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Da “Materia madre”

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[Per la collana “Manufatti poetici” di Zacinto edizioni, presentiamo degli estratti di materia madre (versione minima), uscito all’inizio del 2025.]

 

di Barbara Giuliani

 

Da rizoma:

 

non esiste una nota a margine.

questo è il margine:
una operazione geometrica
in cui calcoliamo l’aria di un cilindro
trenta per cinque.

c’è un uomo in un sito on line
che cerca di comprare uno spargifoglie e
non ha un giardino.

non sappiamo dove siamo, forse
in un paese a bassa densità demografica,
con un tasso di natalità allo zerovirgolatrepercento.

quando sei in un cilindro
il mondo diventa chiave e porta,
tessera sanitaria e cup,
biglietto per lo stadio e curva,
tutto nello stesso punto idrogeografico.

le stagioni si confondono,
si prestano le temperature,
si scambiano favori idraulici e
non hai paura che un raccolto possa andare a male.

il sole e la luna sono:
onnipresenti;
vengono vessati e idolatrati,
simboli di una religione extracorporea.

il giorno e la notte sono:
miscelati;
abbiamo creato un grigio perenne,
unica ambientazione per vivere o morire,
non ci si reincarna.

 

*

Da cartilagine:

 

– scrivi un verso erotico –

spalanca la mia fica, per vedere cosa sia rimasto di me,
oltre le piccole scorie degli uomini passati sul mio ventre.
lecca i margini del mio scrivere per rendere potabile
la carne che corre dentro il mio essere mostrato
al mondo nella forma più comune a cui siamo abituati:
un essere umano.

– il cameraman si è bendato gli occhi –

il rumore è diventato un suono continuo e sottile,
a settantanove metri dalla mia postazione di vita.
una trota sta morendo in un fiume a
ottocentocinquantacinque metri di altitudine.
la signora elena è arrivata al cimitero
sulla tomba di suo marito.

– il cameraman non riesce a inquadrare
nitidamente la lapide –

lo chiameremo mario, per comodità,
a noi non interessa, ma sembra doveroso saperlo.
a syracuse sono le undici di mattina del diciotto luglio,
non specificheremo l’anno, per avere queste informazioni
riproponibili ogni volta in cui ne avremo bisogno.
ci sono cose che non hanno data di scadenza, tu
qui vuoi degli esempi:
l’amore di un criceto per la sua compagna.
una zolla di terra dell’irpinia e
un cornicione di un tempio buddista.

l’insalata mista va condita con l’aceto,
non si discute.

*

Da pigmento:

 

appendice.

preghiera contro la madre.

non chiedere di venire al mondo
a un figlio sconosciuto,
a un corpo ipotizzato negli strati,
a un agglomerato non urbano
di vendicare la tua terra.

lascia cadere in rovina il tuo grembo,
gettalo in un campo di ortiche in cancro,
rovinalo con relazioni violente, livide e sbottonate.

non perdere tempo nella tua giovinezza e
nella tua vecchiaia a cercare un nome
memorabile da poter piangere.

termina madre la ricerca di un dolore,
eliminato dal mio non esserci.

non ti affaticare a trovare
una soluzione nascente,
qui tutto è morto,
già diagnosticato e nessuno ti chiede
perdono, per esserci o non
stata.

smettila di sistemare la tua vita,
per accoglierne un’altra
che non vuole condividere con te
nemmeno lo spazio di una tregua.

arrenditi madre,
al danno epocale
che siamo stati capaci di creare,
ma non di debellare,
siamo una malattia atavica.

accomodati, ti lascio del rancore.

 

Carol Ann Duffy: «sono molto vicini a noi, i morti»

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di Carol Ann Duffy

È uscito per Crocetti Elegie di Carol Ann Duffy. Ospito qui alcuni estratti dal libro.

***

E poi cosa

Poi con le loro mani spezzavano il pane

salutavano soffocavano telefonavano colpivano cucivano

 

Poi con le loro mani stanche si lasciavano cadere

su un tavolo tenendosi la testa

 

Poi con mani gioiose ne afferravano altre

o fugaci accarezzavano la carne in un letto accogliente

 

Poi con le loro mani sulla vanga

seppellivano i morti.

 

***

 

Racconto d’inverno

Racconta di come lei stia bene tra queste braccia;

il battito del suo cuore sul mio, sinonimo;

il mondo un piccolo spazio; lenito

ogni dolore; inspira, espira,

l’amore al posto della morte, speranza,

al dolore carne al posto della pietra; il mio verso – Oh

è calda! – incantesimo, benedizione, preghiera,

sortilegio; fuori dal sogno, fuori dal tempo;

presagio di incantesimi detti, giardino al posto della tomba

per farle una ghirlanda sopra questi vermi,

violette, primule, aquilegie;

si sveglia, si muove, sollecitata dal suo nome.

 

***

 

I morti

Sono molto vicini a noi, i morti;

noi nei tassì, loro nei carri funebri,

aspettando il cambio di luce.

Gli diamo la precedenza.

 

Così vicini a noi, sconosciuti in televisione;

morti di inedia, terremoto, guerra,

kamikaze, tsunami. Ne contiamo parecchi.

 

I morti famosi – doppio glamour –

compriamo la loro musica, i film, le memorie.

Oh! Elizabeth Taylor nel ruolo di Cleopatra

splendido technicolor.

 

A Venezia, vediamo i morti

trasportati verso l’isola del cimitero al di là della laguna.

Fluttuiamo con le gondole lungo i canali verdi ù

e non moriamo.

Photomaton: Carla Fracci

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di

Augusto De Luca

“Sono passati diversi anni, ma il ricordo di quell’incontro, la memoria di quel momento magico resterà per sempre. Erano i primi anni novanta, per essere precisi il 1991 e da poco era uscito in tutte le librerie il libro “Napoli Donna”, con i miei ritratti di trentasette importanti donne napoletane, accompagnati dalle interviste della giornalista Giuliana Gargiulo. Avendo avuto un notevole riscontro, io e Giuliana decidemmo di realizzare un altro libro, stavolta sulle donne di Milano, libro che però per vari motivi non fu mai pubblicato. Preparammo allora una scaletta di nomi illustri e la prima della lista era Carla Fracci. Il caso volle che dopo neanche un mese la stupenda ballerina insieme al marito Beppe Menegatti venissero a Napoli proprio da Giuliana che li ospitò. Ricordo bene infatti che la conobbi ad una cena in casa sua. Le proposi di partecipare al progetto e lei ne fu subito entusiasta. Era andato tutto bene… però la Fracci sarebbe rimasta a Napoli pochi giorni, io dovevo subito trovare una location e soprattutto decidere come fotografarla. Cominciai allora a documentarmi e a cercare…. leggendo la sua biografia capii dalla data di nascita che il suo segno zodiacale era il leone, un segno che le calza a pennello; infatti io l’ avevo sempre considerata una donna molto forte,una vera guerriera, caratterialmente e professionalmente. Mi ricordai allora che a casa della mia amica Valeria Carità, in un antico palazzo a Monte di Dio, quartiere San Ferdinando, avevo visto un grande leone di pietra. Immediatamente organizzai tutto e il giorno dopo io e la Fracci ci recammo in quella lussuosa casa. Lei era bellissima, delicata ed eterea come una porcellana cinese e indossò lo stupendo vestito merlettato che si vede nella foto. Dopo qualche prova e pochi scatti capii che avevo la foto giusta. Finalmente potevo rilassarmi. Passammo un po’ di tempo a chiacchierare e poi la riaccompagnai. La rividi a Milano perché venne ad una mia mostra fotografica al “Diaframma” in via Brera. Le diedi il suo ritratto e lei subito mi disse: ” Bella…..e poi il leone è il mio segno zodiacale”, capii di aver fatto centro.”

Augusto De Luca, (Napoli, 1 luglio 1955) è un fotografo e performer. Ha ritratto molti personaggi celebri. Studi classici, laureato in giurisprudenza. E’ diventato fotografo professionista nella metà degli anni ’70. Si è dedicato alla fotografia tradizionale e alla sperimentazione utilizzando diversi materiali fotografici . Il suo stile è caratterizzato da un’attenzione particolare per le inquadrature e per le minime unità espressive dell’oggetto inquadrato. Immagini di netto realismo sono affiancate da altre nelle quali forme e segni correlandosi ricordano la lezione della metafisica. E’ conosciuto a livello internazionale, ha esposto in molte gallerie italiane ed estere. Le sue fotografie compaiono in collezioni pubbliche e private come quelle della International Polaroid Collection (USA), della Biblioteca Nazionale di Parigi, dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma, della Galleria Nazionale delle Arti Estetiche della Cina (Pechino), del Museo de la Photographie di Charleroi (Belgio).

 

Due domande che avrei voluto fare a Mathias Énard

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Mathias Énard, foto di ©Pierre Marquès

di Davide Orecchio

Sabato 22 marzo, al festival romano Libri Come, lo scrittore francese Mathias Énard (uno dei migliori che abbiamo nei nostri anni) ha presentato il suo ultimo romanzo, Disertare (E/O 2025). Ero lì ad ascoltarlo, in una fila laterale, e mentre parlava (in italiano!) del suo libro, di Europa, di guerra, di storia e di letteratura, mi sono venute in mente un paio di domande che avrei voluto rivolgergli. Domande che non gli ho fatto. Non ho avuto né il tempo né la faccia tosta di porle quando si è aperto uno spazio di confronto con il pubblico. Allora provo a scriverle qui.

La prima domanda riguarda l’identità europea di Énard. Ho letto molti suoi libri e, quando apro una pagina di Mathias Énard, l’ultima cosa che penso è di essere al cospetto di un autore francese (ma, certo, chi magari ha in mente Il banchetto annuale della confraternita dei becchini potrebbe non essere d’accordo). Cioè, il fatto che Énard sia francese sembra davvero secondario, e dal momento che lo leggo tradotto lo sembra ancora di più. Emerge con forza, invece, un’identità cosmopolitica ed europea (oltre al talento e all’onniscienza di Énard).

Mathias Énard, foto di ©Pierre Marquès

Dai romanzi di Énard, dai luoghi narrati nei suoi libri, si potrebbe, per gioco, ricavare una sorta di mappa che espone molte città e territori: ad esempio Venezia, Barcellona, Vienna, Berlino, e poi i Balcani, Istanbul (Costantinopoli), il Vicino e Medio Oriente, l’Africa Settentrionale. Una mappa narrativa che si estende ben oltre i confini dell’Europa e dell’Unione Europea, e lambisce e illustra una grande area nella quale, con Fernand Braudel, potremmo individuare quanto resta della civiltà mediterranea.

Questa mi sembra la geografia letteraria di Énard. Ma questa è, purtroppo, una digressione rispetto a quanto scrivevo sopra, ossia al trovarci di fronte a uno “scrittore europeo” come pochi ce ne sono (un altro è Gospodinov, ad esempio). Uno scrittore transnazionale, col passaporto francese.

Allora, cerco di tornare a quella domanda. Ma devo perdermi in un’altra digressione.

Pochi giorni fa, proprio a Roma, si è tenuta una manifestazione per l’Europa che ha avuto un’eco straordinaria. Molti ne hanno parlato, molti vi hanno partecipato, in numero persino superiore alle aspettative degli organizzatori. Ci è andata un sacco di gente. Altri invece non ci sono andati, perché non si fidavano di chi l’aveva convocata e delle sue motivazioni.

Ma anche chi vi ha preso parte (io c’ero) lo ha fatto per motivi diversi. C’erano persone con le bandiere della pace, c’erano le bandiere dell’Ucraina, c’era gente (pochi per fortuna) che si aggirava con l’elmetto in testa. C’erano le bandiere della UE. Mancava però una parola d’ordine, un denominatore comune, una piattaforma condivisa. Si era lì per l’Europa, perché ci si sente e si è europei. Ma rispondere alla domanda “qual è la ragione per cui ti senti europeo?” sarebbe stato complicato per molti, e le risposte della piazza sarebbero risultate eterogenee.

La stessa Europa a 27 non sa rispondere a questa domanda. Sei europeo perché credi nella pace dopo un millennio di carneficine che i tuoi antenati hanno imposto al mondo intero e a sé stessi? Sei europeo perché tieni alle radici antifasciste sulle quali è stata costruita questa Comunità transnazionale? Sei europeo perché tieni all’antimperialismo delle popolazioni orientali, che non vogliono tornare nella disponibilità dei russi? Sei europeo perché credi in una forma di governo che vada oltre gli Stati nazionali? Sei europeo perché sei democratico? E cosa è per te, esattamente, la democrazia? In cosa identifichi le società, le culture, le democrazie europee per le quali scendi in piazza? Sei europeo perché non sei Trump, non sei Musk e non sei Putin? Un’identità si può definire anche per negazione…

E, a rifletterci un po’ sopra, questa Europa federativa e transnazionale che adesso ci sta a cuore (e che le destre europee post-fasciste invece detestano) nasce più da una negazione che da un’affermazione. Nasce dal desiderio istituzionale di farla finita con una identità militarista che, dopo mezzo secolo di guerra civile europea, restituì al mondo le macerie della WW2 e di Auschwitz. Con un tale passato alle spalle, è molto difficile riconoscersi in quanto europei senza ammettere di avere paura. Paura della Storia. Paura della violenza non sopita nelle braci di questo continente.

Ecco (alla fine è arrivata), la domanda che avrei voluto porre a Mathias Énard è:

“Se dovesse completare la frase Io sono europeo perché…, cosa aggiungerebbe? Qual è la prima cosa che le viene in mente quando ragiona sulla sua identità di europeo?”.

Poi c’è un’altra domanda, più rapida. Buona parte del romanzo Disertare è dedicata al racconto di un Paese che non esiste più, la Germania Est. Ultimamente la Ddr sta godendo di una buona fortuna letteraria. Mi sono chiesto allora se Énard abbia letto Kairos di Jenny Erpenbeck. E, se sì, che idea se ne sarà fatto?

Vedi quanta roba ti viene in mente quando ascolti uno scrittore?

La bestiola di Esenin. Dialettica di tecnica e linguaggio

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di Ezio Partesana 

So ascoltare un intero giorno, senza fare una versta,

la corsa del vento e il passo d’una creatura,

perché nel mio petto, come in una tana,

si voltola la calda bestiola dell’anima.

                                                  (Esenin, Pugačēv)

La linguistica degli ultimi cinquanta anni è ossessionata dalle frasi semplici: “Maria mangia una mela”. Come atomi, le parti del discorso si compongono all’infinito (e ricorsivamente) per dare vita a quel che chiamiamo Linguaggio e, nelle nostre lingue, frase, poema, legge, testamento.

