismu

Adés no sai

BRUNO MUNARI Misuratore automatico del tempo di cottura per uova sode

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DALL’ARCHIVIO: 5 Settembre 2010

 

 
Prendete un esperto giocatore di lippa e fategli calare lentamente l’uovo rosso (1) nella pentola (2) piena di acqua bollente. Voi intanto vi sarete alzati di buon mattino (grazie alla macchina per addomesticare le sveglie) e avrete legato un fiasco spagliato all’estremità di un bastone da passeggio (3), questo fiasco serve come galleggiante e, all’immersione dell’uovo si alzerà spostando il bastone che funge da leva e che si abbassa (4) premendo una lametta sul cordoncino (5).

Quattro libri – anzi sei – nel bagaglietto a mano (Bravi, Voltolini, Innocenti, Trevisan …)

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di Marino Magliani

Ormai sui voli low cost il bagaglio consentito è quello di un piccolo trolly o di uno zainetto. Significa il necessario indispensabile, per me un cambio di biancheria e camicia e pantaloni corti d’estate, se non arrivo subito a casa, e la possibilità di poterci infilare qualche libro. Questo se torno in Olanda, mentre se torno (dovrei dire rientro?) in Italia di libri non me ne porto, leggo pochissimo in nederlandese, giusto notizie di calcio e di calciomercato, una scienza che mi appassiona fin da ragazzino, quando al posto del gelato investivo nel giornale rosa che arrivava in paese due o tre volte la settimana. Generalmente si trattava di puro calciomercato nazionale, perché gli stranieri non potevano ancora giocare da noi. Sono cose archeologiche, direte, ma di questo vorrei parlare. Di archeologia e cioè del piacere, e di certi libri che leggevo che mi davano in effetti un gran piacere, segreto, quando avevo undici, dodici, quattordici anni. Se ben ci penso succedeva qualcosa di molto simile a ciò che succede ora che a un certo punto dell’anno, prima di tornare in Olanda infilo nello zainetto i famosi tre o o quattro libri al massimo. Allora li mettevo nella valigia di nascosto, perché mia madre non accettava che  portassi in collegio dei libri a scapito di una maglia pesante (un magliani, via) e un pantalone ecc. Allora aspettavo che lei preparasse la valigia (era di un ottimo cartone, o cartone di alta qualità) e poi all’ultimo infilavo a fatica i tre libri – me li dava un amico che ne aveva una casa piena. Prima di entrare in camerata in collegio, dove non importa, li ho girati tutti i collegi, su per le scalinate, riuscivo – ognuno varcava il cancello col proprio catalogo di debolezze – a nascondere in un angolo buio i libri, perché i frati sapevano che qualcuno faceva il furbino e aveva con sé dolciumi, sigarette i più grandi, giornaletti “sporchi” i più svegli. I frati facevano, anche a distanza di giorni, una specie di “dogana” improvvisa, e prima o poi ci cascavamo tutti, tranne quelli dei dolciumi che li avevano già consumati. Per la letteratura valeva una specie di censura e le maglie, se così si può dire, erano piuttosto strette, erano ammessi più che altro i classici, ma mica tutti. Mica tutti.
Quattro cinque libri per viaggio, insomma, è una storia che si ripete. Quest’anno, il giorno 11 luglio, dall’aeroporto di Cagliari (invitato tre giorni nella favolosa Cabras) ho dichiarato alla dogana olandese cinque libri.
In ordine sparso:
Adrian Bravi, Eldorado verde (Nutrimenti);
Dario Voltolini, Il giardino degli aranci (La Nave di Teseo);
Simone Innocenti, Il mondo capovolto (Atlantide Blu);
Julien Gracq, Libertà grande (L’Orma).
Del quarto, quinto e sesto libro dirò giusto due cose alla fine.
Cos’hanno in comune questi tre libri? Il fatto di essere romanzi (in realtà Il mondo capovolto ha la struttura perfetta di un contenitore di 20 romanzi brevi, tanti sono i personaggi) e mi pare nient’altro.
Bravi è argentino, un argentino-tano, argentino italiano prestato alla letteratura italiana. Tranne il suo primo, Río Sauce, scritto in castellano, il resto dei romanzi, parecchi ormai, sono usciti in italiano. È secondo me uno dei maggiori autori anfibi italiani, nel senso che le sue trame, le sue prose, i suoi paesaggi, fanno i conti con il fiume, il lacustre, il mare, l’inondazione. E anche da qui non si “esonda”. Il fiume è il viaggio di Ugolino attraverso il mondo sconosciuto. Ugolino, ragazzo ustionato e sfigurato da un incendio nella stanza del suo palazzo veneziano, sedicesimo secolo, affronta la scoperta del Nuovo Mondo e l’avventura per rifarsi una vita, trova il fiume e l’amore, la storia, la vita e la morte di una civiltà depredata e distrutta dal nuovo arrivato: l’uomo europeo. Detto così manca il vero elemento braviano: la felicità della scrittura e l’invenzione lungo la risalita del fiume. La destinazione naturalmente è la caccia al tesoro tra colori, pesci, anse, comparse di indio e nascondigli nella foresta, navi, scialuppe, metalli, animali, donne bellissime e nude, e spade, lance, frecce, archi, capanne, giunchi, amicizia e spavento.
Il giardino degli aranci, di Dario Voltolini, è il viaggio sott’acqua di un essere umano (per restare in acqua) che a un certo scopre di avere nelle mani una fiocina e la usa. I pesci pescati sono i ricordi degli amori di un ragazzo a scuola, di un ragazzo con gli amici, di un ragazzo alla spiaggia. Non ci saranno prede, se non quella di un tempo restituito allo schermo liquido delle malinconie del pescatore, Nino Nino, che l’io narrante tratta con un affetto che ci emoziona, che ci fa tenere per lui, che ce lo fa proteggere dalle brutalità del mondo, della vita e del tempo stesso (o ce lo fa consegnare a tutto questo?), e questa voce nostra e questa fiocina che fa rumore, devono produrre davvero fischi assordanti e rimbombi e echi, che alla fine della storia vengono percepiti anche da altre anime del romanzo e della realtà e mettono Nino Nino davanti a una specie di dolce resa dei conti.
Il mondo capovolto di Simone Innocenti tratta anch’esso il tempo, concentrandolo in una sola notte, quella dell’ultimo dell’anno. Venti personaggi che si guardano attorno e vivono quel frammento che più di tutti riesce a mettere a nudo le nostre vite mostrandocene l’assurdità, come si sta lì a un certo punto di quella notte a guardare immagini di una fine dell’anno australiana già trascorsa e ad attendere la nostra dall’esterno. Devo dire che se conoscevo la scrittura di Bravi da ormai una quindicina d’anni e quella di Voltolini da almeno una ventina, è la prima opera che leggo di Innocenti e mi ha impressionato la sua capacità.
Il quarto libro è di Julien Gracq, Libertà grande,  l’autore immenso di cui avevo letto Acque strette, entrambi autografati da Lorenzo Flabbi, il mio editore.
Il quinto libro (alla dogana olandese ne ho dichiarato solo quattro, mi piace giocare al  ragazzino che nasconde i libri prima di entrare nelle camerate dei collegi) è un atlante anche nel titolo. Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò. di Judith Schalansky (Bompiani, 2014). Me l’ha regalato Marco Federici Solari, e in cambio gli ho promesso un libro sulle isole liguri.
Il sesto libro è Billy Budd, Billy Budd. An inside reading (Oligo Editore, 2022) di Vitaliano Trevisan, con la postfazione di Davide Bregola. Ero stato a Mantova, nella casa di Nuvolari, ora sede della Oligo, la bella casa editrice con la quale uscirà un saggio e una traduzione di Riccardo Ferrazzi e miei racconti.
Vitaliano, a cavallo della sua moto, lungo i canali di Amsterdam.
Hi man.

