Home Blog Pagina 51

Elogio del calciatore violento: Boban, Cantona, Zidane

4

 

di Daniele Ruini

 

Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione.
(G. Leopardi)

 

Anche in questi mesi estivi durante i quali si consuma il rito del calciomercato, il calcio mostra la sua duplice natura: da un lato, un passatempo per benestanti, in cui la fanno da padrone finanza, gestione manageriale di ogni aspetto, diritti televisivi, cura tecnologica dei giocatori e prezzi (di biglietti, abbonamenti e merchandising) sempre più alti; dall’altro lato, la stessa capacità di sempre di accendere le passioni e le pulsioni dei tifosi, che –nonostante il disgusto verso un mondo gonfiato dai soldi e che ha perso identità­ e spirito comunitario– non smettono di essere emozionalmente sopraffatti ogni volta che un pallone rotola tra i piedi di 22 contendenti.

Messo anch’io di fronte a questo giano bifronte, tra repulsione e trasporto, sono attraversato dalla rievocazione di tre immagini divenute iconiche, tre momenti in cui tre grandi giocatori hanno, per così dire, rotto gli schemi, finendo al centro dell’attenzione non per meriti sportivi quanto per demeriti comportamentali. Censurati e additati come contro-esempi, le loro azioni violente mi sembra possano servire a controbilanciare il moralismo ormai imperversante nel mondo del calcio, dove i calciatori sembrano obbligati ad esibire esistenze tanto patinate quanto integerrime (potrebbe mai esserci un Maradona oggigiorno?), e dove il racconto sportivo rimane spesso soffocato tra enfasi eccessiva e tecnicismi tattici.

I tre momenti risalgono al 1990, al 1995 e al 2006: ovvero durante e subito dopo quegli anni ’90 che, tra decisioni politiche (la sentenza Bosman è del 1995), evoluzioni tecniche (con i calciatori uniformati a quell’atletismo che ha invaso tutti gli sport) e affarismo dilagante (si pensi al sempre più decisivo ruolo dei procuratori), rappresentano una spartiacque tra un prima e un dopo.

E i tre protagonisti non sono calciatori qualunque: si tratta di tre fuoriclasse che, ad un talento naturale, hanno unito una personalità non comune e un carattere facilmente irascibile.

Zvonimir Boban, 13 maggio 1990

Prima di essere uno dei leader del Milan supervincente degli anni ’90 e della nazionale croata, Zvonimir Boban è stato il giovanissimo capitano della Dinamo Zagabria, squadra con cui ha partecipato alle ultime edizioni del campionato jugoslavo prima dello scoppio della Guerra dei Balcani. E fu proprio quando le prime iniziative politiche in Slovenia e Croazia stavano dando il la alla dissoluzione della Jugoslavia che una partita di calcio calamitò su di sé tensioni che andavano ben al di là dello sport.

Il 13 maggio 1990 la Stella Rossa di Belgrado, già matematicamente vincitrice del campionato, si presentò a casa della Dinamo Zagabria, seconda classificata, ma la partita non poté nemmeno essere disputata. I supporter della squadra serba, guidati dal famigerato Arkan e reclutati tra futuri criminali di guerra, scatenarono una vera e propria guerriglia urbana, e le due tifoserie si affrontarono in campo. Vedendo la polizia prendersela soprattutto con i supporter croati, Boban, capitano ventunenne della Dinamo, rimase in campo insieme ad alcuni compagni di squadra a dare man forte ai propri tifosi; e fu in quel momento che la sua rabbia esplose e si scatenò contro un poliziotto colpevole di aver preso a manganellate un tifoso:

 

Una ginocchiata volante scagliata con la grazia di un ballerino e l’orgoglio di chi si sentiva in dovere di difendere una nazione intera dai soprusi del regime. Un atto ribelle che costò all’agente la frattura della mascella e a Boban un processo e la successiva squalifica a 9 mesi.

Éric Cantona, 25 gennaio 1995

Se c’è un giocatore che ha fatto della sua esuberanza e della sua strafottenza un marchio di fabbrica quello è proprio Éric Cantona. Della stessa generazione di Boban, figlio di madre catalana e di padre di origini sarde, Cantona è nato e cresciuto a Marsiglia. Ma con la squadra della sua città, l’Olympique, ha potuto giocare solo un campionato e mezzo: nonostante il suo evidente talento, i dirigenti non ne hanno sopportato le tante irrequietezze disciplinari (tra allenatori mandati a quel paese e risse con i compagni), spedendolo in prestito in altre squadre. Fino a quando, dopo una squalifica per aver lanciato la palla contro un arbitro, Cantona decide di iniziare una seconda vita calcistica in Inghilterra (decisione tutt’altro che scontata all’epoca, soprattutto per un calciatore francese).

Dopo una stagione con il Leeds United, con cui vinse il campionato, Cantona si trasferì al Manchester United, squadra che lo consacrò nella leggenda. Le sue giocate, i suoi gol, il suo colletto alzato e la sua mitica maglia numero 7 (la stessa che sarà indossata da David Beckham e Cristiano Ronaldo: due calciatori simboli perfetti del calcio mediatizzato e così diversi dall’anarchico Cantona) lo renderanno l’idolo dei tifosi e un’icona sportiva.

E a farlo diventare ancora più celebre fu ciò che successe il 25 gennaio 1995, all’inizio del secondo tempo di Crystal Palace-Manchester United: dopo essere stato espulso per un calcio tirato a un difensore avversario, Cantona si avvia verso gli spogliatoi e, improvvisamente, fa questo:

 

Rincorsa, calcio volante e pugno in faccia ai danni di un tifoso del Crystal Palace, reo di averlo offeso. Squalificato fino a fine stagione e condannato a 120 ore di lavoro socialmente utile, ancora nel 2017 Cantona, ritornando sull’episodio, così dichiara:

Ho detto in passato che avrei dovuto colpirlo in modo più forte […]. Non posso pentirmene. È stata una bellissima sensazione.

Una bellissima sensazione. E forse, in fondo, anche un atto di giustizia verso tutti quegli spettatori il cui massimo godimento consiste nell’offendere i calciatori in campo, compresi quelli della propria squadra. Un’usanza purtroppo diffusissima negli stadi di calcio: e allora, qual è il cattivo esempio?

Zinédine Zidane, 9 luglio 2006

Figlio di genitori algerini e cresciuto a Marsiglia come Cantona, Zinédine Zidane è stato forse il più elegante calciatore ad aver calcato un campo di calcio. Campione del mondo con la nazionale francese, vincitore del Pallone d’Oro, faro di Juventus e Real Madrid (squadra che ha poi guidato anche da allenatore ottenendo una serie di vittorie sorprendenti, tra cui tre Champions League consecutive), il fantasista francese ha più volte mostrato in campo un carattere irruento.

Tra i suoi scatti di nervi più celebri vi fu la testata rifilata a un difensore dell’Amburgo nel 2000 punita dalla UEFA con una squalifica di cinque giornate. Ma ovviamente nulla può equiparare la celeberrima testata a Marco Materazzi (trasformata in scultura dall’artista algerino Abdel Abdessemed), atto

che valse a Zidane l’espulsione in quella che fu la sua ultima partita da calciatore: la finale di Coppa del mondo del 2006 persa contro l’Italia.

All’inizio del secondo tempo supplementare, con il risultato bloccato sull’1-1, il campione francese non resiste alle provocazioni verbali del rude difensore italiano e decide di abbatterlo in questo modo:

 

Si poteva scegliere un modo più memorabile per chiudere una carriera straordinaria? Tra il bullo difensore italiano, figlio d’arte e di note simpatie destrorse, e il fuoriclasse che danzava sul pallone e che, anche dopo aver vinto tutto, non ha mai perso la rabbia di chi ha imparato a giocare a calcio in uno dei quartieri più poveri di Marsiglia… beh, non mi è mai sembrato difficile scegliere. Come ha scritto Jay McInerney, «C’è una specie di nobiltà, nell’andare al patibolo tutto solo»: Zidane è uscito di scena condannandosi alla reprimenda pubblica, eppure con quella reazione violenta si è mostrato in tutta la sua nobile fragilità. Chi ha detto che anche da questo non si possa imparare qualcosa?

Il pittore

1

di Salvatore Enrico Anselmi

 

Le rocce metamorfiche attestavano il declino del giorno come topazi grezzi, da smussare, come grandi sassi opachi che avrebbero rivelato barlumi e splendore se sfregati a lungo. La componente litica ferruginosa esaltava il colore ambrato, saturo al sole ma reso ottuso dove l’ombra di qualche nuvola s’appoggiava sulla pietra. Allora questa chiazzava, di grigio, la terra e i sassi collocati in ristagno cromatico da sordine simili a velature.

Era il momento del distacco anche da quell’infinitesimo brandello di esistenza appigliata al cielo, ventoso, e ai rami degli alberi stesi sull’orizzonte. Rami avari di foglie, dove le foglie erano strisce coriacee, tinte di verde aspro. Un saluto verso il cielo che dichiarava la sua perennità a dispetto della stagione mutevole e dell’uomo che popolava quella e le stagioni a venire.

Charles decise che fosse giunto il momento di tornare a casa.

Glielo confidava la fine della giornata trascorsa all’aperto nel tentativo di decodificare le leggi prospettiche che attribuivano l’ordine costruttivo alla sostanza cromatica del paesaggio.

Ripose i pennelli e i colori nella cassettina portatile, pulì la tavolozza e la fermò con un elastico, avvolto intorno alla custodia. Ripiegò il cavalletto, privato della tela, e lo mise sotto il braccio. Con la mano libera impugnò un’estremità non ancora dipinta del quadro e ritornò al suo alloggio.

Lì ad aspettarlo Lisa, occupata per tutto il giorno, con i panni da lavare e far asciugare su un filo di fortuna teso tra due chiodi che punteggiavano, interlocutori affilati, generatori di ombre sottili, le pareti laterali alla finestra in camera da letto.

La sollecitazione sui chiodi e l’uso della cordicella, allungata come una trappola che fa inciampare chi non solleva il piede in tempo, aveva fatto sgretolare ancora un po’ l’intonaco. Il calcinaccio era caduto sulla pavimentazione di legno, tra le fibre rugose e quasi taglienti delle travi che correvano parallele a terra. Dichiarava un’ablazione ripetuta e misurabile se confrontata col vuoto lasciato nel muro intorno alle capocchie scure dei puntelli assestati sul bianco.

«È un vero lusso poter contare sui propri indumenti intimi, tirarli fuori dalla valigia, lavarli e lasciarli ad asciugare. È un conforto il solo pensiero di indossarli, finalmente, dopo giorni di vestiti appiccicosi per il sudore. Mi sento meno sporca, se possibile»

Lisa non aveva tutti i torti considerando che da giorni non si erano fermati per più di ventiquattro ore in un posto e avevano continuato a caricare e scaricare dalle corriere i loro bagagli con ritmo parossistico.

Lisa e Charles avevano lasciato la loro casa stabile, la loro città, e il continente ritenuto civile, da almeno sei mesi per concedersi un anno sabatico: Lisa corrispondente dall’Italia per un rotocalco inglese, Charles pittore di professione stanco delle esposizioni a catena, dei galleristi e critici da omaggiare o mandare a quel paese. L’ultima personale era andata bene e aveva venduto quasi tutto. Doveva quindi tornare a lavorare liberamente per poter riempire di nuovo lo studio, riprendere gli inviti ai collezionisti e ai mercanti. La consueta trafila. Prima di cadere ancora nelle maglie dell’esistenza da artista alla moda voleva rinverdire la frequentazione, se non propriamente la conoscenza, perché ormai si conosceva bene, con il sé più libero e disinibito.

Lo faceva scrivendo i suoi pensieri in modo compulsivo su un taccuino, camminando a lungo, fino a tornare sfiancato, dipingendo, assaporando l’amore messo in vendita dove il caso lo portava o dove l’istinto del cacciatore di corpi, lo guidava, dove occhi scuri e sottili, sorrisi emaciati, teli sgargianti lo attiravano dentro case di sabbia cementata e grotte di pietra friabile.

L’amore presunto e dispensato da fattezze estranee lo allontanava ogni giorno, con maggior efficienza, da Lisa che rimaneva, nei pensieri di Charles, lontana e in controluce.

Il suo allontanarsi si era compiuto in modo progressivo, a strattoni sempre più lunghi, ma regolare e cadenzato da una strana pulsione inversa rispetto all’iniziale oggetto di accudimento e amore, la moglie.

In quel periodo la pittura figurativa andava ancora per la maggiore benché le insidie dell’astrattismo cominciassero a minare i fianchi e le certezze dei benpensanti che continuavano ad aprire volentieri il portafoglio per appendere alla parete del caminetto un rassicurante paesaggio campestre, una finestra aperta su un giardino o un tavolo sul limite ingombro di frutta e stoviglie. Avevano ancora vita dura, per innestarsi saldamente sulle pareti delle case, anche in quelle più avvedute e alla moda, le divinità esotiche che sembravano cavate dal legno a viva forza, inquadrate da tre diversi punti d’osservazione, interno-esterno, esterno-interno, animate da un demone occhiuto che cantava alle loro orecchie, provocando reazioni scomposte.

Prima del ritorno all’ordine era quello il periodo durante il quale non ci si voleva allontanare affatto dall’ordine confortevole delle forme, oggetti o esseri umani che fossero, affinché l’ordine apparente delle cose che popolavano il mondo fosse anche l’ordine costitutivo dell’arte.

Ma a guardar bene in controluce, tra gli incavi molati delle coppe dalle quali tutti bevevano, una fessurazione cingeva il cristallo. Quella soluzione di continuità combaciava con l’attimo precedente alla perdita dell’ordine, vissuto da sempre insieme come un cane da grembo sul grembo della sua padrona, come l’istinto predatorio contro la vittima, come il giallo delle patate vicino all’arrosto brunito, che catalogava, incasellandole, le cose e gli uomini, i loro sentimenti e le loro passioni, i deuteronomi, gli assiomi, le buone regole imposte dai legislatori senza vizi e recepite dagli esecutori senza qualità apparenti se non quella di applicare la norma alla fattispecie di vita.

«Finché i vasi di fiori, le montagne al tramonto, i fianchi rosa e veritieri in un nudo di donna avranno la meglio sulle facce a tre occhi e gli zigomi incavati da maschere tribali, non mi dovrò preoccupare!» – Affermava Charles con sicurezza sufficiente ad allargargli la bocca sulla faccia levigata di quel bravo ragazzo che nel contempo sembrava un figlio di buona donna. Soprattutto quando sorrideva a occhi stretti come fessure e gli si piegava la pelle agli angoli delle labbra.

Lisa replicava che i vasi si rompono, che non c’è sempre il sole al tramonto e che prima o poi le maschere avrebbero mandato in soffitta i nudi femminili con i due seni, le due braccia e le due gambe d’ordinanza.

«Dovresti saperlo che prima o poi le novità, intelligenti o dozzinali, si diffondono e scalzano il vecchio!»

Charles non apprezzò, ma sorrise lo stesso accompagnando l’inarcamento della bocca con un sospiro, uno sbuffo d’aria annoiato.

Il giorno successivo si spostarono ancora, lungo la via del deserto di sassi che diventava d’argilla più fine e sabbia, fino a Morcete, città segnata nelle carte come l’ultima prima delle grandi dune. Lì i collegamenti col resto del mondo, – posta, viveri, medicinali, carovane di beduini pagati dagli europei, – ci arrivavano ancora. E allora una volta alla settimana giungevano notizie sulla ruggente vedovanza per la morte degli scrupoli in politica interna, per il barrire delle deliberazioni economiche internazionali allo scopo di incrementare gli utili, per il grugnire ippopotamico dei grassi arricchiti, contrapposto allo stridio dei sempre più emaciati secchi digiunatori del terzo mondo alle prese con la carestia.

Raggiunse Morcete anche una carovana di Argagni, nomadi e stanziali a stagioni alterne, che avevano scortato fino a lì una missione di geografi incaricati dalla Società internazionale di rilevamento topografico, con sede a Montpellier, di ridisegnare i rilievi grafici della zona. Era un aggiornamento dovuto, sia in caso di pace, sia in caso di guerra. Si dovevano conoscere comunque bene i territori da conquistare così come quelli da cominciare a governare. La geografia non aveva bandiere, non si riconosceva in un uno o in un altro regime, non esprimeva giudizi di valore. Registrava alture, circonvoluzione dei gioghi e degli avvallamenti, letto striminzito dei corsi d’acqua, estensione delle oasi, qualità delle strade dove c’erano e opportunità di tracciarne, dove non c’erano mai state.

Tra gli studiosi, armati di tutti quegli strumenti, semoventi o statici su tre piedi, che potevano occhieggiare, misurandola, l’avanzata dei fenomeni erosivi, lavorava anche Maurice, giovane ricercatore, geografo specializzato nell’analisi dei valori igrometrici e di variazione della temperatura nei climi caldi sahariani, che allungò l’estensibile delle sue lenti anche su Lisa.

Quando una sera Lisa si allontanò per andare a cercare frescura sul lato est della massicciata posta tra un vicolo di confine e i giardini di palmizi, Maurice la seguì. In quella circostanza Lisa dimostrò a sé stessa e a Maurice che non sempre il tramonto è assolato, che un vaso fragile sin dal momento della sua foggiatura si può rompere alla minima pressione e che gli zigomi ossuti di una maschera potevano rappresentare, meglio che due guance rosee, la calata sulla terra degli dei che sovrintendono le ombre.

Maurice ne fu compiaciuto e raggiunse lo scopo prefissato, prefissato da qualche giorno, deciso come data e raggiungimento indifferibili. Deciso.

Anche Lisa aveva deliberato, senza dichiararlo a nessuno, nemmeno a sé stessa riflessa allo specchio, nemmeno all’ombra sagomata che si allungava dai suoi piedi fino alle dune più vicine, che avrebbe voluto tradire Charles con quel ragazzo, visto armeggiare da vari giorni con ignoti strumenti di misurazione.

Lisa e Maurice esaudirono i loro desideri e misero in atto le rispettive, coincidenti, deliberazioni, dapprima dentro una tenda da campo, usata come infermeria, fortunatamente rimasta vuota per la durata del loro pomeriggio di esclusiva, personale appropriazione reciproca. In seguito in una camera afosa, inutilmente arieggiata, solo per smuovere strati di aria calda su altri strati di aria calda, all’Hotel Internazionale che grondava dalla facciata, dominante il centro della città, sudore e intonaco caramellato.

Ai primi incontri ne seguirono altri, mentre Charles tentava di estorcere alle alture color topazio l’enigma nascosto della loro miscela cromatica, soprattutto quella che scendeva sui fianchi in ombra, chiazzati dall’alone più scuro proiettato dalle nuvole.

Una sera, di ritorno da una lunga sessione pomeridiana, Charles decise di fermarsi in centro, una breve deviazione dopo giorni interi trascorsi tra i sassi e le salamandre, che dalla superficie terrosa sarchiavano in cerca di ombra e acqua nascoste più in profondità, sotto i sassi.

Anche la sosta a Morcete smosse alcune pietre.

Mentre Charles spigolava con lo sguardo segni evidenti di civiltà, facendo rimbalzare gli occhi da un’insegna dipinta di fresco alle luci ammiccanti dei club aperti dagli europei stanziali, Lisa gli apparve pochi metri più avanti, di lato e solo in parte coperta da un gruppo di ubriachi che giocavano a dadi, sulla veranda dell’Internazionale.

Usciva dall’androne caramello dell’albergo avvinghiata a Maurice, per quella forza di ancoraggio persistente tra due corpi che si sono appena disgiunti e che la prudenza, le buone maniere, il pericolo d’essere sorpresi non sono sufficienti ad allentare.

Lisa si accorse in tempo di Charles, mentre Charles ebbe come l’impressione che Lisa, già distante da Maurice, se ne fosse allontanata poco prima. Forse perché l’aveva visto. Charles ne ebbe il sospetto, erano i soli bianchi, in mezzo a gente del posto, in uscita dalla veranda, anche se Maurice, appena sfilato il braccio dalla vita di Lisa, aveva scantonato verso il gruppo di giocatori e simulava interesse per il lancio dei dadi puntando due monete sul secondo rimbalzo. I dadi, surriscaldati dal fiato alcolico degli scommettitori che ci avevano alitato sopra, ruzzolavano su un campo da gioco improvvisato, una lamina di ferro smangiata dalla ruggine tenuta in equilibrio sulle gambe da due giocatori. I dadi riportavano, sul pallore delle facce, gli abituali segni scuri da un minimo di uno a un massimo di sei per ognuno, la sortita di una scommessa che poteva aggiudicare il successo al sotterfugio o rilasciare la dichiarazione di tradimento appena compiuto. L’alea del dubbio o la certezza dell’inganno, la probabile, verosimile avventura appena consumata o la casta coincidenza del trovarsi nello stesso luogo allo stesso momento per puro caso, cominciava a tracciare circonferenze concentriche intorno alla testa di Charles

Del resto Lisa come poteva conoscere Maurice già così bene dopo poco tempo dall’arrivo in città? Lisa così poco conciliante al tempo dei primi approcci anni prima? Lisa così pudica a inizio matrimonio al punto da non spogliarsi per tutto il viaggio di nozze prima di stendersi a letto? Lisa allieva impreparata alla quale Charles aveva fornito per primo i rudimenti delle regole grammaticali e del calcolo?

Ma Lisa, scaltra grazie ai sillabari, erudita dal sussidiario fornitole da Charles e resa più veloce nel conteggio sempre dallo stesso maestro, da tempo padroneggiava la sintassi delle secondarie giustificate dalle principali e inoltrava, con successo, il pensiero logico nella risoluzione delle equazioni.

Lisa salutò Charles, come se niente fosse, con un bacio, scivolato sul mento come per sbaglio, e un abbraccio fiacco.

«Sono stata tutto il pomeriggio alla sala da tè con Agnes. Sai era da tempo, da quando ci siamo ritrovate qui in città che mi voleva invitare per un pomeriggio tra signore. Abbiamo spettegolato un po’. Abbiamo parlato male degli uomini, soprattutto di te e di quel rammollito del marito che beve sempre e, sbronzo, s’addormenta col sigaro in bocca!»

«Hai un profumo aspro addosso, un profumo muschiato, maschile. Hai cambiato essenza cara?»

«Ah sì, no è il nuovo aroma di Agnes, me l’ha fatto provare. Un po’ azzardato non credi?»

«Sì, senza dubbio. Non te lo consiglio, non ti si addice»

Vezzeggiato da Lisa, narcotizzato dall’acqua muschiata che aveva voluto credere fosse davvero un tentativo azzardato da Agnes, Charles bevve fino in fondo il bicchiere improbabile di millesimato alla colonia, innaffiato con un pomeriggio, chiacchiere e tè tra signore.

Mentre sciorinava la più consueta e quindi meno sospetta delle spiegazioni per essere stata intercettata all’uscita da un albergo, Lisa sudava e, mentre sudava, credeva che avrebbe commesso un errore, un passo falso, che si sarebbe tradita come una principiante a traguardo quasi raggiunto. Ma non accadde. Mentì sorridendo e rese credibile il pomeriggio trascorso nella sala da tè a spettegolare.

Gli incontri con Maurice continuarono a ripetersi ma fuori dalla portata indiscreta di un qualsiasi conoscente che non bada soltanto ai fatti suoi o di Charles a zonzo senza meta. Si davano appuntamento in periferia dove Charles, non andava mai, oppure s’imbarcavano per due intere giornate di viaggio a ritroso verso il mondo appena più civile nella penultima città abitabile prima delle grandi dune. Qui affittavano una stanza in un alberghetto poco frequentato, certi che all’uscita non avrebbero incontrato Charles col sospetto dipinto in faccia di essere stato tradito. L’albergatore era compiacente. Dopo qualche tempo sapeva quando Lisa e Maurice sarebbero arrivati, quello che avrebbero chiesto, quanto sarebbero rimasti. Risultava chiaro che non abitassero in città e che l’unica da dove provenivano, sempre nello stesso giorno e alla stessa ora, fosse Morcete.

Preparava in anticipo la loro camera, cambiava sempre le lenzuola, lasciava sul tavolo una caraffa di acqua e pane allo zenzero, bruciava polvere d’incenso vanigliato che piantava in petto un languore dal quale si sprigionava un senso di mollezza e renitenza. Un giorno, dopo aver atteso il loro arrivo, posizionato pane allo zenzero e asperso fumo di vaniglia, assicuratosi che i due, lasciato l’albergo si allontanassero ignari di essere seguiti, gli mise alle costole suo figlio. Nadir era un ragazzino sveglio, che riuscì a piazzarsi accanto all’autista della corriera per Morcete senza pagare. Avrebbe dovuto seguire i due, tornati nella loro città, convincere di nuovo a farsi caricare su un mezzo di fortuna e riferire nei dettagli tutto quello che era riuscito a sapere. Ne seppe a sufficienza per informare il padre. Nadir accompagnò il padre direttamente da Charles affinché questi gli confermasse che l’ansia crescente nei confronti della moglie, spesso fuori casa anche per qualche giorno di seguito, era fondata perché la moglie stava mettendo in atto un tradimento in piena regola.