La calda bestiola che si agita in noi traduce in effetti con disarmante semplicità quel che vogliamo dire in parole e l’ascolto in significati, come se altro non facesse da una vita. Possiamo ignorare un nome, se è difficile, o non sapere cosa vuol dire un termine tecnico come “epodo”, ma l’ordine generale è chiaro, resta solo una casella da riempire con il giusto contenuto. Il gioco è fatto, insomma, e tutti sanno le regole, anche se non sono scritte da nessuna parte.

Con gli atomi linguistici possiamo costruire tutte le infinite frasi possibili, e riflettere anche su di esse, duplicando il mondo in realtà e segni, e segni dei segni. Mentire, sia detto semplice, è un buon esempio della riluttanza, ora dell’universo ora nostra, all’accordo tra segno e cosa; “Di tutti i basalti quello era l’unico che avesse le pulci” è una proposizione senza senso ma grammaticalmente perfetta.

Però la bestiola, il demone, che si arrotola su di sé nella tana è, appunto, una anima e come tale tende a essere irrequieta più che scientifica, sentimentale piuttosto che ingenua. La Grammatica Universale rende conto della chiarezza e distinzione del linguaggio, non della sua confusione; sappiamo quali siano le competenze per far funzionare la macchina e che esse sono ereditate da chiunque senza scelta o desiderio, ma ignoriamo come mai la stessa cosa possa essere detta a fin di bene, o per vendetta.

Platone risolve il problema eliminando i poeti: dire quel che non è o rappresentare il non accaduto equivale a non dire nulla e a non raffigurare nulla. Le relazioni tra angoli alterni esterni si possono calcolare, insomma, le bugie no. Il sapere tecnico diventa un modello per la conoscenza teoretica tramite le interrogazioni socratiche sull’essenza del “saper fare” – vasai, architetti, ginnici, timonieri e quanto altro – che è, appunto, l’idea perfetta della scienza utile, di quella che dà prova di sé. E tuttavia, la Repubblica ideale, quella dei filosofi, non è la repubblica reale; il nobile ateniese scrive di cose che ancora non sono ma che dovrebbero essere, per il bene di tutti.

La contraddizione si sposta  – come fanno sempre tutte le contraddizioni – dall’imitazione alla verità e sono proprio le téchnai a rendere evidente come senza una qualche forma di negazione neanche il migliore artigiano potrebbe trasformare quel che è per sé in una cosa buona e giusta, il legno deve essere colpito d’ascia, la cera modellata a mano.

L’atomismo dei linguisti è perfettamente compatibile con le macchine da calcolo, la Repubblica di Platone no. L’intelligenza tecnica si fonda sulla raccolta dei dati, è il sogno di una induzione perfetta, quando la quantità di evidenze empiriche supera in ordini di grandezza qualunque probabilità e solo i miracoli restano esclusi dalla statistica. Socrate continua a chiedere ai suoi interlocutori: “Non dovremmo forse noi prendere a esempio il suonatore di cetra, che sa come usare lo strumento?”, e gli interrogati, in imbarazzo:  “Socrate, dipende da quale modello tu voglia proporre… Se si tratta di comporre canti in omaggio agli dèi, certo, ma quando si viene a cosa sia il linguaggio e perché la sapienza abbia a che fare con esso, le cose risultano più oscure”.

Omero gioca con le parole: la scaltro Ulisse inganna il saggio Polifemo che ancora crede all’identità di nome e cosa: “Nessuno è stato” e gli amici se ne vanno. L’accecamento del ciclope è letterale, così come l’inganno, e dal punto di vista scientifico non c’è altro da dire. La lingua ingenua è stata sconfitta dalla lingua smaliziata, nominalista, tecnologica.

Come certi organi o facoltà degli organismi viventi possono sopravvivere in una forma oramai inutile ma chiaramente visibile pur non servendo più a alcuno scopo, così il regno delle variazioni si aggira come uno spettro pensoso intorno alle roccaforti di memoria incalcolabile e velocità di computo. Il problema è che la buona Maria che mangia la mela è più facilmente assimilabile rispetto alle fantasiose divagazioni di Padre Ubu. Non si tratta solo di riduzionismo, le interminabili catene binarie non hanno alcun problema con la quantità, bensì di innaturale selezione delle frasi adatte alla sopravvivenza. Non basta un punto di domanda a esprimere un pensiero dubbioso, e non è sufficiente tradurre un “forse” in una espressione probabilistica per renderne il senso. Se la tecnologia tratta il mondo come dato – e non può essere altrimenti – il non dato diventa l’inconscio di ogni macchina, e di ogni dire in forma meccanica.

Non si tratta solo di aggiungere uno scaffale ai prodotti in mostra, e ancora meno di salvaguardare le emozioni dalla massa delle informazioni: i sentimenti sono oggi tra le merci più pregiate e diffuse, dai romanzi alla televisione, alla pubblicità e alla politica. Piuttosto è quel che non è chiaro, che non è evidente, a essere mal digerito dalla tecnica; la parola detta troppo presto non ha una quantità misurabile, come la vendetta del Servo non ha statuto di cittadinanza in alcun ordinamento telematico, e il pendolo non può essere persuaso.

I greci avevano una parola per questo (i greci avevano quasi sempre una parola per ogni cosa), la chiamavano Aletheia, “non-più nascosto”, in contrasto con l’idea, spontanea, del vero come rappresentazione di quel che è, e negazione di quel che non è. Ma la forma merce della letteratura – dall’intervento politico in un acceso dibattito virtuale alle sillogi poetiche della moltitudine esodante – non è strutturalmente compatibile con il lavoro nascosto, instabile e contraddittorio.

Quello che la comunicazione efficace elimina, nel suo bell’andare, è quanto non è registrabile in un codice a barre; la pubblicità chiede immagini di accompagnamento di uso immediato, e in letteratura consumo e scambio invertono i ruoli. Se a Francoforte il valore di un testo si misurava su quanto era stato da esso tolto, oggi a New York, e nelle altre periferie dell’Impero, si gorgheggia sulla partitura dell’immediato soddisfacimento di qualunque pulsione, purché paghi.

Avere otto frasi per dire esattamente la stessa cosa non è un lusso barocco che gli smisurati banchi di memoria informatici non possono permettersi, né un trastullo da filologi in cattedra, è, più semplicemente, una non-merce, un feticcio che recita la parte della cosa stessa, una perdita di tempo non ripagata da inserzioni e seguaci, un quasi nulla, o meglio, un opprimente nascosto, una sorta di dovere.

Se di quel che non si può dire chiaramente è meglio tacere, la logistica del contemporaneo si è portata avanti svuotando i magazzini degli invenduti, tagliando i tempi morti della consegna, e garantendo il diritto di resa; l’onore delle armi insomma.

La neutralità della Tecnica vale sino a quando si costruiscono armi, già lo studio della composizione del valore è mal visto negli ambienti che di quel valore si appropriano. Va bene parlare di guerra e di sfruttamento se si strappa una lacrima alla fine, e se c’è un modo di farla pagare, ma il meccanismo interessa poco; sotto il velo non è nascosto niente, perché mai dovremmo guardare?

La forma della merce è la forma della tecnica, astratto e concreto in un solo corpo; la tecnica è immateriale fino a quando non riceve una applicazione reale e la merce non è nulla se non viene scambiata. Ma ben concreti sono i processi di produzione e consumo dell’una e dell’altra. Ogni volta che un algoritmo riduce le variazioni linguistiche possibili a una alternativa chiara e comprensibile, quel che viene venduto e consumato non è il contenuto delle frasi, bensì proprio la loro chiarezza alternativa. E naturalmente la chiarezza e la polemica – ma non la contraddizione – divengono il modello mentale di ciò che vale la pena di fare e dire e quanto invece genera solo confusione e incertezza.

In ogni scambio – dalla stretta di mano al certificato di nascita – è necessario che “qualcosa stia al posto di qualcosa”, se l’equivalenza viene calcolata al centesimo si ha la certezza di non essere stati imbrogliati. Il prezzo assoluto da pagare è l’equivalenza stessa, una funzione universale che può tenere il segno per ogni esistente. Ma il “verde melograno”, a dispetto di tutte le antologie, non può scambiarsi di posto con un generoso fico o un cipresso alto e schietto, la bestiola avrebbe altro da dire.

ANCHE NAZIONE INDIANA ESCE DA X

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Anche Nazione Indiana lascia X, come già numerose realtà istituzionali e associative hanno fatto in tempi recenti in tutto il mondo. Il nostro sito ha sempre difeso la propria autonomia in rete, garantendo una massima accessibilità ai propri lettori. Ma Nazione Indiana, pur essendo un blog letterario, ha anche sempre rivendicato i principi dell’antifascismo e di un progetto democratico di società. Dopo l’acquisto di X da parte di Elon Musk, e dopo che, con la vittoria di Trump, X è diventato un organo di propaganda dell’offensiva reazionaria del nuovo governo statunitense e dei colossi economici che lo sostengono, ci pare insensato nutrire di nostri contenuti quella piattaforma. Come molti di voi prendiamo atto della necessità di animare nuovi ambienti di comunicazione e condivisione, che rispettino una concezione democratica, ossia egualitaria e libera, della società.

Abbandonate X anche voi!

D’ora in avanti ci trovate su BLUESKY.

@nazioneindiana.bsky.social

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MILIA

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di Velio Abati

– Finalmente sei venuto.

Oppresso da oscure angosce, come quando la notte di colpo ti svegli soffocato e balzi seduto, spalancando la bocca, ho girato per le strade in cerca di respiro.

Non ho visto persone, ma figure frettolose, fragori di macchine.

Alle svolte, là dove il groviglio di traffico e viuzze si decide verso gli slarghi del cimitero, ho sofferto l’affaccio imprevisto dell’azzurro della macchia lontana. Stordito dall’odore di terra, accecato dalla brina, in quel silenzio ho chinato il capo non so quanto tempo, per riprendere forze.

Sono tornato indietro di furia, contro le sferzate gelide all’improvviso levate di tramontana ad affaticare il respiro. Anche i resti di cielo liberati tra i tetti e il taglio dei muri sono segnati da brandelli pallidi di nuvole stirate dalla rabbia del vento.

Chiusa la porta, ripiglio fiato nella penombra delle stanze. Mi butto subito sulla sedia.

– Finalmente sei tornato.

Dunque è vero.

Guardo meglio. La figura seduta sul panchetto che babbo fece da un tronco di potatura d’olivo e ci regalò, dopo averlo piallato con cura. Non so perché, mi ricorda nonna, che però nonna non era, ma mamma del mio nonno vero. Petra, forse, si chiamava, o forse Zoraide. La vidi sotto la quercia, davanti casa: il podere su, nei colli, dove io nacqui e vissi, mi dicono, pochissimi mesi. Il caldo del primo meriggio, dopo che già i piatti erano stati lavati, poteva essere di un giorno di luglio. Dormiva piegata sulle ginocchia, il capo, avvolto nel fazzoletto nero, poggiato a terra sopra le mani aperte ad accoglierlo, come in preghiera verso il tronco della pianta o, chissà, di altro dio.

I ricordi non sono mai figure innocenti.

– Ti aspetto da tanto.

Seduta su quel panchetto basso, chiusa nei suoi panni neri da capo a piedi sembra anche più minuta e più fragile del vero, probabilmente. Sorprende la sua voce schietta, che, se tu chiudessi gli occhi, diresti giovanile.

– Dove sei ito, tutto questo tempo?

Come faccio a rispondere, se non so nemmeno chi sei…

M’interrompe il suo sguardo severo, accenna appena allo sbuffo dei capelli bianchi che scappa sotto il fazzoletto di lana nera, si guarda intorno, alle spalle.

Chi, abbasso la voce, siete, dico.

– Non hai sentito il grido degli scampati, scalzi e gnudi tra le macerie degli olivi, dei campi una volta lavorati? Dei paesi sbranati da cima a fondo?

Mi guarda fissa. Aspetta in ascolto profondo.

– Con i corpi svaniti, come il soffio d’un tizzo. O sprofondati, o schizzati in mezzo ai sassi, alla fame dei branchi di cani, ai gatti.

La tramontana sbatte sulle facciate, rimbalza senza direzione, stride tra le finestre forzate, al portone, che scuote sull’orlo delle scale.

– Dove, dove se’ ito, pel mondo?

Abbasso la fronte. Un crepito, un tonfo violenta le scale.

Vorrei, dovrei rispondere, perché questo è il mio dovere, il modo giusto dell’uomo.

Frugo per le parole.

La sua voce ha il tono di lunga pazienza.

– Dove se’ ito, fuggito dal tempo?

No, m’affretto, no, non credetelo.

Sì, ricordo.

La brocca di rame sull’acquaio e noi in bilico, tra quelle radici di terra oramai troppo costrette, lasciate alle spalle e un domani dai grandi strappato frusto a frusto.

La donna sbatte il piede sul pavimento, sembra ridere, poi tace. Il silenzio è pesante.

Sorride solo con le labbra, severa.

– Così, ti sei convinto, come i citti piccini, che la luce sia quella della tua giornata?

Mi sento aggredito, offeso. Come?! Qui, nella mia stanza. Chi siete?

– Non è il tuo, lo sai, quel tempo d’allotta.

Mi scruta con la calma di chi aspetta.

– Tutt’altra, e ringrazia chi te l’ha messa nelle mani, è stata la tua mattina.

È vero. So anche questo. Né, con tutta coscienza, mai l’ho dimenticato, riconoscente.

– Sei sordo, tra questi muri?

Questo mi sembra troppo. Chi siete?

– Non senti che già è tornato l’odio dei padroni del mondo?

Come vi chiamate?

Sospira. Balena un’ombra.

– Ancora…

Si guarda indietro.

– Il nostro nome non è ancora avvenuto.

Chiude gli occhi, come se qualcosa di più grande la chiamasse. Poi, dopo una lunga pausa, li riapre.

– Ancora aspetta.

Ferma attende, senza tregua, il mio silenzio.

– Dove se’ ito, fuggito da tutti? Non ti muovono le sciaure che già galoppano per le strade? Proprio le medesime, non le vedi?, che hanno straziato la carne della nostra carne, flagellato le nostre case, il nostro pane.

Con orrore, mi precipito, i fatti, ogni giorno più gravi, dall’Impero discendono in tutto l’Occidente. Branchi di armati a caccia di schiavi, vite umane che nella sevizia spremono oro dagli ultimi e altro oro dai padroni della Terra fruttano, quando alla fine le spingi alla morte oltre i confini.

Niente mai è stato risparmiato dal dominio di chi primo ha colonizzato il mondo. Ma mai come ora il signore irride gli allori e le fronde di prima, fregiandosi dell’odio davanti a tutti. Con vanto incrudisce su ogni materia vivente, sulla verità.

