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Il quinto (metaletterario) capitolo di “Golden Gate” di Vikram Seth

1

[i capitoli precedenti si trovano qui, qui, qui e qui ]

5.1

Una settimana fa, terminato
il capitolo che avete appena letto,
e, con impegno sempre immutato,
creato ciò che avrei in seguito detto,
un editore – a una festa elegante
(con buon vino, cibo, chiacchiere tante)
ospitata da (viva!) Thomas Cook,
dove fu celebrata, e forse più,
la mia guida del Tibet – mi fa: “Senti,
il prossimo libro?”. “Un romanzo…”. “Bene!
Speriamo che tu, mio caro Seth me ne-”
“…in versi”. Si fa giallo. Mostra i denti.
“Che meravigliosa… eccentricità!”
E fingendo distacco, se ne va.

Biondo 901

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di Merisi
 

Mettiti comodo e schiaccia il tasto play. Lo schermo è nero, per diversi secondi, poi dalle casse arriva qualcosa.  Un rumore basso, cadenzato, che aumenta d’intensità, ti colpisce in pieno. E’ qualcuno che ansima forte.  Nessuna immagine e solo questo respiro che inquieta. 

La cultura non è un prodotto come gli altri

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Chi l’ha detto?

Uno scrittore è produttivo non nella misura in cui produce idee, ma nella misura in cui arricchisce l’editore che pubblica le sue opere.

Soluzione à suivre (a seguire)

Micro-mondi /Paolo Mastroianni

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Foto: Miles Davis

NOIA
di
Paolo Mastroianni

Seduto nell’assoluto silenzio dell’oscurità della stanza, si manteneva la testa martellata da dolore fittissimo. Lucide e nere, le mani tiravano al lato la pelle del volto formando decine di striature: piccole fasce dilatate e ammassate, favorite dalle rughe nascenti. E poi sentiva un’infinita stanchezza! Non dormiva da giorni.

Con estrema lentezza, le palpebre chiuse, ruotò la testa, e nel giro, rivolse verso l’alto la fronte: come senza speranza testasse di allontanare il capo dal corpo, svincolandolo almeno da quel mal di collo tremendo. Invece, lungo il percorso, si scontrò con un nervo. Un impulso lancinante inchiodò i suoi centri nervosi. Senza riaprire gli occhi dischiuse le labbra, spalancò la bocca in una smorfia di acuto dolore… con la stessa lentezza, con lo stesso ritmo plastico del giro. Ma riuscì a non urlare: ne aveva avuto l’istinto, ma non aveva ceduto. E poi soffrire quel giorno era un fatto normale.

Dopo l’addio

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di Carlo Capone 

Mamma è scivolata dal letto all’alba di ieri. Anche io, ma erano le sei di stamani. Don Saverio, il beccamorto del primo piano, ha bussato così forte da lasciarmi stordita: sogno o lancio di immondizia in cortile? Se ti trovi in quel limbo di vita e di niente che è il dormiveglia ci può anche stare. Voglio dire di prendere le busse a una porta per tonfo di sacchetto. A questo ho pensato al principio e perciò ho cambiato posizione, da lato finestra a fronte all’ingresso. E qui ho beccato l’altro schiaffo, una botta di palmo al gusto di scasso e condita di stizza per sonno affanculo.

Vincenzo e la diossina

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Vincenzo Cannavacciuolo e le pecore decimate dalla diossina

testo e foto di Eduardo Castaldo

Io, pedofilo (Memoriale del Processo)

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di Marco Rovelli

1.

Mi hanno chiamato a casa. E’ la cooperativa. Oggi non andare a lavorare, mi hanno detto. Sono rimasto sorpreso, ho chiesto perché. Perché no. Non mi hanno detto altro. Dopo qualche ora mi hanno richiamato, Nei prossimi giorni non andare a lavorare. Il motivo è sempre lo stesso, Perché no. Ho cominciato a perdere l’equilibrio, il respiro è caduto verso il basso. Ho chiamato i responsabili della cooperativa. Nessuno si è fatto trovare.
Non capisco. Non c’è ragione perché mi sospendano dal lavoro senza dirmi niente. Se fosse malato Luca, non ci sarebbe ragione per non andare da Matteo. Se fossero malati tutti e due, non ci sarebbe ragione di non dirmelo. E poi la voce reticente di chi mi ha annunciato la sospensione degli affidi parla chiaro. C’è un’accusa su di me. E non mi si dice quale.