Charles rimase sveglio due giorni e due notti, in rovinosa meditazione su cosa fare.

Al terzo uscì presto per andare comunque a dipingere. Era alle prese con l’ennesimo paesaggio, al quale consegnare le tonalità calde delle rocce ferruginose e il verde degli alberi. Mentre Charles tentava di cavare risposte dal panorama, su come rendere il tono marcio e polveroso dei rami, il grigio terroso depositato sui tronchi e il tono scurito dalle ombre sui fianchi delle alture, l’albergatore avrebbe dovuto fare il suo per il quale aveva già intascato metà della somma pattuita: assalimento in camera per Lisa, un colpo di pistola alle spalle di Maurice quando questi avesse ripreso a misurare la regione intorno a Morcete.

Quel giorno, tuttavia, Maurice non era andato al campo d’osservazione, con una scusa circa il suo stato di salute, e aveva raggiunto l’amante in camera. Quando l’albergatore sgusciò da dietro lo stipite della porta, sicuro di dover affrontare la sola resistenza della donna, fu a sua volta aggredito dall’irruenza di Maurice che gli si scaraventò addosso. Come una palla di cannone espulsa a scoppio ed emissione parallela al terreno di battaglia, come una scheggia saltata via che perde forza e velocità solo dopo essersi conficcata.

Gli fu, a testa bassa, sull’addome e lo atterrò.

Seguì una colluttazione violenta.

I due si dimenavano nel tentativo, uno di affondare il coltello nell’avversario, l’altro di sottrarsi ai colpi, bloccargli il polso e fermare la mano. Rotolarono in una direzione e in quella opposta, con le gambe dimenate che scalciavano a mezz’aria. Mentre si rotolavano, il pavimento di legno, cigolante come una vecchia porta, assorbiva i tonfi restituendo suoni soffocati. Le imprecazioni per lo sforzo rimbalzavano sui muri impastati d’intonaco e paglia, stesi sull’anima interna tirata su coi mattoni, e venivano restituiti più fiacchi, come se la paglia e i mattoni stessi ne avessero assorbito i toni aspri che s’andavano a incagliare nel corpo vuoto dei foratini e negli interstizi della paglia. Quella decantazione sonora non ne attutiva, però, il portato violento, perché violenta doveva essere l’aggressione per guadagnare denaro, e altrettanto violenta era stata la reazione a questa, per salvare e salvarsi la vita. Due affermazioni contrapposte si contendevano, confliggenti, il centro dell’azione. In preda a una crisi d’isteria, Lisa saltò sul letto e lì rimase rannicchiata. Si portava le mani al viso, alla bocca, singhiozzava e urlava.

Nel frattempo anche Nadir entrò nella stanza.

Retrocedette quasi subito contro lo stipite della porta, impaurito perché il padre stava gridando. Schiacciato a terra Maurice fu costretto a soccombere con un braccio ripiegato dietro la schiena e l’avversario gli infilò la lama tra una costola e l’altra, la ritraeva e colpiva ancora, come se l’affondo fosse agevole e come se prima di quel giorno non avesse fatto altro per guadagnarsi da vivere.

Sembrava che non fosse abituato a sorridere ai clienti e a sgrassare dal sudicio i pavimenti delle camere, quanto invece a usare un’arma tagliente. Nella ripetizione del gesto violento non si muoveva da albergatore mezzano, non abituato alla mattanza, ma da sicario prezzolato ed esperto. Almeno per un po’.

Lisa saltò a quattro zampe sul letto e da lì sulla schiena dell’uccisore, in preda a una furia suicida. Gli fu addosso, come una gatta elettrica e pazza. Sembrò poterne avere ragione per avergli infilato le unghie in bocca e negli occhi. L’uomo tuttavia esercitò i muscoli con forza agevole per respingerla e farla cadere a terra. La testa di Lisa percosse violentemente il muro. Le caddero sopra frammenti di intonaco a pioggia e i capelli, rossi per il sangue fuoriuscito dalla ferita all’occipite, s’imbiancarono di calcinacci. Una corona farinosa le coprì la testa, una ghirlanda di brina, una calotta di neve, un’aspersione di sale sulla fronte e sulle guance. Fino alla bocca che s’abbandonava a un rilassamento malsano.

Ma anche l’albergatore, nella furia della colluttazione, s’era ferito da solo, alla coscia e tranciate di netto le vene dell’avambraccio sinistro che fiottava sangue e gli faceva perdere gradualmente la vita. Perché la vita non lo abbandonò subito e in quell’intervallo, di smarrimento agghiacciato, fu assaltato dallo sconforto, ultimativo, per essere stato tradito da sé stesso e dal suo coltello che da anni portava infilato alla cintura. Fu come il tradimento di un amico, di un oggetto fino a quel momento fedele, il voltarsi di lama, di uno strumento che non aveva mai provato a offendere il proprietario.

Talvolta il cane morde il padrone.

Nadir dovette assistere a ognuna di queste scene, a ognuno di questi commiati dal respiro, dallo sguardo, dall’azione, dal confidare in sé e negli oggetti da sempre prossimi al corpo e docili alla mano.

Rimase seduto a terra con le spalle appoggiate contro il muro e piangeva.

S’asciugava le lacrime e tirava su col naso.

Si alzò e scese le scale, uscì in strada e cominciò a percorrere all’indietro la strada che l’aveva portato lì.

Rintracciò Charles e, per dimostrare che chi doveva essere ucciso era stato ucciso, gli consegnò un ciuffo di capelli infarinati d’intonaco e l’anello che Maurice portava all’anulare destro con inciso il suo nome.

Pretese di incassare lui il resto della somma pattuita tra Charles e suo padre. E ci riuscì. La contò e la mise in un tascapane a tracolla che faceva parte della tenuta da viaggio di Maurice quando questi si tirava appresso qualche treppiede lenticolato e studiava il terreno.

«Perché sei venuto tu a prendere il denaro?» – Gli chiese Charles – «Dov’è tuo padre?»

«Oggi non poteva. Non si sentiva bene. È andato a farsi medicare una ferita alla gamba e al braccio che s’è fatto ieri. Però m’ha lasciato questo per difendermi, finché rimango solo tutt’oggi.»

E dal tascapane tirò fuori il coltello che era stato del padre. Per tagliare l’aria, mimava l’affondo tra una costola e l’altra e provava un senso di crudele soddisfazione.

Con quei soldi si sarebbe da subito comprato da mangiare: carne e formaggio di capra.

Il resto lo arrotolò dentro la camicia. Mentre camminava la cartamoneta lo solleticava sul fianco e sulla pancia. Era una sensazione nuova alla quale abituarsi. Si assestò per ridurre il gonfiore sotto il tessuto, affinché non desse nell’occhio e non rischiare che qualche ragazzino appena più grande gli sfilasse i soldi da sotto il naso.

Si sistemò di nuovo e pensò che con quei soldi avrebbe potuto comprare un paio di scarpe, due candele, zolfanelli, sapone e quello che di volta in volta la giornata da trascorrere a scuola per imparare a leggere e a scrivere avrebbe richiesto, quello di cui la trafila in una bottega, per imparare un mestiere, avrebbe avuto bisogno, quello che un lavoro da adulti gli avrebbe imposto. Gessetti colorati, una martellina con la punta arrotondata da una parte e tagliente dall’altra per lavorare il rame e l’argento dei piatti che i bianchi compravano sempre volentieri, un vestito scuro su uno sparato bianco di camicia sotto, per dimostrare come fosse già pronto per cominciare da inserviente in un grande albergo.

Dieci anni in un albergo, magari l’Internazionale, e se lo sarebbe comprato pure lui un grande albergo, con l’intonaco caramellato, una veranda intorno sostenuta da pilastri di legno bianco a traforo.

Con le scarpe nuove, il formaggio di capra che gli rimbalzava tra i denti, le candele ammollate in mano, che si scioglievano per il caldo, Nadir guardava le montagne e comprese che per imitare il color topazio spento delle rocce metamorfiche, piagate dal sole, avrebbe dovuto aggiungere un punto di grigio e un po’ di verde, il verde marcio colore delle foglie accartocciate sui rami degli alberi.

Chissà perché Messier Charles non c’ha ancora pensato? Domani glielo devo dire.

Potrei diventare un artista anch’io!

 

 

Prima fascismu, adés no sai – FEDERICO TAVAN

2
001

poesie di Federico Tavan, fotografie di Danilo De Marco

 

[dall’archivio di NI: pezzo pubblicato, nell’ambito di una carrellata di poeti friulani, l’11 febbraio 2015]

002 Federico Tavan

 

 

 

 

 

 

Adés

Prima fascismu

Adés no sai

BRUNO MUNARI Misuratore automatico del tempo di cottura per uova sode

25

DALL’ARCHIVIO: 5 Settembre 2010

 

 
Prendete un esperto giocatore di lippa e fategli calare lentamente l’uovo rosso (1) nella pentola (2) piena di acqua bollente. Voi intanto vi sarete alzati di buon mattino (grazie alla macchina per addomesticare le sveglie) e avrete legato un fiasco spagliato all’estremità di un bastone da passeggio (3), questo fiasco serve come galleggiante e, all’immersione dell’uovo si alzerà spostando il bastone che funge da leva e che si abbassa (4) premendo una lametta sul cordoncino (5).

Quattro libri – anzi sei – nel bagaglietto a mano (Bravi, Voltolini, Innocenti, Trevisan …)

0

di Marino Magliani

Ormai sui voli low cost il bagaglio consentito è quello di un piccolo trolly o di uno zainetto. Significa il necessario indispensabile, per me un cambio di biancheria e camicia e pantaloni corti d’estate, se non arrivo subito a casa, e la possibilità di poterci infilare qualche libro. Questo se torno in Olanda, mentre se torno (dovrei dire rientro?) in Italia di libri non me ne porto, leggo pochissimo in nederlandese, giusto notizie di calcio e di calciomercato, una scienza che mi appassiona fin da ragazzino, quando al posto del gelato investivo nel giornale rosa che arrivava in paese due o tre volte la settimana. Generalmente si trattava di puro calciomercato nazionale, perché gli stranieri non potevano ancora giocare da noi. Sono cose archeologiche, direte, ma di questo vorrei parlare. Di archeologia e cioè del piacere, e di certi libri che leggevo che mi davano in effetti un gran piacere, segreto, quando avevo undici, dodici, quattordici anni. Se ben ci penso succedeva qualcosa di molto simile a ciò che succede ora che a un certo punto dell’anno, prima di tornare in Olanda infilo nello zainetto i famosi tre o o quattro libri al massimo. Allora li mettevo nella valigia di nascosto, perché mia madre non accettava che  portassi in collegio dei libri a scapito di una maglia pesante (un magliani, via) e un pantalone ecc. Allora aspettavo che lei preparasse la valigia (era di un ottimo cartone, o cartone di alta qualità) e poi all’ultimo infilavo a fatica i tre libri – me li dava un amico che ne aveva una casa piena. Prima di entrare in camerata in collegio, dove non importa, li ho girati tutti i collegi, su per le scalinate, riuscivo – ognuno varcava il cancello col proprio catalogo di debolezze – a nascondere in un angolo buio i libri, perché i frati sapevano che qualcuno faceva il furbino e aveva con sé dolciumi, sigarette i più grandi, giornaletti “sporchi” i più svegli. I frati facevano, anche a distanza di giorni, una specie di “dogana” improvvisa, e prima o poi ci cascavamo tutti, tranne quelli dei dolciumi che li avevano già consumati. Per la letteratura valeva una specie di censura e le maglie, se così si può dire, erano piuttosto strette, erano ammessi più che altro i classici, ma mica tutti. Mica tutti.
Quattro cinque libri per viaggio, insomma, è una storia che si ripete. Quest’anno, il giorno 11 luglio, dall’aeroporto di Cagliari (invitato tre giorni nella favolosa Cabras) ho dichiarato alla dogana olandese cinque libri.
In ordine sparso:
Adrian Bravi, Eldorado verde (Nutrimenti);
Dario Voltolini, Il giardino degli aranci (La Nave di Teseo);
Simone Innocenti, Il mondo capovolto (Atlantide Blu);
Julien Gracq, Libertà grande (L’Orma).
Del quarto, quinto e sesto libro dirò giusto due cose alla fine.
Cos’hanno in comune questi tre libri? Il fatto di essere romanzi (in realtà Il mondo capovolto ha la struttura perfetta di un contenitore di 20 romanzi brevi, tanti sono i personaggi) e mi pare nient’altro.
Bravi è argentino, un argentino-tano, argentino italiano prestato alla letteratura italiana. Tranne il suo primo, Río Sauce, scritto in castellano, il resto dei romanzi, parecchi ormai, sono usciti in italiano. È secondo me uno dei maggiori autori anfibi italiani, nel senso che le sue trame, le sue prose, i suoi paesaggi, fanno i conti con il fiume, il lacustre, il mare, l’inondazione. E anche da qui non si “esonda”. Il fiume è il viaggio di Ugolino attraverso il mondo sconosciuto. Ugolino, ragazzo ustionato e sfigurato da un incendio nella stanza del suo palazzo veneziano, sedicesimo secolo, affronta la scoperta del Nuovo Mondo e l’avventura per rifarsi una vita, trova il fiume e l’amore, la storia, la vita e la morte di una civiltà depredata e distrutta dal nuovo arrivato: l’uomo europeo. Detto così manca il vero elemento braviano: la felicità della scrittura e l’invenzione lungo la risalita del fiume. La destinazione naturalmente è la caccia al tesoro tra colori, pesci, anse, comparse di indio e nascondigli nella foresta, navi, scialuppe, metalli, animali, donne bellissime e nude, e spade, lance, frecce, archi, capanne, giunchi, amicizia e spavento.
Il giardino degli aranci, di Dario Voltolini, è il viaggio sott’acqua di un essere umano (per restare in acqua) che a un certo scopre di avere nelle mani una fiocina e la usa. I pesci pescati sono i ricordi degli amori di un ragazzo a scuola, di un ragazzo con gli amici, di un ragazzo alla spiaggia. Non ci saranno prede, se non quella di un tempo restituito allo schermo liquido delle malinconie del pescatore, Nino Nino, che l’io narrante tratta con un affetto che ci emoziona, che ci fa tenere per lui, che ce lo fa proteggere dalle brutalità del mondo, della vita e del tempo stesso (o ce lo fa consegnare a tutto questo?), e questa voce nostra e questa fiocina che fa rumore, devono produrre davvero fischi assordanti e rimbombi e echi, che alla fine della storia vengono percepiti anche da altre anime del romanzo e della realtà e mettono Nino Nino davanti a una specie di dolce resa dei conti.
Il mondo capovolto di Simone Innocenti tratta anch’esso il tempo, concentrandolo in una sola notte, quella dell’ultimo dell’anno. Venti personaggi che si guardano attorno e vivono quel frammento che più di tutti riesce a mettere a nudo le nostre vite mostrandocene l’assurdità, come si sta lì a un certo punto di quella notte a guardare immagini di una fine dell’anno australiana già trascorsa e ad attendere la nostra dall’esterno. Devo dire che se conoscevo la scrittura di Bravi da ormai una quindicina d’anni e quella di Voltolini da almeno una ventina, è la prima opera che leggo di Innocenti e mi ha impressionato la sua capacità.
Il quarto libro è di Julien Gracq, Libertà grande,  l’autore immenso di cui avevo letto Acque strette, entrambi autografati da Lorenzo Flabbi, il mio editore.
Il quinto libro (alla dogana olandese ne ho dichiarato solo quattro, mi piace giocare al  ragazzino che nasconde i libri prima di entrare nelle camerate dei collegi) è un atlante anche nel titolo. Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò. di Judith Schalansky (Bompiani, 2014). Me l’ha regalato Marco Federici Solari, e in cambio gli ho promesso un libro sulle isole liguri.
Il sesto libro è Billy Budd, Billy Budd. An inside reading (Oligo Editore, 2022) di Vitaliano Trevisan, con la postfazione di Davide Bregola. Ero stato a Mantova, nella casa di Nuvolari, ora sede della Oligo, la bella casa editrice con la quale uscirà un saggio e una traduzione di Riccardo Ferrazzi e miei racconti.
Vitaliano, a cavallo della sua moto, lungo i canali di Amsterdam.
Hi man.

Giovenale a caccia di trama

0

di Leonardo Canella

1.
Marco Giovenale è stato per me questa estate una piccola mano disegnata fra rosso e blu e giallo. Sulla copertina bianca di La gente non sa cosa si perde (Tic editore). Questa estate. Io questa estate ho visto quella manina, quei colori in quel piccolo libro che mi ero portato in viaggio. E ho sentito la vita che ci sta dentro. In quel libricino di 52 pagine che ti consiglio di prendere. Prendilo.

2.
Dentro le 52 pagine ci sono 39 numeri, da 1 a 39. Sotto quei numeri, un testo. Vai al testo 17. Trovi la parola “bananette” e poi ancora “bananeto” (venti righe sotto) e poi “banano” (quaranta righe sotto). In mezzo, tanta vita, vita che passa dal 2005 al 2011 con un lei e un lui che sono nel tempo impiegata, professore, gestore, dentista, lei fa i turni, lui il pane (in casa). Quelle sessanta righe di testo hanno una struttura definita, come vedere di un palazzo in costruzione lo scheletro in cemento armato.

3.
Una novità, questa. Affiora prepotente una trama, una struttura. Certo “dimenticarsi mentre si scrive”, mettersi al volante della scrittura senza sapere contro quale muro si andrà a sbattere. Ma un muro di contenimento – il bananeto di cui sopra – alla fine c’è:  “dunque una costante, ma se è costante è prevedibile, e se è prevedibile c’è strada in vista”. Anche se “poi si cancella, rimuove tutto il prima, o no” (idem). Per chi ci ha giocato (primi anni Ottanta) è tutto “come il vecchio snakes da pochi pixel, dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”.

4.
Vai a pagina 19, testo nove. Si parla di tempo e di spazio “l’incertezza che dà il tempo per me non ha uguali”. La dimensione del tempo è viva, inafferrabile: ed è viva soprattutto durante l’atto creativo, priva di coordinate, di misure (“il tempo io non lo ricordo”). Lo spazio è invece l’opposto, lo spazio è preciso e geometrico. Rispetto al tempo, vivo, lo spazio è morte, “preferirei che non ci fosse lo spazio anche se ho sempre bisogno di molto spazio”. Tu che leggi il testo 9 pensi di avere capito. Hai capito che questo è un inno alla vita fatto attraverso la dimensione del tempo. Anche io ho avuto la tua stessa impressione, ho pensato di avere capito. C’è dunque una trama nel testo, c’è un filo che si dipana dalla prima all’ultima riga. Forse in più rispetto a te che hai capito io però ho capito che proprio qui, nella sensazione di avere capito, c’è la fregatura che Marco ha messo per noi. Se hai capito vivi infatti nella dimensione geometrica dello spazio che parcellizza e misura con la mente. Sei hai capito questo testo numero 9 forse sei morto. Se invece non l’hai capito vivi di certo nella dimensione viva del tempo, indeterminata e inafferrabile. Che non si ricorda. E ricominci a leggere dalla prima riga, e sei vivo perché non hai capito. È ancora “il vecchio snakes da pochi pixel che dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti” che hai trovato a pagina 51 (un (festo per il XXI secolo)). Non a caso, un manifesto.

5.
Ti dico quello che penso prima di consigliarti un altro testo di La gente non sa cosa si perde:  Giovenale in questo piccolo libro sta esplorando la dimensione della trama, sente che adesso ne ha bisogno, sente che ha bisogno di cercare lì. Ma sa che è rischioso perché fissare una trama, stendere un filo con cui guidare il lettore è una dichiarazione di finitudine, di limite. E in fondo di morte (per la letteratura sperimentale). Lui la pensa così, ed io la penso come lui. Forse però lui lo pensa più di me, ed io lo penso meno di lui. Un po’ diversi, apparteniamo alla stessa generazione. Marco sta dalla parte del vecchio snakes di pochi pixel (vedi sopra) che “dissipa la parte che precede e gli si dissipa l’orizzonte avanti”. Io, nelle nughette, condenso la trama e la faccio collassare. Stessa aria, aria di famiglia.

6.
Adesso vai al testo numero 7. Una conferma. Trovata la scatola di entrata Marco ti dice che “basta chiaramente poi semplicemente seguire il filo rosso e tutti gli altri”. Dato un inizio, la trama prosegue, però meno lineare. Quanto, lo decide l’autore. Un autore che è alla ricerca della trama perduta. Marco ti dice questo, lo abbiamo già visto, e ti presenta i modi con cui puoi trovare la tua “scatola di entrata”, l’inizio della tua storia: 1) “fuori dalla porta”, 2) “calarti dall’alto”, 3) “chiedere ai parenti”. Sorridi e ti viene voglia di iniziare una storia, di trovare la tua scatola di entrata. Prima però vai al testo numero 21 di pagina trenta. È poche pagine dopo.

7.
Qui si parla di metrica – veniamo alle strategie da adottare – quella metrica che è un “raffinato, tramato complesso centrino all’uncinetto venti centimetri per venti”. Su di te, che sei nudo. E c’è chi dice che stai bene “che rigoglio, che ragnatela di intrecci”. E c’è che tu pensi invece che è meglio altro. Decidi tu e poi vieni al testo 22.

8.
Se hai deciso di usare la metrica agli incontri pubblici avrai ‘regolarmente’ una purezza verticale in testa. E sarai diverso, sarai cambiato. E sarai in grado di disegnare con i contorni molto nitidi, precisi. Nitidi e precisi magari per le metrica che ti sei portato dietro. Eri un amico, lo eri perché Marco ti dice che lui rimane invece per poche idee sfocate, sfocatissime. E preferisce essere agli incontri pubblici senza piuma in testa (altro che metrica). Forse fai bene a non credergli del tutto, però il testo numero 22 è bellissimo. E malinconico.

9.
Passiamo al romanzo annunciato dal testo numero 31. Si ipotizzano due capitoli e ti aspetti di saperne di più però temi la fregatura. E cominci. Alla fine delle tredici righe sai che per te Giovenale ha ritagliato il ruolo del predatore che ha appena mangiato pezzi di romanzo. In bocca ti rimane una sapore strano, acre, di ingredienti che fanno a cazzotti dentro una stessa ricetta. La trama c’è ed è come quando vedi sull’asfalto lattine vuote e pezzi di carta e pensi alla storia che li ha portati li. Adesso sappi solo che saw, che poco prima era sandwich, inzuppa la cicloparaffina e va a controllare il termografo della caldaia. Il secondo capitolo è sintetizzato alla pagina successiva. Vai a leggerlo da solo.

10.
Mi fermo qui. Ti ho dato una chiave per interpretare La gente non sa cosa si perde. Se hai capito, forse adesso tu sai cosa la gente non sa cosa si perde. Forse la gente non sa che perde una trama alla disperata ricerca del suo autore.

Mots-clés__Vento

0

Vento
di Mariasole Ariot

PJ Harvey, The wind -> play

___

___

Da: Emily Dickinson, Poesie, trad. Massimo Bacigalupo, Mondadori, 2016

Il vento – bussò come un uomo stanco –e come un padrone di casa – “avanti”risposi arditamente – quando entrònella mia residenza un ospite rapido – senza piedi –cui offrire una sediaera impossibile come indicareun sofà all’atmosfera – Non aveva ossa per tenerlo –il suo discorrere era come la spintadi tanti colibrì congiuntida un alto cespuglio –Il suo aspetto – un’onda –le sue dita, mentre passavaprodussero una musica – come motivisoffiati su vetro tremolante –Si intrattenne – a svolazzi, sempre –poi come un uomo timidopicchiò un’altra volta – nervosamente –e divenni sola –

___

[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Se un corpo è puntellato dagli spilli

0

ph Olivia Arthur

 
Audio Player

Preludio (Asturie/Leyenda) Helling, E.

 

di Mariasole Ariot

 
Si incammina lento, un corpo puntellato dagli spilli, quando gli insetti s’insinuano nel sottopelle e dalla punta più bassa del terreno arrivano alla testa: un brulichio di voci e mani a forma di pensiero, i pensieri a forma di persone, quanti volti anneriti dai tempi che non fanno spazio, corrugati per assenza di ricordo, ho un buco nella testa che è sbarrato, e la lingua non fa verso e non chiede se non una parola. Le dita conficcano le membra, questo eccesso, il troppo sensoriale della materia che non fa mai silenzio, che urla sotto e fuori dalla cute, si poggia è una membrana e non fa bordo, ancora nella nuca si spinge in verticale, poi per una circostanza si diffonde, e quante e quali madri non stingono le attese, dove le culle cadute non prevedono la vista.