Con angoscia più grande guardo l’applauso e l’inganno approvato con convinzione, il silenzio sottomesso, la vastità del non voler sapere, non voler vedere.

Un altro colpo secco, assordante, forse un tuono abbattuto dalla finestra, scuote la rampa delle scale. Vorrei alzarmi, magari qualcuno è stato ferito, tramortito sugli scalini. Ma non ci riesco. Rimango immobile.

– Dove se’ ito, fuggito da te?

Vorrei risponderle, chiarire. Mi agito sulla sedia, ma non mi dà tregua.

– Eppure hai mangiato alla nostra tavola, pocciato il nostro latte, dormito nel nostro letto. Con cura ti s’è ogni cosa mentovato, che tu raccontassi. Com’hai fatto a scordarti?

No! Grido, mi alzo. No. Questo non è vero. È troppo ingiusto. I miei libri.

Cammino nella stanza per trovare un po’ di calma. Ne agguanto alcuni. Guardate.

La donna non porge la mano per prenderli. Rimane nella sua calma di lunghissimo viaggio.

Piego il capo. Dovrei chiederle scusa. Mi metto a sedere. Sul mio onore, pronuncio, sul mio onore, in queste pagine non c’è una parola, non c’è un silenzio, un riso o un pianto che di questo non parli.

– Io non dico a marzo che ho curato bene i miei fagioli, quando ho appena coperto il solco. Settembre me lo dice, se mi piena il paniere. Allora sì, tutti lo vedono e anche chi non sa tenere in mano la zappa loda la buona ortolana e dentro i piatti fuma la zuppa.

Da voi ho imparato per sempre, che non c’è seme interrato, uovo messo alla cova di cui la mano che ha agito possa arrogarsi d’averlo fatto da sola. Vasta, tanto da non essere per intero conosciuta, è la rete di altre mani e esseri e terra e cielo che, cooperando e contrastando, danno direzione e significato.

No, non credetelo. La siepe di fuoco, a cui le vostre mani e consiglio mi hanno condotto, l’ho attraversata, ma mai mi ha fatto dimenticare il vostro campo.

Proprio questa lima tagliente, che porto con me, più cara del mio braccio, più bella della mia mente è anche la fonte vivace della mia piaga.

Un fischio rabbioso s’avventa sulla finestra alle mie spalle, la spalanca di schianto, mi smorza il respiro.

A fatica la chiudo. Con occhi lagrimosi torno alla mia sedia.

Biasimate con ragione il numero ridicolo di chi ho raggiunto. E più d’uno mi ha detto poi delle pagine il vero della fatica della parola, del peso dei legami, che costringono alle soste, al ritorno, persino al dubbio sospeso.

Ma mai vi umilierò a far apparire, quindi far credere che il raccolto dipende da un filo diretto dalla vanga alla spiga. Solo per difetto di forze o peggio per ignoranza – questo alla fine il mio onore – sarò cattivo scolaro del duro testimone che mi accompagna.

L’infinito non basta

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di Saverio Simonelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

per gentile concessione dell’editore Città nuova pubblichiamo un capitolo di “L’infinito non basta”, romanzo di Saverio Simonelli, di recente pubblicazione

Già dalla sera Franz ha preparato il frac. Lo stesso che indossa per i concerti. Si adatta perfettamente alla snellezza del suo corpo. Lo accompagna. Suona assieme a lui. Il concerto, quando ha tutti gli sguardi su di sé. Stavolta invece sarà una spalla, un comprimario perché al centro, come vuole la tradizione, ci sarà la sposa anche se sarà un matrimonio semplice, privato, nascosto. Lui e lei di fronte a Dio, pensa, e quel bravo prete di San Carlo in via del Corso.

Come saranno stati belli i suoi genitori a suo tempo. Anna e Adam. I loro occhi che si cercano e per pudicizia si sfuggono. Le mani, fredde come il ghiaccio che alla fine si stringono, messaggere di emozioni al corpo. E tutto attorno una festa sicuramente sobria ma affollata, partecipe. Parenti, amici, bambini vestiti da paggetti, bimbe con le ghirlande di fiori tra i capelli. E magari il sacerdote sarà stato il vecchio amico di suo padre, quello del monastero di Malacka.

Gli torna in mente la prima volta che il padre lo ha portato lì per farglielo conoscere. Aveva appena nove anni ma ricorda un po’ tutto, ricorda il primo sguardo sulle guglie, la torre all’ingresso, solida e larga alla base, quella della chiesa, svettante, come le finestre, si chiamano bifore gli aveva detto il padre.

Si rivede all’angolo a destra della grata d’ingresso. Lo attraggono i fruscii davanti al cespuglio di felci. C’è un merlo che zampetta e due farfalle che si inseguono. Il padre gli prende dolcemente la mano e lo accompagna all’interno, per il cortiletto lastricato di mattonelle grigie scontornate da sottili inserti di marmo più chiaro.

Guarda verso l’alto e poi abbassa gli occhi verso suo figlio. E racconta. Franz un po’ ascolta e un po’ se ne va in giro col suo di sguardo che si sofferma sulle tegole spioventi. Alcune sbeccate, altre appena scolorite. E ancora il fregio in cima al portale. Poi arriva padre Joseph e quei due cominciano a parlare.

E però quei discorsi Franz non li vorrebbe sentire. Qui tuo padre ha vissuto per due anni assieme a Joseph e a molti altri amici. Vestito così da sacerdote, con quel lungo abito nero, la talare. È la prima volta che sente quel termine, un suono estraneo, fastidioso, che gli comunica una sensazione sgradevole, perché in quel momento non vuole immaginargliela indosso. Vestito da prete. Padre Adam, come suona male pure questo. E lui? Lui, piccolo Franz, un figlio che non sarebbe mai nato se il padre quella talare l’avesse mantenuta. Perché i preti non fanno figli.

E allora pensa che poteva non essere.

Al posto di Franz Liszt uno spazio vuoto, un vuoto che gira per il mondo al posto mio. E invece sono frutto di una scelta nella sua storia, nonostante quegli anni lì, il marmo della chiesa, l’abbraccio con l’amico ricambiato. E allora io non voglio più vederla questa chiesa, questo marmo e questo Joseph. Mi stacco da loro e torno davanti al cespuglio. Tocco le foglie ancora un po’ umide di rugiada, mi guardo intorno a cercare il merlo. Ma sento i passi affrettati di mio padre che mi rincorre. È qui, si è fermato qui, non vi preoccupate dice ad alta voce.

Non voglio voltarmi indietro. Proprio no. Meglio tenere fuori il mondo esterno e riempirsi la testa di note. Meglio stare con me stesso e basta. Solo così quella vista potrebbe essere sopportabile. L’idea per una musica, senza la realtà.

Senza la realtà. Eccola invece che arriva puntuale attraverso le imposte. Si annuncia in silenzio con la prima luce autunnale che filtra e disegna strisce chiare sul pavimento della stanza. Franz apre la finestra. La strada è ancora deserta. Oggi è il 22 ottobre 1861, il giorno in cui compie cinquant’anni, il giorno in cui sposa Carolina. Lui ora è in piedi davanti allo specchio. Si pettina i capelli, spolvera la manica sinistra dell’abito, controlla i gemelli, aggiusta il colletto e sistema meglio il cravattino. Di solito è l’ultimo gesto rituale che compie prima di entrare in sala e sedersi allo strumento.

Allora si avvicina alla piccola scrivania, la ruota di novanta gradi, allenta le cerniere, apre la ribaltina come un libretto in tutta la sua larghezza. Si siede, chiude gli occhi e comincia a pestare con le dita da sinistra a destra e viceversa. Lo fa una, due volte. E come scorrono veloci le sue dita, forti, duttili, sempre dominanti. Come scorrono. Non deve neanche comandarle, non si preoccupa di come debbano rispondere perché semplicemente sono su un pianoforte e sente anche la risposta del legno, sente come adesso quella superficie si anima, si anima e risuona. Poi la pressione si fa più lieve, una carezza, soprattutto con la destra, la sinistra invece riprende a premere forte, il basso deve risuonare profondo, colmo. Adesso incrocia le mani e sente nelle orecchie il gridolino di sorpresa di un ascoltatore. A lui piaceva così: devono assistere a un miracolo, convinti di quel miracolo. Non semplicemente la trovata di un virtuoso, ma la dimostrazione che lui la musica la può trattare come vuole, può farne quello che vuole.

Ma poi c’è questa cosa del matrimonio. Il matrimonio lo attende tra breve e lui, lui sta suonando? Suona il legno ma sente le sue note. Sta suonando lo sposalizio. Lo sposalizio della Vergine, il quadro visto a Brera, che l’ha ispirato ed è diventato musica, lui l’ha reso musica negli anni di pellegrinaggio. Sono passati quasi venticinque anni da quando l’ha visto la prima volta. Era il 1837, lui a Milano con Marie. La grazia di Raffaello appesa alla parete. Era immagine, ora è nel flusso degli elementi. Non più solo immobile e consegnato agli sguardi, grazie a lui riempie l’aria, la fa vibrare, la fa muovere. Vive. È una realtà, senza la realtà.

Sente bussare al portone. Poi una voce, che lo chiama per nome. Signor Liszt! Signor Liszt. Si alza, imbocca la porta, scende la scala e apre il portone. C’è un messo con un plico sigillato in mano. È del parroco, dice. Lui lo prende, fruga nelle tasche e gli porge due Paoli. Lo saluta e gira sui tacchi. Aspetta che si allontani e poi strappa il sigillo.

 

L’evangelizzatore

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Immagine generata da AI

di Marco Marra

Sogna. E nel sogno c’è un lago e nel lago abita il drago. Il drago è enorme e terribile e ha il corpo lercio squamoso rossastro che sbrilluccica d’una luce impossibile. Il drago sta fermo a mo’ di fenicottero rosa al centro del lago, la coda penzoloni che pare una mazza ferrata, e anch’esso – ch’è già frutto del sogno dell’evangelizzatore – in qualche maniera riesce a sognare di cose ch’a nessuno è dato conoscere. Nel sogno dell’evangelizzatore: l’evangelizzatore costeggia la riva del lago, il bastone a sostenere il suo peso di carne e spirito, e avanza ansante senza distogliere lo sguardo dal drago. D’un tratto il cielo, dapprima furente e quasi luminoso sebbene triste e tetro come solo nelle fantasticherie troppo simili alla realtà, si squarcia e dallo squarcio emerge una figura radiosissima e solenne di donna. La donna è vestita di sole e sotto i suoi piedi schiaccia la luna e il suo capo è inghirlandato da una corona di dodici stelle. La donna ha il volto di chi è santo e l’espressione triste tristissima di chi sta affrontando l’ultima battaglia, e mentre una delle sue mani stringe il fiore bianco l’altra si pietrifica nell’imposizione del pantocratore. Quando la donna vestita di sole inizia la discesa dal cielo, il drago si desta e scioglie il gomitolo che nascondeva le sue sette teste. Tre teste hanno due corna e quattro teste ne hanno una. Le teste che hanno quattro corna appartengono a Nabucodonosor e a Marcione e a Caiàfa, le teste che ne hanno una appartengono a Simon Mago e a Saladino e a Abu Isa Muhammad ibn Harun al-Warraq e a Guido di Lusignano. Su ogni testa spicca un diadema e ogni diadema più che un oggetto pare estensione delle squame del drago. Alla vista della donna vestita di sole il drago ruggisce d’un trimbulo acutissimo e stridulissimo e stonato e afono, giacché ogni testa emette un suono diverso e ogni suono diverso è bruttissimo e dolorosissimo. L’evangelizzatore capisce che sta per infuriare la battaglia e ha paura e si guarda attorno in cerca di un rifugio ma attorno a lui vede solo desolazione. S’acquatta in prossimità d’una roccia ch’emerge di sghimbescio dal terreno umido e chiude gli occhi e si mette a pregare.

Quando smette di pregare riapre gli occhi e vede la donna vestita di sole ch’ora è circondata da troni e da cherubini e da sette figure. Tre figure impugnano la spada e quattro figure impugnano lo scudo. Le figure che impugnano la spada sono quelle di Melchisedec e di Simon Pietro e di Costantino il Vincitore, le figure che impugnano lo scudo sono quelle di Febe di Cancrea e di Sant’Elena Imperatrice e di Giovanni il Battista e di Baldovino IV di Gerusalemme. Quando il drago ruggisce di nuovo allora scoppia la guerra e la guerra che scoppia è combattuta nel cielo. Il drago è fortissimo e ogni sua testa mostra poteri incredibili che taluni scambierebbero per miracoli, tant’è che l’asticella sembra pendere in favore del mostro quando le figure che impugnano la spada paiono soccombere e gli scudi delle figure che impugnano lo scudo paiono danneggiarsi. Allora la donna vestita di sole innalza la mano pietrificata nell’imposizione del pantocratore e benedice il drago e le sue teste e lascia che il fiore stretto nell’altra mano appassisca e che i suoi petali appassiti si posino sui diademi che ghermiscono le teste dannate e allora il drago brucia e si lamenta e si dimena e vomita. Vomita i corpi atrofizzati e semi-digeriti di tutti i miscredenti e pure dei credenti che hanno agito senza rispettare la nuova ed eterna alleanza e dopo affonda. Affonda nelle acque del lago insieme ai corpi rigurgitati. L’evangelizzatore, convinto d’esser ormai salvo, esce allo scoperto ma non appena lo fa al suo sguardo disappaiono le figure che impugnano la spada e le figure che impugnano lo scudo e pure i troni e i cherubini e finanche la donna vestita di sole, ascesa al cielo e seduta alla destra, ove solo le madri possono essere. Allora s’ode una gran voce e la gran voce dice: «È stato precipitato l’accusatore del Figlio dell’Uomo e i giusti, sia quelli armati di spada sia quelli armati di scudo, hanno avuto salva la vita per mezzo del sangue dell’Agnello, che ha imposto le sue mani sulla Madre e le ha permesso l’intercessione dei poteri dell’Onnipotente per mezzo di lei. Esultate dunque voi giusti, ma non abbassate la guardia, poiché è stato sconfitto il drago fuori di voi ma non quello dentro di voi. E pure il drago fuori di voi, ch’ora dorme senza vita sul fondo del lago, potrebbe essere un giorno destato dal drago che alberga dentro di voi.»