Giovenale a caccia di trama

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di Leonardo Canella

1.
Marco Giovenale è stato per me questa estate una piccola mano disegnata fra rosso e blu e giallo. Sulla copertina bianca di La gente non sa cosa si perde (Tic editore). Questa estate. Io questa estate ho visto quella manina, quei colori in quel piccolo libro che mi ero portato in viaggio. E ho sentito la vita che ci sta dentro. In quel libricino di 52 pagine che ti consiglio di prendere. Prendilo.

2.
Dentro le 52 pagine ci sono 39 numeri, da 1 a 39. Sotto quei numeri, un testo. Vai al testo 17. Trovi la parola “bananette” e poi ancora “bananeto” (venti righe sotto) e poi “banano” (quaranta righe sotto). In mezzo, tanta vita, vita che passa dal 2005 al 2011 con un lei e un lui che sono nel tempo impiegata, professore, gestore, dentista, lei fa i turni, lui il pane (in casa). Quelle sessanta righe di testo hanno una struttura definita, come vedere di un palazzo in costruzione lo scheletro in cemento armato.

3.
Una novità, questa. Affiora prepotente una trama, una struttura. Certo “dimenticarsi mentre si scrive”, mettersi al volante della scrittura senza sapere contro quale muro si andrà a sbattere. Ma un muro di contenimento – il bananeto di cui sopra – alla fine c’è:  “dunque una costante, ma se è costante è prevedibile, e se è prevedibile c’è strada in vista”. Anche se “poi si cancella, rimuove tutto il prima, o no” (idem). Per chi ci ha giocato (primi anni Ottanta) è tutto “come il vecchio snakes da pochi pixel, dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”.

4.
Vai a pagina 19, testo nove. Si parla di tempo e di spazio “l’incertezza che dà il tempo per me non ha uguali”. La dimensione del tempo è viva, inafferrabile: ed è viva soprattutto durante l’atto creativo, priva di coordinate, di misure (“il tempo io non lo ricordo”). Lo spazio è invece l’opposto, lo spazio è preciso e geometrico. Rispetto al tempo, vivo, lo spazio è morte, “preferirei che non ci fosse lo spazio anche se ho sempre bisogno di molto spazio”. Tu che leggi il testo 9 pensi di avere capito. Hai capito che questo è un inno alla vita fatto attraverso la dimensione del tempo. Anche io ho avuto la tua stessa impressione, ho pensato di avere capito. C’è dunque una trama nel testo, c’è un filo che si dipana dalla prima all’ultima riga. Forse in più rispetto a te che hai capito io però ho capito che proprio qui, nella sensazione di avere capito, c’è la fregatura che Marco ha messo per noi. Se hai capito vivi infatti nella dimensione geometrica dello spazio che parcellizza e misura con la mente. Sei hai capito questo testo numero 9 forse sei morto. Se invece non l’hai capito vivi di certo nella dimensione viva del tempo, indeterminata e inafferrabile. Che non si ricorda. E ricominci a leggere dalla prima riga, e sei vivo perché non hai capito. È ancora “il vecchio snakes da pochi pixel che dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti” che hai trovato a pagina 51 (un (festo per il XXI secolo)). Non a caso, un manifesto.

5.
Ti dico quello che penso prima di consigliarti un altro testo di La gente non sa cosa si perde:  Giovenale in questo piccolo libro sta esplorando la dimensione della trama, sente che adesso ne ha bisogno, sente che ha bisogno di cercare lì. Ma sa che è rischioso perché fissare una trama, stendere un filo con cui guidare il lettore è una dichiarazione di finitudine, di limite. E in fondo di morte (per la letteratura sperimentale). Lui la pensa così, ed io la penso come lui. Forse però lui lo pensa più di me, ed io lo penso meno di lui. Un po’ diversi, apparteniamo alla stessa generazione. Marco sta dalla parte del vecchio snakes di pochi pixel (vedi sopra) che “dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”. Io, nelle nughette, condenso la trama e la faccio collassare. Stessa aria, aria di famiglia.