Non esiste un’infanzia se non è passata,
passare non significa passato

Poi le voci e il pullulare dove e quando non esistono corolle, un fiorellino che non fora, la giovane richiesta della notte, un sonno non tormenta la quiete di un albeggio non si chiede se richiede, domandando il mandato di un’offesa – se il corpo è già qualcosa di caduto, il tutto che riposa nel contrario della mente, se mente è dire corpo se quando il corpo mente, il lungo tentativo di una resa. Il terrore del costato un po’ malconcio, la mia parola controverso si dimena da gomiti a falangi, riduce come fosse scheletrino: la vedi la latrina del timore, se affondano le cose e i tetti del cervello, un giorno maculato come bestie, insetti e quanto tempo rimandato, mi bruca nelle parti un padre senza voce che mi guarda la finestra.

Non parla la parola se non muta,
non muta la parola che non parla

E’ un tempo senza spazio, la dispercezione dell’ambiente quando le parti si disgregano e sono pezzi e brandelli di fuggitivi, le domeniche del vuoto si insinuano nella gola, esce un vaso cavo da riempire – e tu lo riempi con lo sputo di secoli a venire, un rigurgito di umanità mancata di avvenire. Poi un raggio come una freccia trapassa le tempie, senza terreni sopra la testa, capovolti come siamo a muovere le gambe roteandole a camminare nell’assenza, distesi e tesi statue di amianto, la sorte della maledizione: la disfazione dei letti, della memoria che non portiamo sulla schiena ma nell’occhio.
Non un centimetro del mio volto che tu non mi abbia fornito malato, un difetto di fabbricazione: ciò che volevi che fossi, ciò che se fosse non ero.

Non dare un germoglio all’ombra
non fare dell’ombra il tuo giaciglio

Guarda che c’é dentro qualcosa

0

di Laura Rescio

Guarda che c’è dentro qualcosa, mi dice. E io apro il libro e lo sfoglio, e non vedo niente, e lei mi dice com’è che non vedi mai niente, gli uomini non trovano mai le cose, e io mi stufo e chiudo il libro e lo lascio lì proprio per farle dispetto. Voi donne invece generalizzate sempre, dico, con un piacere perverso nel far cominciare il litigio proprio con queste parole, accusandola di fare proprio quello che sto facendo io in quel momento. Sono arrabbiato e non so perché, ma qualcosa dentro di me vuole saltarle al collo, fargliela pagare, vuole vendetta per quella sciocca frase che ha detto senza farci neanche caso, tanto è normale per lei, darmi addosso – ragiona sempre quella stessa parte di me – mentre lei si avvicina con la tazzina di caffè in mano e con l’altra – con una mano sola – tira su il libro e lo squaderna per aria, facendo frullare le pagine, così: frrrrrr e dalle pagine scivola via per terra un foglio sottile, sembra di carta velina, era tra l’ultima pagina e la copertina di cartone azzurro, e lentamente ondeggia un paio di volte avanti e indietro nell’aria e si ferma sotto una sedia. A me viene ancora più il nervoso, ma sto zitto, vedo che evidentemente ha ragione, noi uomini non troviamo mai niente e questa ne è la prova, questo foglio che è scivolato via dal libro con la copertina azzurra che ho trovato su un banchetto al mercato e portato a casa. È una vecchia edizione degli Indifferenti, e cosa vuoi che sia, penso, saranno gli appunti di qualche studente che li ha dimenticati lì dentro, felice come una pasqua di avere finito l’esame. Lei si china e lo raccoglie da terra, ha bevuto un sorso di caffè, lungo, i suoi caffè sono sempre lunghi, e li beve lentamente e li lascia sempre raffreddare, e anche questo mi dà sui nervi, vorrei dire: le donne hanno sempre delle abitudini irritanti, vogliono sempre fare le cose a modo loro, invece che come vanno fatte, il caffè dev’essere ristretto, denso, va bevuto in un sorso, non si va in giro agitando una tazzina da caffè per tutta la cucina, con la sigaretta in mano, che anche quella la fuma lentamente, poi, e la lascia più che altro bruciare, più che fumarla, lasciamo stare. Invece non dico niente e guardo indifferente la sua scoperta, che lei esamina con grande interesse e poi posa lisciandola sul tavolo. Ma io lo so che non ha visto un bel niente, è senza occhiali. Senza non ci vede un accidente. È tutta una finta.

È una specie di albero genealogico, dice, ci sono scritte delle cose, mi fa. Non ti interessa?

Ma sì, mi interessa, le dico, perché se no si offende. A me questa storia di vivere insieme mi dà sui nervi, ormai siamo sposati da quarant’anni e dopo due figli che ormai hanno anche loro dei figli non ci pensiamo neanche più, a staccarci, ma a me è sempre pesata. Ognuno ha le sue abitudini, ognuno fa le sue cose, e all’altro non interessano, oppure proprio in quel momento, per combinazione, volevi proprio stare in quella poltrona, entrare nel bagno per farti la barba, uscire sul balcone quando c’è lei e devi rimangiarti tutto e stringendo i denti per non dire niente di troppo torni indietro e aspetti per farti la barba, per bere il caffè, per farti un panino. Aspetti che lei abbia finito e con tutta calma, che guai a farle fretta. Soprattutto, da quando è andata in pensione, si è riempita di mille fisime, vuole avere tempo per fare questo e quello, non vuole correre, ha corso per tutta la vita, dice. E io da tutta la vita ad aspettare con gli occhi incollati all’orologio, a rimangiarmi le parole che vorrei dire, a sopportare per amor di quieto vivere.

Ora finisce con tutta calma di bere quell’ultimo sorso di caffè, dà un ultimo tiro alla sigaretta, si siede sulla poltrona davanti alla porta del balcone e aspetta. Vuole che mi interessi a quel foglio, ma io non dico niente, non faccio neanche un gesto per prenderlo, perché dovrei darle la soddisfazione? Non me ne importa mica niente, di quel pezzo di carta. Strano, però, sembra che ci sia sopra una specie di disegno, lo vedo da qui, dei segni colorati e confusi, lo sbircio, do un’occhiata e poi guardo da un’altra parte. Alla fine mi alzo, prendo gli occhiali nel cassetto della cucina – ormai senza non ci vedo più niente – e ignorando il suo sguardo quasi trionfante lo prendo in mano. C’è un disegno. Dietro c’è una mezza pagina scritta a mano, in una grafia rotonda, infantile. Comincia con Cara maestra.

Questa è una lettera di qualcuno, dico io. Già! Risponde lei, compiaciuta. Come se fosse una sua vittoria personale. Forse non dovremmo leggerla, dico. Lei inarca le sopracciglia. Mi casca l’occhio sulla frase:

La persona più famosa che ho conosciuto…

Senza sapere perché, comincio a inventare. C’è su un disegno stranissimo, dico. Pazzesco, tutto colorato e storto, ma anche bello, a modo suo. Dev’essere il disegno di un pazzo. Sembra un albero genealogico, ma inventato, di fantasia, con dei nomi stranissimi, inesistenti, e creature quasi medievali. Qualcuno l’ha disegnato con le matite colorate, e poi ha scritto una lettera sul retro, indirizzandola a una certa Stella. Non so perché mi esce questa storia. In realtà sul foglio non c’è niente di speciale. Un disegno fatto da un bambino neanche tanto bravo, un albero, una casetta, una donna con i capelli neri lunghi, e una letterina per la maestra.

Cara Stella, improvviso, facendo finta di leggere, da quando e poi mi interrompo subito perché mi viene il nervoso. Per lei questo foglio è solo un modo per darmi fastidio, per mostrarmi la sua superiorità, per vincere, non qualcosa che ha scritto una persona vera. Il bambino si è messo lì con impegno e ha scritto questa lettera alla maestra, magari solo perché si accorgesse di lui.

Non ti sei nemmeno accorta che c’è un disegno, non l’hai nemmeno notato, proprio tipico tuo, le dico, alzando gli occhi sopra le lenti degli occhiali. Lei mi guarda e mi fa, ma se l’ho detto subito, è un albero genealogico, non hai sentito?

Tu hai detto un albero genealogico, ma questo qui è una specie di capolavoro, guarda che disegni! Non vedi che questo l’ha fatto un artista? Saresti capace, tu, di fare una cosa del genere? Albero genealogico, dico strascicando la voce, come a farle il verso. Se c’è una cosa che la manda in bestia è quella. Le sale il sangue alla testa, lo so, ma non vuole darmi soddisfazione, quindi mi ignora, guardando fuori dalla finestra, e fa: se volessi lo potrei anche fare. So disegnare, io. E io scoppio a ridere di gusto, non lo faccio mica apposta, lo giuro, mi è venuto proprio spontaneo. Tu che non sai nemmeno tenere una matita in mano, già! Proprio tu, e ripeto ancora una volta, albero genealogico… guarda qui, dico, puntando l’indice sul foglio, qui c’è tutta una dinastia di personaggi dai nomi assurdi, improvviso. Mi vengono dei nomi inventati, Clericogianni Antibale, comincio a elencare, Veromilia Ogliastra… ora è lei che scoppia a ridere, con questi nomi proprio strani, e poi i disegni, continuo! Sono veramente assurdi, pazzeschi, ci dev’essere voluto un sacco di tempo per disegnare tutto con la matita, queste armature, queste uniformi, questi serpenti araldici, questi sfondi di prati verde smeraldo ed elmi piumati rosso rame, queste squame e questi fiori con moltissime sfumature. E tutto questo nel piccolo, su una carta velina sottilissima. Ma chi avrà disegnato tutto questo, mi domando. Mi sembra quasi di vederli, i disegni. E di nuovo giro il foglio e continuo a far finta di leggere, forse nella lettera ci sono delle spiegazioni, dico.

Cara Stella, da quando mi trovo qui dentro senza speranza di poter mai uscire e mi blocco. Vedi, questo dev’essere stato un carcerato, è l’unica spiegazione, per questo aveva tanto tempo.

Lei guarda fuori dalla finestra fingendosi annoiata. Mi fa imbestialire questo atteggiamento, e vorrei che almeno per una volta dicesse qualcosa, e questo tesoro che inizialmente non avevo nemmeno notato ora è diventato mio, e voglio difenderlo a spada tratta, voglio che venga notato, che ne venga riconosciuto il valore. …il tuo pensiero è l’unica cosa che mi permette di sopravvivere. Che ingenuo, dico, pensa un po’ questo qui, chiuso lì dentro a sperare che una donna, là fuori, lo aspetti. Non conosce le donne, dico, e mi metto a ridacchiare, mentre lei gira la testa di scatto verso di me, mi guarda male, poi si alza, va al lavandino e si mette a lavare nervosamente la tazzina e le altre cose che ci sono dentro, già dalle spalle si capisce che è arrabbiata, e forse era proprio questo l’unico risultato che volevo ottenere, perché lei mi dà sui nervi e allora perché non dovrei renderle pan per focaccia?

Sono ritenuto pazzo. Ah, allora non è in carcere, è proprio un matto, continuo a inventare, infatti questi disegni qua chi li fa, se non un pazzo? E poi quelle parole, quei nomi così strani, chissà da dove li avrà presi. Quando sarai grande lo capirai. Intanto, qui dentro, disegno un libro per te. Disegno perché è tutto quello che so fare, è quello che ho fatto per tutta la vita, e ancora questo non sono riusciti a togliermelo. Ormai ho preso l’abbrivio e non so come fermarmi.

Un giorno, quando io avrò finito la mia vita qui dentro, questo è proprio drammatico, eh, ma chi lo dice che ci passa tutta la vita? Magari migliora e esce prima… se mani compassionevoli lo troveranno, qui in manicomio, raccoglieranno questi fogli e te li trasmetteranno. Io non posso farteli avere, perché sono circondato da nemici. E dagliela, faccio, questo è un paranoico, ho capito, ecco perché non può mai uscire. Questo è uno che passa giornate intere davanti alla TV e guarda tutti i programmi, soprattutto quelli del pomeriggio, e spesso lo mettono in isolamento perché litiga violentemente con gli altri se vogliono vedere altri programmi in televisione. Una volta ho intravisto Regina Maria, dice, ma pensa un po’, sproloquio, questo qui parla della De Filippi, è chiuso in manicomio e la sua fissazione è la televisione, e per via di questa fissazione lo chiudono in una cella isolata senza TV e va ancor più fuori di testa. Così si è messo a fare questi bei disegni dettagliati e colorati, tutta una genealogia che si immagina tra i personaggi della TV, e gli attribuisce anche dei titoli nobiliari di fantasia, tipo arciduca del Dragone e contessa Piscinefredde, sul retro della lettera che sta spedendo a questa Stella. Da dove mi vengono queste idee non lo so neanch’io. Devo essere un po’ matto anch’io.

Ho smesso di far finta di leggere ad alta voce. Anche di ridere. Lei è ancora in piedi davanti all’acquaio, ha smesso di lavare le tazzine, ma non si gira, è di cattivo umore.

Non vuoi sapere che cosa c’è scritto, le dico. Ho appoggiato il foglio sul tavolo, girando il disegno verso il basso. Ci tengo sopra una mano. No, non lo voglio sapere, mi fa. Voglio sapere perché t’ho sposato, ecco cosa voglio sapere.

Lo vorrei sapere anch’io, penso, ma non dico niente. Mi tolgo gli occhiali e li appoggio accanto al foglio. In fondo al foglio c’è una firma, è firmato professor Innocenti, dico, ma guarda, avevo un professore che si chiamava così, a scuola. Ma è morto da un sacco di anni, e non sapeva di sicuro disegnare. Chissà chi era questo povero cristo, dico.

Ma quanto parli, dice lei. Fa’ un po’ vedere questo foglio, su.

Io me lo nascondo dietro la schiena. No, dico, ora non te lo faccio più vedere. Lei cerca di strapparmelo di mano, e io mi diverto a tenerlo in alto fuori dalla sua portata, gioco un po’ così con lei, ma sei scemo, mi dice, dammelo, voglio vederlo anch’io, voglio vedere i disegni! No, non te lo do, prova a prenderlo, dico, scansandomi di qua e di là, e poi alla fine lo appallottolo e lo faccio volare fuori dalla finestra. Guardiamo la pallottola di carta stropicciata che scende lentamente oltre i terrazzi e va a finire in un sottovaso dalla signora del primo piano.

Lei mi guarda. Ha gli occhi pieni di lacrime.

Non so perché anche a me viene quasi da piangere.

Caldo

1

di Fabio Rodda

 

Posso farcela. In ospedale, mi dicevano di concentrarmi su ogni singolo muscolo, di immaginarne le fibre, di comandare i movimenti a ogni porzione di corpo: cominciare dal piede. Prima al mignolo, poi alle altre dita. Al metatarso, alla pianta, al tallone. Poi alla caviglia, al polpaccio, alla tibia e al menisco. Solo dopo, alla coscia e daccapo con l’altra gamba, finché non sentivo muoversi tutto nella mia mente. Per ultimo, il comando al bacino che doveva dare la spinta.

Ci vuole solo un po’ di concentrazione. Solo un piccolo sforzo e sarò giù dal letto e allora potrò trascinarmi di là, vedere cos’è successo. Concentrati, Omar. Guarda lo specchio, sei deciso, non hai paura, sai che puoi farlo: una spinta e giù da questo letto.

*

Faceva caldo, tanto caldo: il tempo era cambiato, da anni le estati erano diventate insopportabili. Lo dicevano spesso anche alla tivù, giù al bar, che c’erano i giovani che protestavano perché il clima stava cambiando, che avrebbe fatto sempre più caldo e che i mari si sarebbero alzati e chissà quali disgrazie stavano per accadere. Chissà se era vero. Sicuro, era più che vero che gli inverni erano diventati autunni e tutte le altre stagioni estati, come mai si era visto, in valle. Mario entrò al bar: «senti ti, che roba. Mai fat sto cald a maggio.»

«Te ha reson, Mario. Vara che l’è quasi mezzodì, non l’è ora di andare al campo.»

«Tranquilo Nani, vae giusto a dar n’ocio; guardo che sia tutto a posto e poi casa.»

«Va ben, no sta a far laori, che te ha otanta ani.»

«Sempre manco de ti, son sempre più giovane, Nani.»

E aveva messo in moto il treruote che caracollava lungo la strada di cemento appena rifatta dal Comune, scendendo verso la valle, dove non ci abitava più nessuno, se non lui con la sua famiglia.

Il campo era a posto, Mario aveva fatto il giro controllando bene sotto le foglie di lattuga, vicino alle teghe e alle zucchine. Niente danni, le trappole per topi sparpagliate qua e là vuote: o le talpe si erano fatte furbe, o faceva troppo caldo anche per loro. Stava per rimettere in moto l’Ape, quando sentì il rumore di una macchina che si avvicinava lungo lo sterrato. Sbuffò, scese dal piccolo abitacolo e si avvicinò al capanno di legno, quattro assi messe su alla bell’e meglio un cinquantennio prima, che incredibilmente avevano attraversato come gli alpini in Russia il gelo degli inverni, quando ancora nevicava e tutto poi si trasformava in un mondo bianco e silenzioso. Prese il bottiglione di clinto, versò due bicchieri e si sedette sulla seggiola di fili grossi di plastica verde attorcigliati a uno scheletro di ferro arrugginito.

«Buondì, Giuseppe.»

«Buongiorno, Mario.»

«Vara che te ho versà ‘l vin, ti ho versato un bicchiere, anca se te se ‘n gran rompicoglioni.»

«Mario…»

«Alla tua salute, Giuseppe.»

«Non dovrei, sono in servizio con la macchina del Comune.»

«Gnanca mi dovarie, nenach’io dovrei, sono vecchio. Dis al dotor. Dai bevi e dime, che so già.»

«Mario, è la terza volta che vengo a casa tua e non mi apri. Son dovuto venire qua. Lo sai perché, giusto?»

«Certo. Parchè te se ‘n rompicojoni.»

«Mario…»

«Dai dai, Giuseppe. Son drio scherzar. Lo so, lo so che che te vol. Ma te ho già dita, te l’ho già detto, che non ho bisogno di niente. Me son sempre rangià. Mi arrangerò ancora.»

«Ma Mario, da quando anche Omar… sì, insomma. Prima tua moglie, adesso tuo figlio che a stento si muove. Perché rifiutare una mano dal Comune?»

«Parchè voialtri avè da farve i cazzi vostri. Atu capì? Vi dovete fare gli affari vostri, che io ho ottant’anni e ho sempre badato alla mia famiglia da solo. E ades? Oleu che? Cosa volete? Venire a casa mia a dirmi cosa devo fare?»

«Ma no, Mario. Si tratta solo di servizi di supporto, un infermiere un paio di volte la settimana. Per vedere se è tutto ok, se va tutto bene»

«Volete venire dentro casa mia a dirmi come mi devo comportare con mia moglie e mio figlio. E invece no, Giuseppe, te pol tornar dal sindaco e dirghe ch’el se ciave. Atu capì? La me fameja l’è roba mea. È roba mia. Mia fatica, miei soldi, mai chiesto niente a nessuno. Io lo so cosa volete, davvero.»

«E, cosa mai potremmo volere, Mario?»

«Vegner a casa mea a comandar. Venire a dirmi che non va bene il bagno così e che serve questo e quello e farme ‘ndar via perché in valle non ci vive più nessuno. Volete mandarmi via.»

«Nessuno vuole mandarti via da casa tua, Mario.»

«Te se ‘n conta bale. Sei un bugiardo. Sono anni che venite a dirmi che devo andar via. E mi te dis che l’è l’ultima olta che te beve n’ombra co mi, se te gnen ‘ncora a romper i cojoni. Valo ben? Va bene, Giuseppe? Son drio innervosirme. Quel dio!»

Mario aveva asciugato i due bicchieri col fazzoletto rosso che teneva sempre attorno al collo, aveva chiuso la baracca col grosso lucchetto e aveva messo in moto il suo trabiccolo, mentre la macchina del Comune si arrampicava a fatica lungo lo sterrato che riportava alla Provinciale.

*

Una valanga: il mio corpo che mi crolla addosso, io che non riesco a respirare, né a muovermi in nessuna direzione. Dovevi cadere dall’altro lato del letto, testa di cazzo che sei. Sono riuscito a girarmi, lentamente, ad avvitarmi su me stesso fino a ritrovarmi di nuovo a pancia in su. E ho respirato a fondo. Ho alzato la testa fin dove riesco e ho visto il casino in cui mi sono messo: le gambe attorcigliate una sopra all’altra, quasi sotto al letto a sinistra; a destra l’armadio; dietro, il muro. E adesso, come esco da quest’incastro? Vedo la stanza, la luce filtra dalle persiane socchiuse, non c’è nessuno. È successo qualcosa, maledizione, e io non so come diavolo spostarmi da questo buco in cui mi sono andato a incastrare, testa di cazzo che sono.

*

Mentre tornava a casa, a Mario era salita una gran rabbia e aveva deciso di fare il giro largo, prendere la provinciale e andare a farsi un bicchiere in paese, prima di rientrare. Tanto aveva tutto il tempo per tornare e far da mangiare per Maria e Omar. Per imboccare sua moglie e portare il piatto in camera a suo figlio, aiutarlo a mettersi seduto, appoggiato ai tanti cuscini e lasciarlo mangiare in pace prima di portarlo in bagno e di lavarlo e, insomma, tutte le solite cose che riempivano i suoi pomeriggi da anni, dall’ictus di sua moglie e dal maledetto incidente di suo figlio. Il bar, a quell’ora, era pieno di gente che non conosceva: i suoi coetanei, ormai pochissimi, erano già tornati alle rispettive case dopo la briscola e adesso quello era territorio dei giovani, dei disoccupati, degli immigrati perdi tempo che saltavano il pranzo fra un bicchiere di bianco e uno spritz. Entrò, e con grande sorpresa vide ancora Nani, seduto al suo solito tavolino che leggeva il giornale.

«Fatu che, ‘ncora qua? Vara che dopo no te se pi bon de tornar a casa.»

«Ere drio ‘ndar. Stavo andando. Ma ti? No te era ‘ndat al campo?»

«Sì, ma i me ha fat girar i cojoni e son vegnest via. Mi hanno fatto arrabbiare. Fon n’ombra e te porte a casa col triroe. Un bicchiere per calmare il nervoso.»

«Va ben, Mario. Elo chi che ‘l te ha fat rabiar? Chi è stato?»

«Asa star, nesun. Un mona.»

Faceva veramente caldo quel giorno, e l’Ape rimasto sotto al sole pareva una lamiera incandescente.

«Senti che roba, setu mat a ‘ndar in giro co sto coso? Ghe sarà tzinquanta gradi la entro.»

«Tasi Nani e salta su. L’è calt, sì. Masa calt. Troppo caldo, oggi.»

Fecero le poche centinaia di metri che separavano il bar in piazza dalla casa di Nani, l’unico amico che gli era rimasto in paese e che ancora aveva la fortuna di camminare bene, come lui. E anche di avere una moglie e un figlio che stavano in piedi da soli. Salutò Nani e fece ciao con la mano a Gisella che era andata ad aprire la porta, girò l’Ape e ripartì verso lo sterrato che riportava giù in valle.

*

In ospedale facevamo gli esercizi anche per le braccia. Riprenderai quasi tutta la funzionalità, dicevano all’inizio. Poi, il cinquanta per cento. Poi il venti. Praticamente non riesco a sbucciare un’arancia. Figurarsi fare leva per ribaltarmi in avanti. Per fortuna c’è spazio sotto al letto: le gambe non sono bloccate. Con un po’ di strattoni, posso girarle, poi buttare il busto avanti e riuscire a mettermi supino senza soffocarmi, poi posso trascinarmi fino alla porta. Cazzo, la porta. E come la apro quella porta?

*

Quando rientrò in casa, Mario, fu accolto dal solito silenzio. Solo il ronzare del vecchio frigorifero in cucina rompeva il nulla che lo avvolgeva. Entrò in camera. Maria lo guardava. Sorrise appena.

«ciao Maria. Tut ben?»

La moglie accennò un movimento degli occhi.

«me lave le man e te fae da magnar. Pasta al pomodoro, va bene?»

Lo stesso gesto a rispondere.

«ti apro gli scuri, così te riva ‘n sciant de sol. Un po’ di sole in faccia. Poi te li chiudo, che se no finisci arrosto co sto cald, valo ben?»

Lo stesso su e giù, lo stesso sorriso grato.