L’evangelizzatore si sveglia che non ha ancora fatto l’alba. Sta avvoltolato nella tunica e nel mantello, tutto rannicchiato ai piedi di un ulivo rinsecchito, in mezzo al nulla. L’ulivo è un tronco storzellato le cui radici si propagano a apparato arterioso prosciugato e le cui fronde ne paiono l’immagine specchiata. L’evangelizzatore si stiracchia, s’inginocchia, prega, ringrazia il Signore e poi l’ulivo e bacia il tronco ruvido e screpolato e poi si alza. Il cielo è un parapiglia di nubi che s’aggrumano e si squartano e da quegli squartamenti tralucono chiarori che l’evangelizzatore cerca di decifrare senza successo. Raggruppa le quattro cianfrusaglie che porta con sé, le aggomitola nella sacca di iuta, la solleva, se la carica in spalla, stringe il bastone, affanna, s’incammina. Al sorgere del sole attraversa un letto pietroso che era un lago o un fiume antichissimo – il lago che ho sognato? si domanda – e percorre una distesa vuota che nemmanco il deserto e solo dopo ore di cammino raggiunge la magra vena d’acqua che bagna quel vuoto. S’attarda per bere, e giacché lo fa con troppa foga tossisce, poi mugugna, biascica qualcosa, si massaggia la gola, beve, riprende il cammino. Passa davanti a un grande sepolcreto là dove anni prima s’era combattuta la battaglia tra gli uomini del luogo e gli invasori e che aveva visto, come troppo spesso accade, il massacro e la cacciata degli uomini del luogo e la vittoria degli invasori. Le ossa ammucchiate e i teschi fracassati e le armature rotte e le lance spezzate e i denti strappati agli sconfitti. Prosegue seguendo la corrente del fiumiciattolo e pian piano iniziano a spuntar fuori arbusti e piantacce paludose e qualche alberello – devo essere sulla strada giusta, pensa. Per ore sfila a moribondo o a pellegrino del deserto, senza perdere mai di vista i piedi sotto di sé e l’acqua accanto a sé e l’orizzonte innanzi. Un corvaccio l’accompagna per parte del tragitto svolazzando sopra di lui come fosse carogna ambulante poi si stufa o chissà che e se ne va lasciando che la sua sottile sagoma sia risucchiata dalla lontananza.

All’imbrunire dello stesso giorno l’evangelizzatore avanza tra chiostri d’arenaria, sorpassando santabarbare di polvere del deserto e torrucole e castelletti messi in piedi dai turbini di vento. Attorno a lui elevazioni di marna e boschi di impossibile terracotta e montagne, montagne squagliatesi in scisti di zolfo e voragini di roccia sedimentaria. Decide di non fermarsi pure ch’è già notte ed è buio buissimo e inizia ad aver paura. Paura delle cose che non vede e paura delle cose che sognano nei suoi sogni. Altre ore di cammino e altri paesaggi contraddittori e il fiumiciattolo che mai s’arresta e gl’indica il percorso, poi finalmente vede il promontorio e ai piedi del promontorio la caldera fumante al cui centro s’erge in rovina la cattedrale detta Dei Padri del deserto. La cattedrale detta Dei Padri del deserto è una stalagmite costruita dall’uomo, è una protrusione di roccia levigata, è un ricettacolo pietroso di silenzi non-testimoniati, è antica – dicono alcuni – più dei Padri del deserto e più del deserto e più della fede e più del credo e più della parola. L’evangelizzatore s’appropinqua all’ingresso, lì dove la terra è macchiata e sembra ch’ogni macchia vada in direzione dell’ingresso come ombra impressa d’un preumano assedio. L’evangelizzatore varca la soglia, setaccia l’oscurità che invade la navata, annaspa, sente freddo e si domanda come sia possibile, il suo respiro forma delle nuvole bianche nell’aria che com’è possibile sia così fredda. Penetra la navata, è tutto nero nerissimo, compie passi a tentoni, calpesta sassi e mattonelle conflagrate, inciampa in cumuli di pietrisco, si rialza, prosegue. Alza lo sguardo verso l’alto e ora vede la luce trafiggere l’oscurità. La luce giunge dalla vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare. La vetrata mastodontica che invade le mura alle spalle dell’altare mostra scene che non dovrebbero essere mostrate, scene che non sono ammesse, scene che sono raccontate solo nei codici di Nag Hammadi. La luce batte sul crocefisso che s’innalza nella tenebra e il crocefisso brilla e vince contro la tenebra.

L’evangelizzatore s’arresta a pochi passi dall’altare, si prostra, bacia il suolo sacro, si segna, pispiglia preghiere. Ode tuonare e pensa che fuori sta per infuriare la tormenta. Fa dietrofront e raggiunge la soglia e scorge fuori. Fuori è tanto spaventoso che l’evangelizzatore si segna e invoca la protezione della Stella radiosa del mattino. E continua a osservare: turbini di vento che mulinano severi e che trasportano guazzabugli di cose del deserto: polvere e sabbia e serpenti e polvere e sabbia e serpenti. Quando la raffica aumenta d’intensità, l’evangelizzatore si ripara ancora nelle profondità della cattedrale detta Dei Padri del deserto. S’accoccola in un antro e si fa piccolo piccolo nella tunica e nel mantello e annaspa e fissa il crocefisso che brilla e pensa che non deve temere nulla. Pensa alla sua vita passata e trema per la paura. Pensa alla sua vita futura e trema per la paura. Pensa alla sua vita presente e trema per la paura. I denti che battono – da quando ho così paura? si domanda – e la pelle che si fa tesa e puntinosa e i piedi vecchi e stanchi e zeppi di calli ch’ora sono ghiacciati. Passa la notte – o il giorno? o le notti o i giorni? da quanto sono qui? si domanda – lì fino a quando non sa che la tormenta è finita e che il vento ha smesso d’infuriarsi e che i turbini hanno disperso polvere e sabbia e serpenti. L’evangelizzatore si tira su, si prostra, si segna, pispiglia le preghiere mattutine, si tira su, s’approssima alla soglia, smiccia fuori, fa su e giù col capo, s’incammina. Tira dritto molto a lungo, fermandosi di tanto in tanto per bere ripiegato sulle ginocchia e sui gomiti a mo’ di bestia, e quando gli è possibile attraversa il guado e prosegue. Sa d’esser vicino quando comincia a vedere campi grigi e senz’erba. S’infila nei campi grigi e senz’erba. E attorno nessuno e il suo corpo triste e curvo e stanco è l’unico taglio dell’orizzonte alle sue spalle: spettro d’un profeta, imperatore della polvere e della sabbia e dei serpenti, epigono dei patriarchi nell’arsura e nel paesaggio smerlettato. Solleva gli occhi al cielo sopra di lui e il cielo sopra di lui è un cielo duro, un cielo lastra di marmo. Poi aguzza lo sguardo sulla traccia che sta seguendo e osserva i campi sterminati e desidera scorgere finalmente i tetti e il campanile e la torre a baluginare sulla sponda di quel mare prosciugato che per miracolo ancora non se l’è divorato. Per giorni e giorni, o per minuti o ore che sembrano giorni, tira dritto e i campi grigi e senz’erba pian piano mutano nell’aspetto e divengono tappeti di fiori da campo disseccati, sepolcreti infiniti di radici sminuzzate da chissà quale apocalisse, teatri di malerbe fetide atte a parodiare calderuge e peloselle e ipomee blu. S’arresta per riprendere fiato e ode il silenzio, il silenzio lo assorda e lo spaventa che gli sembra d’udire un borbottamento squittente o una filastrocca con dentro un segreto come la data della sua morte o qualcosa del genere. Butta fuori il fiato. Il fiato sembra un’anima che esce per non entrare più. Sente freddissimo e pure caldissimo.

Riprende il viaggio. Ad un osservatore esterno sembrerebbe precario morente disordinato primitivo sventurato. Ma un osservatore esterno non c’è, che sia Dio o cielo o uomo o bestia, nessuno l’osserva o se lo fa lo fa distrattamente e senza badare a lui. L’evangelizzatore stringe i denti, sente d’essere un essere sorto dalla terra assoluta o un senza nome indistinguibile dal proprio miraggio o un antenato morto e dimenticato in un’era precedente a ogni nomenclatura e a ogni distinzione. Per troppo non scorge nulla e nulla cambia e quando proprio pensa d’aver sbagliato strada chissà come e d’esser perduto, ecco allora i tetti e il campanile e la torre a baluginare in lontananza. L’evangelizzatore avanza il passo e oltrepassa sia il giorno che la notte e gli alberi frantumati e la foce a delta del fiumiciattolo prosciugato e tutte le miriadi di fioriture di vulcanoli di melma color melma. Si trascina penosamente, le ginocchia scricchiolanti e schiena a uncino e la testa incassata tra le spalle, e raggiunge le coltivazioni che circondano l’abitato. Le coltivazioni che circondano l’abitato sono bugigattoli a cielo aperto o pietose imitazioni di vere piantagioni. S’estendono in ogni direzione, pugnalate da solchi acquitrinosi e stagnanti di non-acqua grigia e lattiginosa. Sono attraversate da carri e buoi e uomini: uomini glabri e bianchicci: uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. E se n’accorge l’evangelizzatore, che lo guardano come non fosse uomo. Li vede somigliare a comprimari di un sogno in attesa dell’inizio del sogno del sognatore, o a sonnambuli o ancora a spauracchi di carne. Li vede e avanza e mentre avanza loro esaminano il coltivo o parlano sottovoce o dormono su sacchi stesi a terra o per terra o mangiano. Qualcuno sorride d’un sorriso tetanico. Uno di loro sguscia dalle spalle di un altro, stringe l’impugnatura della ramazza e si mette a scopare in mezzo al campo. Spinge via la sabbiolina e il pietrisco e non fa altro che alzare polvere e s’innervosisce ma nessun altro gli dà retta e lui sfascia la ramazza e la lascia lì per terra e si spinge dove non dovrebbe spingersi e si mette spaparanzato sopra l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso ma s’innervosisce ancora e torna a prendere la ramazza rotta e la frantuma contro l’albero cavo caduto e secco che pare un sasso. L’evangelizzatore l’osserva di sguincio e lo vede pure quando quello fa una mezza piroetta e si mette a scavare con una pala che strappa di mano a un altro che invece sta immobile come tutti gli altri: pietrificati in mezzo alla coltivazione che la coltivazione pare una coltivazione di uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Uno di loro è esausto e tossisce e tossendo cade a terra e la terra è dura e lui si porta la mano al petto e al petto, dove dovrebbe esserci il cuore, c’è un foro e con la mano attraversa il foro e si gratta la scapola che dilacera dalla schiena tumefatta e incancrenita. Uno di loro smette di grattarsi e si tira su come fosse tirato su dal filo d’un burattinaio e stanco stanchissimo torna alle spalle dell’altro da cui era sgusciato e si rimette all’opera. Più avanti ce n’è un altro. Un altro sta curvo verso un abbeveratoio ch’è solo una pozzanghera e beve con la testa ficcata sott’acqua a mo’ di bue o di talpa e quando la solleva sputacchia ranuncoli di terriccio e solleva gli occhi al cielo.

Il cielo è un parapiglia di nuvolette che affiorano come bubboni e si scontrano e si dipanano e sembrano grattugiare la calotta celeste. Un altro smette di guardare il cielo e si mette a fissare l’evangelizzatore e lo fissa come solo è in grado di fissare un uomo: da uomo che guarda un altro uomo come fosse una cosa. Un altro si stringe le braccia attorno alla vita e si prende a cazzotti sui fianchi e sulle costole e il suo corpo si spreme e si dimena e si svuota di viscere e liquidi e di spirito. Lo spirito di cui si svuota è nero carbone e quand’esce dalla bocca spalancata di Un altro fiotta via scutrettolando tra i campi e tra gli altri uomini immobilizzati e che guardano gli altri uomini come fossero cose. Un altro ora è senza spirito e vomita sangue e piscia sangue e caca sangue e con le ultime forze afferra una pala e si scava una tomba in men che non si dica tant’è ch’è impossibile sapere come abbia fatto in così poco tempo e ci si accascia dentro e ricopre se stesso trascinando il terriccio e la sabbia e le radici sradicate verso il fossato. L’evangelizzatore avanza che i tetti e la torre e il campanile sembrano esser lontani come o più di prima e che la sequela di tristezza e nefandezza ch’è l’uomo non sembra finire. In là altri uomini tutti uguali glabri e bianchicci e che guardano gli altri uomini come fossero cose. In là il cielo è simile a uno smalto e non dà luce ma n’è zeppo. In là coltivazioni di grani inesistenti altrove e stormi di uccelli che non dovrebbero esistere o che non dovrebbero esser dove sono: gazze ladre e nittibi dagli occhi nero-diavolesco e fregatidi gonfi come testicoli di gibbone o nasi di nasica. Sciamano a banchi e si cimentano in evoluzioni e strane danze e quasi sembrano concertare incantesimi e fatture da scagliare ma poi si perdono oltre il promontorio e oltre ancora. In là, dove ora è l’evangelizzatore, gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini sono tantissimi. A fiotti nascono dalla terra come patate e alcuni sono piegati su se stessi come sacchi di patate bucherellati e altri stanno lì fermi e altri ancora fanno cose strane.

Uno di quelli che fanno cose strane fa una cosa strana stranissima: si nasconde dietro a un largo edificio ch’è stato una polveriera – com’è possibile se nemmanco è stata costruita la prima polveriera? – e di soppiatto si getta addosso a un gallinaccio e ci lotta com’Achille lottò con Ettore o come Eracle lottò con Cerbero o come un altro personaggio mai esistito lottò con un altro personaggio mai esistito. Uno di quelli che fanno cose strane schiatta a terra il gallinaccio e gli spappola il cranio a pugni e con un coltello che stringe tra i denti gli mozza la testa spappolata e la testa del gallinaccio muore ma il su corpo no e si mette a scorrazzare in lungo e in largo fiottando sangue nerastro che impregna il terreno. Il terreno che s’impregna del sangue nerastro avvizzisce o magicamente si fertilizza e ne escono funghi bubboidali e gramigna funestante. Il corpo del gallinaccio gira in tondo e quando ha perso troppo sangue s’accascia a terra morto anch’esso. Uno di quelli che fanno cose strane afferra il cadavere per la zampa scagliosa e lo trascina a pochi passi. A pochi passi Uno di quelli che fanno cose strane spiuma il gallinaccio e incide col coltello sotto la pancia e dilania la carne tenera ed estrae stomaco e intestino. Innalza stomaco e intestino verso il cielo, il cielo che manco più è simile a uno smalto ma che ora è un ginepraio di nevischio bollente fuligginoso. E invoca la protezione degli idoli ch’egli venera come dio. Uno di quelli che fanno cose strane venera come dio Astarte e Lammasu e Zababa e Eshmun e Ghilgamesc falso profeta. Uno di quelli che fanno cose strane rivolge parole lusinghiere a ognuno di questi idoli. Allora un fulmine colpisce Uno di quelli che fanno cose strane e Uno di quelli che fanno cose strane stramazza al suolo abbrustolito crepato.