Roberto Bolaño. Come salvare la pelle senza rinunciare alla poesia

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Nuova Prosa 46di Massimo Rizzante

[…]

Bisogna partire dal fatto che Roberto Bolaño si considerava un poeta.
Aveva pubblicato cinque invisibili plaquettes prima del 1993, prima cioè che, a quarant’anni, cominciasse la sua vera storia di romanziere (in seguito sono apparse due raccolte, intitolate rispettivamente Tres [Tre] e Los perros romanticos [I cani romantici]. La prima uscì nel 2000, mentre la seconda è stata pubblicata postuma nel 2006).

Scrivere al computer tra cancellature e versioni

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di Vincenzo Della Mea

E’ interessante osservare ciò che dall’informatica filtra verso la letteratura per almeno tre ragioni. La prima è che, come osserva Giuseppe O.Longo in “Homo technologicus” (Meltemi, 2001), sta avvenendo una trasformazione da homo sapiens a homo technologicus, in quanto la tecnologia che produciamo va a modificare l’ambiente in cui viviamo, e questo a sua volta vincola il processo evolutivo dell’uomo. Poiché parte di questa tecnologia è quella che deriva dall’informatica, ci si può aspettare che l’homo technologicus cominci a lasciare tracce scritte su di essa, come ha fatto l’homo sapiens segnando il passaggio da preistoria a storia.

La morte silenziosa di un clandestino

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di Marco Rovelli 

Era un rumeno, e dunque non più clandestino, ma la clandestinità è una condizione esistenziale che ti rimane appiccicata addosso. Feodor è morto a 39 anni, sotto gli ulivi, schiacciato da un trattore nelle campagne intorno a Cerignola, in contrada Racucci Secondo per la precisione, lungo la provinciale 95. La moglie gli stava a pochi metri, zappando. Il trattore si è ribaltato, e Feodor è caduto nel canale che costeggiava il terreno. E’ come se Feodor fosse morto di due morti: schiacciato e affogato.

L’ultima religione

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di Valter Binaghi

(Adattato da: Robinia Blues, Dario Flaccovio Editore, 2004)

Alle ringhiere del metro accendo una sigaretta e mi fermo ad osservare la fiumana, come un cineasta in pensione. L’ora del tramonto rovescia sul corso casalinghe in libera uscita, drappelli impiegatizi e ciurmaglia adolescente in cerca d’amore.

Bestiario: Paolo Trama

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disegno di Andrea Pazienza
Animalità e fantasmi della scrittura:l’an(t)imetafora
di
Paolo Trama

In un certo senso, se lo scrittore è colui che spinge il linguaggio al limite, limite che separa il linguaggio dall’animalità, dal grido, dal canto, allora sì, bisogna dire che lo scrittore è responsabile di fronte agli animali che muoiono, responsabile degli animali che muoiono. Scrivere, non per loro, non si scrive per il proprio gatto o per il proprio cane, ma al posto degli animali che muoiono, significa portare il linguaggio a questo limite. E non c’è letteratura che non porti il linguaggio e la sintassi al limite che separa l’uomo dall’animale. Bisogna stare su questo stesso limite. Credo… Anche quando si fa della filosofia. Si è al limite che separa il pensiero dal non-pensiero. Bisogna sempre essere al limite che separa dall’animalità, ma appunto in modo da non esserne più separati. C’è un’inumanità propria al corpo e allo spirito umano, ci sono dei rapporti animali con l’animale.1

Nelle battute conclusive della voce ‘animale’ del suo Abecedario, così Gilles Deleuze illumina quella vertigine regressiva che spinge la scrittura al suo limite, ovvero sulla soglia che separa il linguaggio dall’animalità, dal grido, dal canto: «non c’è letteratura che non porti il linguaggio e la sintassi al limite che separa l’uomo dall’animale», sul confine dove l’umanità si separa dall’animalità, «ma appunto in modo da non esserne più separati».