Mario aprì le persiane e un fascio di luce planò sul viso di sua moglie, che strizzò gli occhi. Mario rimase lì un po’ per capire se a Maria facesse piacere quella luce o se il sole, così feroce quel giorno, potesse darle fastidio. Lei sorrise ancora e suo marito uscì dalla stanza lasciandola inondata dai fasci solari. Maria aveva avuto un ictus un paio d’anni prima. Era rimasta completamente paralizzata e per un po’ i medici pensavano che non sarebbe uscita dal coma. Invece, dopo poche settimane, era sveglia e del tutto presente, ma chiusa in un sarcofago che non poteva comandare. Festeggiò il suo settantasettesimo compleanno in ospedale. Le infermiere portarono il prosecco e tutti brindarono. Anche Maria, a cui il marito aveva versato qualche piccolo sorso di vino in bocca. Mario aveva bestemmiato iddio e tutta la sua stirpe con più veemenza di quanto avesse fatto in tutta la sua vita di grande smadonnatore dell’alto Veneto. Maria riusciva a muovere solo gli occhi e, col tempo e l’aiuto del personale dell’ospedale, aveva reimparato a usare la bocca per sorridere e mangiare se imboccata. Aveva tolto il sondino e Mario aveva persino pregato che ritrovasse la parola. Ma non era stato ascoltato. Lui e suo figlio impararono a comunicare con Maria osservando i movimenti che faceva con gli occhi e la bocca. Era diventata routine, tutto diventa routine nella vita degli uomini. Per un anno buono, lo aveva aiutato Omar, suo figlio, cinquantenne scapolo e mai uscito di casa. A lui interessavano solo il bar e correre con la moto sugli sterrati della valle. Finché un sasso girato dalla parte sbagliata non aveva messo fine alle sue scorribande notturne. Mario l’aveva messo a letto nella sua stanza e non l’aveva mai perdonato per avergli buttato addosso quest’altra croce, a quasi ottant’anni. Poi, anche quella era diventata normalità, la sua normalità. Due bocche da sfamare, due culi da lavare. Lunghe giornate in silenzio, mentre aspettava di dover far qualcosa per quello che restava di sua moglie e di suo figlio.

*

La porta, la porta, la porta. Come ho fatto a non pensarci? E adesso? Il telefono è di là, in corridoio. Oltre la porta. Mamma, di là, in camera. Mario? Tutto è al di là di quella maledettissima porta.

*

Faceva veramente troppo caldo, quel mercoledì di metà maggio. Mario entrò in cucina con una strana sensazione addosso, come di nervoso, di ansia. Una stretta in basso, allo stomaco, che gli faceva far fatica a tirare il fiato. Cominciò ad affettare una cipolla, si avvicinò alla dispensa per prendere la bottiglia d’olio e quando alzò il braccio una fitta lo lasciò immobile, allibito di quel dolore così forte e improvviso. Si strinse il polso destro con la mano sinistra e portò le braccia al petto. Stava per gridare dal male, quando una seconda fitta, ancora più potente, lo ammutolì. Stramazzò a terra fra la stufa nera e il tavolo di formica verdastra. L’ultima cosa che vide fu il riflesso di quel sole malefico sul linoleum del pavimento e i piedi di ghisa della cucina economica. Poi, il buio.

*

Devo essermi addormentato. Ho sete. Dagli scuri socchiusi non filtra più luce, devo aver dormito tutto il pomeriggio. Ho sete e devo andare in cesso. Fa caldo, maledettamente caldo. Chissà che ore sono. Potrei gridare. Ma chi mi sentirebbe? Non c’è niente e nessuno attorno a questa stamberga. Non c’è mai stato nessuno. Come aprirò quella maledetta porta? Non ha mai fatto così caldo, da queste parti.

 

Da “Istruzioni politico-morali…”

0

…all’indirizzo dei nostri giovani poeti sul reperimento e assimilazione dei concetti dei nuovi è un volume Diaforia, uscito nel 2021, con una bandella di Nathalie Quintane.

.

di Michele Zaffarano

.

12

Sei performante.

Sei attivo.

Se sei attivo è perché partecipi alle attività.

Partecipa alla costruzione del senso.

Partecipa a quell’attività che è la costruzione del senso.

Anticipa il senso della costruzione del senso che poi troverai costruito.

Fai domande sul senso.

Per anticipare il senso fai domande sulla costruzione.

Devi essere performante con il senso.

Quando sei performante con il senso non ti precipiti dentro il senso a testa bassa.

Dentro il senso individua i punti di orientamento.

In mezzo al senso esercita il tuo orientamento.

All’improvviso ti orienti seguendo le indicazioni di comportamento che immagini in mezzo al senso.

Le indicazioni di comportamento te le ritrovi a disposizione sul posto.

Ti devi sentire a tuo agio con le indicazioni di comportamento che trovi.

Ti devi trovare perfetto nella tua performance.

Il tuo scopo è ottenere uno sguardo d’insieme sul campo del senso.

Il tuo scopo è adottare uno sguardo d’insieme sul senso.

Adotta uno sguardo d’insieme.

Affronta l’insieme del senso.

Cerca i passaggi in mezzo al senso.

Usa le strategie.

La performance si produce perché tu usi le strategie.

È grazie alle tue strategie se localizzi i passaggi che passano in mezzo all’insieme del senso.

È questo che ti deve interessare.

Sono i passaggi attraverso l’insieme del senso che ti devono interessare.

Ci sono dei passaggi che sono essenziali.

Ci sono dei punti di orientamento che sono essenziali.

Devi cercare dei punti di orientamento che ti aiutano a rimettere assieme il senso.

Imprègnati di punti essenziali.

Pensa che i punti essenziali non bastano mai.

Secondo i tuoi calcoli i punti essenziali passano grosso modo in mezzo al senso.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

È tutto grosso modo.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Passa tutto il tempo a recuperare i passaggi in mezzo al senso.

Solo quando avrai capito la costruzione del senso potrai tornare alle questioni di dettaglio.

La costruzione del senso la capisci come ti pare.

Segui le tue strategie.

Devi capire il motore della costruzione.

Non lasciare perdere.

Non fare quello che cade dal pero.

Non dimenticare.

Non divagare.

Dentro la performance devi essere molto ben informato.

*

13

Sei molto performante.

Per localizzare i passaggi che ti interessano usa delle strategie.

Imprègnati con comodo delle idee generali.

Non perdere tempo sulle questioni di dettaglio.

Devi essere ultraperformante.

Adàttati al terreno.

Àpplicati in maniera flessibile.

Devi essere flessibile.

I tuoi modi non sono soltanto flessibili.

I tuoi modi sono anche solidi.

I tuoi modi sono anche abili.

I tuoi modi possiedono una certa abilità.

Però non comportarti sempre allo stesso modo.

Tutto dipende dall’importanza delle situazioni.

Tutto dipende dall’importanza che dài alle situazioni alle quali ti stai adattando.

Tutto dipende dalla costruzione delle situazioni.

Magari sono situazioni di primaria importanza.

Magari sono delle situazioni d’importanza relativa.

Magari è qualcosa che appartiene agli agglomerati.

Quando devi giudicare l’importanza delle situazioni compòrtati in maniera ragionevole.

Applica il tuo giudizio.

Opera dei giudizi.

Opera delle distinzioni.

Non comportarti sempre nello stesso modo.

Modifica i tuoi modi secondo le difficoltà delle situazioni.

In certi momenti rifletti in fretta.

In certi momenti rifletti lentamente.

In certi momenti i tuoi giudizi devono essere parziali.

In certi momenti assumiti interamente la responsabilità dei giudizi.

Photomaton: Rino Bianchi

0

Molta forza

di Francesco Forlani

nota pubblicata su Focus-in, a proposito del reportage di Rino Bianchi su Cassino.

Nella ventennale corrispondenza con Rino Bianchi non c’è mail, messaggio, scambio che non si sia concluso con questa formula: molta forza. A tutti i fotografi, grandi professionisti, che io abbia potuto incrociare sul mio impervio cammino di fabbricante di riviste letterarie, ho riservato una figurina, un avatar in grado di esprimerne la quintessenza; a Philippe Schlienger la carta del giocatore, a Salvatore Di Vilio quella del maratoneta,  mentre a Rino ho assegnato, da sempre, quella del gladiatore.

Ecco perché quel suo mantra, forza che dà per scontato il coraggio, gli corrisponde ed è forse questa sua qualità che vuol dire determinazione, generosità degli sforzi, studio, a farne il migliore dei ritrattisti di scrittori, insieme all’editore fotografo Giovanni Giovannetti. In tutti i progetti che ci siamo in questi anni scambiati, le nostre riviste Sud e Focus In, o la sua magnifica invenzione della Residenza delle narrazioni, come rarissime figurine Panini, in giro per l’Italia, Rino ha sempre proposto immagini di grande energia, generalmente in bianco e nero ma senza disdegnare il colore, come in questo caso per il suo fotoracconto di Cassino e dei suoi alentours.

In questi tempi da stato d’eccezione, schiaffeggiati da venti di guerra e pandemie, abbiamo rivisto nei servizi di cronaca la figura dei corrispondenti, inviati al fronte, dei reporter di guerra. Rino pur imbracciando la sua macchina come un’arma e vestendo all’americana, con l’attenzione al pratico muoversi tra festival e luoghi quasi dimenticati, è un fotoreporter di pace. Con precisione e dovizia di particolari dei conflitti, Rino legge gli scrittori che fotografa e generalmente si sceglie quelli che ama sulla pagina. Soprattutto riesce a tradurre in segni e forme il discorso interiore, mantenendone intatta la natura, il carattere.

Questa è la ragione per cui molti miei amici scrittori, uomini o donne che siano, vogliono che sia lui a rendere al meglio l’immagine di un cartellone o di una quarta di copertina. Suo è per esempio il ritratto di Helena Janeczek che abbiamo proposto sia in bianco e nero che a colori. Il lettore si troverà, ne siamo sicuri, davanti a due fotografie diverse pur trattandosi, tecnicamente, della stessa immagine. In questo sta la sua grazia, la sua capacità d’intuizione, la stessa che gli fa dire ogni volta: molta forza, ci vuole, aggiungiamo noi.

«L’anno dell’alpaca». Diario di un viaggio e di una pandemia

0

di Antonella Falco

Giammarco Sicuro, L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia, Gemma edizioni, 2021

Ogni libro è, a suo modo, un viaggio. Alcuni, però, lo sono un po’ di più. Perché di un viaggio raccontano e del viaggio si nutrono. Sono quei libri attraverso le cui pagine riesci a sentire l’odore dei luoghi, il gusto del cibo, finanche il coraggio e la forza che nascono dalla paura. Sensazioni che diventano ancora più intense se quella che leggi è una storia vera e non il frutto della fervida fantasia di uno scrittore che ha viaggiato solo con la testa, restando comodamente seduto alla sua scrivania. Tale vivida sensazione si ha ad esempio leggendo L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia di Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2.

Il racconto inizia e si dipana nel periodo più tragico della pandemia, quello in cui essa ha inizio, cambiando radicalmente le nostre vite e determinando in tutti noi una forte incertezza nei confronti del futuro. Forse proprio per questo motivo i fatti vengono narrati in modo leggero e per quanto possibile spensierato, a tratti surreale. In questo diario di viaggio, per certi versi un moderno libro d’avventura, lo stile brillante e godibile è sorretto da una vena ironica e autoironica che consente all’autore di non soccombere dinanzi alle tragedie che la realtà del momento gli pone sotto gli occhi.

Eppure tutto questo non è cinismo. Lo sguardo di Giammarco resta profondamente umano e fortemente empatico, sensibile al dolore delle persone – specie le più fragili e indifese – e degli animali, rappresentati in questo libro da un alpaca e un lama, denominati rispettivamente Isabela e Esmeralda. L’elemento surreale è costituito proprio dal rapporto con questi due animali di peluche con cui l’autore si trova a dialogare. Acquistati come souvenir per essere regalati alla nonna, al ritorno dal viaggio, diventeranno, prendendo fatalmente vita, i fedeli compagni di lunghi mesi trascorsi, spesso in solitudine, lontano dagli affetti più cari.

Giammarco Sicuro si ritrova infatti con questi due peluche in Perù nel momento in cui in Italia la situazione precipita e il governo decreta il lockdown generale, con conseguente sospensione dei voli, cosa che rende difficoltoso il rientro in patria. Con l’ultimo volo disponibile Giammarco riesce a raggiungere la Spagna, Paese dove rimarrà bloccato per più di due mesi, raccontando da lì – unico inviato Rai in terra spagnola – il diffondersi della pandemia.

È l’inizio di un viaggio intorno al mondo che si concluderà otto mesi dopo. Dalla Spagna dei primi casi accertati, che tuttavia non ha saputo fare tesoro di quanto, qualche settimana prima, era accaduto in Italia, alla Corea del Sud, diventata un modello di gestione del virus, fino al Messico e al Brasile, dove la politica negazionista di Bolsonaro provoca una crescita esponenziale del numero degli infetti e delle vittime, la narrazione procede secondo un tempo che non è quello cronologico:  una scelta stilistica che serve a conferire “movimento” e vivacità al racconto (la successione non diacronica dei fatti fa sì che in ogni capitolo ci si ritrovi in un Paese e in un mese diversi, a ricostruire l’esatta cronologia aiutano però le date, riportate sempre nel sottotitolo), una sorta di montaggio molto cinematografico, con salti temporali in avanti e all’indietro  (d’altra parte Giammarco, a giudicare dal fatto che diverse sono le occasioni in cui nel libro si parla di film, ha tutta l’aria di essere un appassionato cinefilo) che consente di introdurre i personaggi in modo più accattivante per il lettore, ossia “in medias res”, permettendo di scoprirli gradualmente e progressivamente man mano che il racconto procede.

Alcuni di questi personaggi, per la loro spiccata personalità e per la vividezza dei ritratti che di essi fornisce Sicuro, assurgono al ruolo di veri e propri coprotagonisti. È il caso, ad esempio, dei vari “producer”, i collaboratori locali, spesso giornalisti del posto, che lo affiancano nelle sue trasferte da un continente all’altro. C’è Mariano, l’operatore che lavora con lui in Spagna, un argentino irascibile e insofferente all’autorità (si accapiglia quasi sempre con gli agenti di polizia, ma anche, per incompatibilità caratteriale, con Joaquin che è il montatore), ma spassosissimo quando prende bonariamente in giro Giammarco o gli rifila consigli non richiesti sulla sua vita sentimentale o puntualmente si addormenta al volante.

C’è Miriam, una specie di “generalessa” dal piglio deciso e autoritario, giornalista brillante e stakanovista, che affianca Giammarco in Messico e si approfitta un po’ troppo del suo portafogli, regalandosi al ristorante lauti menù abbondantemente annaffiati da vino o birra perché tanto «paga lui». E la dolce Joelma, assurdamente buona, remissiva fino all’inverosimile, capace però di tirar fuori grinta e artigli di fronte ai soprusi degli irritabilissimi agenti di polizia brasiliani, energumeni armati fino ai denti cui tiene coraggiosamente testa.

E l’imperturbabile Jay, il collaboratore sudcoreano, che perde le staffe solo l’ultimo giorno del loro lavoro insieme, quando Giammarco, scherzando, gli propone di sconfinare in Corea del Nord attraverso un fantomatico varco nella rete che delimita la “terra di nessuno”, la zona demilitarizzata, fra le due Coree.

L’anno dell’alpaca ci aiuta a comprendere il modo in cui ci siamo rapportati alla pandemia, passando attraverso fasi diverse, dall’iniziale tendenza a sminuire il pericolo, al graduale cambiamento dei nostri comportamenti, che ci ha visto prendere confidenza con delle misure (l’uso della mascherina, il distanziamento fisico e tutto l’insieme dei protocolli di sicurezza) che in un primo momento ci apparivano strane o esagerate mentre ora sono parte integrante della nostra quotidianità e testimoniano quanto grande sia la capacità di adattamento dell’essere umano anche nelle situazioni più gravi e complicate.

La lettura di questo libro permette anche di riflettere sul diverso approccio alla pandemia messo in atto nei vari continenti: dalla scelta, propria dei Paesi asiatici di chiudere tutto e sacrificare la privacy e i diritti individuali in nome del contenimento del contagio, e quindi del bene collettivo, a quella, adottata da Donald Trump negli Stati Uniti, ma diffusa anche in diversi Paesi del Centro America, Messico in primis, e nel Brasile di Bolsonaro, improntata a un negazionismo che considera cinicamente la morte degli individui più fragili ed esposti al virus (anziani, persone con patologie pregresse, fasce povere della popolazione) come il male minore, preservando così le attività economiche dalla crisi conseguente all’instaurazione di un eventuale lockdown generalizzato.

Due modalità di gestione della pandemia a loro modo spietate e spregiudicate, dinanzi alle quali l’Europa ha cercato di mantenere una posizione equidistante in grado di conciliare l’irrinunciabile necessità di contenere il dilagare del contagio con l’osservanza dei basilari principi di rispetto e solidarietà umani, uscendone in un primo tempo apparentemente sconfitta. Il modello che sembrava rivelarsi vincente sul piano della profilassi era infatti quello sudcoreano, mentre sul piano della prevenzione di una probabile crisi economica sembrava dare frutti incoraggianti il cinico modello trumpiano.

Un altro tema importante che emerge dalla lettura del libro di Giammarco Sicuro è quello riguardante le tribù indigene dell’Amazzonia, e in particolare il tentativo, operato dal governo brasiliano, di utilizzare il Covid-19 come una vera e propria arma per decimare, o comunque indebolire, le tribù locali, al fine di sottrarre loro le terre, disboscare sempre più ettari di foresta e destinarli alla coltivazione intensiva della soia – di cui i latifondisti amazzonici sono diventati i primi produttori al mondo – da piazzare poi sul mercato internazionale, in primo luogo quello cinese.

Tali tribù, ridotte ormai a poche centinaia di individui, sono infatti molto spesso vittime di soprusi da parte delle forze dell’ordine brasiliane, che compiono incursioni nei loro villaggi, minacciando e contagiando gli indigeni, i quali quando si ammalano, non ricevono dallo Stato alcuna assistenza. La scomparsa di queste minoranze etniche comporterebbe la perdita di un rilevante patrimonio linguistico e culturale: in pratica scomparirebbero per sempre le peculiari etnie che da tempo immemorabile abitano, in totale simbiosi con la natura, la rigogliosa foresta amazzonica.

L’anno dell’alpaca è un testo prezioso anche nella misura in cui ci permette di venire a conoscenza di alcune gravi degenerazioni etiche consumatesi all’ombra della pandemia, come quella accaduta al confine tra Messico e Stati Uniti, dove migliaia di donne e uomini messicani hanno varcato il confine per donare plasma a delle multinazionali la cui sede, non a caso, è ubicata poco oltre la linea di confine tra i due Paesi.

A questi messicani era consentito varcare tale linea anche durante il periodo pandemico, quando il confine restava chiuso per tutti gli altri. Le multinazionali del farmaco pagavano queste prestazioni in base al numero di donazioni: i messicani ricevevano il denaro solo dopo aver subito cinque prelievi, qualora avessero sospeso le donazioni prima del quinto non avrebbero avuto diritto ad alcuna ricompensa. In altri casi erano previsti pagamenti più alti se ci si fosse presentati in compagnia di un’altra persona disposta a donare anch’essa il proprio plasma. Così il numero dei prelievi cui un messicano si sottoponeva nell’arco di un anno risultava superiore a cento, ossia più del doppio di quelli consentiti dalla legge italiana, cosa che comportava notevoli rischi per la salute dei donatori.

Quella denunciata da Giammarco Sicuro nel suo libro è una delle tante modalità attraverso cui, in situazioni di emergenza, il mondo ricco ha sfruttato il mondo povero al fine di procurarsi una risorsa che, specie in quel momento, era considerata di fondamentale importanza in quanto gli emoderivati, come ad esempio il plasma iperimmune, erano ritenuti dei validi alleati nella lotta contro il covid.

Leggendo il libro ci rendiamo conto anche di come l’economia di sussistenza brasiliana sia retta fondamentalmente dalle donne, quindi la crisi pandemica ha fatto emergere il ruolo centrale della figura femminile in Paesi che spesso vengono considerati meno emancipati dei nostri Paesi occidentali. Un aspetto, questo, che dovrebbe farci riflettere su società che riteniamo arretrate, dove invece il ruolo della donna è molto più centrale e importante di quello a cui vengono relegate le donne nelle nostre società cosiddette “avanzate”.

Non sorprende, inoltre, che il libro abbia ottenuto il patrocinio dell’Unicef, poiché tante sono le storie di bambini in esso contenute, da quelli che a causa della pandemia hanno visto peggiorare enormemente le loro condizioni di vita a quelli che grazie alla propria inventiva hanno saputo mettere in atto forme di riscatto sociale o trovare piccole ma importanti soluzioni per far fronte all’inconsueta emergenza.

Il volume fornisce inoltre numerosi racconti, curiosità e aneddoti che farebbero la felicità di un appassionato di antropologia culturale, scopriamo, ad esempio, che in Bolivia feti imbalsamati di lama vengono seppelliti, in funzione beneaugurante e apotropaica, ai quattro angoli delle fondamenta di una casa in costruzione o che in Corea del Sud la pesca è affidata alle haenyeo, dette anche madri del mare, «la cui attività è da tempo riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’Unesco», queste abili pescatrici, alcune delle quali molto anziane, si immergono in apnea sfidando con estrema calma le acque gelide e agitate dell’oceano. Scopriamo inoltre che una delle prelibatezze locali è il sannakji, «piatto tipico coreano a base di nakji, un piccolo polpo servito ancora vivo e tagliato in piccoli pezzi. Di solito, viene condito con olio di sesamo e quando arriva in tavola, è ancora in grado di dimenarsi».

L’anno dell’alpaca riesce a toccare diversi registri: fa riflettere e commuovere, ma anche sorridere e, a tratti, ridere di gusto per delle esilaranti e tragicomiche disavventure occorse all’autore, come l’incontro scontro con Nancy (che non è detto sia una ragazza!) in Perù, o l’ingresso tutt’altro che trionfale nel nuovo appartamento madrileno, messo a disposizione dallo zio di Joaquin, dopo che Giammarco era stato costretto a lasciare il precedente appartamento per le proteste dei condomini che mal gradivano le sue uscite quotidiane in pieno lockdown (e vaglielo a spiegare che lui godeva di un permesso stampa!), o il grottesco resoconto dei quattordici giorni di quarantena imposti dal governo sudcoreano.

La pandemia come sfondo, come basso continuo, di un diario di viaggio che racconta anche  molto altro e, fra il molto altro, c’è il ritratto, a volte intimo, di un uomo che il caso ha fatto trovare dall’altra parte del mondo mentre l’Organizzazione mondiale della sanità decretava l’inizio di una devastante pestilenza globale, ma che poi ha scelto di esserci per raccontare, malgrado il flagello della malattia abbia lasciato tutti sgomenti, inermi e smarriti dinanzi all’incognita di un futuro ignoto.

D’altra parte, «la storia esiste solo se qualcuno la racconta». Sono le parole, citate in esergo a uno dei capitoli del libro, di Tiziano Terzani, nume tutelare, assieme a  Ryszard Kapuściński, del giovane inviato Giammarco Sicuro, che forse avrà tremato, almeno un attimo, rendendosi conto di trovarsi al cospetto della Storia, quella con l’iniziale maiuscola, ma non si è sottratto alla doverosa necessità di testimoniarla. Con lo spirito di chi affronta una missione e la consapevolezza di chi si scopre, pur in mezzo a un’epocale tragedia, privilegiato. Con il sorriso, che non lo abbandona neanche nei momenti più cupi e drammatici, e con un alpaca e un lama nello zaino.

ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA Con Alika muore l’umanità

0

dalla newsletter dell’⇨ ANAGRAFE NAZIONALE ANTIFASCISTA
 
di Maurizio Verona
 
Presidente del Parco Nazionale della Pace
Sindaco di Stazzema
 
Nelle ultime ore è morto un uomo, è stato ucciso un uomo, un marito, un padre.
Aveva 39 anni ed era nigeriano.
Ucciso dall’indifferenza di chi ha pensato di filmare invece di intervenire, di chi minimizza perchè era solo un immigrato.
Io voglio ricordarlo con il suo nome Alika Ogorchukwu assieme a lui a morire è stata la civiltà, è stata l’umanità, si sta uccidendo la convivenza, l’uguaglianza .
Ogni anno che passa torniamo indietro, si distrugge quello che abbiamo costruito.
Pensate alla parola ACCOGLIENZA, oggi è percepita in maniera negativa, accogliere una persona in difficoltà oggi non è visto come un gesto umano positivo, i leader politici oggi fanno campagna elettorale sul RIFIUTO.
Viene da pensare a quei luoghi che nel mezzo della guerra seppero accogliere, proteggere, dividere il pochissimo che c’era facendo poche domande.
Oggi parlano di orribile omicidio, di indifferenza agghiacciante, ma sono le stesse testate televisive che poi invitano i leader che armano questi criminali.
Abbiamo la possibilità di peggiorare, siamo sulla strada giusta per andare incontro alla tragedia della umanità.

cinéDIMANCHE #22 GEORGES PEREC Les lieux d’une fugue [1978]

0

 

DALL’ARCHIVIO: 5 Aprile 2015

 

[ sottotitoli ITA trad. O. Puecher ]

Les lieux d’une fugue in Je suis né
Édition Du Seuil Paris [1990]

Musica da Robert Schumann
KREISLERIANA op.16 [1838]
Fantasie per pianoforte

 
GEORGES PEREC

da W o il ricordo d’infanzia [1975]
 

Non so dove si sono spezzati i fili che mi collegano all’infanzia. Come tutti, o quasi tutti, ho avuto un padre e una madre, un vasino, un lettino, un sonaglietto, e piú tardi una bicicletta che, a quanto pare, non inforcavo mai senza cacciare urla di terrore al solo pensiero che intendessero alzare o perfino togliere le due piccole ruote laterali che mi davano stabilità. Come tutti, ho dimenticato ogni cosa dei miei primi anni d’esistenza.
 
La mia infanzia fa parte di quelle cose di cui so di non sapere granché. Pure, è dietro di me, è il terreno sul quale sono cresciuto, fa parte di me quale che sia la mia tenacia nell’affermare che non mi appartiene piú. Per molto tempo ho tentato di stornare o mascherare queste evidenze, chiudendomi nello status innocuo dell’orfano, dell’ingenerato, del figlio di nessuno. Ma l’infanzia non è nostalgia, né terrore, né paradiso perduto, né vello d’oro, forse orizzonte, punto di partenza, coordinate a partire dalle quali gli assi della mia vita potranno trovare il loro senso.
[pag. 19]
 
Io non so se non ho niente da dire, so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non viene detto perché è l’indicibile (l’indicibile non si rintana nella scrittura ma è quello che, molto prima, l’ha scatenata); so che quello che dico è bianco, è neutro, è segno una volta per tutte di un annientamento. [pag.52]
 
I ricordi ormai esistono, fugaci o tenaci, futili o grevi, ma niente li addensa. Sono come quella scrittura slegata, composta di lettere isolate incapaci di saldarsi fra loro per formare una parola che fu la mia fino all’età di diciassette o diciotto anni, oppure come quei disegni dissociati, scompaginati, i cui elementi sparsi non riuscivano quasi mai a collegarsi l’un l’altro, e con cui, all’epoca di W, diciamo tra gli undici e i quindici anni, ricoprii interi quaderni: figure che niente univa al terreno sul quale avrebbero dovuto poggiare, navi con le vele non legate agli alberi, né gli alberi legati allo scafo, macchine di guerra, ordigni di morte, aerei e veicoli dai meccanismi improbabili, gli ugelli disinseriti, i cavi interrotti, le ruote che giravano a vuoto; le ali degli aerei si staccavano dalla fusoliera, le gambe degli atleti erano staccate dal tronco, le braccia separate dal torso, le mani non garantivano presa. [pag. 83]

Rizzoli, Milano, 1991
trad. Dianella Selvatico Estense

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

Maria Borio: “in un sogno diventavo un corpo di medusa”

0

 

 

Ciò che può unire l’operazione sonora e l’operazione immagine dipende

dalla ricerca dell’energia letterale della superficie.

J.-P. Courtois

 

Zacinto Edizioni ha recentemente pubblicato l’undicesimo  titolo della collana dei Manufatti poetici: Prisma, di Maria Borio.

Ospito qui un estratto dal libro.

 

Nella quarta dimensione

 

Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio.

Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo

in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta.

Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?

 

In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore

poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti

membrane elastiche di un eidofono e i pensieri

erano immagini di bidimensione, tridimensione,

 

trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici?

All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata

al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare

fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte:

 

ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola,

la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi

che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando

e al plurale – strategie, innocenza?

 

L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere

sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù.

Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male.

Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU

 

o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già

sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia

marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite?

Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco –

 

Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti

affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna

Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere?

Animali e perdono corrono nel bosco.

 

 

La strega di Caracas

0

di Oreste Verrini

Il pranzo è alle battute finali; le pietanze sono state servite con cura, impiattate con gusto e attenzione, la stessa che abbiamo messo nel mangiare, con vorace dedizione, quasi ne andasse della nostra vita. Athos è un ottimo cuoco e non lasciare nulla nel piatto è stato il nostro modo per rendere omaggio alla sua competenza.
I caffè, serviti in bicchieri di vetro, con l’immancabile sambuca ad addolcirne il sapore, arrivano al momento in cui la conversazione è virata, nemmeno ricordo il perché, verso l’Uruguay.
E trovarlo il perché non è affatto facile; infatti, una volta saziata la fame più grossa, quella che fa tacere le voci e suonare la melodia di forchette, piatti e bicchieri, le chiacchiere tornano a essere protagoniste e spesso navigano, proprio come una nave alla deriva, senza una meta o un filo conduttore a tracciarne la rotta. Vagano, come è giusto che sia, tra un ricordo e un’affermazione, un dettaglio e una conferma, senza fretta, per il piacere di raccontare ma preferibilmente per ascoltare. Si narra di luoghi del mondo come se fossero i paesi incontrati lungo la statale che dal passo dei Carpinelli porta a Lucca: Montevideo, Buenos Aires e magari Guaiana Francese, Santiago del Cile in un parallelo impossibile con la Nuova Guinea e Auckland, si susseguono e sostituiscono senza alcuna fatica Roggio, Camporgiano, oppure San Romano e Villetta. Talmente abituati a ricordarli, a menzionare storie ed episodi accaduti nei quattro angoli del mondo da trovare così naturale citare le vie, gli alberghi e i ristoranti e la toponomastica di luoghi per molti, e il sottoscritto è tra questi, così lontani e remoti da sembrare fantastici, quasi fossi dentro una storia de Le mille e una notte.
E così di Uruguay finiamo a parlare, attratti dalle descrizioni di Renzo, impegnati a immaginare un grande altopiano pianeggiante, mandrie di bovini e un paese fermo alla metà del 1900 dov’era facile incontrare immigrati italiani affezionati al ricordo della patria lontana e contenti di poter parlare con chi, in Italia, continua a vivere. La parola, l’immagine, il riferimento casuale in grado di accendere il ricordo di una storia arriva improvviso, come sempre del resto. Sono gli occhi a tradirne l’arrivo, si vedono splendere di una luce diversa.
«Vi ho mai ‘conto la storia della bruja?» dice Renzo, piegandosi in avanti, quasi stessimo cospirando.
«La bruca?» ribatto sorpreso.
«Non la bruca, la bruja, la strega. È spagnolo» ribatte, sorridendo e felice di avere una nuova storia mai raccontata prima.
Anche Athos annuisce e sorride, ci sta che lui la conosca, ma dal suo modo di fare, dal silenzio pieno di attesa non è facile capire quanto ricordi e quanto gli piaccia ascoltare.
«Mai» ribatto pronto, la testa che scrolla da una parte all’altra.
«Si andava a mangiare da La Bionda» ricorda Renzo, lo sguardo fisso e la mente ai ricordi lontani.
«Il vero nome non lo ricordo, solo La Bionda. Ci si andava così spesso che era come sentirsi a casa. Un giorno, mentre si chiacchierava le chiesi se lì, in paese, ci fosse qualcosa da fare, da vedere. Senza però precisare a cosa alludessi. La donna, una donnona di quelle energiche, vitali, mi squadrò da capo a piedi, certo voleva valutare la mia prestanza, poi annui, più a sé stessa che a me. Mi fissò dritta negli occhi e mi disse: ‘Ci sarebbe la bruja, la strega. Se te la senti’, concluse. Certo che me la sentivo e la curiosità era tanta, e già mi figuravo entrare in un antro buio, con ombre vive, inquietanti, ragnatele ovunque e magari un enorme paiolo, affumicato, con un fuoco rosso vivo a cingerlo attorno, quasi una corona. La più classica delle streghe nella più classica delle ambientazioni».
Renzo ferma il racconto, sorseggia il caffè, assapora l’aroma che sale dalla tazza. La pausa a effetto ci sta, crea attesa, incuriosisce. Viene quasi voglia di solleticarlo, di fargli fretta. Magari è proprio quello che cerca: che il pubblico chieda di proseguire e si roda nell’attesa. Infine, riprende: «Immaginavo una strega, una vera strega, perciò potete capire la delusione che mi colse quando ci trovammo di fronte, dico trovammo perché andai accompagnato oltre che da La Bionda da un altro marinaio, una donnina minuta, tutta curva, seduta su una sedia, proprio davanti all’uscio di casa. Se ne stava immobile, gli occhi chiusi e la nuca appoggiata al muro. Dormiva o forse meditava, non saprei dirlo. La Bionda ci presentò, dicendo che eravamo venuti per vedere el miracle. La nonnina aprì gli occhi e ci osservò. Occhi neri e vivi, non acquosi come spesso accade ai vecchi. Erano vivi e vigili, attenti. Veri occhi da strega. Quelli sì che un po’ mi fecero tremare. ‘El miracle?’, disse con una vocina gentile, delicata come un fiore. Annuii seppure di quel miracolo non sapessi alcunché. A dire il vero non sapevo nulla di quello che eravamo venuti a fare. Solo che la nonnina era la strega più improbabile al mondo e che la situazione sembrava per lo meno surreale. Certo, io di streghe non ne sapevo nulla, di miracoli ancora meno, ma di situazioni imbarazzanti sì, e quella sembrava esserlo. Forse la bruja percepì il mio disagio, il mio scetticismo, non so. O forse fu solo un caso che si rivolgesse a me. Mi disse: ‘Raccogli un legnetto, uno qualsiasi qua attorno’. Aggiunse: ‘Per favore’. ‘Un legnetto’ mi dissi, ‘e per fare che?’, però mi chinai e cominciai a sondare il terreno in cerca di un legno che meritasse di essere raccolto.
Lo cercai a lungo, più di quanto meritasse la ricerca. Infine, lo vidi, un piccolo stecco, secco da poter essere spezzato con un movimento leggero delle dita. Mi rialzai e glielo porsi certo che lo avrebbe rifiutato, chiedendomi di cercare meglio, che quello stecco non andava bene per una strega. Invece mi sorrise, un sorriso gentile, leggero quanto quel pezzo senza vita. Lo strinse tra le dita della mano destra, il pollice e l’indice, e iniziò a strofinare il legno con un movimento circolare. Sembrava lo accarezzasse, come si potrebbe accarezzare il viso di un neonato, con delicatezza e attenzione. Aveva smesso di guardarci, però sorrideva e nel farlo sembrava stesse masticando delle parole, come se le fossero rimaste in bocca e non riuscisse a inghiottire. Il movimento era ipnotico e ben presto i nostri occhi furono fissi sul pezzo di legno secco e il movimento delle sue dita. Quando vidi apparire quella che sembrava una foglia sobbalzai all’indietro, quasi una mano mi avesse afferrato alle spalle tirandomi» e mentre lo dice, fa lo stesso gesto tirando indietro la schiena. Manca poco che sobbalzo pure io.
«Ma non solo la foglia: continua ancora pochi attimi e quella che parve una gemma cominciò a prendere forma. La strega, non c’erano più dubbi su questo, stava riportando alla vita un legno ormai secco. Avevo la bocca aperta, non una parola, solo infinito stupore. Il mio amico invece si era tappato gli occhi con entrambe le mani e ripeteva, seguendo il ritmo delle carezze: ‘Non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose, non voglio vedere queste cose’». Renzo tace, ci fissa e dice: «Ve lo giuro è, come se accadesse ora. La bruja aveva riportato la vita, ecco in cosa consisteva il miracolo».
Pure io non so che dire, come se stesse accadendo anche ora e assistessi senza trovare una spiegazione. L’unica cosa che riesco a fare è mormorare parole sconclusionate e senza senso, vorrei fare domande, ma non trovo modo di mettere in fila qualcosa di decente. Athos invece riesce a farne, su tutto; è incuriosito dalla scelta dello stecco, dai gesti della donnina, dalla reazione dell’amico marinaio, da come giustificò l’accaduto La Bionda.
«E mica lo giustificò» risponde Renzo, «affatto». Disse che la nonnina parlava con tutti gli esseri del creato, animati o no, non aveva importanza. E questi le davano ascolto e per quanto potevano cercavano di esaudire i suoi desideri. Nel paese lo sapevano tutti e lo accettavano, quasi fosse una cosa naturale.
Renzo non aggiunge altre parole, sarebbero superflue, forse di troppo e spezzerebbero il clima creato. Aveva conosciuto la bruja, l’aveva vista all’opera, lo aveva raccontato, lasciando il pubblico, noi, con la bocca aperta. La degna conclusione di un ottimo pranzo in famiglia.

 

NdR Questo testo di Oreste Verrini fa parte della raccolta “Chiamatemi Marconi – Storie di mare”, edito da Edizioni ETS (2022), nel quale Verrini e Athos Bigongiali hanno riunito i racconti di Renzo, ufficiale marconista partito dalla remota Garfagnana, entroterra della provincia di Lucca, per «vedere il mondo» e vivere tante avventure come Simbad il marinaio.

Il mondo offeso genera libri

0

di Romano A. Fiocchi

Giovanna Vignato, Senza una stella sopra la testa, Edizioni del Mondo Offeso, 2021

Ivan Bormann, Il tempo non ha una storia, Edizioni del Mondo Offeso, 2022

 

Lo spirito è quello della Libreria degli Scrittori nella Mosca postrivoluzionaria. Quando, racconta Michail Osorgin, per far fronte all’impossibilità di stampare libri si arrivò addirittura a produrre esemplari unici scritti a mano, purché la letteratura potesse ancora raggiungere i propri lettori. Ma è anche lo spirito intraprendente di Sylvia Beach e della Shakespeare and Company, la libreria che ebbe il coraggio di pubblicare a Parigi, in lingua originale inglese, un testo che nessun editore voleva: «Ulisse», di cui ricorre proprio quest’anno il centenario.

È dunque con questa vocazione, che sottende una visione critica nei confronti del conformismo e dell’appiattimento culturale di certa editoria, che la Libreria del Mondo Offeso è diventata anche casa editrice. Sottolineo anche, perché la libreria milanese, che prende emblematicamente il nome da «Conversazione in Sicilia» di Vittorini e il logo da «Tristano muore» di Tabucchi, mantiene comunque la sua funzione fondamentale: continuare a vendere libri. Si tratta insomma di una sorta di ampliamento della sua offerta culturale, un modo per far sentire la propria stessa voce tra i libri che propone ai lettori.

Il progetto non aspira certo a invadere il mercato, non ne avrebbe né i mezzi né l’ambizione. E non è questo lo scopo. Mira piuttosto a pubblicare un paio di titoli all’anno che per stile e contenuto siano in coerenza con la visione del “mondo offeso”. Questa è in fondo l’arte dell’editoria, direbbe Calasso, ossia la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro. Libri comunque di narrativa e, come tali, che raccontano delle storie, storie belle.

È così che nel novembre scorso è uscito Senza una stella sopra la testa di Giovanna Vignato. L’ho letto in anteprima, quando era ancora un manoscritto da digrossare con l’editing, come si dice in gergo. Ed è certamente una bella storia. Come sfondo un villaggio di confine, case con i gradini di pietra, vetri alle finestre fissati al telaio con morbido stucco rosso, personaggi diafani, molti dei quali hanno radici nella Galizia austriaca e formano un tutt’uno con l’atmosfera. Che è un po’ magica e un po’ mitologica, come se appartenesse a un non-luogo, o meglio: un luogo immaginario ma verosimile, una Macondo proiettata nelle montagne del nostro estremo Nord-Est. Clusizza, così si chiama il villaggio, è disabitata e invisibile, priva di zenit, ossia “senza una stella sopra la testa”. I Clusacchi, i suoi abitanti, parlano la dolce lingua clusacca, e lavano e rassettano accuratamente le proprie case prima di lasciarle per sempre.

Ma se il romanzo della Vignato è certamente un testo suggestivo, quello del regista triestino Ivan Bormann è di un’originalità straordinaria. Il tempo non ha una storia è un “romanzo brevissimo” –come recita la prima di copertina – scritto in presa diretta, quasi un flusso di coscienza. Volendo fare qualche parallelo: il «Tropico del Capricorno» di Miller, il «Tristano» di Tabucchi, oppure ancora il «Malone» di Beckett. Quello di Bormann è un girovagare nella Storia del Novecento come nella foresta ariostesca, incontrando personaggi inattesi che però qui sono realmente esistiti e hanno fatto la Storia politico-culturale di Trieste e dell’Istria: Guido Keller, Vladimir Gortan, Ligio Zanini, Wanda e Marion Wulz, Angelo Cecchelin, Giovanni Gianone detto Johnny, Bobi Bazlen, Claudio Magris, sino a un’immagine fuggevole dello stesso D’Annunzio.

L’impaginazione di Il tempo non ha una storia – con carattere da macchina per scrivere, ovvero un Courier appositamente modificato – creda l’effetto indovinatissimo di un vecchio ciclostile. Ai capitoli si alternano immagini fotografiche in bianco e nero proiettate in un tunnel, su pagine nere di un’eleganza alla Franco Maria Ricci e, al tempo stesso, di un’inquietudine che lascia il segno. È un romanzo circolare che non solo parte da Trieste e torna a Trieste, in tutti i sensi città di frontiera, ma che inizia dal finale e torna al finale percorrendo un periodo storico che va dall’impresa di Fiume del 1919 agli anni Settanta, corredando le pagine di una tabella cronologica che aiuta il lettore a comprendere dove si stia muovendo Alan, il protagonista. Alan è un uomo del suo tempo che finisce fuori dal tempo e lo rivive attraverso associazioni di idee e salti nei decenni inseguendo i personaggi, entrando e uscendo da tunnel spazio-temporali, viaggiando nel passato come uomo del futuro, sino a spaventare Magris citando brani di racconti che Magris stesso sta ancora scrivendo: “Qui ci deve essere una spia, qualcuno deve aver messo le mani tra le mie carte, e comincia a cercare nella sua borsa, a tirare fuori tutto e a innervosirsi”.

Da buon anarchico, nel suo racconto in terza persona Alan mette in luce nefandezze e lati positivi, falsità e verità, potere e emarginazione, ma soprattutto la cattiveria e la bontà degli esseri umani. Perché Alan, come Ligio Zanini (e come lo stesso Bormann), è un “anarchico nella scrittura, nella vita, nell’anima, libertario, fuori dagli schemi, anche politici se vuole”.

Si arriva alla fine della lettura con la consapevolezza di aver capito qualcosa di più della Storia, soprattutto di avere tra le mani un buon prodotto letterario ed editoriale. Un’ultima chicca: i disegni di copertina di entrambi i volumi sono di Giancarlo Iliprandi (1925-2016), per gentile concessione dell’Associazione che ne porta il nome.

 

Popolo ed esperti

0

Attualità di Castoriadis (una nota di lettura)

.

di Andrea Inglese

A cura di Raffaele Alberto Ventura è uscito quest’anno, per la Luiss University Press, una raccolta d’interventi e saggi di Cornelius Castoriadis, Contro l’economia: scritti (1949-1997). Il curatore – che possiamo considerare un vecchio amico di Nazione Indiana – ben conosciuto grazie a un fortunato saggio del 2017 (Teoria della classe disagiata, minimum fax) e di altri usciti successivamente, ha realizzato un prezioso lavoro di selezione, raccolta, traduzione e introduzione di undici testi del filosofo (ed economista) greco e francofono Castoriadis. La casa editrice della Luiss si è già distinta per scelte editoriali importanti. Nel suo catalogo troviamo, ad esempio, saggi di Barbara Ehrenreich e Timothy Morton. In questo caso, la proposta va a colmare un grande vuoto. Castoriadis è senza dubbio una delle figure intellettuali più importanti del secondo Novecento in Europa, figura di militante-intellettuale, attivo prima in partiti di orientamento trotzkista e poi nel gruppo autonomo Socialismo o barbarie, ma anche di economista stipendiato dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), di psicanalista e di filosofo, docente dal 1980 all’EHESS (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales) di Parigi. (Su NI, ad esempio, lo pubblicammo qui e ne abbiamo già parlato qui). Più dei titoli e dell’ampiezza di interessi e competenze, è però decisivo il percorso intellettuale dell’autore, che lo porta ad attraversare e ad abbandonare il marxismo, senza rinunciare a sostenere un’idea radicale e rivoluzionaria di democrazia, ispirata in modo particolare – ma non esclusivamente – all’esperienza di Atene e dell’antica Grecia. I saggi raccolti da Ventura ritagliano la zona privilegiata della critica all’economia, che questo economista di professione non ha cessato di realizzare fuori e dentro le istituzioni internazionali. Ma in Castoriadis l’universo dell’economia è inseparabile da quello della società e delle “significazioni immaginarie” che quest’ultima – e qui parliamo soprattutto della società occidentale e capitalistica – attribuisce all’attività umana. Criticare l’economia significa non soltanto, in termini marxiani, rendere visibili dei rapporti di forza e delle configurazioni storiche determinate, ma scavare soprattutto all’interno di un sistema di credenze e significati sociali, attraverso cui la società legge e interpreta se stessa.

Il lungo saggio introduttivo di Ventura permette comunque di ricostruire la vicenda dell’intellettuale Castoriadis e lo sviluppo del suo pensiero, soprattutto per un pubblico come quello italiano poco attento alla sua opera. Per i pensatori moderati, si tratta di un pensiero sostanzialmente inservibile, in quanto non ha mai abbandonato un’attitudine radicale sia nella critica della tradizione occidentale sia nell’elaborazione di pratiche politiche contestatarie. Per la tradizione marxista, Castoriadis aveva ripudiato i “libri sacri” e soprattutto criticato senza alcuna remora le vicende storiche del marxismo-leninismo, a partire dalla burocratizzazione dell’Unione Sovietica. Infine, per gli estimatori della decostruzione, il nostro autore presentava una sobrietà di tono e una lucidità di sguardo, che mai rischiava di confondere testo ed extratesto, sublime filologia filosofica e attenzione alle congiunture storico-politiche. Oggi, Castoriadis fa parte di quegli autori difficilmente classificabili, come Günther Anders o Ivan Illich, che meritano più di altri un’assidua lettura, proprio in un momento come il nostro in cui gli ideali di emancipazione sembrano definitivamente compromessi assieme a quelli di progresso economico e tecnologico.

Il testo tratto dalla raccolta di saggi che con il curatore abbiamo deciso di pubblicare data del 1983. Già prima del 1989, Castoriadis aveva compreso che la società post-communista avrebbe vissuto a lungo insabbiata nella falsa alternativa tra tecnocrazia e populismo, dalla quale non siamo ancora usciti. (Le vicende del giorno italiane ce lo ricordano: o Draghi o la Meloni). L’uscita da questa alternativa Castoriadis la indica nella riconsiderazione del concetto di “democrazia”, così come, pur fragilmente, si è presentato alle origini della nostra tradizione. E da qui la riflessione sull’importanza e, nello stesso tempo, sui limiti che devono essere assegnati all’attività e alla parola degli esperti. Un tema questo fondamentale anche per altri autori. Si pensi al già citato Illich, presente in una raccolta di saggi pubblicata in Italia col titolo: Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti (Erickson 2008); oppure a un altro autore importante, e anche lui di area libertaria, quale Paul K. Feyerabend. Ricordiamoci quel che scrive in La scienza in una società libera del 1978: «Gli specialisti, compresi i filosofi, possono naturalmente essere interpellati, si possono studiare le loro proposte, ma si deve riflettere con precisione per stabilire se tali proposte e le regole e i criteri che le hanno ispirate siano desiderabili e utilizzabili». Si tratta, in realtà, di generalizzare il principio della giuria popolare che già vige nel diritto: «La legge richiede l’interrogazione in contraddittorio di esperti e la valutazione di tale interrogatorio da parte dei giurati». Frasi che risuonano con altre, che si leggeranno nell’intervento di Castoriadis.

(È una lettura questa che consigliamo vivamente a tutti gli orgogliosi “esperti di qualcosa”, increduli che le loro competenze non arrivino a indirizzare verso le magnifiche sorti il gran numero d’incompetenti.)

*

POPOLO ED ESPERTI

di Cornelius Castoriadis

[Questo testo, intitolato “Experts et citoyens”, è tratto dal seminario di Castoriadis all’EHESS poi pubblicato nel volume Ce qui fait la Grèce. Tome 2. La Cité et les lois. Séminaires 1983-1984, e precisamente dalla sessione del 20 aprile 1983. Il seminario affronta di petto un tema centrale per l’autore, ovvero la manifestazione concomitante nella polis greca del V secolo avanti Cristo dell’ideale democratico e della filosofia. R. A. V.]