L’evangelizzatore ora avanza – quant’è passato? Che sia notte? Che sia giorno? si domanda – e vede i tetti e la torre e il campanile più vicini ma più s’avvicina e più le sue visioni si deturpano e più la sua vita s’imbruttisce e più vede cose che sono un’idiosincrasia alla ragione. Vede uomini che lavorano la terra. Gli uomini che lavorano la terra zappano e estirpano e trascinano erpici o zavorre o aratri. Lo fanno tacendo, gli occhi assenti, e di tanto in tanto arrestandosi senza apparente motivo e lasciando gli attrezzi lì abbandonati e allontanandosi chissà dove fino a quando qualcun altro non li sostituisce e non eredita gli attrezzi. Gli attrezzi sono strani stranissimi: grovigli di spago e cordame spiluccato surclassati da tubolari di rame rugginoso che spiraleggiano in trapanazioni storzellate e oblique, ramaioli abnormi alti e larghi e porosi sostenuti a perno da mazze per fare a botte e zeppi di scopettoni ancorati al dorso come fossero la corazza di un istrice, aracnidi di ferraglia sostenuti da zampe che sono sarchiatori e foraterra e rastrelli e forconi e vanghe, innaffiatoi sminuzzati in pezzi senza logica agglomerati a cromlech attorno a gabbiette per uccelli in cui gli uccelli sono pinocchi di paioli in legno cinti in piume azzeccate alla meglio, e poi ancora erpici o zavorre o aratri e erpici o zavorre o aratri. Gli attrezzi sono strani stranissimi: tutti ricoperti da tele tese a mo’ di vela di vascello ma troppo elasticizzate e flessibili e di color ebano. Dalle tele sguizzano ogni tanto grumi di peli e denti e unghie e occhi e peni flosci e costole e vescicole e pure capelli, capelli d’uomo. Le tele puzzano di cadavere – Lo sono davvero? si domanda l’evangelizzatore – e c’è chi le pulisce con una spugna che quelle sembrano gorgogliare e che i peni flosci che ne fuoriescono s’ereggono e che quindi sembrano assurgere a imitazioni spiaccicate di uomini morti crepati ma che credono d’esser ancora vivi. E forse non sono altro che quello.

Gli uomini che lavorano la terra trascinano queste macchine anatomiche, questi teratomi da sforzo agricolo, queste scimmiottature d’apparato industriale rivestite da membrane epiteliali, e nel farlo sembrano pensare. Pensare a cose frivole, come gli imbecilli nelle tensioni dell’esistenza. Alcuni uomini che lavorano la terra s’accapigliano in uno scontro muto e insano. Girano intorno al perimetro della polveriera e sradicano dal terreno fiori e copertoni e radici e rocchetti e pianticelle e seghe arrugginite. Con lo sradicato si minacciano e fanno a spadaccino e i più deboli soccombono e vengono portati nella polveriera, lì dove chissà che succede. L’evangelizzatore osserva questo e quello e anche altro senza che gli uomini che lavorano la terra se n’accorgano, o così pensa lui, e pensa che ormai dev’essere prossimo ad arrivare. Gli ultimi passi sono difficilissimi. È rintronato e invecchiato, dopo troppi giorni e troppe notti altri troppi giorni e troppe notti, e c’ha la barba ch’è un velo da sposalizio annerito e ispido e c’ha gli occhi infossati nelle sclere e spalancati come un matusalemme senza memoria e c’ha le costole ch’affiorano all’inspiro come artigli fragili reclinati e retrattili. Lo separano dal limitare delle coltivazioni ancora quei pochi passi difficilissimi. Oltre ci sono i tetti e il campanile e la torre. L’evangelizzatore ha la gola secca. La raschia con uno spasimo. Si rincantuccia nella tunica e nel mantello e si sforza d’avanzare ancora. Avanti a lui sfiatatoi ch’eruttano sangue e bile e gli ultimi tra gli uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini raccolgono fiumane di sangue e bile e se ne vanno in là a abbeverare la terra. In cielo trottano nuvole disastrose e zeppe di assurde abrasioni causate, l’evangelizzatore lo sa senza sapere come, dalla luce del sole. Ma il sole non c’è giacché è notte e c’è solo la luna ma la luce del sole è esiziale furente sconvolgente disastrosa poderosa affilata sfolgorante fulgida brillante indomabile terribile e passa attraverso la luna e lo spazio cosmico. La luce del sole sbrilluccica sui tetti e sul campanile e sulla torre e ora l’evangelizzatore è ringalluzzito perché vede i tetti e il campanile e la torre vicinissimi. Poi s’arresta. S’arresta perché vede il lavacro e oltre il lavacro non può andare senza purificarsi. Se lo facesse: lo inseguirebbero lo prenderebbero lo tirerebbero lo dilanierebbero lo divorerebbero lo digerirebbero lo espellerebbero lo spargerebbero lo annaffierebbero lo eradicherebbero lo brucerebbero. Chi lo farebbe non può saperlo ma sa che lo farebbero. L’evangelizzatore s’approssima al lavacro. Il lavacro è una vasca di marmo costellata da strane incisioni raffiguranti fatti della storia umana non raccontati dei testamenti. L’acqua del lavacro è bellissima e balugina alla luce che s’è detta impossibile e l’evangelizzatore dapprima mette le mani a giumella e ne beve un po’ e dopo si lava il volto e le mani e gli avambracci sino ai gomiti e si passa le mani bagnate sulla fronte e la fronte scotta come può solo la fronte d’un febbricitante. Si passa le mani bagnate sui capelli e lungo la barba e sente le rughe distendersi come letti di fiumi in piena e dopo si mette a sedere e si purifica i piedi e le caviglie sino alle ginocchia e i piedi gli fanno male come possono solo i piedi del martire pellegrino. Completata l’abluzione prega. Prega nell’unico modo giusto ch’esiste per pregare: prega non per chiedere ma per ringraziare.

Ora avanza lungo il saliscendi che s’inerpica verso l’abitato. L’abitato è un conglomerato rovinoso addossato a una collina desertica. Non ci sono abitanti o forestieri o soldati o mercanti o preti o delinquenti o santi, solo strade vuote. E sulle strade vuote, pure ch’è già notte, scende un’altra notte ch’invece è scura scura e che persino sembra essere sconosciuta alla luna ch’è nei cieli. È per le strade vuote che cammina l’evangelizzatore. La piazzetta solitaria e gli alberelli prosciugati stecchiti e la campana che suona impossibile giacché a suonarla non c’è nessuno. La campana suona l’Ave e il suo suono accarezza le pene segrete che anche il più santo porta dentro. Uno stuolo di caprimulgi, è lì che si riuniscono una volta compiuto l’accompagnamento al trapassato, sferraglia smarrito e triste tra stelle appese e cadenti e mosse dall’alto tramite fili che solo da quel luogo possono essere visti. I caprimulgi disegnano parabole desolate e sbilenche e si vestono come d’ombra quando discendono tanto vicini da non esser più osservabili. L’evangelizzatore fiancheggia un muro crepato e una casa abbandonata e raggiunge la chiesa. La chiesa c’ha la faccia da centenaria, tutta grinze e pieghe e ricordi, e di fianco alla chiesa sta il campanile. Il campanile è diroccato e circondato d’edera e s’inabissa nel cielo tramite un tunnel che scoperchia l’inganno perpetrato dagli architetti del mondo sublunare. Ma l’evangelizzatore cerca né la chiesa né il campanile bensì la torre. Per questo setaccia i dintorni, esplora viuzze e piazze e in certi angoli trova un buio ch’è notte e in altri angoli trova luce ch’è alba dorata e passa tempo – quanto tempo è passato? si domanda – e altro tempo e non c’è più chi conta i giorni o le notti e chi c’è fa bene a non farlo giacché il tempo non ha valore e nemmanco scopo.

Frattanto invecchia ancora ch’ormai si sente addosso gli anni di Lamech o di chi come lui e respira a mo’ di vegetale e non prova dolore né si ammala e neppure si ricorda, e forse è per questo che prova dolore né si ammala. Gironzola smarrito lontanissimo dalla chiesa e dal campanile e quando fa notte, ormai fa notte mentre è giorno e giorno mentre è notte e a volte no e niente è chiaro o prestabilito, accende un fuoco per riscaldarsi e lo guarda fin quando non si spegne. Il fuoco col favore della notte mostra le cose per quello che sono: terra morta e alberi morti e tutto deserto e solo deserto. Lontanissimissime ci sono le montagne verdeggianti irraggiungibili dove il giorno è giorno e la notte è notte. L’evangelizzatore le coglie un istante poi le ombre s’allungano e inghiottiscono il paesaggio e le nuvole e finanche la luce e quindi ora l’evangelizzatore non vede che terra morta e alberi morti e deserto e solo deserto. Ma questa volta dal deserto emerge la torre: straripante mastodontica potente. Circumnaviga il perimetro in cerca dell’ingresso ma senza trovarlo e circumnaviga quello stesso perimetro ancora e ancora e ancora sino a quando non scorge lo spiraglio di luce e lo spiraglio di luce viene da una porta socchiusa. Quando entra è tutto oscuro e dominato da Oscuro e Oscuro decide ciò che l’evangelizzatore può vedere e ciò che l’evangelizzatore non può vedere. Vede le unghiate sulle mura e la croce dell’esecuzione conficcata nel terreno, le estremità pregne di sangue ma nessun condannato inchiodato al patibolo, e i vede i corpi ammassati in propaggini in un angolo angusto e immenso in un buio oltre il buio più inimmaginabile. I corpi sono gonfi o tesi o esplosi o smembrati o fatti a brani. E non trova il corpo del Signore ma nemmanco lo cerca giacché s’è dimenticato della sua missione. Perché sono qui? si domanda – e s’approssima al patibolo e s’aggrappa al legno e cerca d’arrampicarsi alla croce ma scivola. S’alza, ci riprova: s’avvinghia con gli artigli alla trave e l’avvolge pure con le gambe e s’issa a mo’ di antenato dell’uomo ma ancora scivola e si fa male. Riprova ancora e ancora e ancora ma non riesce a crocifiggersi e non ci riesce o perché è vecchio e debole o perché come si fa a crocifiggersi da soli o perché non è degno di morire della stessa morte del Signore. Scivola un’ultima volta e l’ultima volta che scivola viene inghiottito. Inghiottito da Oscuro.

Nei campi coltivati ci sono uomini che guardano gli altri uomini come non fossero uomini. Infestano i campi poiché sono segni dell’ultima piaga. Uno tra questi è stato un evangelizzatore e avrebbe dovuto essere latore d’una lettera. Se ne sta intabarrato nella tunica e nel mantello. Nella tasca del mantello la lettera destinata alla diaconessa. Sulla lettera sono scritte parole di luce, parole che profetizzano un ritorno. Nella torre, prigioniera di oscurità, c’è la diaconessa. La diaconessa non sa che il momento è giunto. Ma il momento giungerà ugualmente.

La primavera dei poeti: Lorenzo Pataro

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Nota

di

Alida Airaghi

 

Lorenzo Pataro nato a Castrovillari nel 1998, viveva a Laino Borgo, un piccolo paese del Pollino calabrese; si era laureato in Lettere a Salerno e collaborava a quotidiani e riviste, impegnato a diffondere con passione la parola poetica tra i lettori. Alla sua prima raccolta di versi, Bruciare la sete pubblicata nel 2018, era seguita Amuletiarrivata tra le opere finaliste del Premio Strega Poesia nel 2023 e del Premio Pontedilegno Poesia 2024.

Se il libro d’esordio, da lui chiamato “il primo sogno”, raccontava di un amore “bruciante” tra due adolescenti in termini letterariamente ancora acerbi, è nella dedica iniziale e nei ringraziamenti finali del volume che possiamo intuire la scalfibile delicatezza e il candido entusiasmo di un ragazzo che scopre nella poesia la modalità espressiva capace di metterlo in contatto non solo con l’amata, ma con tutto il mondo che lo circonda, a cui si sente debitore di bellezza, in uno scambio di amicizia e appoggio ribadito nei cinque versi conclusivi della raccolta: “Siamo soli. / Per riflettere / dobbiamo rifletterci, / bruciare la sete / per dissetare l’altro”.

Decisamente più matura e formalmente meditata è la seconda prova di Lorenzo, che in pochi anni aveva saputo affinare la propria competenza critica, grazie anche all’intenso confronto e alla collaborazione con altri poeti, nella redazione di riviste settoriali e nell’avvicinamento a nuove esperienze di scrittura. Al punto che il prefatore Elio Pecora riconosce in Amuleti “un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati”.

Nelle quattro sezioni di cui si compone il libro, oggetto di esplorazione è di nuovo l’amore, ma qui con una chiara consapevolezza della sua temibilità: “Ancora ritorna lo sparviero / il nibbio a piantare l’urlo nella schiena / a percorrere il dolore come un dito / che tocca la ferita e la ripara // la stagione degli amori ritorna / e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia”. Ma si tratta di un amore scorporato, di un tu femminile che appare e scompare, a promettere rifugio e soccorso come un albero frondoso, come acqua nel deserto: “fammi semina e raccolto / fammi fungo che cresce sul tuo ceppo / fammi nascere germoglio e gemma pura / cadi dal mio stelo come fossi la rugiada”.

Tuttavia, più di qualsiasi presenza umana, nel prosieguo delle pagine risulta preziosa e rassicurante la scoperta della sacralità insita negli oggetti, negli animali (pecore, tassi, volpi, cani, e soprattutto uccelli: passeri, merli, rondoni, allodole, falchi…) e nella vegetazione (rovi, querce, muschi, fichi, meli, uva, pioppi…), in un ambiente caratterizzato dalla campagna, da stalle, fienili, masserizie rurali. Niente di urbano, nessun cosmopolitismo in queste poesie, ma il ritmo calmo che si adegua al trascorrere naturale delle stagioni, ed è il solo a proteggere dall’insonnia e dalla febbre, promettendo guarigione e salvezza: “Potremmo dirci salvi soltanto / tra il freddo delle mura nella casa / di campagna, nell’aperto grido dello spazio // salvi soltanto nel vecchio pagliaio”. L’aspirazione alla quiete che risana non si risolve però nell’idillio romantico di visioni bucoliche, in stereotipi paesaggistici di consolante retorica: è invece reale desiderio di liberazione e di grazia, simboleggiato dalla frequente metafora del volo, e insieme scampo dal male, dalle ferite che incidono corpo e anima. Ferite, crepe, tagli, aghi, schegge, oggetti puntuti che trafiggono, graffiano, squarciano: il poeta si aggrappa ad amuleti e talismani, ad antichi riti contadini, a salmi più pagani che cristiani, a voci e apparizioni che esorcizzano gli spettri seduttivi del nulla.