6.
Adesso vai al testo numero 7. Una conferma. Trovata la scatola di entrata Marco ti dice che “basta chiaramente poi semplicemente seguire il filo rosso e tutti gli altri”. Dato un inizio, la trama prosegue, però meno lineare. Quanto, lo decide l’autore. Un autore che è alla ricerca della trama perduta. Marco ti dice questo, lo abbiamo già visto, e ti presenta i modi con cui puoi trovare la tua “scatola di entrata”, l’inizio della tua storia: 1) “fuori dalla porta”, 2) “calarti dall’alto”, 3) “chiedere ai parenti”. Sorridi e ti viene voglia di iniziare una storia, di trovare la tua scatola di entrata. Prima però vai al testo numero 21 di pagina trenta. È poche pagine dopo.

7.
Qui si parla di metrica – veniamo alle strategie da adottare – quella metrica che è un “raffinato, tramato complesso centrino all’uncinetto venti centimetri per venti”. Su di te, che sei nudo. E c’è chi dice che stai bene “che rigoglio, che ragnatela di intrecci”. E c’è che tu pensi invece che è meglio altro. Decidi tu e poi vieni al testo 22.

8.
Se hai deciso di usare la metrica agli incontri pubblici avrai ‘regolarmente’ una purezza verticale in testa. E sarai diverso, sarai cambiato. E sarai in grado di disegnare con i contorni molto nitidi, precisi. Nitidi e precisi magari per le metrica che ti sei portato dietro. Eri un amico, lo eri perché Marco ti dice che lui rimane invece per poche idee sfocate, sfocatissime. E preferisce essere agli incontri pubblici senza piuma in testa (altro che metrica). Forse fai bene a non credergli del tutto, però il testo numero 22 è bellissimo. E malinconico.

9.
Passiamo al romanzo annunciato dal testo numero 31. Si ipotizzano due capitoli e ti aspetti di saperne di più però temi la fregatura. E cominci. Alla fine delle tredici righe sai che per te Giovenale ha ritagliato il ruolo del predatore che ha appena mangiato pezzi di romanzo. In bocca ti rimane una sapore strano, acre, di ingredienti che fanno a cazzotti dentro una stessa ricetta. La trama c’è ed è come quando vedi sull’asfalto lattine vuote e pezzi di carta e pensi alla storia che li ha portati li. Adesso sappi solo che saw, che poco prima era sandwich, inzuppa la cicloparaffina e va a controllare il termografo della caldaia. Il secondo capitolo è sintetizzato alla pagina successiva. Vai a leggerlo da solo.

10.
Mi fermo qui. Ti ho dato una chiave per interpretare La gente non sa cosa si perde. Se hai capito, forse adesso tu sai cosa la gente non sa cosa si perde. Forse la gente non sa che perde una trama alla disperata ricerca del suo autore.

Mots-clés__Vento

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Vento
di Mariasole Ariot

PJ Harvey, The wind -> play

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Da: Emily Dickinson, Poesie, trad. Massimo Bacigalupo, Mondadori, 2016

Il vento – bussò come un uomo stanco –e come un padrone di casa – “avanti”risposi arditamente – quando entrònella mia residenza un ospite rapido – senza piedi –cui offrire una sediaera impossibile come indicareun sofà all’atmosfera – Non aveva ossa per tenerlo –il suo discorrere era come la spintadi tanti colibrì congiuntida un alto cespuglio –Il suo aspetto – un’onda –le sue dita, mentre passavaprodussero una musica – come motivisoffiati su vetro tremolante –Si intrattenne – a svolazzi, sempre –poi come un uomo timidopicchiò un’altra volta – nervosamente –e divenni sola –

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Se un corpo è puntellato dagli spilli

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ph Olivia Arthur

 
Audio Player

Preludio (Asturie/Leyenda) Helling, E.

 

di Mariasole Ariot

 
Si incammina lento, un corpo puntellato dagli spilli, quando gli insetti s’insinuano nel sottopelle e dalla punta più bassa del terreno arrivano alla testa: un brulichio di voci e mani a forma di pensiero, i pensieri a forma di persone, quanti volti anneriti dai tempi che non fanno spazio, corrugati per assenza di ricordo, ho un buco nella testa che è sbarrato, e la lingua non fa verso e non chiede se non una parola. Le dita conficcano le membra, questo eccesso, il troppo sensoriale della materia che non fa mai silenzio, che urla sotto e fuori dalla cute, si poggia è una membrana e non fa bordo, ancora nella nuca si spinge in verticale, poi per una circostanza si diffonde, e quante e quali madri non stingono le attese, dove le culle cadute non prevedono la vista.

Non esiste un’infanzia se non è passata,
passare non significa passato

Poi le voci e il pullulare dove e quando non esistono corolle, un fiorellino che non fora, la giovane richiesta della notte, un sonno non tormenta la quiete di un albeggio non si chiede se richiede, domandando il mandato di un’offesa – se il corpo è già qualcosa di caduto, il tutto che riposa nel contrario della mente, se mente è dire corpo se quando il corpo mente, il lungo tentativo di una resa. Il terrore del costato un po’ malconcio, la mia parola controverso si dimena da gomiti a falangi, riduce come fosse scheletrino: la vedi la latrina del timore, se affondano le cose e i tetti del cervello, un giorno maculato come bestie, insetti e quanto tempo rimandato, mi bruca nelle parti un padre senza voce che mi guarda la finestra.

Non parla la parola se non muta,
non muta la parola che non parla

E’ un tempo senza spazio, la dispercezione dell’ambiente quando le parti si disgregano e sono pezzi e brandelli di fuggitivi, le domeniche del vuoto si insinuano nella gola, esce un vaso cavo da riempire – e tu lo riempi con lo sputo di secoli a venire, un rigurgito di umanità mancata di avvenire. Poi un raggio come una freccia trapassa le tempie, senza terreni sopra la testa, capovolti come siamo a muovere le gambe roteandole a camminare nell’assenza, distesi e tesi statue di amianto, la sorte della maledizione: la disfazione dei letti, della memoria che non portiamo sulla schiena ma nell’occhio.
Non un centimetro del mio volto che tu non mi abbia fornito malato, un difetto di fabbricazione: ciò che volevi che fossi, ciò che se fosse non ero.