Per chiarire il principio della democrazia diretta ho tentato di articolare, in opposizione alle concezioni e alle pratiche moderne, tre coppie concettuali che contrappongono tanto delle idee quanto delle realtà: popolo/rappresentanti; popolo/esperti; e popolo/Stato.

Per quanto riguarda la prima coppia, ho già detto che l’idea della rappresentanza è totalmente assente nella filosofia e nella pratica politiche dell’antica Grecia. Innanzitutto perché quando c’è un’elezione, nessuno parla degli eletti come dei “rappresentanti” – sono dei magistrati, il che è del tutto diverso – in quanto non rappresentano nessuno. E poi perché il principio dell’elezione era considerato aristocratico (come sappiamo bene dalla testimonianza di Erodoto per un periodo relativamente antico). Ho inoltre già ricordato che, ogni volta che nella storia moderna è emerso un vero movimento di autoistituzione, esso ha rievocato il principio della democrazia diretta: se ci sono dei delegati, questi non sono soltanto eletti ma revocabili in ogni momento.

Questa revocabilità esisteva già, de facto e de jure, nella democrazia ateniese: ogni magistrato poteva, nell’esercizio delle sue funzioni, in qualsiasi momento, essere contestato, per ragioni di fondo oppure di forma, ed eventualmente revocato. Come ogni disposizione legale, anche questa può portare ad abusi. È noto il più grave, di cui parleremo più avanti, ovvero il processo dei capi militari ateniesi che hanno vinto la battaglia delle Arginuse, nel 406, durante la guerra del Peloponneso. Al loro ritorno, i demagoghi li fecero condannare a morte dall’assemblea, senza rispettare la procedura, con il pretesto che non avevano fatto tutto il necessario per recuperare i cadaveri dei soldati e dei marinai caduti nella battaglia. Atto assolutamente mostruoso, come tanti altri non meno mostruosi che cominciarono a verificarsi poco dopo l’inizio di quella guerra. Hybris, crisi e fallimento della democrazia ateniese – e della democrazia in generale.

Revocabilità e assenza di rappresentanti non vuol dire, lo abbiamo già detto, assenza di qualsiasi leader. In una comunità politica la questione non è quella dell’esistenza o meno di leader bensì quella del rapporto tra i leader e la collettività: in che misura questa mantiene il suo controllo sull’individuo più o meno eccezionale, colui che sa giudicare più rapidamente e vedere più lontano? Ho già citato la celebre frase di Tucidide a proposito della democrazia di Pericle, che sarebbe stata tale solo a parole, e quindi inaccettabile per i Greci.

Questo ci porta alla seconda coppia oppositiva, quella tra popolo ed esperti. Secondo la concezione greca, nessuna categoria di persone può rivendicare una specifica competenza riguardo alla sfera politica.

Le decisioni vengono prese dall’ecclesia dopo aver ascoltato degli oratori, ed eventualmente anche delle persone che detengono un sapere specialistico in merito alla questione discussa. Ma il giudice in materia, ovvero l’esperto supremo, universale, è la comunità politica stessa. Vale a dire che non esistono esperti in politica. Quando si convoca la competenza dell’esperto, la techne, è sempre relativamente a un’attività specifica, riconosciuta come tale nel suo campo particolare. Platone ne parla nel Protagora, dove descrive correttamente sia il funzionamento effettivo della democrazia sia le idee presupposte da questo funzionamento. Gli Ateniesi ascolteranno molto volentieri il tecnico che gli spiegherà il modo migliore di costruire una cinta muraria, un tempio o una nave. Ma colui che osasse dire “Io sono un tecnico delle questioni di governo” verrebbe sommerso dalle risate.

C’è sicuramente una sfera nella quale gli Ateniesi riconoscerebbero una competenza tecnica, ed è l’arte della guerra. Eppure gli stratègoi, i capi militari, vengono eletti, come furono eletti i costruttori dell’Acropoli, come vengono eletti quelli che devono costruire le navi eccetera. In effetti gli stratègoi incaricati dalla polis di dirigere questa faccenda particolare che è la guerra sono dei tecnici, ma poiché questa faccenda è molto più importante delle altre, essi hanno un ruolo a parte rispetto a tutti gli altri magistrati ateniesi. È vero che nel V secolo nessuno può vantare un vero peso sulla politica cittadina senza essere eletto stratega, e Pericle sarà rieletto varie volte. Non significa che negli anni in cui non viene eletto la sua parola non vale niente, ma indubbiamente l’elezione alla carica è una via privilegiata all’esercizio dell’influenza politica. La situazione cambia però nel IV secolo, quando i retori e gli oratori, già influenti nell’assemblea, acquisiscono un peso politico preponderante; gli strateghi vengono ridotti a puri tecnici, nient’altro, e cessano di svolgere un ruolo politico per limitarsi alle loro specifiche funzioni. Per citarne qualcuno: Timoteo, Ificrate, Carete, Cabria… Mentre nel IV secolo erano gli individui eminenti ad aspirare alle cariche militari e generalmente finivano per esercitarle.

La questione degli esperti e della competenza rimanda a un principio assolutamente evidente per i Greci, ripreso più e più volte e formulato nel modo più limpido da Platone: nessun esperto è in grado di giudicare sé stesso, e il giudice più adatto per giudicarlo non è mai un altro esperto. Si tratta di un principio che, come vedremo, crea un problema di coerenza nella filosofia platonica, mentre invece sorprendentemente Aristotele non lo cita. Il punto è che per Platone il criterio del buon esercizio della techne è evidentemente il suo prodotto, il suo risultato – l’albero si giudica dai frutti, come dice il Vangelo – e quindi il giudice della techne è l’utilizzatore del suo prodotto, non l’esperto. Il filosofo torna spesso su questo punto per lui evidente: non è il sellaio che giudica la bontà di una sella di cavallo, ma il cavaliere; non è l’armaiolo che giudica l’armatura ma l’oplita che parte in guerra. Evidente, questa prospettiva lo è soprattutto negli affari militari, come hanno potuto valutare gli americani in Vietnam. Si è molto parlato del celebre M16, il fucile militare difettoso che ha provocato molti morti tra i soldati che lo usavano. I vietcong, che saccheggiavano tutto quello che potevano dai cadaveri americani, financo le scarpe, non si azzardavano a prendere quei fucili, ben sapendo che s’inceppavano ogni due per tre lasciando al nemico il tempo di sparare. Sono state spedite migliaia di lettere dai soldati americani ai loro senatori, ma non sono servite a nulla: gli esperti avevano deciso che quel fucile era il migliore. Ma soltanto l’utilizzatore è il giudice adatto. E chi è l’utilizzatore di tutti quegli esperti che offrono delle technai alla polis? É naturalmente la polis stessa, la comunità dei cittadini. Se giudichiamo alcuni risultati, come l’Acropoli, la scelta non era poi male – è difficile dire che scegliere Fidia sia stato un errore.

Ma dicevo che questo concetto pone un problema nella filosofia politica di Platone. In effetti il suo intero progetto consiste nell’attribuire alla filosofia politica una episteme e una techne specifica: per lui il politico non è un esperto in senso strettamente tecnico, bensì un profondo conoscitore di quello che è giusto e sbagliato per la comunità. E allora dove sta qui il “giudizio degli utilizzatori”? Qui c’è una contraddizione, sulla quale bisognerà tornare.[1]

Non è difficile contrapporre questa visione della competenza con quella che prevale tra i moderni. L’idea dominante, oggi, è che gli esperti debbano essere giudicati da altri esperti. Si tratta peraltro di uno dei fattori di espansione e di crescente irresponsabilità degli apparati burocratici gerarchici. L’immaginario della competenza dice: l’esperto sa, soltanto un altro esperto può giudicarlo o criticarlo. E questa idea va di pari passo con un’altra, che corrisponde alla pratica contemporanea e soprattutto all’immagine che questa vuole dare di sé stessa: che esistano degli esperti politici. Nessuno li chiama in questo modo, ma molti sedicenti politici oggi si presentano e vengono eletti in quanto specialisti dell’universale, tecnici della totalità. Va da sé che si ridicolizza l’idea stessa di democrazia con una simile contraddizione: giustificando il potere dei politici con la competenza politica che loro soli possiedono, si lascia alla popolazione – per definizione “non esperta” – la sola scelta tra diversi “esperti”. Questi uomini, per esempio i candidati a un’elezione, si accusano reciprocamente d’incompetenza, ognuno rivendicando la competenza propria e della propria squadra, per poi chiamare la popolazione a testimone: “Diteci chi è, tra noi due, il vero competente”.

Contraddizione davvero assurda, che tuttavia sta al cuore della sedicente democrazia moderna. L’idea che ci possano essere degli specialisti dell’universale, dei tecnici della totalità, è vuota e non ha alcun rapporto con la realtà. Questa pretesa è legata a un altro fenomeno caratteristico della modernità, la crescente divergenza tra le capacità che servono ad accedere al potere e quelle che servono a governare davvero. È una mia vecchia tesi: nella società moderna, in qualsiasi apparato burocratico-gerarchico, inclusi i partiti politici, l’individuo che vuole arrivare in cima deve salire i gradini della piramide burocratica; e questa ascesa diventerà presto, inevitabilmente, la sua unica preoccupazione. Ma l’ascesa dipende sempre meno dalla capacità di realizzare i compiti che gli sono stati attribuiti e sempre di più dalla pura e semplice capacità di arrampicarsi verso la cima. Le specie che sopravvivono sono le più adatte, insegna il darwinismo, ma dietro alla pura e semplice tautologia sta la vera domanda: adatte a cosa? Adatte a sopravvivere. Insomma gli individui che fanno carriera nell’apparato burocratico sono gli individui più capaci – ma capaci di cosa? Di salire. E come? Facendo ricorso, evidentemente, all’intero arsenale dell’arte intraburocratica delle cricche e dei clan, attraverso la trasformazione di tutte le finalità reali in obiettivi di conflitto tra cricche e clan. A questo punto la definizione stessa di quello che è o non è reale diventa una posta in gioco. Non c’è bisogno di arrivare agli estremi del totalitarismo: pensiamo al dibattito sull’esistenza o l’inesistenza di una crisi economica attualmente in Francia, sottaciuta fino a pochi mesi fa. L’opposizione diceva che non c’era, che era solo un’invenzione del Governo; mentre ora hanno cambiato idea. I loro avversari avrebbero fatto esattamente lo stesso.

Facciamo un altro esempio, questa volta americano. Reagan ha speso miliardi di dollari per un presunto riarmo americano. Il dibattito sembra a prima vista basato su dati obiettivi: qual è il fabbisogno di carri armati, di armi nucleari e convenzionali eccetera. Ma questi obiettivi apparentemente oggettivi vengono trasformati in semplici mezzi, per ogni clan –Governo, Pentagono, tecnici, industriali, Congresso, e così via –, al fine di far prevalere il proprio punto di vista. Vero è che, trattandosi di ordini e di dollari, tutto è perlomeno ancorato a qualcosa che possiamo ancora definire degli interessi materiali. Ma non è sempre così: il vero “interesse” fondamentale è quello della cricca o del clan burocratico, che deve oggi poter sventolare qualche bandiera in nome della quale pretendere di avere più diritto di governare rispetto agli altri. Le poste in gioco “oggettive” si trasformano in semplici strumenti di spartizione tra cricche e clan, e a questo servono gli “esperti”, a questo si riduce spesso la competenza nelle nostre società sedicenti democratiche.

Bisogna vedere che questa progressiva divergenza tra capacità di fare carriera e capacità di governare è un problema che si presenta sistematicamente in quasi tutti i regimi, e che non è assente nemmeno in un regime compiutamente democratico. Prendiamo l’esempio della monarchia assoluta: è raro che un monarca governi del tutto da solo, e infatti sono esistiti dei ministri capaci di lasciare il loro segno nella storia. Ma come si diventa ministro di un monarca assoluto? Per definizione, chi lo diventa non ha mai avuto occasione di dimostrare di essere il migliore per il posto che non ricopre ancora. Sia la realtà storica sia la semplice riflessione suggeriscono che per divenire ministro di un monarca assoluto bisogna piacere al monarca, saperlo manovrare. Si tratta, va detto, di una capacità che non tutti possiedono. La pura e semplice adulazione non basta sempre: ci vuole più delicatezza. Ma questa qualità non ha nulla a che vedere con l’arte di legiferare, amministrare, negoziare o fare la guerra. È tutt’altra cosa. Ma prendiamo il caso di un regime democratico, con o senza virgolette. Che cosa permetterà a qualcuno di affermarsi come leader in una democrazia? Questo dipende dal tipo di regime: se l’essenziale si svolge di fronte all’assemblea, come a Atene, il fatto di parlare bene, la retorica, sono indispensabili. Ma anche a Atene, e infinitamente di più in altri tipi di democrazia, ci vogliono ulteriori capacità molto particolari: sapersi fare degli amici, avere la memoria dei volti e dei nomi, eccellere nel gioco delle influenze. Se incontrate Tizio e che gli dite “Buongiorno, Caio”, sarà difficile salvarsi da una brutta figura, e questo potrebbe avere serie conseguenze. Insomma sono tante le qualità richieste per sedurre, manipolare pubblicamente e privatamente, influenzare, ma sono ben distinte da quelle che servono per formulare proposte politiche e governare realmente.

Questo problema, presente in ogni tipo di regime, è una delle fonti possibili della degenerazione della democrazia. È accaduto a Atene, dove a partire dalla guerra del Peloponneso la capacità oratoria inizia a degradarsi, diventando quella che Platone definisce un’adulazione del demos. I retori hanno fatto del demos un monarca assoluto di cui solleticano le inclinazioni, i suoi istinti più bassi dice lui. Il linguaggio, l’attitudine di Platone sono indubbiamente antidemocratiche, ma la sua diagnosi è corretta se la riferiamo alla fase di declino democratico. I demagoghi ateniesi durante la guerra del Peloponneso, ma anche gran parte degli oratori del IV secolo, sono persone capaci di persuadere, di far accettare alcune proposte grazie alla loro abilità oratoria, ma totalmente incapaci di governare: persone come Cleone, per esempio, non si interessano in nessun modo alle cose pubbliche, o se ne interessano soltanto nella misura in cui servono loro per accedere al potere. Tuttavia bisogna insistere sul fatto che il regime democratico, nel senso più forte del termine, è quello in cui diviene possibile affrontare il problema della divergenza tra capacità di fare carriera e capacità di governare. Innanzitutto perché l’accesso al potere non è ermeticamente separato dalla pratica del potere; e poi perché la capacità di governare non dipende da quello che un solo individuo è in grado di fare da solo per tre, cinque o sette anni, visto che le decisioni sono prese da una collettività le cui capacità politiche sono considerevolmente più importanti. Beninteso l’esempio di Atene serve qui per mostrare che anche questo può essere pervertito. Come dicevamo sopra, nessun regime è immune alla degenerazione, e nessuno può impedire all’umanità di suicidarsi.

Passiamo infine alla terza coppia di termini: il popolo e lo Stato. Ho già ripetuto che la polis greca non era uno Stato nel senso moderno del termine. Il termine “Stato” non esisteva in greco antico, e quando i Greci moderni hanno dovuto trovare una parola hanno sono ricorsi, in modo caratteristico, al termine kratos, che in greco antico indica la forza bruta. Il che è tutto sommato abbastanza comico: lo Stato greco moderno è la forza bruta greca moderna… Quanto al termine politeia, titolo greco del dialogo di Platone che chiamiamo La Repubblica, i tedeschi lo rendono con Der Staat. Il lettore che vive nella Germania di Federico il Grande, in quella di Bismarck, in quella di Hitler o persino in quella del cancelliere Kohl, è quindi condannato a non capire nulla di quello che vi legge. Ma anche il termine latino  , sebbene meno sbagliato, è tutt’altro che perfetto. Il termine politeia rimanda sia all’istituzione/costituzione politica sia al modo in cui le persone si organizzano per gestire i loro affari in generale e i loro affari comuni in particolare (questo indica il verbo politeuesthai). Che il trattato di Aristotele ritrovato alla fine dell’Ottocento e intitolato Athenaion politeia abbia potuto essere tradotto in quasi tutte le lingue come “La Costituzione di Atene” non fa assolutamente onore ai filologi, visto che a Aristotele non sarebbe mai venuto in mente di scrivere una “Costituzione di Atene”: ha scritto una “Costituzione degli Ateniesi”. Svista eclatante da parte di studiosi sicuramente molto eruditi, che pure non hanno colto l’essenziale, quello che invece Tucidide dice esplicitamente – “andres gar polis”, la polis sono le persone – e dà sempre per scontato. Non un’istituzione, non un meccanismo, e nemmeno un territorio, bensì gli uomini, il corpo dei cittadini.

Erodoto racconta che Temistocle, prima della battaglia di Salamina, fatica a imporre agli altri capi greci la sua tattica, che alla fine prevarrà e garantirà la vittoria. E a un certo punto dichiara: “Le nostre mogli e i nostri figli hanno abbandonato l’Attica e sono sull’isola di Salamina, le nostre navi sono là; siamo pronti a partire per andare a fondare Atene altrove”. Bisogna capire la portata di quello che afferma Temistocle. Per le città greche e per gli Ateniesi in particolare, il territorio della polis è sacro. Gli Ateniesi sono uno dei rari popoli greci che addirittura rivendica fieramente la propria origine autoctona. Tutti i miti e le leggende greci parlano di migrazioni, dell’ingresso in Grecia, e invece gli Ateniesi si considerano “nati dalla terra”; quale che sia la vera forza di questa credenza successivamente, essi credevano di essere legati alla terra da tempi immemorabili. E tuttavia Temistocle dice: “Siamo pronti a rifondare Atene altrove”. Vale a dire che c’è una componente territoriale nella definizione delle polis ma che non è il territorio che la definisce essenzialmente, perché a farlo è invece la collettività politica, il corpo dei cittadini. Insomma bisogna ribadire che l’idea di Stato inteso come istituzione distinta, separata dal corpo dei cittadini, sarebbe stata del tutto incomprensibile per un greco.

Qui sta un punto piuttosto difficile e bisogna fare ben attenzione. Gli Ateniesi in quanto comunità politica esistevano su un piano diverso dalla realtà concreta, empirica, rispetto a quella delle 8000 persone radunate in assemblea sulla Pnice in un giorno stabilito. Gli Ateniesi sanno, e agiscono di conseguenza, che esiste una comunità, una polis, che eccede qualsiasi assemblea particolare del demos. Diciamo che a un certo punto hanno firmato un trattato: ebbene cinquant’anni dopo continuano a onorarlo, perché questo impegna l’intera comunità. Come in tutte le società istituite, sussiste una distinzione tra gli Ateniesi astratti ed eterni, per così dire, e gli Ateniesi in carne e ossa che stanno sulla Pnice e prendono tale o talaltra decisione. La collettività istituita non s’identifica assolutamente con la somma empirica dei cittadini presenti fisicamente all’ecclesia, eppure non c’è trascendenza dello Stato, come si dirà all’epoca moderna, non c’è una separazione radicale tra la polis degli Ateniesi come entità politica e gli Ateniesi viventi in tale o talaltro momento. Lasciamo stare le astrazioni e tentiamo di concentrarci su questi fatti solo apparentemente contraddittori, come l’esempio di Temistocle che vuole rifondare la polis altrove, o il fatto che la polis onori impegni presi anche due secoli prima. Nessuna contraddizione qui, semmai delle sequenze di significazioni diverse da quelle che ci aspetteremmo di trovare.

Un altro aspetto del problema del rapporto tra popolo e Stato è che non esiste un apparato di Stato separato dalla comunità politica e che la domina. Ne abbiamo già parlato e ci torneremo: a Atene esiste beninteso un apparato tecnico-amministrativo o tecnico-esecutivo piuttosto sviluppato, in particolare nel V e IV secolo. Sappiamo che sfrutta ampiamente gli schiavi: sono loro che gestiscono la contabilità e il tesoro pubblico, loro che si occupano degli archivi cittadini. Malgrado la loro condizione. Si pensi anche al ruolo dei liberti alla corte degli imperatori romani o di certi eunuchi presso gli imperatori cinesi. Non è il caso di Atene: gli schiavi pubblici sono effettivamente soltanto degli ingranaggi della macchina amministrativa, quale che sia l’importanza delle faccende di cui si occupano. Sono beninteso posti sotto la supervisione di cittadini magistrati, generalmente tirati a sorte. Non esiste insomma una burocrazia permanente o un apparato di Stato, che poi è la stessa cosa. Questa non separazione del potere rispetto alla comunità si manifesta anche nella euthuna, l’obbligo per ogni magistrato di rendere conto delle sue attività davanti a un corpo speciale, come la Boule nel periodo classico e per le magistrature più importanti. Tutti questi aspetti definiscono la metoché, ovvero la partecipazione della collettività al potere. Aristotele definiva il cittadino come colui che metechei, ovvero partecipa all’arché, al potere.

A questo punto si pone la questione di capire che cosa garantisce l’unità di questa comunità politica. Che cosa intendiamo con unità? Fin dove si spinge? Si tratta di una questione fondamentale dal punto di vista del pensiero politico, in generale del tutto negletta. Nel caso delle città greche, il corpo politico riceve l’unità, se così si può dire, come riceve la propria esistenza, a un livello che potremmo chiamare prepolitico. Non dico “naturale”, perché si tratta comunque di un livello sociale, ma prepolitico. Qui, da un punto di vista logico-trascendentale – la questione quid juris, non la questione quid facti – nel momento in cui inizia un processo di autoistituzione o di reistituzione, la comunità che si autoistituisce in un certo senso riceve sé stessa dal proprio passato, con tutto quello che il passato porta e comporta. Da un punto di vista non storico-cronologico ma logico, o se vogliamo verticale, si potrebbero fare delle analogie con la questione, tipicamente moderna, della società civile che si oppone non tanto allo Stato – come nella visione di Hegel e di Marx – quando alla società politica. Da principio abbiamo una realtà data: delle persone che vivono su un territorio determinato, divise in famiglie, in villaggi, in città, con tali usi e costumi, un modo di produzione, ovviamente, una religione eccetera. Si potrebbe dire che, dal punto di vista dell’istituzione politica, tutto questo è, in un certo senso, un materiale. Ma solo in un certo senso. Questa realtà data è prepolitica non in senso cronologico, visto che permane, ma in senso logico appunto. Permane tranne, per l’appunto, in una società che avrebbe pienamente realizzato il totalitarismo, ma questo riteniamo (sperando di non essere mai smentiti) che sia irrealizzabile per definizione: una società orwelliana come in 1984, dove lo Stato si arroga il diritto di controllare Winston Smith persino quando va in bagno o fa l’amore con sua moglie. Vorrei in ogni caso attirare l’attenzione su questo elemento importante: il dato prepolitico è in un certo senso materiale della realtà politica; ma in un altro senso, essenziale, è qualcos’altro, ovvero la vita concreta delle persone. Non possiamo approfondire ulteriormente la questione, ma la tendenza a trattare tutto questo unicamente come un materiale è uno dei problemi principali della filosofia politica – e non soltanto della filosofia politica. Facciamo un esempio un po’ estremo: per i Khmer rossi, l’appartenenza degli individui a una famiglia e il fatto di avere un patronimico erano un puro materiale che poteva essere plasmato in funzione degli obiettivi politici dello Stato; si sono dunque separate le famiglie, imposti nuovi nomi alle persone, sradicato e deportato eccetera. Si dirà che questa non è filosofia politica ma totalitarismo. Si può discutere sul fatto che il totalitarismo sia una forma di filosofia politica, ma di certo è una forma di politica.

Esiste dunque una vita prepolitica, che in parte è estranea al punto di vista dell’istituzione politica. Determinare quale sia questa parte è in sé un problema enorme, che dipende precisamente dalla posizione politica di ognuno. Prendiamo l’esempio della società civile nel senso che gli è stato dato alla fine del Settecento, ovvero essenzialmente la sfera economica. Per gli uni, sarà considerata come non pertinente, ovvero estranea alla sfera politica, o comunque non trasformabile; mentre per altri – i socialisti, i marxisti – sarà invece considerata come decisiva. Quello che conta oggi per noi consiste nell’osservare in che modo il movimento di reistituzione si pone rispetto alla sfera prepolitica in senso astratto, logico, non cronologico del termine.