C’è la consapevolezza filosofica, heideggeriana, del destino feroce che condanna l’essere umano alla solitudine del Geworfenheit (“Siamo nati. / Gettati in un nome verso un nome”), ma anche la speranza che il recupero di tradizioni storiche non adulterate, della sapienza produttiva della terra, della ritualità di gesti antichi possa farci riacquistare “la miniera di ciò che abbiamo perso”. Tra i brani in prosa che inframezzano le poesie, non si legge la volontà di razionalizzare il sentimento, ma semmai un più convinto insistere sui motivi che innervano i versi: lo stupore per la bellezza, “il doloroso mistero glorioso” di una rivelazione, la cura per tutto ciò che è vivo e respira, l’attesa di una rinascita: “fuori avvampa / ogni vigilia e resta solo il desiderio / di chi ha visto la luce e la rivuole”.

Sono temi che rasentano una spiritualità laica, formulati – come scrive giustamente Elio Pecora – “in un ritmo denso e pacato con la tenerezza che è pura nostalgia di un esistere senza confini e strutture”. Ma in questo sconfinarsi era presente in Lorenzo Pataro sia un’idea di continua metamorfosi in altre strutture fisiche (“Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo / del riccio di castagna ad accogliere / il respiro dei dispersi nella luce, / le mani-radici nella terra, i palmi-catini / colmi d’acqua, la fronte che è un viale / in attesa delle foglie. Quanti corpi / attraversiamo, in quante forme migriamo / braccati come lupi nella notte”), sia il costante interrogarsi sulla morte, quella altrui (le tombe trascurate nel cimitero del paese, gli insepolti, i cancellati da ogni memoria), sia la propria: “Un giorno sarò terra concimata, solco da irrigare. Le mani avranno forma di scodella. E la pelle becchime per gli uccelli. Un giorno avrò dimora dove tutte le dimore hanno dimora. Il sangue sarà linfa per le querce, ossigeno degli olmi. Un giorno sarò vivo e sarò morto. L’anca sarà vaso per le rose. La lingua tappeto per i vermi. Un giorno sarò terra concimata”.

E questa ossessiva idea di trasformazione in altro da sé, fosse buio o sperabilmente luce, provocava in lui “Qualcosa di simile a un dolore. Forse meno lancinante di un dolore. Se ti volti senti solo la chiamata. E se ti chiami ogni cosa dice addio a ogni cosa”.

 

 

LORENZO PATARO, AMULETI – ENSEMBLE, ROMA 2022, p. 100

Prefazione di Elio Pecora

Avventure di uno scrittore affettivo

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di Mauro Baldrati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angelo Maria Pellegrino, attore, letterato, marito e curatore delle opere di Goliarda Sapienza, scriveva che sua moglie apparteneva – purtroppo – alla sfortunata categoria degli “scrittori affettivi”. Perché sfortunata? Pellegrino lo svela subito con un concetto lapidario: gli affettivi desiderano non solo essere pubblicati, ma anche amati dagli editori.
Amati. Gli editori sono aziende, si può desiderare di essere amati da un’azienda?
Infatti Goliarda, dal 1976 in poi, per quasi vent’anni, ha vissuto questa forma di dolore senza soluzione, fino alla morte, per il rifiuto reiterato della sua opera maggiore, L’arte della gioia. Il romanzo era fuori target. Fuori tempo. Lei stessa era riuscita a capirlo: “Troppo scomoda Modesta per gli anni Settanta Italiani”.
Gli editori non rifiutano i libri perché sono malvagi. E il loro rifiuto non si basa su questioni letterarie pure, ma su una mancata corrispondenza delle “cifre” dell’opera con le esigenze del mercato, sul quale si appoggiano le collane. L’autore può non essere d’accordo, può chiamarla dipendenza dai gusti del lettore-consumatore, rinuncia alle sfide e a qualunque viaggio verso l’ignoto, ma dovrebbe prenderne atto, tirare dritto e cercare altrove.
Ma non l’affettivo. Costui non riesce ad accettare il rifiuto dell’editore perché lo vive come un evento personale, un gelo che scende sul cuore e intorbida la mente. Continua a gettarsi contro il rifiuto come il caprone che si avventa su una rete fino a restarne impigliato.
Io, quando lessi queste parole di Pellegrino, sentii una spina che mi si conficcava in un fianco. Qualcosa era penetrato, una consapevolezza non consapevole che ero pronto. Pronto per sprofondare nel pozzo nero.
In quel tempo non me la passavo male dal punto di vista editoriale. Avevo pubblicato tre noir e un non-noir, tutti per editori maggiori. E un nuovo testo premeva. Ma esitavo perché qualcosa – qualcuno? – mi suggeriva che sarebbe stato di difficile pubblicazione. Chi avrebbe accettato un noir politico ambientato nella Bologna del ’77 con gli indiani metropolitani, gli autonomi, gli espropri, l’omicidio Lorusso e killer nazisti inviati da una sezione deviata del SID per assassinare il protagonista? Il tutto senza sensi di colpa né reducismo né autocondanne né autoassoluzioni e tanto meno pennellate didascaliche. Un testo sincero, preciso, scritto dall’interno perché c’ero, e sapevo. Ma forse proprio per questo, riflettevo, sarebbe stato difficile piazzarlo. Meglio occuparsi d’altro. Per esempio quel romanzo storico tardo antichista che…
Ma no. Niente da fare.
Quello scalpitava per essere scritto.
E lo scrissi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu un viaggio faticoso ma bello e divertente. Ero tornato in quei luoghi, in quei giorni e la fantasia veleggiava leggera.
Una volta terminate le revisioni l’agente letterario Settimio Bruschettini lo inviò a tutti gli editori maggiori. Perché questo fanno gli agenti: puntano alle major, che pagano l’anticipo. E’ il loro lavoro.
Non arrivarono risposte. Ovvero il romanzo fu ignorato. Ma questo non era significativo. Anche il mio primo noir fu ignorato, fuorché dall’editore che poi stampò anche gli altri due. E anche il non-noir lo fu, meno che dal direttore editoriale della catena a cui piacque.
Io, per conto mio, lo inviai al direttore dei tre noir, ma questi rispose a giro di posta, senza leggerlo, che era stufo di pubblicare autori italiani che non vendevano, per cui aveva sospeso le loro pubblicazioni e cercava all’estero. Ci rimasi, ma non mi stupì più di tanto. Sapevo che questo era un trend attuale, infatti una famosa collana di thriller pubblicava alcuni italiani sotto pseudonimi esotici. Che fare. Che dire. Questo era.
Allora lo spedii direttamente al direttore editoriale della catena che aveva pubblicato il non-noir, Sirio Lombardini. Mi rispose quasi subito che aveva apprezzato la parte del movimento, molto vivace e verosimile, ma il noir andava potenziato. In ogni caso doveva occuparsene la responsabile di una collana più adatta a quel genere di testi, Gilda Tormentilla. Mi girò la sua mail invitandomi a spedirlo a lei.
Eseguii.
Dopo un’attesa altrettanto breve la Tormentilla rispose che il testo era squilibrato, troppo caratterizzato dalla parte ambientale, che pure era interessante, a scapito del noir, che trovava non abbastanza adrenalinico. Beh, perdio, era un’osservazione comune a entrambi. Rilessi il tutto, con calma, e conclusi che probabilmente era giusta. Così mi tuffai di nuovo nella storia e lavorai sull’aspetto muscolare adrenalinico, inserendo colpi di scena e varianti nerissime.
Lo rispedii a entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un’attesa di nuovo breve rispose la Tormentilla. Aveva apprezzato il lavoro ma i problemi non erano risolti. L’ambiente dominava e il noir partiva tardi.
Digrignai i denti. Il testo per me andava. E doveva andare perdio.
Tornai al lavoro, più concentrato che mai. Decisi anche di ridimensionare un po’ la parte ambientale e di potenziare ulteriormente il noir.
Spedii di nuovo, a Lombardini e Tormentilla.
Ma insomma, perché Lombardini taceva? L’aveva letto?
La risposta della Tormentilla arrivò nei soliti tempi ristretti. Ottimo lavoro, ma i problemi continuavano e sussistere.
E da Lombardini nessuna nuova.
Io, rifiutato.
Non mi sarei arreso. Mai. Sarei stato più ostinato di loro.
Mentre riprogettavo nuove modifiche e potenziamenti, una mattina all’alba, appena aprii gli occhi, ebbi un’idea. Potevo fare di Bologna cowboy un noir dentro un contenitore giallo.
Con la consueta energia e senso del dovere mi rimisi al lavoro e impostai una storia ambientata nel 2047, in una società in cui non vorremmo mai vivere. Il protagonista, un agente speciale dell’Agenzia per la Difesa dello Stato, durante un’indagine arriva a un vecchio signore di 94 anni che gli spedirà un manoscritto col titolo Bologna cowboy. La sua lettura gli cambierà la vita. Inoltre mi arrivò un’altra idea: la parte noir l’avrei illustrata con la mia documentazione sulle “bande giovanili” che avevo realizzato proprio in quel periodo. Foto in bianco nero dei punk, i dark, i mods, che erano già state raccolte in una mostra itinerante. Era una sequenza in linea estetica e stilistica con le suggestioni del romanzo.
Lavorai sodo, quando lo ritenni pronto spedii. Naturalmente a Lombardini e Tormentilla.
E da Lombardini, silenzio tombale.
Tormentilla scrisse che proprio non poteva rileggere il romanzo per la quarta volta (e aggiunse un emoticon sorridente). Le foto, soggiunse, erano spettacolari e magnifiche.
Io continuavo a sferrare cornate contro la rete con furia cieca.
Non potevo accettare quell’ennesimo rifiuto, impossibile. Dopo notti agitate mi svegliavo con gli occhi sbarrati e un peso che mi schiacciava. Non mi sarei rassegnato, avrei di nuovo revisionato, tagliato, potenziato.
Ma quando scese in me un attimo di calma l’occhio mi cadde sull’ultima frase di Gilda Tormentilla: non aveva senso accanirsi in quel modo. Se un testo non andava per un editore poteva interessare un altro. Il mio romanzo doveva trovare il suo editore.
Accanirsi.
Questa parola accese la lucina (La lucina diventò un capitolo del romanzo, quando il protagonista ha un’illuminazione). Fu una madeleine di grande intensità.
Entrai in una stanza polverosa della memoria, rividi quel papà che lavorava all’estero, che non c’era, e taceva. Riascoltai la voce della madre, quando passava 12-14 ore al giorno nel laboratorio di parrucchiera e non aveva tempo per il bambino bisognoso di attenzioni. Arrivava ad ammalarsi per averle, ma il rifiuto che riceveva per l’indisponibilità materiale di lei era più forte di qualunque insistenza, per quanto viscerale.
Ecco la trappola in cui ero caduto.
Per mezzo della parola accanirsi capii che Sirio Lombardini non impersonava quel padre assente, e Gilda Tormentilla non era il fantasma della madre che respingeva il bambino disperato e ostinato. Li avevo sovrapposti. Avevo ricreato il micidiale triangolo mamma, papà ed io, quel portatore di infelicità che Deleuze e Guattari avevano cercato di smantellare con la “schizoanalisi” de l’Antiedipo. Lombardini non era assente, mi aveva semplicemente indirizzato a Gilda Tormentilla, la quale continuava a ripetermi che il romanzo non rientrava nei canoni della collana.
Il suo editore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A quel punto ripresi la prima versione di Bologna Cowboy (conservo sempre le prime stesure), la confrontai con l’ultima e, tenendo conto delle osservazione della Tormentilla, che trovai fondate, gli restituii parte della sua vocazione originaria di noir politico, che in un certo senso avevo violentato, mantenendo le vitamine ma togliendo gli steroidi.
Ora il libro era pronto.
E proprio perché lo era, chissà, arrivò la mail di uno scrittore che stimavo, Wladimiro Soavi, che era anche redattore del blog letterario d’avanguardia Scrittura Indie, a cui l’avevo spedito mesi prima. Mentre lo leggeva, disse, si rendeva conto che sarebbe stato adatto alla nuova collana di narrativa di Deriva Approdi, per cui l’aveva inoltrato al direttore editoriale. Il quale mi scrisse dopo una settimana: era entusiasta di pubblicarlo.
Così Bologna cowboy ha trovato il suo editore.
Ora spero che troverà anche i suoi lettori.

NdR “Bologna cowboy”, il testo di cui parla lo scrittore e fotografo Mauro Baldrati in questo pezzo, è stato pubblicato molto di recente da DeriveApprodi. Le tre fotografie, scelte tra le numerose inserite nel volume, sono dell’autore.

Dodici civette – Juliette Evola

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avvertenza introduttiva

Nel 2020 una pandemia globale si è abbattuta sul pianeta e, per dirla con lo Hegel, il mondo ha girato sui suoi cardini cambiando per sempre la propria direzione di marcia.

È stato subito ribattezzato “Great Reset”, una formula coniata al World Economic Forum che indica la volontà delle élite finanziarie e del cosiddetto capitalismo della sorveglianza di sfruttare la congiuntura pandemica e l’escalation bellica per aumentare, attraverso la paura e il conseguente disciplinamento sanitario e sociale, il controllo panottico e algoritmico delle coscienze per arrivare a instaurare un Nuovo Ordine Mondiale.

Gli episodi che mi accingo a riferire si sono svolti tra il 31 gennaio 2020 e le feste natalizie di quello stesso anno. Raccontano soprattutto una tremenda storia d’amore e una dolorosa vicenda personale, ma sono sicuro che avrebbero avuto un esito molto diverso se non fossero avvenuti in concomitanza con la pandemia da Covid-19, preludio e prova generale, come ormai dimostrato, della guerra mondiale che ha sconvolto e sconquassato il pianeta e le vite di molti esseri umani.

A distanza di dieci anni da quegli eventi, mandato in pensione l’anacronistico World Wide Web, i padroni del Metaverso hanno provveduto a cancellare tutto ciò che riguarda la FarcoTech e il brevetto dei polimeri eps-ubik12 a elevato isolamento termico necessari alla distribuzione dei vaccini nella prima inoculazione di massa della storia dell’umanità. Ogni riferimento al gruppo di satanisti ecologisti e vegetariani che si facevano chiamare la “Confraternita della Civetta”, al seicentesco processo inquisitoriale “dei dodici”, alla strega Ginevra Settembrini e a gran parte degli avvenimenti e dei personaggi che questo mio diario postumo intende documentare, è stato meticolosamente censurato. E, d’altra parte, l’obiezione che qualche prematuro lettore di queste mie note mi ha già privatamente avanzato, per la quale non posso provare quasi nulla di ciò che scrivo, non mi tocca più di tanto. L’obiettivo di questo libro non è certo quello di ricostruire fedelmente un’epoca storica, bensì di provare a restituire le emozioni di un’esperienza personale molto dolorosa e la realtà drammatica di episodi pubblici e privati che hanno cambiato radicalmente la mia parabola esistenziale e quella di diversi protagonisti di questa vicenda.