Non dare un germoglio all’ombra
non fare dell’ombra il tuo giaciglio

Guarda che c’é dentro qualcosa

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di Laura Rescio

Guarda che c’è dentro qualcosa, mi dice. E io apro il libro e lo sfoglio, e non vedo niente, e lei mi dice com’è che non vedi mai niente, gli uomini non trovano mai le cose, e io mi stufo e chiudo il libro e lo lascio lì proprio per farle dispetto. Voi donne invece generalizzate sempre, dico, con un piacere perverso nel far cominciare il litigio proprio con queste parole, accusandola di fare proprio quello che sto facendo io in quel momento. Sono arrabbiato e non so perché, ma qualcosa dentro di me vuole saltarle al collo, fargliela pagare, vuole vendetta per quella sciocca frase che ha detto senza farci neanche caso, tanto è normale per lei, darmi addosso – ragiona sempre quella stessa parte di me – mentre lei si avvicina con la tazzina di caffè in mano e con l’altra – con una mano sola – tira su il libro e lo squaderna per aria, facendo frullare le pagine, così: frrrrrr e dalle pagine scivola via per terra un foglio sottile, sembra di carta velina, era tra l’ultima pagina e la copertina di cartone azzurro, e lentamente ondeggia un paio di volte avanti e indietro nell’aria e si ferma sotto una sedia. A me viene ancora più il nervoso, ma sto zitto, vedo che evidentemente ha ragione, noi uomini non troviamo mai niente e questa ne è la prova, questo foglio che è scivolato via dal libro con la copertina azzurra che ho trovato su un banchetto al mercato e portato a casa. È una vecchia edizione degli Indifferenti, e cosa vuoi che sia, penso, saranno gli appunti di qualche studente che li ha dimenticati lì dentro, felice come una pasqua di avere finito l’esame. Lei si china e lo raccoglie da terra, ha bevuto un sorso di caffè, lungo, i suoi caffè sono sempre lunghi, e li beve lentamente e li lascia sempre raffreddare, e anche questo mi dà sui nervi, vorrei dire: le donne hanno sempre delle abitudini irritanti, vogliono sempre fare le cose a modo loro, invece che come vanno fatte, il caffè dev’essere ristretto, denso, va bevuto in un sorso, non si va in giro agitando una tazzina da caffè per tutta la cucina, con la sigaretta in mano, che anche quella la fuma lentamente, poi, e la lascia più che altro bruciare, più che fumarla, lasciamo stare. Invece non dico niente e guardo indifferente la sua scoperta, che lei esamina con grande interesse e poi posa lisciandola sul tavolo. Ma io lo so che non ha visto un bel niente, è senza occhiali. Senza non ci vede un accidente. È tutta una finta.

È una specie di albero genealogico, dice, ci sono scritte delle cose, mi fa. Non ti interessa?

Ma sì, mi interessa, le dico, perché se no si offende. A me questa storia di vivere insieme mi dà sui nervi, ormai siamo sposati da quarant’anni e dopo due figli che ormai hanno anche loro dei figli non ci pensiamo neanche più, a staccarci, ma a me è sempre pesata. Ognuno ha le sue abitudini, ognuno fa le sue cose, e all’altro non interessano, oppure proprio in quel momento, per combinazione, volevi proprio stare in quella poltrona, entrare nel bagno per farti la barba, uscire sul balcone quando c’è lei e devi rimangiarti tutto e stringendo i denti per non dire niente di troppo torni indietro e aspetti per farti la barba, per bere il caffè, per farti un panino. Aspetti che lei abbia finito e con tutta calma, che guai a farle fretta. Soprattutto, da quando è andata in pensione, si è riempita di mille fisime, vuole avere tempo per fare questo e quello, non vuole correre, ha corso per tutta la vita, dice. E io da tutta la vita ad aspettare con gli occhi incollati all’orologio, a rimangiarmi le parole che vorrei dire, a sopportare per amor di quieto vivere.

Ora finisce con tutta calma di bere quell’ultimo sorso di caffè, dà un ultimo tiro alla sigaretta, si siede sulla poltrona davanti alla porta del balcone e aspetta. Vuole che mi interessi a quel foglio, ma io non dico niente, non faccio neanche un gesto per prenderlo, perché dovrei darle la soddisfazione? Non me ne importa mica niente, di quel pezzo di carta. Strano, però, sembra che ci sia sopra una specie di disegno, lo vedo da qui, dei segni colorati e confusi, lo sbircio, do un’occhiata e poi guardo da un’altra parte. Alla fine mi alzo, prendo gli occhiali nel cassetto della cucina – ormai senza non ci vedo più niente – e ignorando il suo sguardo quasi trionfante lo prendo in mano. C’è un disegno. Dietro c’è una mezza pagina scritta a mano, in una grafia rotonda, infantile. Comincia con Cara maestra.

Questa è una lettera di qualcuno, dico io. Già! Risponde lei, compiaciuta. Come se fosse una sua vittoria personale. Forse non dovremmo leggerla, dico. Lei inarca le sopracciglia. Mi casca l’occhio sulla frase:

La persona più famosa che ho conosciuto…

Senza sapere perché, comincio a inventare. C’è su un disegno stranissimo, dico. Pazzesco, tutto colorato e storto, ma anche bello, a modo suo. Dev’essere il disegno di un pazzo. Sembra un albero genealogico, ma inventato, di fantasia, con dei nomi stranissimi, inesistenti, e creature quasi medievali. Qualcuno l’ha disegnato con le matite colorate, e poi ha scritto una lettera sul retro, indirizzandola a una certa Stella. Non so perché mi esce questa storia. In realtà sul foglio non c’è niente di speciale. Un disegno fatto da un bambino neanche tanto bravo, un albero, una casetta, una donna con i capelli neri lunghi, e una letterina per la maestra.

Cara Stella, improvviso, facendo finta di leggere, da quando e poi mi interrompo subito perché mi viene il nervoso. Per lei questo foglio è solo un modo per darmi fastidio, per mostrarmi la sua superiorità, per vincere, non qualcosa che ha scritto una persona vera. Il bambino si è messo lì con impegno e ha scritto questa lettera alla maestra, magari solo perché si accorgesse di lui.

Non ti sei nemmeno accorta che c’è un disegno, non l’hai nemmeno notato, proprio tipico tuo, le dico, alzando gli occhi sopra le lenti degli occhiali. Lei mi guarda e mi fa, ma se l’ho detto subito, è un albero genealogico, non hai sentito?