La storica riforma di Clistene (508/507) ci offre un esempio estremamente incisivo, e un ricco spunto di riflessione, su quali possono essere i rapporti tra la sfera politica e il dato prepolitico con cui il movimento istituente si confronta. Clistene appartiene a un’importante famiglia, gli Alcmeonidi, ma dopo la disfatta dei Pisistratidi e del regime oligarchico che è seguito per qualche anno, a spingere la sua ascesa è stato soprattutto il movimento del demos mirato a stabilire un potere della collettività. Questa presentava all’epoca delle divisioni che abbiamo definito prepolitiche, perlomeno dal punto di vista del movimento di reistituzione.  Gli Ateniesi sono divisi, come ogni città ionica, in quattro phulai (tribù) tradizionali; ma lo sono inoltre in funzione dei conflitti politici che si sono sviluppati ben prima di Pisistrato e che sono continuati anche dopo la caduta dei Pisistratidi. Le fazioni che ne sono risultate hanno un radicamento geografico ma anche, per così dire, socioeconomico: per semplificare potremmo dire che esistono un “partito” contadino, uno urbano e uno marinaro. Clistene, che vale qui come simbolo e nome di un più ampio processo politico, rinuncia a quel punto alla divisione in quattro tribù e ne crea dieci nuove, che sono a loro volta divise in tre trittie, distribuendo le magistrature in modo uguale tra le tribù (ci saranno dunque, per esempio, dieci strateghi). Ogni tribù è composta da un terzo contadino, uno urbano e uno marinaro, e quindi in nessuna predomina uno di questi tre terzi. Questo ci mostra che per instaurare l’unità della comunità politica è stato necessario spezzare alcune divisioni tradizionali: non si tratta di distruggere o di sterminare, nessuno viene mandato nei gulag, ma di mettere da parte certi elementi, perché la vita politica si svolge altrove. La nuova Atene non è una coalizione di gruppi sociali – contadini, marinai, cittadini (ovvero artigiani e commercianti). Non è nemmeno un conglomerato che raduna questi gruppi artificialmente. In ognuna delle trittie viene conservata l’organizzazione di base in demi – villaggi o più precisamente municipalità – che sono in un certo senso delle unità prepolitiche. Le antiche tribù ioniche conservano alcune funzioni religiose. Insomma l’elemento prepolitico passa in secondo piano ma non viene dissolto. La comunità politica è un’unità che si articola, non può far altro che articolarsi: non ci troviamo di fronte a una massa in cui qualcuno sta in rapporto diretto con il potere; eppure gli elementi preesistenti, senza essere soppressi, si stemperano di fronte alla nuova unità. Per avere una vera democrazia, è necessario che l’accesso a ogni magistratura sia uguale per ogni segmento di popolazione, ma questi segmenti non sono più “naturali” bensì definiti in vista del funzionamento politico. La Rivoluzione francese, che da questo punto di vista è andata oltre tutti gli altri, ha fatto cose simili: pensiamo a come le antiche province sono state sostituite dai dipartimenti eccetera, nel suo movimento di reistituzione della società. Diciamo subito che troppo spesso questa riorganizzazione del dato prepolitico in funzione di considerazioni politiche è in un certo modo troppo razionale, troppo astratta e perciò stesso inadeguata, se non oppressiva per la società. Ma nel caso della riforma di Clistene, assistiamo alla creazione di uno spazio politico che si articola su segmentazioni prepolitiche senza farsi determinare o asservire da loro.

Fatte queste precisazioni sulla questione dell’unità della comunità politica, vorrei commentare ancora due importanti disposizioni che mostrano in modo eminente lo “spirito delle leggi” dell’Atene clisteniana – e senza nemmeno citare quelle contro la tirannide. Innanzitutto l’ostracismo (il termine viene da ostrakon, la tessera di ceramica impiegata per votare). Questa disposizione, che inizia probabilmente a essere applicata attorno all’anno 487, permette all’assemblea, sotto certe condizioni, di condannare un cittadino a un esilio di dieci anni, senza che tuttavia costui perda né i diritti civici né i beni, e senza un connotato disonorante per colui che la subisce. La proposta deve rispettare certe specifiche forme e la decisione presa da almeno seimila cittadini, anche se i testi non chiariscono se si tratta di un quorum o del numero di voti a favore richiesti. A essere chiaro, invece, è che non si tratta di una misura che si poteva prendere alla leggera: per quanto sia complesso interpretare dai testi la vera natura dell’ostracismo, secondo gran parte degli autori questo riguardava soprattutto quegli individui di cui si poteva temere che inseguissero qualche forma di potere personale o potessero instaurare una tirannide. Eppure nel caso di Aristide, ostracizzato nel 482, due anni prima della grande invasione di Serse, come anche in quello di Cimone vent’anni dopo, non sembra esserci nessun rischio di tirannide. Preferisco dunque dare un’altra interpretazione, anch’essa molto antica: quando l’antagonismo politico raggiunge una soglia troppo elevata, magari cristallizzandosi su due persone che incarnano due campi opposti, e l’unità del corpo politico è minacciata, si cerca di rimediare allontanando per un decennio il rappresentante di uno dei due campi. Nel 482, per esempio, effettivamente sussiste un antagonismo tra il partito di Temistocle (più democratico in un certo senso, partigiano di una certa politica militare nei confronti dei Persiani, della creazione di un potere marittimo e della costruzione di una flotta importante) e quello di Aristide (portavoce di una tendenza più conservatrice e rurale). Due anni dopo la sua condanna, d’altronde, Aristide riceverà l’amnistia, perché le differenze si erano stemperate di fronte al comune nemico. Non bisogna dimenticare che i Greci in generale, e gli Ateniesi in particolare, avevano serie ragioni di cercare di limitare l’intensità dell’antagonismo e del conflitto politico nella città, per via della loro naturale inclinazione verso la divisione e il conflitto interno in tutte le sue forme: dissensi, guerre civili, ed eventualmente massacri.

Ma la disposizione più sorprendente da questo punto di vista, soprattutto per una sensibilità moderna, è quella che Aristotele segnala nella Politica (1330a20), di cui vi ho già parlato. Quando bisogna prendere una decisione su un conflitto con una città confinante, i cittadini che abitano vicino alla frontiera sono esclusi dalla deliberazione. Questo perché ovviamente rischiano di preoccuparsi dei rischi che pesano sui loro campi, raccolti bruciati e ulivi tagliati, invece che dell’interesse generale della polis: insomma perché non sono in grado di pronunciarsi in quanto cittadini. La decisione comune riguarda la comunità e porta sul generale, e se ci sono persone alle quali non è possibile chiedere di far astrazione della loro particolarità, essi non dovranno partecipare al voto. È evidente la differenza radicale tra questa concezione della politica e del corpo politico e quella contemporanea, secondo cui la politica non è altro, de facto e de jure, che una specie di insaccato composto da tanti interessi particolari. Si parla di bene comune ma in realtà si pensa a come mediare tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle aziende, degli insegnanti e degli allievi, dei malati e degli studenti di medicina, dei ministri della salute e di quelli dell’educazione, dei partiti socialisti e di quelli comunisti, o dei centristi e dei gollisti, dei viticoltori e degli utenti di autobus… Questa è la politica oggi. Nulla di più lontano rispetto all’idea antica secondo cui è necessario tenersi a distanza, per quanto possibile, da tutti gli interessi particolari.

Va da sé che questo non è mai del tutto possibile, o meglio che questo è tanto più difficile quanto la società è divisa tra gruppi d’interesse. Vorrei tornare qui ad Hannah Arendt, che diceva che nella politica greca antica c’è una cancellazione di quello che lei chiama il “sociale”, e che questo principio dovrebbe essere generalizzato. Credo che abbia torto, perché nella concezione greca della politica (direi in ogni concezione della politica degna di questo nome), la politica riguarda la generalità, e la comunità non può permettere che le decisioni siano adottate in funzione di interessi particolari, settoriali. Si può dunque dire, assieme a Arendt, che bisogna escludere l’economico e il sociale dalla sfera del politico; oppure si può dire, come faccio io (ed è completamente diverso), che per evitare ogni interferenza degli interessi sulla sfera politica bisogna trasformare la materia sociale in modo tale che queste divisioni d’interessi non possano più determinare l’essenza del gioco politico. È sbagliato scivolare logicamente dall’idea giustissima che la politica non coincide con la sfera degli interessi (o precisamente non coincide con la sfera degli interessi biologici), all’idea che si debba escludere dalla politica il sociale e l’economico. Perché significa ignorare che dal momento in cui la divisione degli interessi assume una grande importanza in una società – come avviene inevitabilmente non appena ci si allontana dalle società arcaiche – diventa utopistico immaginare una sfera politica che funzioni autonomamente dalla sfera sociale ed economica. Questo problema – intravisto e rapidamente occultato, su cui inciampano sia la Rivoluzione francese che la Costituzione americana – è anche, in un certo senso, quello di Tocqueville. La relativa uguaglianza sociale che ravvisava in America era secondo lui la condizione stessa del gioco democratico, e proprio nella tendenza generale verso l’uguaglianza delle condizioni vedeva il segno caratteristico della modernità. Ma la questione economica e sociale non viene di fatto presa in considerazione dal primo movimento istituente nelle colonie del New England. Arendt se ne rallegra, come se questo non fosse precisamente uno dei fattori determinanti di quell’evoluzione della società americana che lei stessa deplora. Per Tocqueville la questione è diversa, anche perché scriveva negli anni 1835-’40 (il suo viaggio è del 1831-’32), ma anche tenendo conto di questo bisogna riconoscere che il suo sguardo è stranamente selettivo, perché la differenziazione economica è già fortemente presente e ha già un’influenza sul funzionamento delle istituzioni. La questione, quale si pone per noi oggi, è questa: fino a dove deve andare, fino a dove può andare, e a che prezzo forse, la trasformazione della materia socioeconomica, se vogliamo che un autogoverno della società sia possibile? A ogni modo il sociale, nel senso limitato dato da Arendt al termine (che non è né il senso classico né quello che gli do io), la sfera economico-sociale se vogliamo, non può essere abbandonato con il pretesto che la politica non ha nulla a che vedere con gli interessi particolari.

[1] [Castoriadis dedica un seminario a Platone nel 1986, ora in C. Castoriadis, Sur Le Politique de Platon, Seuil, Paris 1999]

Come fossimo il fuoco

0

di Marco Florio

pomeriggio – andavamo dietro giacomo – io e sara – io e sara del resto, eravamo giacomo – io perche mi divertiva vederlo smontare e rimontare cose – di sara non sapevo il perche – forse solo una delle tante ritrovatasi ad andarci dietro un po’ per sbaglio – giacomo in genere non era uno da sensazioni forti, non di sua iniziativa, a meno che qualcuno non lo proponeva – in quel caso cambiava atteggiamento, in modo repentino, diventava come una questione cruciale – c’erano curve, dappertutto, di ogni tipo – iniziava sempre così, con una serie di curve – e poi arrivavamo – arrivavamo nei posti – e giacomo prendeva a fare la sua – partiva e cominciava a montare le cose – entrava nei posti – usciva dai posti – io cercavo di non perderlo – intesseva rapporti sociali – prendeva nota – segnava numeri di telefono – aggiungeva contatti social – stringeva mani – assecondava prospettive – anche con gente famosa – a volte anche con personaggi pubblici – per lui erano tutti gli stessi – andava, montava le cose e poi passava al locale successivo – al posto seguente – al prossimo contesto – diceva “vienimi a trovare” – diceva “ti faccio suonare io a roma” – alla piazzetta o vicoletto consecutivo, dopo una sequenza di vicissitudini, dopo una sequenza di stretti cunicoli e di parabole da centro storico – quando si voltava non cercava mai me con lo sguardo, al massimo sara – ma sara la perdevamo, sempre – arrivavamo da qualche parte dopodiché lei se ne andava, per conto suo, e io andavo dietro giacomo – e giacomo andava da un posto a un altro dopodiché cominciava a voltarsi a cercare sara con lo sguardo, e non la trovava – e allora giacomo andava in cerca di sara e io lo seguivo – se riuscivamo a trovarla, il tempo di montare la situazione e smontarla che ripartivamo lasciandoci di nuovo sara dietro – non era un fatto di bisogni – non era che cercavamo qualcosa – nessuno lì cercava niente davvero – era solo per non fermarsi – non restare sospesi da nessuna parte – i luoghi che visitavamo non ci interessavano realmente – uno valeva l’altro – era come consumare le persone, giusto il momento che serviva, poi le gettavamo via, a guisa di cicche di sigarette fumate neanche a metà ma tanto avevamo il pacchetto pieno e un’altra stecca nello zaino – così sentivamo di possedere una certezza – a volte però capitava che le sigarette terminavano – ma non in quell’occasione comunque – giacomo non andava dietro le sensazioni, ciononostante se tutti intorno bevevano doveva bere anche lui – se tutti tenevano in mano un bicchiere di plastica doveva farlo anche lui – era come se assorbiva le cose e poi, come una spugna, si strizzava da sé una volta lontano e tornava asciutto – se tutti bevevano, lui doveva bere, anche se c’era un’ora di fila – e io finivo dietro la fila con lui a guardare la gente di schiena – a volte rimorchiava una ragazza e io restavo solo e tornavo da sara – ma non allora comunque – se tutti latravano giacomo doveva latrare – se tutti menavano giacomo doveva menare o almeno doveva starci in mezzo – il problema era che talora nessuno urlava e nessuno ballava né diceva niente – ogni tanto gli altri se ne stavano silenziosi, seduti negli angoli e lui rimaneva asciutto – in ogni caso quella sera non era andata così – poi a forza di camminare finiva che il terreno terminava e davanti a noi rimaneva solo il mare – non sapevo il perche ma in certi momenti era come se non riusciva a permanere nello stesso posto troppo a lungo – aveva bisogno di continuare a muoversi – e così capitava che arrivavamo davanti al porto e per non restarcene là fermi proseguivamo fino in fondo allo spazio lungo e sottile dove attraccavano le barche, fin sotto – io non facevo neanche domande, gli camminavo solo dietro, tanto non mi rispondeva e comunque non era importante – solo che a un certo punto lo spazio si esauriva e oltre non restava altro che il mare – non potevamo certo buttarci dentro – a volte capitava che quel momento collimava con il tramonto – a quel punto giacomo si fermava, si guardava attorno e capiva di essere arrivato troppo lontano – iniziava a chiedermi dove diamine fosse sara ma senza aspettarsi una risposta, tanto lo sapeva che ero stato con lui tutto il tempo – trovavo curioso che nel suo volteggiare tra il mare, l’orizzonte e poi le case bianche stile grecia con tutti i vicoli alle mie spalle, lo sguardo non si soffermava mai su di me, ero come un palo della luce, era come se parlava da solo, e sembrava proprio che si sentiva veramente solo – poi provavo con una frase, “torniamo in piazzetta punto interrogativo”, “torniamo al nome del locale punto interrogativo” – lui prendeva il telefono, faceva una successione di chiamate in una successione di secondi – musica alta, la gente non capiva, poi prendeva a bestemmiare – c’era sempre quel momento – il momento di vuoto in cui non poteva camminare né in salita né in discesa e lo spazio finiva – il livello del mare, così lo chiamavamo – “sto a livello del mare” significava che qualcosa non andava, un posto dal quale uno voleva solo allontanarsi, ma era un po’ complicato e a me veniva anche un po’ da ridere a vederlo perdere il senno e gridare da solo contro il niente, ma mentre ridevo, la sentivo anche io la paura, e ridevo e avevo paura e poi ricominciavamo a camminare e poi a correre e a fare i gradini a due alla volta, a tre alla volta, a procedere tra vicoli e  locali, tra sorrisi e sguardi che cercavano consenso ma poi erogavano dissenso, tra ingressi, uscite, file, bicchieri di plastica, musica forte, “permesso, chiedo scusa, levati dal cazzo, ma ndo sta sara, ma tu c’hai il numero suo punto interrogativo, ma a te ti risponde punto interrogativo, ma ndo cazzo sta sara, ma ndo sta, a mà, veramente, a ndo sta”, e io vedevo il suo volto modificarsi progressivamente in disperazione, forse quasi panico, non riuscivo a capirlo bene perche lo scorgevo solo a tratti e intanto non arrivavamo mai e quelli erano i momenti peggiori e la gente cominciava a dire “sara ti cercava”, “ti voleva quella ragazza bionda”, “era andata al nome del posto”, “si era avviata al nome di un altro posto”, “l’ho vista vicino al nome di un posto”, il ritrovo appresso, la zona appresso, non finivano mai – giacomo prendeva a sudare – diventava per davvero una spugna, gonfio in volto – la gente rideva e diceva “che sei uscito a fare un tuffo punto interrogativo” – no, era solo arrivato al livello del mare

notte – dicevo giacomo in genere non andava dietro alle sensazioni, tranne quando qualcuno faceva la proposta – io ero uno che faceva sempre la proposta – tiravo fuori una bottiglietta d’acqua e ci buttavo dentro la proposta e poi gliela passavo – mi guardava, mi chiedeva se era la proposta senza aspettarsi una risposta vera – io prendevo a ridere e gliela passavo senza rispondere e lui si alimentava senza aspettarsi una risposta – quelle serate erano le peggiori per giacomo perche arrivato a un certo punto non riusciva più a spremere la spugna e allora assorbiva e assorbiva e poi si dilatava tutto e finiva a terra da qualche parte a dormire con la bava alla bocca e la testa piena di consensi, contatti e strette di mano – sicché di solito tornavo da sara, e insieme a lei ritornavamo da giacomo e ce lo caricavamo in macchina e in questa sequenza in genere inizio a ridere perche lui non riesce a stare dritto sul sedile di dietro e si accascia a destra e a sinistra a seconda delle curve e ci manca poco che non vada a sbattere contro lo sportello – no ma comunque quella sera non finisce così – quella sera – delle volte prendiamo a correre – entriamo in posti dove non centriamo niente – poi ci allontanano e scappiamo – in strade dove solitamente uno non passa mai a piedi – ci si passa solo in macchina – ci passiamo fuggendo – nel senso allontanandoci dal centro invece che avvicinandoci – posti che è come se uno li vedesse per la prima volta perche ci è sempre scorso solo in macchina – uno li conosce esclusivamente da dietro un finestrino – poi scende, cammina e inizia ad accelerare – e si accorge che esistono spazi sterminati di località nuove dove uno non è mai stato davvero – li annovera solo come parte di un movimento rettilineo costante – non come entità statiche – poi uno esce, decide di seguire giacomo e senza volerlo si ritrova in questi posti – a lui non piacciono – ma comunque in qualche modo ci finiamo – solo che non abbiamo tempo di guardarci attorno perche le guardie giurate ci inseguono e ci prendono a pietrate – ci mettiamo a correre – è pieno di posti così – parcheggi privati – campeggi – luoghi dove non dovremmo essere – siamo quei luoghi – poi a un certo punto a forza di scappare arriviamo a una tale rotonda – è un bivio – voltiamo a sinistra e c’è questa abbazia abbandonata forse piena di fantasmi in mezzo alla campagna – e riprendiamo a salire verso il paese – dove sono ancora luci e suoni – meglio muoversi – l’aria si fa fredda – ci appostiamo su una curva – sara è passata a prenderci – ora andiamo verso nome di un  paese

fuori dal pronto soccorso – mattina – tanta luce, all’esterno è quieto – a volte va a finire così – saliamo su un pullman – diretti da qualche parte, come nome di un posto oppure nome di un posto –  scendiamo in stazione – montiamo su di un treno – pieno di piccoli gruppi come il nostro – sparuti – bianchi in mezzo a tanta luce – cercano un angolo di buio dentro gli scompartimenti – giacomo inizia a montare e smontare – un vagone, poi un altro, nessuno guarda davvero dove siamo diretti – lo sfondo appare sempre in un certo modo lo stesso – un indistinto ammasso di ambienti e paesaggi mescolati verso un lato del finestrino – un terminal di quelli più grossi – il centro di qualcosa – autobus – nuove piazzette – nuove situazioni – ci seguono alcuni dal treno non ancora smontati – qui il contesto è più spazioso, ma pur sempre vicino al mare – l’ho notato prima dalla ferrovia – sento una leggera paura, in località di questo tipo è anche più facile disperdersi – giacomo invece viene da nome di un posto, sa come muoversi, è una grande città – le persone diventano numerose – le vedo accatastate a mucchietti lungo il bagnasciuga di una spiaggia – a terra con la schiena sui muretti del lungomare – innalzano grossi fuochi e prendono a saltarci tutto intorno – è ancora giorno, il calore delle fiamme rischia di ustionare perche non è visibile alla luce del sole – colonne di fumo nero si innalzano all’orizzonte – entrano di obliquo nel profilo piatto dei palazzi della città – figure scure e cosparse di cenere volteggiano attorno grossi falò quasi occulti ai bagliori della prima sera – si stipano qua e là vicino gli angoli delle strade – qualcuno corre e si lancia contro le cose – ne vedo gruppetti nella parte di sopra degli autobus e sui tetti dei chioschi del litorale – scaricano legna – la trasportano – ci buttano sopra anche gli ombrelloni e le sdraio – resti di un pedalò, alimentano la danza – restituisce un sacco di fuliggine scura – insieme a quella bianca dei fumogeni o dei lacrimogeni appare quasi una strana composizione – mentre mi tirano dalla schiena, mi trascinano dentro un furgone di metallo, giacomo mi fa segno di lanciargli la bottiglietta di plastica – lo faccio solo per ridere del suo volto quando capisce che è vuota – le figure buie all’interno sono tutte sedute a terra – cercano riparo dalle ultime luci – il mezzo non fa a tempo ad arrivare alla stazione di polizia – le cose a un certo punto, non saprei dire quando, devono essere cadute vittima del panico – il furgone prende fuoco – nessuno si ricorda di aprire lo sportello – no un attimo, si apre – fuori c’è giacomo – dice “ma ndo cazzo sta sara” – non credo la troverà – sara non era neanche con noi sul treno alla partenza – non provo nemmeno ad assecondarlo – ormai l’ho perso – mi allontano verso uno di quegli imponenti incendi di cui parlavo – una volta in spiaggia mi suona il telefono – “ma si può sapere a ndo stai” – ritorno da giacomo – iniziamo a camminare – sempre più in fretta – lui è già un bagno di sudore – ci sediamo sotto una fermata – aspettiamo – aspettiamo ancora – silenzio – giacomo fa su e giù davanti la panchina – io, per lui, sono come la panchina – l’autobus non riesce neppure ad avvicinarsi – pezzi di esseri umani ricoperti di polvere di legname carbonizzato vi si buttano sopra o cercano di entrare dai sottili finestrini – così il mezzo prosegue senza lasciarci salire – decidiamo di continuare a piedi – man mano che scorriamo il lungo mare – fette di personalità saltano fuori dalle strade a piccole ondate – dicevo un po’ alla volta gli accessi alla zona dove ci troviamo vengono ostruiti dalla polizia – cumuli di individui, ricoprono segmenti del suolo della carreggiata – e più proseguiamo più il contesto diventa off limits per chi arriva da fuori – così non potendo più tornare dentro la city, possiamo solo scegliere se continuare a destra o a sinistra lungo la costa – giacomo però vuole raggiungere la banchisa del porto – grumi, ammassi di cose, i lampioni non riflettono i loro volti, si barcamenano, quasi scaraventati dal vento, come fossero buste di plastica vuote, vanno a sbattere, poi si ribaltano e continuano la corsa, tentano di non rimanere indietro, di non restare soli, provano a raggiungere i veicoli, solo che non ci riescono, e mentre camminiamo – giacomo si direbbe non averli neanche notati – mentre andiamo avanti prendono a raggrupparsi sui lati del molo – su quelle rocce artificiali di forma quadrata – uccelli morti ai raggi scomparsi della fine del giorno – si inoltrano piano all’interno delle imbarcazioni parcheggiate – bianche come auto da matrimonio – le loro impronte e le orme delle loro tracce ridicolizzano nomi inspirati a fiabe da mille e una notte o a fotomodelle dai nomi esotici  – sedili di alcantara e divanetti di pelle pregni di qualcosa che ricorda il catrame – grasso e carbone tritato sui pavimenti in legno lucido ormai da buttare – qualcuna ha anche la piscina – luci diffuse colorate da interno illuminano alcuni di noi lenti dentro quelle grosse auto da cerimonie mai più celebrate – la cosa non sfugge di certo a giacomo – e quando le barche cominciano una alla volta – il tempo che quei soggetti capiscano come funzioni un motore – dicevo il tempo di vedere le barche allontanarsi che giacomo punta la più vicina – una delle ultime rimaste – ci sale dentro come un disperato nel tentativo di non restare isolato, di non essere abbandonato sul molo – i proprietari all’interno provano a bloccarlo, un altro aziona il motore – io glielo impedisco, li spingo in acqua e poi trattengo giacomo dal desiderio di aiutarli con una mano e con l’altra spingo una leva verso l’alto al massimo – un’idiozia – il mezzo s’impenna in modo repentino e noi ci dobbiamo aggrappare alle cose per non finire in acqua mentre la barca se ne va via da sola e io spero che i padroni di sotto non siano caduti in prossimità dell’elica