La storia della massoneria italiana è la storia di associazioni di persone legate tra loro da interessi che, dietro una superficie esoterica e filosofica, nascondono innanzitutto moventi di carattere economico e finanziario. È una vicenda intricata e complessa che va da Garibaldi a Cecchi Paone passando per Cuccia e Berlusconi, ma non andrebbe dimenticato che una loggia massonica è tanto più influente e pervasiva quanto più riesce a nascondersi e ad agire nell’ombra. Non a caso, a differenza delle province limitrofe, nei luoghi che hanno fatto da sfondo agli eventi che sto per raccontare, non risulta alcuna attestazione di organizzazioni segrete.

Si dice che il fisico Premio Nobel Niels Bohr, sopra il portone della sua casetta di campagna a Tisvilde in Danimarca, avesse appeso a un chiodo un ferro di cavallo per tenere a distanza le disgrazie come era uso fare nelle zone rurali del nord Europa. Un giorno un collega lo andò a trovare e rimase interdetto dalla presenza di quel segno di superstizione popolare, del tutto inaspettato nell’abitazione di uno dei paladini della scienza del Ventesimo secolo.

«Sono confuso… Un grande scienziato come te crede veramente che appendere un ferro di cavallo sull’uscio della sua casa tenga lontani gli spiriti maligni?» chiese esterrefatto il suo ospite. «No», rispose Bohr piccato, «certo che non credo in queste superstizioni! Ma sai com’è», aggiunse in tono scanzonato, «dicono che funzioni anche se non ci si crede!».

Come ha suggerito Slavoj Žižek questa storiella è la metafora perfetta dell’ideologia che, nella nostra disgraziata e pervertita epoca “post-ideologica”, anziché essersi estinta come qualcuno pretenderebbe, agisce sempre di più in fuoricampo, senza mai esplicitarsi completamente e senza che sia più necessario credere a essa. Quanto più è nascosta e sotterranea tanto più funziona; ne siamo tutti portatori, anche se quasi sempre inconsapevoli.

Anche per questa ragione, nel mio racconto ho cercato non soltanto di esporre i terribili e incredibili fatti di cui sono stato testimone nella maniera più precisa e circostanziata possibile, ma anche di evidenziare le mie convinzioni, il mio punto di vista e la mia visione ideologica del mondo, senza ipocriti infingimenti, omissioni o censure di sorta.

Perché, parafrasando l’antico adagio, non esistono fatti senza interpretazioni.

Samuele B*****

Ferrara, 30 aprile 2030

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(31 gennaio 2020)

«Alexa, suona della musica classica!».

Mi ero rivolto all’Echo Spot con voce stentorea mentre mi accendevo l’ennesima sigaretta continuando a fissare perplesso il monitor del computer. Dalla finestra aperta alle mie spalle proveniva un’arietta fredda che mi infastidiva non poco. Ma ero talmente svogliato che non avevo la forza neppure di alzarmi e richiudere i battenti, anche perché il mio piccolo studio puzzava di fumo in modo abbastanza indecente e un po’ di giro d’aria non avrebbe guastato.

Sono sempre stato un maniaco dell’ordine ma, da quando ero tornato single, alcune mie fissazioni avevano subito una sorta di allentamento. Le sigarette, ad esempio. Non mi sarei mai nemmeno immaginato di impestare una stanza di fumo quando ero sposato. E non certo perché mia moglie non lo voleva. Era proprio una mia esigenza. Forse stavo cercando di ottimizzare al massimo grado le libertà e le prerogative che derivavano dal fatto di vivere da solo, in modo da convincermi che quella configurazione esistenziale alla fine non era poi così malaccio.

L’Echo Spot aveva iniziato a diffondere una melodia gioiosa e spensierata. Doveva essere un divertimento di Mozart. Mi era andata bene perché per quelli di Amazon musica classica vuol dire innanzitutto Ludovico Einaudi che, per qualche strano contrappasso algoritmico, apre sempre questo genere di playlist e che io, a differenza di mia moglie, ho sempre trovato melenso e retorico. Ma non ci facevo grande attenzione. Stavo seduto ormai da alcune ore davanti alla scrivania di mogano, che costituiva l’unica mobilia di qualche valore del mio appartamento da neo-scapolo. Sullo scrittoio, oltre a un bizzarro portacenere di cristallo a forma di Torre Eiffel lasciatomi in eredità dal mio precedente inquilino, quella sera ricolmo di mozziconi, trovava spazio il mio MacBook Pro sul cui schermo campeggiava l’homepage un po’ retrò di antimonio.com.

Dallo scaffale dietro di me raccolsi il libretto della discordia dalla copertina ormai logora straripante di note e post-it. Lo aprii al primo capitolo dove viene riportato il dialogo con Cacciari e lo bloccai sotto al computer. L’articolo che stavo scrivendo era ancora a livello di bozza ma per errore avevo premuto il tasto invio pubblicandolo sulla pagina principale. Prima di riportarlo offline approfittai dell’occasione per ridare una letta a quanto ero riuscito a scrivere quella sera nella formattazione corretta:


Juliette Evola è una scrittrice e una regista italiana di vocazione mitteleuropea. Nata a Praga ma triestina d’adozione, ha pubblicato due raccolte di poesie, e un cortometraggio. Le 12 civette è il suo primo romanzo.

Kjara, ancora

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di Filippo Canoro

Di Kjara, Madalena, la mia Madalena, mi aveva detto soltanto:

Non c’è niente da fidarsi di quella lì! Si chiama Kjara-Cassandra, e a tredici anni ha scambiato la verginità con un telefonino

Non avevo capito molto altro. Solo, a dire il vero, che Madalena e Kjara erano cresciute insieme nelle case popolari di Primo Foraneo di Mestre, anche se non si erano frequentate più di un tot. Ma adesso Kjara ci aveva invitati nel locale dove aveva trovato lavoro––la Paela d’Or si chiamava––e non si poteva dire di no.

Ci siamo anche andati. La Paela d’Or era uno dei tanti ristorantini per così dire etnici che affollavano l’area della stazione di Mestre. Il personale erano tutti minorenni al di sotto dell’età del lavoro, assunti rigorosamente in nero e con addosso qualche grossa bega colla legge: ragazzini strappati per un soffio al riformatorio e alla colonia agricola. L’unico in regola in tutti i sensi del termine era proprio il ragazzo di quella Kjara che ci aveva invitati lì quella sera, un certo Leo. Aveva diciassette anni, Leo, la palpebra sempre mezza caduta nell’espressione dell’hashish, e faceva l’alberghiero indirizzo cucina-turismo. Era un buono, Leo.

Finito il servizio della sera e rigovernata la cucina, Leo faceva su una cannetta piena di grazia e uscivamo in veranda a farci una fumatina, e a ciaccolare qualche po’.

Leo mi diceva che Kjara nella vita aveva avuto qualche problemino coll’autorità. Colla scuola, colla polizia, colla famiglia. Una volta, quand’era ancora molto piccola, prima che quel criminale di suo padre telasse chissà dove, lui tornava a casa tutte le sere colla bocca impastata di alcol, e allora la mamma si faceva il segno della croce e correva a inchiavare i bambini in camera––lei e il fratello––ma una notte Kjara, che sapeva che le chiavi di tutte le porte della casa erano uguali, ha fregato la chiave della porta del salotto ed è scesa in cucina a vedere.

In cucina il babbo sta chiedendo alla mamma Zengia o bachetón. Kjara vede solo la schiena villosa del babbo e la sua nuca calva e scintillante di sudore; e dietro la sua figura massiccia intravede, della mamma acculata in un angolo, le gambe risecche che si agitano convulsamente come zampe d’insetto, e allora Kjara dice Mamma!, e il papà si volta, la guarda e Kjara dice Papà!, e il papà la guarda: e gli tremano le punte dei lunghi baffi neri corvini incolti. Fa caldo, molto caldo, il papà ha la nuca imperlata di sudore, si volta e dice Kjara Kjaretta come ti sei fatta grande!, e nella lunga nera gora che cola dalle tempie ritinte di papà strinandogli le guance Kjara riconosce il colore che la mamma gli acquista a poco prezzo al paki sotto casa; papà ha uno sguardo che Kjara non ha mai visto, l’occhio dilatato in un’espressione disumana, pasta bianca agli angoli della bocca e le froge che si dilatano al ritmo del respiro pesante che gli sibila in petto; Kjara Kjaretta, ora che ti sei fatta così grande decidi tu per la mamma, dice lui, poi si ferma, con la punta della lingua si asciuga la materia bianca agli angoli della bocca e dice Zengia o bachetón; ma Kjara non sa, non capisce, ricorda solo che bachetón è come papà chiama il suo bastone da passeggio: e allora lei non dice nulla perché proprio non sa––la scuserete?––sogguarda indocilita il gigante che è suo padre, ma a questo punto a lui gli scappa proprio la pazienza, cazzo, ringhia Zengia o bachetón, zengia o bachetón, diocan de dio! Kjara trema e sussurra Zengia, indi il papà si sfila la cintura dai passanti con un gesto lento, consumato, quasi elegante, quinci si china sulla mamma e prende a scudisciarla senza tregua, e sempre più forte; la mamma acculata in un angolo si ripara la faccia colle mani e urla e singhiozza e piange fino a che non le cola il sangue dalle dita, dalle orecchie, dalle labbra spaccate, dalle borse sotto gli occhi tumidi, dalle narici piccole, dalle gambe e dai piedi che si agitano in convulsioni da insetto, fino a che non c’è sangue dappertutto: sul grembiale della mamma, sul muro scalcinato, sangue che s’accaglia nelle fughe tra le piastrelle––e la mamma ha finito le lacrime, non piange più, trema soltanto, ma il papà non ha finito proprio niente, ha la canottiera a coste fradicia di sudore––ma questo non basta certo a lavare le frustrazioni di una vita di miseria e di stenti, porco dio! E così continua con rinnovata foga, fino a che Kjara non trova il coraggio di pararsi davanti alla mamma colle braccia aperte, al che lei scoppia di nuovo a piangere, il papà s’arresta, ansimante, si netta la fronte col dorso della mano pelosa, si stura le orecchie col mignolo, sputa per terra, sorride e dice Kjara Kjaretta come ti sei fatta grande––sorride molto, papà––Zengia o bachetón?

 

Capivo in quegli istanti che ci sono due modi di crescere nelle case popolari di Primo Foraneo. Il primo è la religione della disperazione e dell’obbedienza, una mitosi dello spirito per cui la buona copia della vita schizza lassù, nel cielo delle idee, lasciando in terra un simulacro apatico per cui l’esistenza è un lungo addomesticamento al dolore e alla violenza dove uno impara a incassare quanti più schiaffi possibile prima di rendere l’anima al buon dio. La vita vera, intanto, se ne sta lassù in cielo, a maturare nel freddo contorno delle proprie virtù, come una donna di province, o un buono fruttifero dello stato, un investimento per la vita eterna da riscuotere nell’ora dell’Apocalisse… Così era stata la vita di Madalena.

Ma scoprivo adesso nella figura di Kjara, nei suoi sguardi di bragia, nei pantaloncini teppisticamente corti come in spregio all’autorità dell’inverno, nelle sue braccia trapunte di tatuaggi lunari e di cicatrici carnicine all’altezza dei polsi e dei gomiti––Kjara recava sul suo corpo tutte le ferite della sua epoca––scoprivo ora una seconda maniera di crescere nelle case popolari. Qui si trattava piuttosto di crescere nel delirio e nel diniego della realtà riassunti in quel murale vago e accusatorio comparso una mattina sul muro di costa del villaggio edile di Primo Foraneo:

 

Era un grido di rabbia, un lamento, una supplica e una dichiarazione di poetica.

Si sa che il tempo, sto gran cialtrone, non viaggia dappertutto alla stessa velocità. Solo mezzo chilometro più a ovest, nelle buone brutte case borghesi, una covata di ragazzine in nulla differenti da queste qui cresceva nel tepore del nido familiare, educate a pensarsi come gioielli e a farsi un’opinione su tutto senza paura di esprimerla, educate al coraggio del proprio corpo e a parlare spigliatamente delle proprie lune, all’uguaglianza della donna, al valore dell’amore che trionfa sempre; convinte una volta per tutte dalla pubblicità dello sciampo che dice Voi valete!: educate a farsi desiderare, a non cedere al primo pretendente, a spendere oculatamente i propri orgasmi come che il denaro, e poi alle storie d’amore tutte attaccate una all’altra come fili di catarro, educate a contrattualizzare e a razionalizzare, alla ricerca della felicità: del lavoro, dell’amante perfetto, del sogno dentro cui sgusciare come dentro una vecchia pantofola sformata e puzzolente… Ma per queste altre, per queste qui delle case popolari, invece… Non saremo mai come voi…: accusa e minaccia! Si trattava di affermare una realtà in tutto differente, compito tanto più facile inquantoché quella roba che gli aveva scodellato la vita faceva dare di stomaco solo a guardarla… i ragazzini che crescevano come la malerba nelle crepe dei casamenti, la biancheria di novecento lavaggi a stendere sui fili arrugginiti tesi tra un palazzo e l’altro, dove anche il sole entrava in punta di piedi come per paura di beccarsi una coltellata… i vetri rotti sui muri scalcinati, le spade nelle bottiglie di birra nella luce del mattino tutto sporco di ero…

Si trattava insomma di reclamare l’immanenza del regno dei cieli, di godere qui e ora, senza ricatti, castrazioni o debiti originali, si trattava di sussumere il reale tutto intero sotto le possibilità dell’immaginario… non finiva sempre bene. Ma per quanto che durava s’imbrancavano, ste ragazzine, uscivano in centro città a far kabobo, a demolire cose e persone, a scrivere sui muri collo sprai, a scardinare coppie storiche per poi ricattarli col coltello alla gola: facevano del terrorismo affettivo, facevano, facevano rizoma colla notte… Sperimentavano nuovi concatenamenti dell’esistenza e del desiderio, rifiutavano la famiglia e la scuola, lavoravano solo alla bisogna e fregando quanto più possibile, mordendo la mano che le nutriva, sputando nel piatto dove mangiavano senza farsi tanti problemi di spirito… vivevano nomadi e randagie, ste ragazzine. Erano diventate bisessuali, lesbiche, transessuali, asessuali, sapiosessuali… e adesso erano tornate al vecchio ‘ndo cojo cojo. Si presentava l’occasione di una bella scopata senza fronzoli, all’impiedi in qualche vicolo piscioso, e loro ci si tuffavano a picchetto. Si presentava l’occasione di godere un pochino alla faccia di questa vita infame, di splendere in fondo alla notte, e loro ne prendevano a piene a mani. Mi hanno sempre messo di buon umore quelli che scopano nei vicoli.