Tu hai detto un albero genealogico, ma questo qui è una specie di capolavoro, guarda che disegni! Non vedi che questo l’ha fatto un artista? Saresti capace, tu, di fare una cosa del genere? Albero genealogico, dico strascicando la voce, come a farle il verso. Se c’è una cosa che la manda in bestia è quella. Le sale il sangue alla testa, lo so, ma non vuole darmi soddisfazione, quindi mi ignora, guardando fuori dalla finestra, e fa: se volessi lo potrei anche fare. So disegnare, io. E io scoppio a ridere di gusto, non lo faccio mica apposta, lo giuro, mi è venuto proprio spontaneo. Tu che non sai nemmeno tenere una matita in mano, già! Proprio tu, e ripeto ancora una volta, albero genealogico… guarda qui, dico, puntando l’indice sul foglio, qui c’è tutta una dinastia di personaggi dai nomi assurdi, improvviso. Mi vengono dei nomi inventati, Clericogianni Antibale, comincio a elencare, Veromilia Ogliastra… ora è lei che scoppia a ridere, con questi nomi proprio strani, e poi i disegni, continuo! Sono veramente assurdi, pazzeschi, ci dev’essere voluto un sacco di tempo per disegnare tutto con la matita, queste armature, queste uniformi, questi serpenti araldici, questi sfondi di prati verde smeraldo ed elmi piumati rosso rame, queste squame e questi fiori con moltissime sfumature. E tutto questo nel piccolo, su una carta velina sottilissima. Ma chi avrà disegnato tutto questo, mi domando. Mi sembra quasi di vederli, i disegni. E di nuovo giro il foglio e continuo a far finta di leggere, forse nella lettera ci sono delle spiegazioni, dico.

Cara Stella, da quando mi trovo qui dentro senza speranza di poter mai uscire e mi blocco. Vedi, questo dev’essere stato un carcerato, è l’unica spiegazione, per questo aveva tanto tempo.

Lei guarda fuori dalla finestra fingendosi annoiata. Mi fa imbestialire questo atteggiamento, e vorrei che almeno per una volta dicesse qualcosa, e questo tesoro che inizialmente non avevo nemmeno notato ora è diventato mio, e voglio difenderlo a spada tratta, voglio che venga notato, che ne venga riconosciuto il valore. …il tuo pensiero è l’unica cosa che mi permette di sopravvivere. Che ingenuo, dico, pensa un po’ questo qui, chiuso lì dentro a sperare che una donna, là fuori, lo aspetti. Non conosce le donne, dico, e mi metto a ridacchiare, mentre lei gira la testa di scatto verso di me, mi guarda male, poi si alza, va al lavandino e si mette a lavare nervosamente la tazzina e le altre cose che ci sono dentro, già dalle spalle si capisce che è arrabbiata, e forse era proprio questo l’unico risultato che volevo ottenere, perché lei mi dà sui nervi e allora perché non dovrei renderle pan per focaccia?

Sono ritenuto pazzo. Ah, allora non è in carcere, è proprio un matto, continuo a inventare, infatti questi disegni qua chi li fa, se non un pazzo? E poi quelle parole, quei nomi così strani, chissà da dove li avrà presi. Quando sarai grande lo capirai. Intanto, qui dentro, disegno un libro per te. Disegno perché è tutto quello che so fare, è quello che ho fatto per tutta la vita, e ancora questo non sono riusciti a togliermelo. Ormai ho preso l’abbrivio e non so come fermarmi.

Un giorno, quando io avrò finito la mia vita qui dentro, questo è proprio drammatico, eh, ma chi lo dice che ci passa tutta la vita? Magari migliora e esce prima… se mani compassionevoli lo troveranno, qui in manicomio, raccoglieranno questi fogli e te li trasmetteranno. Io non posso farteli avere, perché sono circondato da nemici. E dagliela, faccio, questo è un paranoico, ho capito, ecco perché non può mai uscire. Questo è uno che passa giornate intere davanti alla TV e guarda tutti i programmi, soprattutto quelli del pomeriggio, e spesso lo mettono in isolamento perché litiga violentemente con gli altri se vogliono vedere altri programmi in televisione. Una volta ho intravisto Regina Maria, dice, ma pensa un po’, sproloquio, questo qui parla della De Filippi, è chiuso in manicomio e la sua fissazione è la televisione, e per via di questa fissazione lo chiudono in una cella isolata senza TV e va ancor più fuori di testa. Così si è messo a fare questi bei disegni dettagliati e colorati, tutta una genealogia che si immagina tra i personaggi della TV, e gli attribuisce anche dei titoli nobiliari di fantasia, tipo arciduca del Dragone e contessa Piscinefredde, sul retro della lettera che sta spedendo a questa Stella. Da dove mi vengono queste idee non lo so neanch’io. Devo essere un po’ matto anch’io.

Ho smesso di far finta di leggere ad alta voce. Anche di ridere. Lei è ancora in piedi davanti all’acquaio, ha smesso di lavare le tazzine, ma non si gira, è di cattivo umore.

Non vuoi sapere che cosa c’è scritto, le dico. Ho appoggiato il foglio sul tavolo, girando il disegno verso il basso. Ci tengo sopra una mano. No, non lo voglio sapere, mi fa. Voglio sapere perché t’ho sposato, ecco cosa voglio sapere.

Lo vorrei sapere anch’io, penso, ma non dico niente. Mi tolgo gli occhiali e li appoggio accanto al foglio. In fondo al foglio c’è una firma, è firmato professor Innocenti, dico, ma guarda, avevo un professore che si chiamava così, a scuola. Ma è morto da un sacco di anni, e non sapeva di sicuro disegnare. Chissà chi era questo povero cristo, dico.

Ma quanto parli, dice lei. Fa’ un po’ vedere questo foglio, su.