notte – non so in che direzione andare – vado dove vanno gli altri puntini luminosi – verso una grande isola di luce in mezzo al buio – speriamo di non collidere tra noi – per questo giacomo non cessa di urlare da sopra la cabina sovrastando il suono del motore – cerca di chiamare l’attenzione – ma tutti continuano dritto senza curarsi di niente – devo badare al timone altrimenti cercherei delle bottiglie da passargli – capiamo di essere arrivati non dal contatto visivo, bensì dai suoni – tonfi, sempre più grandi, sempre più disperati – le imbarcazioni, grosse e piccole, collidono tra loro e tutte collidono contro il bordo del porticciolo minuscolo dove ci siamo incastrati, dio non voglia qualcuno finisca in acqua – uno si immagina chissà quanto dista l’altra sponda, e invece sono bastate meno di due ore – potremmo essere finiti in nome di uno stato o nome di uno stato, potrebbe essere anche nome di uno stato a questo punto – tanto un posto vale l’altro – una persona vale l’altra – dobbiamo provare a raggiungere l’isola di luce ancora lontana, lì in alto – ma se cadiamo di sotto siamo spacciati – lembi di personaggi usano passerelle di legno di quelle per attraccare col fine di superare i motoscafi – man mano nuovi yacht si aggregano alla massa – quelli di dietro ci arrivano addosso e fanno sobbalzare noi che facciamo sobbalzare gli altri – diventiamo parte di un contesto effimero, incerto, provvisorio – come un grande moto oscillatorio, un movimento di propagazione a onde – passiamo delicatamente da una occasione speciale all’altra – da una ricorrenza particolare alla seguente – da un momento solenne al successivo – tutti rigorosamente ricoperti di alcantara – tutti ridotti a un cesso di un cinereo appiccicoso – quell’isola di luce, in realtà non è un’isola di luce – sono solo dei blindati che ci puntano contro i fari – non vediamo un accidente di cosa ci sia dietro – procediamo per sensazione – quando da bambini pensavamo “non andate verso la luce” e quegli insetti puntualmente ci andavano – come ci avviciniamo ci piovono addosso delle cose – cose di ogni tipo – a me sembrano reti – faccio a giacomo il gesto dell’accendino – me lo infila attraverso i gangli mentre vengo lentamente issato via – devo avere ancora una proposta da qualche parte – una volta filtrato dall’altro lato, riesco a vedere finalmente il paesaggio – un accidenti perche è notte – però c’è un paese in alto – mi caricano nel rimorchio scoperto di un cammion – osservo cerchi di fumo espandersi dalle boccate della mia proposta, ergersi e sparire indietro lungo il cammino – gli umani di fianco sono abbastanza quieti qui al buio – c’è una sorta di grossa radura in mezzo a un accidenti perche è notte – ci sono dei cancelli, dei reticolati, torrette – lì sdraiato in mezzo alla spianata, circondato dai pini, riesco finalmente a vederle – dico le stelle – isole di luce lontane – dico non subito – dopo che salta l’alimentazione elettrica e le guardie di fuori comincino ad abbandonarsi alla paura – si sentono sempre di meno – me ne resto un po’ a non pensare a niente – io e altri dieci o quindici di questi esseri – nessuno parla – l’erba è morbida e l’aria non è fredda – un altro po’ e si odono i grilli – da lontano neanche un suono – e prima che possa continuare a registrare gli eventi il cervello se ne va da qualche altra parte

mattina – non so bene se si sia trattato di sonno oppure di una disfunzione da over proposte – mi sveglio e intorno a me non c’è nulla – inizio a camminare – e poi cammino ancora – non mi rendo conto neanche per quanto – è pieno di insetti, mi ronzano attorno per via del sudore – provo a transitare sull’argine all’ombra della strada – una strada che non porta da nessuna parte, lo capisco benissimo – una serie di salite e discese che si alternano – una serie di curve che si avvicendano – vegetazione e radure che si succedono – zone di freddo a zone di calore – non distinguo il contesto climatico – neanche una macchina o un tre ruote di passaggio – ogni tanto mi alimento con un fico, raccolgo una pera o un altro tipo di fico che cresce su di un cactus – a terra strani frutti secchi, scuri e piatti, lunghi come banane ma duri come pezzi di legno, che sulla lingua sanno di qualcosa – fanno passare la fame – gli alberi intorno sembrano antichi, molto antichi, diventano ricurvi e levigati dal tempo simili a rocce, frantumati, recisi da increspature fino a dividersi completamente in due o tre pezzi separati – ogni tanto i resti di un muro, resti di altre cose, cose antiche – archi – grotte – ci sono delle grotte – ma non si vedono granché, nascoste dalle piante di fichi come sono – ma se ci si butta attraverso ci si ritrova sotto un tetto di pietra – volte – serpente – ci sono delle volte – altorilievi – focolari e abbeveratoi scolpiti dentro il macigno – tutto abbandonato – lastre – lastre di marmo sgretolate – ne è pieno il terreno – altorilievi sulle volte sopra le tombe ricavate dalla rupe – proseguono il profilo naturale delle colonne della grotta stessa – come se invece di costruire si fosse semplicemente adattato l’ambiente preesistente – delle composizioni floreali – riesco a vederne ancora il porpora del pigmento scontratosi con un taglio di luce obliquo – il pavimento è ricoperto anche da escrementi – dico escrementi per davvero – lì dal fondo dove mi trovo uno scorcio attraverso l’ingresso, aldilà del verde e tutto il paesaggio con i clivi, distinguo il blu del mare – un contesto immobile – equilibrato – in armonia – lascio la grotta prima che mi crolli tutto in testa – le radici dei fichi infatti bucano il soffitto e avvolgono la struttura rendendola completamente instabile – un gregge di pecore all’esterno – aspetto che il pastore le conduca in un recinto per farmi trasportare da una qualche altra parte

dì – il parcheggio del porto – non sembrerebbe – un porto diverso – uno grosso dove scaricano navi piene di container – lo scalo commerciale – è pieno di ammazza zanzare – quelle racchette che danno la scossa – questo mi ricordano – i poliziotti sparano coi teaser alla gente – recinzioni – recinzioni elettrificate – le navi continuano a partire come niente fosse – la gente continua a pensare ai problemi propri – qua fuori nel parcheggio, invece non è affatto come niente fosse – folate di fumo, a ondate investono tutto davanti a noi – però solo a ondate, dipende dal vento – perciò a tratti scorgiamo di fronte e quelli a tratti ci scorgono – teloni di gomma, di quelli che usano nelle fiere – ce ne sono di blu e di tutti i colori – vengono issati sui cancelli – ci sono diverse file di cancelli, perciò ne servono ancora – ne servono altri – uno di solito pensa una nave non può partire e basta come fanno certe linee della metro alla fine dei concerti, che smettono di controllare quanta gente sale, chiudono gli sportelli e procedono, tanto prima o poi i passeggeri scenderanno, tempo due o tre fermate – non è che uno si arrampica su dei teli di gomma e si lascia scivolare stile acqua park a due o tre dita dall’alta tensione, giù verso file di – come si chiamano – polizia di frontiera, portuale – che attendono con gli arpioni puntati – quasi fosse una roba da niente – uno pensa non è che va, brucia le cose e passa oltre, trattando il fuoco come una sorta di strano passepartout per ovunque, il fuoco e il vento – uno dice non funziona così, non è così semplice – non è che prende, va e scaglia bombe incendiarie contro i tipi portuali – che tra l’altro quelli non sono arpioni, sono dardi, sono fucili narcotizzanti – sì, non funziona in questo modo, non va là, dispiega una grossa rete da pesca colorata arrotolata di lungo, con le estremità legate a dei razzi pirotecnici, accende i razzi e lascia che la rete si srotoli e si distenda in alto, molto in alto, verso la folla di tizi costieri e rimane a vedere come un pezzo alla volta si aggroviglino da soli nei gangli, si stipino e cadano a terra a grappoli, nel contempo che una folla di esseri latranti e dimenanti quasi non fossero più individui, ma neanche fiere, si proiettino a frotte verso l’ostacolo successivo, tra i rossi e i blu dei fuochi pirotecnici e colonne fumarie di colori diversi, superando cataste di scudi di gomma e caschi con dentro delle persone, persone vere – non so neanche che lingua parlino – tanto fa lo stesso – va a finire sempre così – uno si immagina enormi apparati, strutture gigantesche, ordini di enti dalle dimensioni e dai poteri immani – e poi li vede sfaldarsi, li vede come li vedo io adesso, dissolversi in un niente, un momento di indecisione – palazzi enormi, strade infinite, milioni di persone al sevizio, impilarsi e inciampare gli uni sugli altri – da sé – senza che uno abbia fatto chissà cosa – ci sono solo passato attraverso – mi sono solo avvicinato – lasciatomi trasportare – apprestato a un fuoco, una sera, su una spiaggia – che tirava vento e non avevamo niente da fare – alimentato delle fiamme – intrapreso una corsa intorno a un punto, proseguito in giro per la città, fino alla fine delle cose, la fine della terra, il livello del mare. Che mi passano di fianco sfreccianti questi che eravamo noi la sera scorsa, ero io, loro sono io. Supero oggetti, strutture, agenti, scavalco container, certi si introducono all’interno intanto che ancora vengono issati, ci ergiamo sulla cima delle cose, sulle gru e le impalcature gialle, per lasciare che il nostro occhio giunga lontano, oltre gli impedimenti, nel momento in cui oasi luminose si azionano sullo sfondo. Dove vanno a finire le creature ormai gettate via? Forse esattamente nel punto in cui convergo io adesso, noi, su un cargo colmo di container. Un tale suppone “non può certo arraffare e congedarsi di tale maniera”, e invece salpiamo così, intrisi di polvere e nudi per metà, carichi di ferite e contusioni. Si pronuncia spesso la frase esemplare, si fa una proposta insolita e qualcuno aggiunge “credi nessuno abbia mai tentato?”, ed insiste “presume di sbrigarsela in questo modo”, già, nel modo in cui me la sono sbrigata io. Persevera anche con la nave distante, solitaria, senza capitano e senza marinai, se mi sforzo lo scopro ancora lì, sulla riva che sogghigna, distinguo ancora le sue labbra schiudersi “è arrivato il genio”. Quasi si dovesse necessariamente mettere tutto prima per iscritto, sottoporlo al vaglio della critica e dell’opinione, all’esamina di un talk show animato da tuttologi a basso costo buoni a rappresentare la media di qualcosa, possedere un progetto, ultra dettagliato, categoricamente, come se uno non potesse semplicemente emigrare e vedere dove approdasse, evitando di prefiggersi una meta, una tabella di marcia, essere componente, non lasciandosi rinchiudere in contenitori, scatole e tessere di partito, diventare elemento di una marea, organismo di una distesa di plancton, corallo di una barriera, fenicottero di uno stormo rosa e bianco, esteso, di cui non si scorge capo né coda, che si poggia su di un lago d’acqua salata, il quale non si intende sia vero e proprio suolo o solo una continuazione del cielo, se lo stormo sia atterrato o stia ancora volando. Dinnanzi ho una bella fetta di mare. Sogno popolazioni del sud est asiatico, nel tremila e cinquecento avanti cristo, piccoli gruppi su imbarcazioni rudimentali che presero il largo. Se avessero dovuto conoscere un percorso esatto o avere una destinazione precisa non sarebbero mai salpati, invece tutto sommato arrivarono. Nuova guinea, figi, nuova zelanda, isola di pasqua, madagascar, non mossi da sete di conoscenza, cercarono solo un posto dove respirare. Studiarono il moto della corrente, il volo degli uccelli per sapere dove trovare terra ferma, usarono il poco che avevano a disposizione, il poco che sapevano. Ogni tre o quattro di quelle barche fondarono dei mondi sconosciuti, diedero vita a nuove lingue, società ignote. Adesso li consideriamo residui di qualcosa che dovrebbero essere ma non sono. Se torneremo ad ostentare invadenza con i nostri bicchieri di materiale organico e creme a basso impatto ambientale, loro isseranno da capo le vele. Approderanno su taluni atolli di plastica galleggiante dove nessuno metterà mai piede. Residui del nostro mondo, scarti. Intraprenderanno l’avventura di nuovo, solo per poter riprendere fiato, solo per un po’ di spazio, un pezzo di spiaggia priva di gommoni e di fari che li invitino a rincasare. Una collocazione presso la quale sentirsi liberi di non costruire una carriera, non montare relazioni. Approdati su qualsiasi sponda improvviseranno palafitte e la chiameranno casa. Il dì sarà come la sera ed i giorni non trascorreranno nell’attesa di un evento. Non desiderare altro che diventare parte di una incessante espansione, movimento migratorio millenario, storia sprovvista di inizio e attracco, che si dissipa attraverso le ere. Successione di eventi semovente su di una linea circolare, non orizzontale. A forza di apporre accadimenti rilevanti, non si deduce ormai più a partire da quale si sia dato inizio al conteggio. Quale sia stato il primogenito tra loro, quasi non interessasse. Viaggiare lungo una direttrice tracciata attorno una gigantesca montagna tondeggiante dalle imponenti pareti spuntata fuori dal nulla al centro di una pianura completamente spianata. Una montagna sacra. Dove non piove mai ed i graffiti e le pitture tracciate su essa si trovano lì a partire da un momento qualsiasi nell’asse temporale identificato come sempre. Uno scorrere magico in cui i viventi coabitano con gli antenati e gli avi tramite disegni fatti come se non appartenessero a qualcuno. Ognuno prolunga le linee e le forme dell’altro, sino a non essere più plausibile ricondurli ad un autore, intuirne il dominio. Pitture che illustrano l’espandersi di una specie, il suo percorso evolutivo. Tra tutte quelle impronte bianche e nere, rivediamo la nostra, traccia di uno di questi organismi, unità infinitesimale di evento biologico che ha generato l’insieme, fissa in perpetuo, associata con una circonferenza scevra di soluzione di continuità, un affresco di proprietà di nessuno, il disco di una eredità genetica. Apparteniamo a quel disco. Ruota stregata, millenaria, senza cima né radici. Che gira su sé stessa all’infinito. Se finanche laggiù non dovesse restare spazio, ebbene leveremo l’ancora daccapo, con pochi strumenti, il poco che sapremo, diretti su osservatori orbitanti fatti di rimasugli di satelliti vecchi e ossidati, sui quali nemmeno un abitante sosterebbe, ad esporre maglie da recupero nel pelago spaziale appositamente per catturare scorie alimentari in prossimità di rotte per pianeti più attraenti. Issare trabucchi dedicati a lenzare container pieni di cibo destinati alla terra. Ammireremo il creato ormai celato da luci, strade e palazzi. Spiegheremo le vele e trasmigreremo, adagio areneremo nei pressi di un lido vergine, sito remoto e escluso dalle mappe europee, quantomeno per il prossimo migliaio di anni, paraggi dove prendere un ultimo fiato. Sottovalutare norme di sicurezza e piani di fuga. Sprecare i nostri giorni invece che investirli. Rinunciare ad accumulare nozioni e a partecipare all’idea di progresso. Essere niente, essere non consapevolezza di sé. Memoria della propria persona smarrita. Circuiti e schede madri che comunicano l’assenza alla velocità della luce. Vacuità è ciò che ci lasciamo a ridosso. Aldilà del presente ancora, a favore di un astro detto sirio, mondo che circumnaviga sistema binario con due soli, ove non v’è mai veramente notte o giorno. Inverosimile che possa esistere. Riaccendersi nella stella dove ci si è accesi, rimettersi in moto riconducendosi a casa. Illustrazioni sprovviste di tecnica, ad occhi chiusi, gesticolate forsennatamente sul muro e contemplare poi uno scarabocchio, esattamente come immaginato, ma allo stesso tempo diverso da quello accanto. Così esso diviene simbolo, significato. Estensione di sé. Eppure incognite restano il modo in cui è scaturito l’atto e il suo obiettivo.

*

Marco Florio nasce a San Severo nel 1989, si diploma in belle arti nel 2018, scrive dal 2020, attualmente specializzando presso l’accademia albertina.

 

Photo by Ian Simmonds on Unsplash

 

Una lettera di Niccolò Machiavelli sull’«amore»

0

di Niccolò Machiavelli

{Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dalle Lettere di Niccolò Machiavelli, Salerno editrice, nell’edizione diretta e coordinata da Francesco Bausi. Il volume raccoglie, in tre tomi, il carteggio privato di Niccolò Machiavelli, comprendente 82 lettere sue e 272 missive di corrispondenti. Si tratta di testi che apportano un contributo determinante per la conoscenza della biografia, della personalità e della cultura di Machiavelli, oltre che della storia fiorentina e italiana nel primo quarto del XVI secolo.

L’estratto che segue è la lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 25 febbraio 1514. Spiega Francesco Bausi nella nota introduttiva: «A suggello di [una] sezione comico-erotica del carteggio col Vettori, che occupa due mesi tondi (dal 24 dicembre 1513 al 25 febbraio 1514), M. gli invia un’epistola occupata pressoché per intero da una gustosa “novella” che ha per protagonisti i due comuni amici Giuliano Brancacci e Filippo Casavecchia […]. Su un piano più generale questa lettera non fa che sviluppare e concludere l’argomento delle precedenti, confermando con l’efficacia di un vero e proprio exemplum il loro assunto fondamentale, vale a dire l’ipocrisia, l’inutilità e l’innaturalità tanto di qualunque contrapposizione ad excludendum fra amore etero- ed omosessuale, quanto – come si ripete, alla fine, anche qui – delle remore morali e sociali che frenano il libero dispiegarsi della passione erotica. […] Pezzo di bravura superlativo del M. “comico”, la «metamorfosi» del Brancacci si colloca a pieno titolo fra le sue più riuscite prove letterarie. Con la Favola di Belfagor, con la novelletta della vecchia veronese […] e con la Mandragola, essa condivide i temi, specialmente a lui cari e congeniali, dell’inganno, del travestimento, del doppio e dello scambio di persona».

Il testo è riportato senza le note critiche dei curatori: per quelle rimandiamo al volume originale.}

***

Magnifico oratori Florentino Francisco Vettorio apud Summum Pontificem suo observandissimo. Rome

Magnifico oratore, io ebbi una vostra lettera dell’altra settimana, e sono indugiatomi ad ora a farvi risposta, perché io desideravo intendere meglio il vero di una novella che io vi scriverrò qui dappiè; poi risponderò alle parti della vostra convenientemente. Egli è accaduto una cosa gentile, ovvero, a chiamarla per il suo diritto nome, una metamorfosi ridicola e degna di essere notata nelle antiche carte; e perché io non voglio che personasi possa dolere di me, ve la narrerò sotto parabole ascose.

Giuliano Brancacci, verbigrazia, vago di andare alla macchia, una sera infra l’altre ne’ passati giorni, sonata l’avemaria della sera, veggendo il tempo tinto, trarre vento e piovegginare un poco (tutti segni da credere che ogni uccello aspetti), tornato a casa si cacciò in piedi un paio di scarpette grosse, cinsesi un carnaiuolo, tolse un frugnuolo, una campanella al braccio e una buona ramata. Passò il ponte alla Carraia, e per la via del Conte de’ Mozzi ne venne a Santa Trinita, e entrato in Borgo Santo Appostolo andò un pezzo serpeggiando per quei chiasci che lo mettono in mezzo; e non trovando uccelli che lo aspettassino, si volse dal vostro battiloro e sotto la Parte Guelfa attraversò Mercato, e per Calimala Francesca si ridusse sotto il Tetto de’ Pisani, dove guardando tritamente tutti quei ripostigli trovò un tordellino, il quale con la ramata, con il lume e con la campanella fu fermo da lui, e con arte fu condotto da lui nel fondo del burrone, sotto la spelonca dove alloggiava il Panzano; e quello intrattenendo e trovatogli la vena larga e piú volte baciatogliene, gli risquittí dua penne della coda, e infine, secondo che gli piú dicono, se lo messe nel carnaiuolo di drieto.

Ma perché il temporale mi sforza a sbucare di sotto coverta, e le parabole non bastano, e questa metafora piú non mi serve, volle intendere il Brancaccio chi costui fosse; il quale gli disse, verbigrazia, essere Michele, nipote di Consiglio Costi. Disse allora il Brancaccio: «Sia col buono anno, tu sei figliuolo di uno uomo dabbene, e se tu sarai savio, tu hai trovata la ventura tua: sappi che io sono Filippo da Casavecchia, e fo bottega nel tal lato; e perché io non ho danari meco, o tu vieni o tu mandi domattina a bottega, e io ti satisfarò». Venuta la mattina, Michele, che era piú presto cattivo che dappoco, mandò un zana a Filippo con una polizza, richiedendoli il debito e ricordandoli l’obbligo; al quale Filippo fece un tristo viso, dicendo: «Chi è costui? O che vuole? Io non ho che fare seco; digli che venga a me». Donde che, ritornato il zana a Michele e narratogli la cosa, non si sbigottí di niente il fanciullo, ma animosamente andato a trovare Filippo, gli rimproverò i benefici ricevuti, e li concluse che se lui non aveva rispetto ad ingannarlo, egli non arebbe rispetto a vituperarlo; tale che, parendo a Filippo essere impacciato, lo tirò drento in bottega e li disse: «Michele, tu sei stato ingannato; io sono uno uomo molto costumato, e non attendo a queste tristizie; sí che egli è meglio pensare come e’ s’abbi a ritrovare questo inganno, e che chi ha ricevuto piacere da te ti ristori, che entrare per questa via, e senza tuo utile vituperare me. Però farai a mio modo; andra’tene a casa, e torna domani a me, e io ti dirò quello a che arò pensato». Partissi il fanciullo tutto confuso; pure, avendo a ritornare, restò paziente. E rimasto Filippo solo, era angustiato dalla novità della cosa, e, scarso di partiti, fluttuava come il mare di Pisa quando una libecciata gli soffia nel forame; per che e’ diceva: «Se io mi sto cheto, e contento Michele con un fiorino, io divento una sua vignuola, fommi suo debitore, confesso il peccato, e di innocente divento reo; se io niego senza trovare il vero della cosa, io ho a stare al paragone di un fanciullo, hommi a giustificare seco, ho a giustificare gli altri, tutti i torti fieno i mia; se io cerco di trovarne il vero, io ne ho a dare carico a qualcuno, potrei non mi apporre, farò questa inimicizia, e con tutto questo non sarò giustificato».

E stando in questa ansietà, per manco tristo partito prese l’ultimo; e fugli in tanto favorevole la fortuna, che la prima mira che pose, la pose al vero brocco, e pensò che il Brancaccio gli avesse fatto questa villania, pensando che egli era macchiaiuolo, e che altre volte gli aveva fatto delle natte, quando lo botò a’ Servi. E andò in su questo a trovare Alberto Lotti, verbigrazia, e narratoli il caso e déttoli l’oppenione sua, e pregatolo avesse a sé Michele, che era suo parente, vedesse se poteva riscontrare questa cosa. Giudicò Alberto, come pratico e intendente, che Filippo avesse buono occhio, e, promessoli la sua opera francamente, mandò per Michele, e abburattatolo un pezzo, li venne a questa conclusione: «Darebbet’egli il cuore, se tu sentissi favellare costui che ha detto di essere Filippo, di riconoscerlo alla boce?». A che il fanciullo replicato di sí, lo menò seco in Santo Ilario, dove e’ sapeva il Brancaccio si riparava, e faccendogli spalle, avendo veduto il Brancaccio che si sedeva fra un monte di brigate a dir novelle, fece che il fanciullo se gli accostò tanto, che l’udí parlare; e girandosegli intorno, veggendolo il Brancaccio, tutto cambiato se li levò dinanzi: donde a ciascuno la cosa parse chiara, di modo che Filippo è rimaso tutto scarico, e il Brancaccio vituperato. E in Firenze in questo carnasciale non si è detto altro, se non: «Se’ tu il Brancaccio, o se’ il Casa?»; «et fuit in toto notissima fabula celo». Io credo che abbiate aúto per altre mani questo avviso; pure io ve l’ho voluto dire piú particulare, perché mi pare cosí mio obbligo.

Alla vostra io non ho che dirvi, se non che seguitiate l’amore totis habenis; e quel piacere che voi piglierete oggi, voi non lo arete a pigliare domani; e se la cosa sta come voi me l’avete scritta, io ho piú invidia a voi che al re di Inghilterra. Priegovi seguitiate la vostra stella, e non ne lasciate andare un iota per cosa del mondo, perché io credo, credetti e crederrò sempre che sia vero quello che dice il Boccaccio, che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi.

Addí 25 di febbraio.
Niccolò Machiavelli in Firenze