Da “dio il macedone”

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di Tiziana Cera Rosco (inedito)

Dopo il confine

Guardandomi indietro
vidi le montagne
il contorno elettrico della morte precedente
ma il primo piano era la polvere
l’uguaglianza sottile del terrore
all’impatto col carbonio.
Se il pianeta fosse esploso sotto coleotteri giganti
se fosse scoppiato
come un bicipite in un talco di sangue
ora vagava glabro ad un’era successiva
e mi tenevo a te
più forte dell’angelo scardinato senza scapole
strappavo le sue ali grasse di maiale
contaminavo il donarti quello scuoio con le mani
aver picchiato tutto il lardo
fino all’ordine interno del mio braccio.
Mi pulivi il muso con il palmo
risaccato nella stoffa il seno
quando ti guardavo negli occhi una robusta capitale

sarei stata la tua spada, il tuo Astarte

io che vedevo dietro di te sempre
la forma scritta della polvere
rapprendersi nei mitra, elicotteri
fracassarti il cranio nell’immobile
ma il primo piano era la tua presa su di me
il farti trapassare a sguardo fisso
e stare illeso nella bambina che da generazioni si adempiva
frustando ad un’era successiva
il bisogno di chiedermi

come sono morta.

Il letto di Procuste e la Cura Ludovico #3

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di Giorgio Vasta

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Seconda intervista sull’editing e il sistema editoriale. Le sei domande sono sempre le stesse dell’altra volta. Le risposte sono di Giulio Mozzi, curatore della collana Indicativo Presente per l’editore Sironi e del progetto editoriale vibrisselibri.

Proviamo a partire da una definizione secca: che cosa si intende per editing?

Non so che cosa “si intenda”. So che cosa intendo io. (Di definizioni ne ho sentite tante, e nessuna mi soddisfa). Intendo: un lavoro che inizia nel momento del primo contatto tra l’autore e l’editore, e termina quando si manda in stampa. In questo lavoro l’autore e l’editore possono avere lo stesso scopo, o scopi diversi. Il caso in cui gli scopi sono diversi non mi interessa (e non dovrebbe neanche esistere, secondo me: ma esiste, e se esiste è perché l’autore o l’editore o entrambi sbagliano).
Ovviamente la situazione ideale è quella in cui l’opera proposta all’editore è tale, che l’editore può solo fare un inchino di rispetto.

Nella mia ora di libertà

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Oggi è il 25 aprile e non riesco a pensare – malgrado i 62 anni trascorsi – che sul blog non ci sia un segnale di questo. Vi propongo il testo di una delle canzoni di Fabrizio de André che preferisco. Basta leggerla e si capisce subito che non sia tra le più trasmesse e frequentate. Altro che Marinella e Bocca di rosa. Andrebbe frequentata di più, e c’entra col 25 aprile. (Forse qualcuno più abile di me potrebbe inserirci anche la musica.) a.s.

Nella mia ora di libertà

Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà,
se c’è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l’aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione,
che non sia l’aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione.

Il primo ricordo al mondo

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di Christian Raimo

Il primo ricordo al mondo
è quello di mio nonno a un anno
che si ricorda di sua madre partoriente
seduta su uno sgabello in bagno
con una bacinella al fianco.
È una medusa con le mignatte in testa
e le pietre bollenti sotto i piedi
per farle fluire verso il basso il sangue,
verso la terra dalla quale venne.

Cho, Ntuyahaga

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di Andrea Raos

La scorsa settimana ho passato qualche giorno a Montreal, invitato ad un incontro di scrittori attorno al tema della “confessione” (“l’aveu”, cioè non la confessione cristiana ma quella diciamo, in senso lato, giudiziaria). Non ero invitato a parlare ma solo a leggere qualche poesia e a partecipare, se volevo, al dibattito sugli interventi altrui. In pratica, ero in vacanza.

Nelle pause dei lavori, in albergo, guardavo la televisione.

Con in testa il tema della confessione, intontito dal fuso orario, ho visto scorrere rapidissime le immagini iniziali del processo appena iniziato a La Haye contro Bernard Ntuyahaga, uno degli attori del genocidio rwandese.