Io me lo nascondo dietro la schiena. No, dico, ora non te lo faccio più vedere. Lei cerca di strapparmelo di mano, e io mi diverto a tenerlo in alto fuori dalla sua portata, gioco un po’ così con lei, ma sei scemo, mi dice, dammelo, voglio vederlo anch’io, voglio vedere i disegni! No, non te lo do, prova a prenderlo, dico, scansandomi di qua e di là, e poi alla fine lo appallottolo e lo faccio volare fuori dalla finestra. Guardiamo la pallottola di carta stropicciata che scende lentamente oltre i terrazzi e va a finire in un sottovaso dalla signora del primo piano.

Lei mi guarda. Ha gli occhi pieni di lacrime.

Non so perché anche a me viene quasi da piangere.

Caldo

1

di Fabio Rodda

 

Posso farcela. In ospedale, mi dicevano di concentrarmi su ogni singolo muscolo, di immaginarne le fibre, di comandare i movimenti a ogni porzione di corpo: cominciare dal piede. Prima al mignolo, poi alle altre dita. Al metatarso, alla pianta, al tallone. Poi alla caviglia, al polpaccio, alla tibia e al menisco. Solo dopo, alla coscia e daccapo con l’altra gamba, finché non sentivo muoversi tutto nella mia mente. Per ultimo, il comando al bacino che doveva dare la spinta.

Ci vuole solo un po’ di concentrazione. Solo un piccolo sforzo e sarò giù dal letto e allora potrò trascinarmi di là, vedere cos’è successo. Concentrati, Omar. Guarda lo specchio, sei deciso, non hai paura, sai che puoi farlo: una spinta e giù da questo letto.

*

Faceva caldo, tanto caldo: il tempo era cambiato, da anni le estati erano diventate insopportabili. Lo dicevano spesso anche alla tivù, giù al bar, che c’erano i giovani che protestavano perché il clima stava cambiando, che avrebbe fatto sempre più caldo e che i mari si sarebbero alzati e chissà quali disgrazie stavano per accadere. Chissà se era vero. Sicuro, era più che vero che gli inverni erano diventati autunni e tutte le altre stagioni estati, come mai si era visto, in valle. Mario entrò al bar: «senti ti, che roba. Mai fat sto cald a maggio.»

«Te ha reson, Mario. Vara che l’è quasi mezzodì, non l’è ora di andare al campo.»

«Tranquilo Nani, vae giusto a dar n’ocio; guardo che sia tutto a posto e poi casa.»

«Va ben, no sta a far laori, che te ha otanta ani.»

«Sempre manco de ti, son sempre più giovane, Nani.»

E aveva messo in moto il treruote che caracollava lungo la strada di cemento appena rifatta dal Comune, scendendo verso la valle, dove non ci abitava più nessuno, se non lui con la sua famiglia.

Il campo era a posto, Mario aveva fatto il giro controllando bene sotto le foglie di lattuga, vicino alle teghe e alle zucchine. Niente danni, le trappole per topi sparpagliate qua e là vuote: o le talpe si erano fatte furbe, o faceva troppo caldo anche per loro. Stava per rimettere in moto l’Ape, quando sentì il rumore di una macchina che si avvicinava lungo lo sterrato. Sbuffò, scese dal piccolo abitacolo e si avvicinò al capanno di legno, quattro assi messe su alla bell’e meglio un cinquantennio prima, che incredibilmente avevano attraversato come gli alpini in Russia il gelo degli inverni, quando ancora nevicava e tutto poi si trasformava in un mondo bianco e silenzioso. Prese il bottiglione di clinto, versò due bicchieri e si sedette sulla seggiola di fili grossi di plastica verde attorcigliati a uno scheletro di ferro arrugginito.

«Buondì, Giuseppe.»

«Buongiorno, Mario.»

«Vara che te ho versà ‘l vin, ti ho versato un bicchiere, anca se te se ‘n gran rompicoglioni.»

«Mario…»

«Alla tua salute, Giuseppe.»

«Non dovrei, sono in servizio con la macchina del Comune.»

«Gnanca mi dovarie, nenach’io dovrei, sono vecchio. Dis al dotor. Dai bevi e dime, che so già.»

«Mario, è la terza volta che vengo a casa tua e non mi apri. Son dovuto venire qua. Lo sai perché, giusto?»

«Certo. Parchè te se ‘n rompicojoni.»

«Mario…»

«Dai dai, Giuseppe. Son drio scherzar. Lo so, lo so che che te vol. Ma te ho già dita, te l’ho già detto, che non ho bisogno di niente. Me son sempre rangià. Mi arrangerò ancora.»

«Ma Mario, da quando anche Omar… sì, insomma. Prima tua moglie, adesso tuo figlio che a stento si muove. Perché rifiutare una mano dal Comune?»

«Parchè voialtri avè da farve i cazzi vostri. Atu capì? Vi dovete fare gli affari vostri, che io ho ottant’anni e ho sempre badato alla mia famiglia da solo. E ades? Oleu che? Cosa volete? Venire a casa mia a dirmi cosa devo fare?»

«Ma no, Mario. Si tratta solo di servizi di supporto, un infermiere un paio di volte la settimana. Per vedere se è tutto ok, se va tutto bene»

«Volete venire dentro casa mia a dirmi come mi devo comportare con mia moglie e mio figlio. E invece no, Giuseppe, te pol tornar dal sindaco e dirghe ch’el se ciave. Atu capì? La me fameja l’è roba mea. È roba mia. Mia fatica, miei soldi, mai chiesto niente a nessuno. Io lo so cosa volete, davvero.»

«E, cosa mai potremmo volere, Mario?»

«Vegner a casa mea a comandar. Venire a dirmi che non va bene il bagno così e che serve questo e quello e farme ‘ndar via perché in valle non ci vive più nessuno. Volete mandarmi via.»

«Nessuno vuole mandarti via da casa tua, Mario.»

«Te se ‘n conta bale. Sei un bugiardo. Sono anni che venite a dirmi che devo andar via. E mi te dis che l’è l’ultima olta che te beve n’ombra co mi, se te gnen ‘ncora a romper i cojoni. Valo ben? Va bene, Giuseppe? Son drio innervosirme. Quel dio!»

Mario aveva asciugato i due bicchieri col fazzoletto rosso che teneva sempre attorno al collo, aveva chiuso la baracca col grosso lucchetto e aveva messo in moto il suo trabiccolo, mentre la macchina del Comune si arrampicava a fatica lungo lo sterrato che riportava alla Provinciale.

*

Una valanga: il mio corpo che mi crolla addosso, io che non riesco a respirare, né a muovermi in nessuna direzione. Dovevi cadere dall’altro lato del letto, testa di cazzo che sei. Sono riuscito a girarmi, lentamente, ad avvitarmi su me stesso fino a ritrovarmi di nuovo a pancia in su. E ho respirato a fondo. Ho alzato la testa fin dove riesco e ho visto il casino in cui mi sono messo: le gambe attorcigliate una sopra all’altra, quasi sotto al letto a sinistra; a destra l’armadio; dietro, il muro. E adesso, come esco da quest’incastro? Vedo la stanza, la luce filtra dalle persiane socchiuse, non c’è nessuno. È successo qualcosa, maledizione, e io non so come diavolo spostarmi da questo buco in cui mi sono andato a incastrare, testa di cazzo che sono.

*

Mentre tornava a casa, a Mario era salita una gran rabbia e aveva deciso di fare il giro largo, prendere la provinciale e andare a farsi un bicchiere in paese, prima di rientrare. Tanto aveva tutto il tempo per tornare e far da mangiare per Maria e Omar. Per imboccare sua moglie e portare il piatto in camera a suo figlio, aiutarlo a mettersi seduto, appoggiato ai tanti cuscini e lasciarlo mangiare in pace prima di portarlo in bagno e di lavarlo e, insomma, tutte le solite cose che riempivano i suoi pomeriggi da anni, dall’ictus di sua moglie e dal maledetto incidente di suo figlio. Il bar, a quell’ora, era pieno di gente che non conosceva: i suoi coetanei, ormai pochissimi, erano già tornati alle rispettive case dopo la briscola e adesso quello era territorio dei giovani, dei disoccupati, degli immigrati perdi tempo che saltavano il pranzo fra un bicchiere di bianco e uno spritz. Entrò, e con grande sorpresa vide ancora Nani, seduto al suo solito tavolino che leggeva il giornale.

«Fatu che, ‘ncora qua? Vara che dopo no te se pi bon de tornar a casa.»

«Ere drio ‘ndar. Stavo andando. Ma ti? No te era ‘ndat al campo?»

«Sì, ma i me ha fat girar i cojoni e son vegnest via. Mi hanno fatto arrabbiare. Fon n’ombra e te porte a casa col triroe. Un bicchiere per calmare il nervoso.»

«Va ben, Mario. Elo chi che ‘l te ha fat rabiar? Chi è stato?»

«Asa star, nesun. Un mona.»

Faceva veramente caldo quel giorno, e l’Ape rimasto sotto al sole pareva una lamiera incandescente.

«Senti che roba, setu mat a ‘ndar in giro co sto coso? Ghe sarà tzinquanta gradi la entro.»

«Tasi Nani e salta su. L’è calt, sì. Masa calt. Troppo caldo, oggi.»

Fecero le poche centinaia di metri che separavano il bar in piazza dalla casa di Nani, l’unico amico che gli era rimasto in paese e che ancora aveva la fortuna di camminare bene, come lui. E anche di avere una moglie e un figlio che stavano in piedi da soli. Salutò Nani e fece ciao con la mano a Gisella che era andata ad aprire la porta, girò l’Ape e ripartì verso lo sterrato che riportava giù in valle.

*

In ospedale facevamo gli esercizi anche per le braccia. Riprenderai quasi tutta la funzionalità, dicevano all’inizio. Poi, il cinquanta per cento. Poi il venti. Praticamente non riesco a sbucciare un’arancia. Figurarsi fare leva per ribaltarmi in avanti. Per fortuna c’è spazio sotto al letto: le gambe non sono bloccate. Con un po’ di strattoni, posso girarle, poi buttare il busto avanti e riuscire a mettermi supino senza soffocarmi, poi posso trascinarmi fino alla porta. Cazzo, la porta. E come la apro quella porta?

*

Quando rientrò in casa, Mario, fu accolto dal solito silenzio. Solo il ronzare del vecchio frigorifero in cucina rompeva il nulla che lo avvolgeva. Entrò in camera. Maria lo guardava. Sorrise appena.

«ciao Maria. Tut ben?»

La moglie accennò un movimento degli occhi.

«me lave le man e te fae da magnar. Pasta al pomodoro, va bene?»

Lo stesso gesto a rispondere.

«ti apro gli scuri, così te riva ‘n sciant de sol. Un po’ di sole in faccia. Poi te li chiudo, che se no finisci arrosto co sto cald, valo ben?»

Lo stesso su e giù, lo stesso sorriso grato.

Mario aprì le persiane e un fascio di luce planò sul viso di sua moglie, che strizzò gli occhi. Mario rimase lì un po’ per capire se a Maria facesse piacere quella luce o se il sole, così feroce quel giorno, potesse darle fastidio. Lei sorrise ancora e suo marito uscì dalla stanza lasciandola inondata dai fasci solari. Maria aveva avuto un ictus un paio d’anni prima. Era rimasta completamente paralizzata e per un po’ i medici pensavano che non sarebbe uscita dal coma. Invece, dopo poche settimane, era sveglia e del tutto presente, ma chiusa in un sarcofago che non poteva comandare. Festeggiò il suo settantasettesimo compleanno in ospedale. Le infermiere portarono il prosecco e tutti brindarono. Anche Maria, a cui il marito aveva versato qualche piccolo sorso di vino in bocca. Mario aveva bestemmiato iddio e tutta la sua stirpe con più veemenza di quanto avesse fatto in tutta la sua vita di grande smadonnatore dell’alto Veneto. Maria riusciva a muovere solo gli occhi e, col tempo e l’aiuto del personale dell’ospedale, aveva reimparato a usare la bocca per sorridere e mangiare se imboccata. Aveva tolto il sondino e Mario aveva persino pregato che ritrovasse la parola. Ma non era stato ascoltato. Lui e suo figlio impararono a comunicare con Maria osservando i movimenti che faceva con gli occhi e la bocca. Era diventata routine, tutto diventa routine nella vita degli uomini. Per un anno buono, lo aveva aiutato Omar, suo figlio, cinquantenne scapolo e mai uscito di casa. A lui interessavano solo il bar e correre con la moto sugli sterrati della valle. Finché un sasso girato dalla parte sbagliata non aveva messo fine alle sue scorribande notturne. Mario l’aveva messo a letto nella sua stanza e non l’aveva mai perdonato per avergli buttato addosso quest’altra croce, a quasi ottant’anni. Poi, anche quella era diventata normalità, la sua normalità. Due bocche da sfamare, due culi da lavare. Lunghe giornate in silenzio, mentre aspettava di dover far qualcosa per quello che restava di sua moglie e di suo figlio.