Soprattutto, molto più lentamente, ho assistito in diretta su CNN al massacro che ha avuto luogo in quell’università in Virginia e poi, da quando sono stati recapitati a NBC e da lì catapultati sul mondo, ho rivisto e riascoltato mille volte le foto e i video di Cho Seung-hui.

Le immagini e le idee si sono fuse.

Una puntata per Welby

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di Francesca Serafini

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Negli ultimi quattro anni ho ucciso un centinaio di persone. Ho violentato bambini comprati su internet. Ho cambiato sesso, in segreto, e ho rischiato di finire dentro per custodire quel segreto. Ho fatto a pezzi una ragazza per nascondere un aborto clandestino andato male. Ho ucciso uno che non c’entrava niente perché l’ho scambiato per un altro. Ho venduto valvole cardiache difettose per guadagnarci di più. Ho nascosto rifiuti tossici di cui gestivo il traffico. Una donna che abitava nei paraggi si è ammalata di tumore. Io ho ucciso il marito perché lo voleva denunciare. Ho dato soldi in usura e una lezione a chi non rispettava le scadenze. Ho portato a battere un certo numero di puttane. Ho spacciato roba buona e ho spacciato roba cattiva, guadagnandoci gli stessi soldi; e poi ho ammazzato uno che l’aveva scoperto e voleva sputtanarmi su un fumetto. Ho ucciso per soldi, per vendetta, per precauzione. Qualche volta per amore. Ho rubato, truffato, rapinato, violentato. Mi sono data un sacco da fare.

Juke box / Carmela

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[l’ascoltavo oggi – questa ed altre splendide canzoni interpetrate da Guglielmo Chianese in arte Sergio Bruni – mentre scrivevo una cosa. M’è venuta voglia di condividerla. G.B.]

parole del poeta Salvatore Palomba musica del maestro Sergio Bruni

dal romanzo “Autoreverse”

10

di
Francesco Forlani
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Scena terza

Quel che ho visto al principio è stato un hangar . Pare che avessero penato non poco quelli del Demanio per trovare un luogo abbastanza grande da poter contenere il fondo manoscritti di Pavese. Una massa di dattiloscritti, libri, carteggi, che un’onda di fango aveva travolto nel novembre del 1994, durante la terribile alluvione, a Santo Stefano Belbo.

Volontari accorsi da ogni angolo del Piemonte si facevano coordinare, organizzare, assegnare all’ingrato compito di contabilizzare il male, cifrare l’entità del disastro. E nella realizzazione del lavoro sporco trovavano il mordente covando in sé un odio innato verso l’oblio. Ci sono distruzioni della memoria dei luoghi che sono pianificate, come una retata di polizia gettata sul mare delle infrazioni. O quando i signori radevano al suolo le roccaforti del dissenso e vi gettavano il sale delle delazioni, proprio mentre i carri dei vincitori portavano via dagli archivi ogni memoria dei vinti.

L’energia

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di Antonio Sparzani

Come ci riferisce Diogene Laerzio (III sec. d.C.), allorché nelle sue Vite dei Filosofi parla del grande Epicuro (IV-III sec. a.C.), nell’antichità, ma anche – aggiungerei – poi nel Medioevo, si dibatteva del singolare tema se il piacere fosse connesso necessariamente col movimento o se consistesse semplicemente nell’assenza di dolore (piacere catastematico, ovvero calmo e stabile). Diogene osserva che, a differenza dei Cirenaici che “non ammettono il piacere catastematico, bensì soltanto quello che consiste in un movimento”, Epicuro li “ammette entrambi, quello della mente e quello del corpo”. E infatti, entrando poi nel merito della dottrina epicurea, Diogene cita esplicitamente la seguente affermazione di Epicuro: “Infatti, l’imperturbabilità e l’assenza di dolore sono piaceri catastematici, mentre la gioia e la letizia sono viste come piaceri in movimento e in azione” (1). Questa locuzione “in azione” è, nell’originale, energeìa(i), dove la parola vale ‘attività’,(2) qualcosa comunque di dinamico. Deriva ovviamente da érgon, opera, impresa, dalla stessa radice indoeuropea che ha dato luogo al tedesco Werk e all’inglese work, tanto per dire.