*

La porta, la porta, la porta. Come ho fatto a non pensarci? E adesso? Il telefono è di là, in corridoio. Oltre la porta. Mamma, di là, in camera. Mario? Tutto è al di là di quella maledettissima porta.

*

Faceva veramente troppo caldo, quel mercoledì di metà maggio. Mario entrò in cucina con una strana sensazione addosso, come di nervoso, di ansia. Una stretta in basso, allo stomaco, che gli faceva far fatica a tirare il fiato. Cominciò ad affettare una cipolla, si avvicinò alla dispensa per prendere la bottiglia d’olio e quando alzò il braccio una fitta lo lasciò immobile, allibito di quel dolore così forte e improvviso. Si strinse il polso destro con la mano sinistra e portò le braccia al petto. Stava per gridare dal male, quando una seconda fitta, ancora più potente, lo ammutolì. Stramazzò a terra fra la stufa nera e il tavolo di formica verdastra. L’ultima cosa che vide fu il riflesso di quel sole malefico sul linoleum del pavimento e i piedi di ghisa della cucina economica. Poi, il buio.

*

Devo essermi addormentato. Ho sete. Dagli scuri socchiusi non filtra più luce, devo aver dormito tutto il pomeriggio. Ho sete e devo andare in cesso. Fa caldo, maledettamente caldo. Chissà che ore sono. Potrei gridare. Ma chi mi sentirebbe? Non c’è niente e nessuno attorno a questa stamberga. Non c’è mai stato nessuno. Come aprirò quella maledetta porta? Non ha mai fatto così caldo, da queste parti.

 

Da “Istruzioni politico-morali…”

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…all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e assimilazione dei concetti dei nuovi è un volume Diaforia, uscito nel 2021, con una bandella di Nathalie Quintane.

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di Michele Zaffarano

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12

Sei performante.

Sei attivo.

Se sei attivo è perché partecipi alle attività.

Partecipa alla costruzione del senso.

Partecipa a quell’attività che è la costruzione del senso.

Anticipa il senso della costruzione del senso che poi troverai costruito.

Fai domande sul senso.

Per anticipare il senso fai domande sulla costruzione.

Devi essere performante con il senso.

Quando sei performante con il senso non ti precipiti dentro il senso a testa bassa.

Dentro il senso individua i punti di orientamento.

In mezzo al senso esercita il tuo orientamento.

All’improvviso ti orienti seguendo le indicazioni di comportamento che immagini in mezzo al senso.

Le indicazioni di comportamento te le ritrovi a disposizione sul posto.

Ti devi sentire a tuo agio con le indicazioni di comportamento che trovi.

Ti devi trovare perfetto nella tua performance.

Il tuo scopo è ottenere uno sguardo d’insieme sul campo del senso.

Il tuo scopo è adottare uno sguardo d’insieme sul senso.

Adotta uno sguardo d’insieme.

Affronta l’insieme del senso.

Cerca i passaggi in mezzo al senso.

Usa le strategie.

La performance si produce perché tu usi le strategie.

È grazie alle tue strategie se localizzi i passaggi che passano in mezzo all’insieme del senso.

È questo che ti deve interessare.

Sono i passaggi attraverso l’insieme del senso che ti devono interessare.

Ci sono dei passaggi che sono essenziali.

Ci sono dei punti di orientamento che sono essenziali.

Devi cercare dei punti di orientamento che ti aiutano a rimettere assieme il senso.

Imprègnati di punti essenziali.

Pensa che i punti essenziali non bastano mai.

Secondo i tuoi calcoli i punti essenziali passano grosso modo in mezzo al senso.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

È tutto grosso modo.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Passa tutto il tempo a recuperare i passaggi in mezzo al senso.

Solo quando avrai capito la costruzione del senso potrai tornare alle questioni di dettaglio.

La costruzione del senso la capisci come ti pare.

Segui le tue strategie.

Devi capire il motore della costruzione.

Non lasciare perdere.

Non fare quello che cade dal pero.

Non dimenticare.

Non divagare.

Dentro la performance devi essere molto ben informato.

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13

Sei molto performante.

Per localizzare i passaggi che ti interessano usa delle strategie.

Imprègnati con comodo delle idee generali.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Devi essere ultraperformante.

Adàttati al terreno.

Àpplicati in maniera flessibile.

Devi essere flessibile.

I tuoi modi non sono soltanto flessibili.

I tuoi modi sono anche solidi.

I tuoi modi sono anche abili.

I tuoi modi possiedono una certa abilità.

Però non comportarti sempre allo stesso modo.

Tutto dipende dall’importanza delle situazioni.

Tutto dipende dall’importanza che dài alle situazioni alle quali ti stai adattando.

Tutto dipende dalla costruzione delle situazioni.

Magari sono situazioni di primaria importanza.

Magari sono delle situazioni d’importanza relativa.

Magari è qualcosa che appartiene agli agglomerati.

Quando devi giudicare l’importanza delle situazioni compòrtati in maniera ragionevole.

Applica il tuo giudizio.

Opera dei giudizi.

Opera delle distinzioni.

Non comportarti sempre nello stesso modo.

Modifica i tuoi modi secondo le difficoltà delle situazioni.

In certi momenti rifletti in fretta.

In certi momenti rifletti lentamente.

In certi momenti i tuoi giudizi devono essere parziali.

In certi momenti assumiti interamente la responsabilità dei giudizi.