Insomma, Kjara apparteneva a tutta una varietà di ragazzine di periferia che gira col coltello nella borsetta e non vede l’ora di usarlo. Mai nessuno che gli rompa il cazzo, a queste qui, guarda un po’.

 

Terzo millennio: dalle “Lezioni americane” di Calvino a Massimo Onofri

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di Pasquale Giannino

Il primo quarto del ventunesimo secolo è appena trascorso. Rileggere Lezioni americane di Italo Calvino è quanto mai opportuno. La scelta del titolo fu un’idea di sua moglie Esther. Scaturì da una domanda di rito che Pietro Citati rivolgeva a Calvino, in quell’ultima estate in cui l’opera prendeva forma, nella prospettiva delle conferenze che lo scrittore avrebbe dovuto tenere all’università di Harvard nell’anno accademico 1985-1986: “Come vanno le lezioni americane?”. Il titolo inglese, pensato dall’autore, chiarisce il senso e il valore del libro: “Six memos for the next millennium”. Si tratta di una galoppata nello spazio e nel tempo, fra i grandi autori della letteratura mondiale. Lo scopo non è uno sfoggio di erudizione, come potrebbe sembrare a un lettore distratto. È quello dichiarato di dedicare tali conferenze “ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio”. Calvino si interroga “sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica cosiddetta postindustriale”. Egli nega l’intento d’avventurarsi in tali previsioni. Di fatto, ne risultano degli scenari futuri. Ora, la componente soggettiva è presente e dichiarata. Un esempio, fra tanti: “Nei tempi sempre più congestionati che ci attendono, il bisogno di letteratura dovrà puntare sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero”. Ma pare che tale auspicio sia stato ampiamente smentito dai fatti. La poesia è pressoché scomparsa dalla produzione narrativa e il pensiero, quando non latita, è tutt’altro che concentrato e profondo. In ogni caso, egli fornisce delle chiavi, per entrare nel mondo della creatività letteraria e intraprendere un viaggio orientato all’essenza del racconto e del romanzo, ossia cogliere le forme e i valori specifici della letteratura: quegli aspetti peculiari del narrare che, in quanto tali, si possano situare nella prospettiva del nuovo millennio.

Bene, il valore di queste conferenze non è certo quello predittivo di una teoria scientifica, che non possono avere: è il fatto che forniscono dei criteri, in gran parte condivisibili, per giudicare la qualità di un’opera letteraria. Seppur nei limiti posti dalla sensibilità, dalla cultura e dai gusti del singolo, possono offrire un antidoto molto efficace contro la confusione dilagante fra il successo commerciale di un’opera e il suo valore letterario; fra la letteratura di mero intrattenimento e quella che sa regalare pagine dense di pensiero, bellezza e poesia.

Il punto è che oggi siamo andati ben oltre il fenomeno della letteratura dozzinale destinata alle masse, che già negli anni Sessanta Dwight Macdonald denunciava nel celebre saggio Masscult and Midcult. Oggi è esploso il fenomeno dei booktoker. Ragazze e ragazzi popolari nei social – sovente giovanissimi – che ammiccano ai numerosi follower, sventolando libri dalla copertina sfavillante. Molti di loro seguono a occhi chiusi i consigli di lettura che ascoltano dall’influencer culturale di fiducia, e il successo commerciale del libro è garantito. Poi c’è un fatto nuovo, rispetto ai meccanismi perversi del Masscult: il self publishing. Qui l’industria editoriale che insegue i gusti del pubblico e li condiziona non ha colpe. Semmai, ce le hanno i social. Il caso del generale Vannacci è da manuale. Sono i social che hanno montato lo scandalo intorno al volume pubblicato dall’alto ufficiale dell’esercito in modalità self publishing, Il mondo al contrario, alimentando la curiosità morbosa dei lettori. La società di massa che acquista il libro non è più quella corrotta dalle pubblicazioni dozzinali, confezionate ad arte dall’industria editoriale in nome del profitto. È quella di oggi, fortemente influenzata anche dai social media. Ora, dovrebbe essere ovvio che il successo commerciale di un’opera non è garanzia di qualità letteraria, e tantomeno condizione sufficiente perché l’autore lasci una qualche traccia nella storia della letteratura mondiale. Il mercato non può pretendere di stabilire la qualità di un prodotto in base alle vendite. Ma il rischio di un vero e proprio cambio di paradigma è reale.

Veniamo al caso di Massimo Onofri, il critico letterario e scrittore del quale Inschibboleth Edizioni ha avviato una lodevole iniziativa editoriale: la pubblicazione dell’opera omnia. Di solida formazione filosofica – è stato allievo di Lucio Colletti e Gennaro Sasso – ha intrapreso un articolato percorso nella critica letteraria e nella teoria della critica, fino all’approdo maturo e consapevole verso la scrittura tout court e la prosa sperimentale. È su quest’ultima che intendo soffermarmi. Isolitudini. Atlante letterario delle isole e dei mari (La nave di Teseo, 2019) è forse il libro più interessante da leggere e analizzare, per le ragioni che mi accingo a esporre. Di primo acchito, potremmo dire questo: è un’opera inclassificabile. Ma è proprio tale difficoltà evidente che incoraggia a superare l’impasse iniziale e ad approfondire l’opera. Il viaggio letterario, filosofico ed esistenziale che il lettore compie sotto la guida esperta e sicura di Onofri, si svolge attraverso l’inanellarsi di centinaia e centinaia di paragrafi brevissimi. Ognuno di essi ha una sua compiutezza, di contenuto ed espressiva. I registri utilizzati sono vari: dalla stringata descrizione dei luoghi a mo’ di guida turistica a quella tipica e puntuale della storia dell’arte – disciplina che l’autore mostra di padroneggiare – fino al linguaggio limpido e rigoroso della buona divulgazione scientifica. Non manca la componente narrativa: ne parlerò più avanti. Il prologo e l’epilogo meritano di essere letti in successione, prima di iniziare l’avventura del viaggio. Forniscono i motivi profondi dell’opera, che Onofri porge al lettore con il garbo e la delicatezza di una prosa poetica, evocativa, struggente.

Sono tanti gli autori del presente o del passato che accompagnano il lettore, nei molteplici percorsi che egli può intraprendere secondo il criterio che predilige: seguendo gli autori, i miti, i personaggi dei romanzi, i luoghi reali o immaginari della letteratura… La loro presenza è viva, concreta, vibrante. Il lettore incontra il loro estro creativo, lo guarda in faccia, lo sente palpitare; entra nell’animo di ognuno, affollato di gioie o dolori: li condivide, li sente propri, attraverso i brani letterari o i frammenti biografici, che Onofri gli dona con umanità e naturalezza – senza soluzione di continuità fra un momento e l’altro – come se fossero tutti rami di uno stesso albero. Bene, sono molti gli autori scelti che, ricordando Macdonald, appartengono alla letteratura popolare o di massa. Isolitudini non è un libro di critica letteraria ma, inevitabilmente, tali scelte mostrano una totale mancanza di pregiudizi verso la letteratura popolare del passato o quella di massa contemporanea. Dal misticismo di Poe al positivismo di Verne, passando per Lovecraft, all’Intrigo alle Baleari di Agatha Christie ambientato nell’isola di Maiorca… dopo aver dedicato ampio spazio all’opera e alla figura di Salgari, Onofri compie una ricognizione nella letteratura di genere. È un’operazione molto interessante, perché elimina una volta per tutte il residuo ideologico, che vizia il dibattuto saggio del critico e sociologo statunitense: la letteratura di massa è esclusa, in quanto tale, dalla produzione che possa avere un qualche valore letterario. Non solo. Macdonald relega tutti i prodotti hollywoodiani nella paccottiglia del Masscult. Onofri cita Lo squalo di Spielberg. Di tanto in tanto, il Masscult fa capolino nell’opera. Ma l’intento non è quello di additarlo, escludendolo dalla produzione degna di essere considerata. La dinamica tra la cultura alta o d’élite che dir si voglia e quella di massa non appare di tipo dialettico. Piuttosto, il Masscult si presenta come sfondo. Si manifesta come il contesto culturale contemporaneo, in cui si realizzano creazioni letterarie e artistiche di qualità e non solo dozzinali. E qui emerge, in tutta la sua rilevanza, il ruolo della critica. Essa non può limitarsi ad assecondare i risultati commerciali stabiliti dal mercato. Una critica siffatta sarebbe corriva, inutile se non dannosa. Il cambio di paradigma non può avvenire. La critica deve continuare a esprimere giudizi di valore. È un concetto che Onofri ha formulato e sviluppato ampiamente, nel corso della sua ricerca teorica, la quale oggi è raccolta per intero nel terzo volume che Inschibboleth gli ha dedicato: La critica in contumacia (2023). Isolitudini è il frutto concreto e coerente di questa complessa e articolata elaborazione teorica. Il risultato è notevole: da una parte, si supera il preconcetto ideologico verso la letteratura di massa; dall’altra, si respingono le pretese di quanti vorrebbero che la critica si astenesse dal giudicare il valore di un’opera, entrando nel merito di ciò che essa offre realmente al lettore.

Dicevo della componente narrativa. Si sviluppa in un modo discreto, mai invadente, tra fulminanti schegge autobiografiche, gustosi aneddoti, bozzetti di vita… e un racconto che si dipana lungo il labirintico viaggio. Ha per protagonista Torquato Anselmi, un personaggio enigmatico e tormentato, che Onofri presenta come il suo grande amico pittore. In realtà, lo tratteggia mostrando di conoscere ogni sfumatura del suo animo. Sin dall’inizio, lascia presagire il tragico epilogo della drammatica vicenda artistica e umana che lo travolse. Chi è Torquato Anselmi? Un personaggio reale? Un personaggio immaginario, sbocciato dall’inesauribile filone della grande letteratura fantastica erudita alla Borges? È il suo alter ego? Ogni congettura è lecita, ma non importa saperlo. Ciò che conta è sapere che egli è l’emblema dell’isolitudine estrema: quella che conduce fatalmente al suicidio. Ora, se la vicenda esistenziale di Torquato riuscirà a coinvolgere il lettore; se lo aiuterà – per confronto o differenza – a costruire il senso della propria vita… ebbene, l’opera sarà compiuta, Isolitudini e quella di Onofri nel suo complesso. In caso contrario, a viaggio ultimato, offrirà al lettore innumerevoli altri percorsi letterari, geografici, artistici, esistenziali… che egli potrà intraprendere in autonomia – o auspicabilmente guidato dall’autore – alla scoperta di altre isolitudini e nuovi profondi significati.

C’è un aspetto che può spiazzare il lettore. La tendenza all’enciclopedismo, del quale Onofri sembra compiacersi. Per parte mia, la chiave di lettura più efficace è quella fornita da Calvino nella quinta conferenza dell’opera incompiuta, dedicata al valore della molteplicità, l’ultima che la natura gli diede il tempo di completare. Dopo aver citato un brano di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, sulla “molteplicità di causali convergenti”, scrive: “Ho voluto cominciare con questa citazione perché mi pare che si presti molto bene a introdurre il tema della mia conferenza, che è il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”. Dunque, cos’è Isolitudini? Attribuendo alla componente narrativa una rilevanza maggiore di quella apparente – attraverso tale chiave di lettura – un critico ambizioso potrebbe azzardare un’ipotesi: è un vero e proprio romanzo, esistenziale, enciclopedico e ipertestuale. Per quanto mi riguarda, invece, il valore dell’opera risiede proprio nell’impossibilità di classificarla e nella sua enciclopedica incompiutezza. Lascio i tentativi di classificazione agli studiosi. Preferisco chiudere tornando alle premesse dell’articolo.

Calvino si interrogava sulle sorti della letteratura e del libro nel nuovo millennio. In questo primo quarto del nuovo secolo appena trascorso, è ancora presto per trovare una risposta soddisfacente. Onofri ha indicato una strada. Isolitudini è un esperimento molto interessante dello scrittore, per la coerenza che mostra rispetto al critico e al teorico. Ce ne sono altre da percorrere, nella convinzione che sia ancora possibile fare della buona letteratura e che i libri debbano sopravvivere, perché sono parte integrante di noi, delle nostre vite; perché sono dei compagni di viaggio preziosi, che possono anche dare un senso alla vita.

Massimo Riva: «chi vuol vedere il mondo nuovo?»

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di Massimo Riva

È uscito per Einaudi il saggio Giochi d’ombra. Preistoria curiosa della realtà virtuale di Massimo Riva, libro imporante per rendere conto delle complesse genealogie che si celano dietro quelle che liquidiamo banalmente come “tecnologie” dell’attualità, e che invece conservano al proprio interno una “preistoria” dello sguardo (del suo “razionalismo magico”) capace di gettare nuova luce sul cinema vivente del futuro.

Ospito qui alcuni estratti dall’introduzione del libro.

 

1. «Chi vuol vedere il mondo nuovo?»

 

«Quindi, eccoci giunti a una tensione interessante e fondamentale. Un obiettivo per la realtà virtuale deve essere quello di rendere l’illusione il piú convincente possibile, altrimenti cosa stiamo a fare? Ma la migliore fruizione della realtà virtuale richiede che non si sia interamente convinti. Come in uno spettacolo di magia.»

Jaron Lanier

«Aspetto pedagogico di questo progetto: Educare in noi il medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e dimensionale nella profondità delle ombre della storia».

Walter Benjamin

 

Due secoli fa, chiunque passeggiasse per le vie di Roma o nelle calli di Venezia poteva imbattersi in un singolare artista di strada che trasportava a spalle uno strano marchingegno. Al grido «Chi vuol vedere il mondo nuovo?» accompagnato dalle note di un organetto, questo membro della vasta famiglia dei nomadi e dei venditori ambulanti dava accesso, per pochi soldi, a un’esperienza senza precedenti: il viaggio virtuale. Come recita un cartiglio databile intorno al 1760, a chi poggiasse l’occhio a una finestrella del marchingegno – una scatola grezzamente adornata che richiamava in modo vago la cassa di uno strumento musicale – si sarebbe presentato uno spettacolo senza precedenti, un vero e proprio

Teatro Ottico, nel quale si rappresentano grandi lontananze e prospettive di Templi, Piazze, Sale, Palazzi, Cortili, Giardini, Dirocazioni [sic], Accampamenti, Boschi, Montuose [sic], Pianure e Porti di Mare, il tutto viene adornato da sorprendenti variazioni di scene, le quali adornano ogni veduta a guisa di un intero Teatro compiuto di Opera, come pure le medesime compariscono anche di notte, con apparati nelle stanze di molti e variati colori ed illuminazioni esterne bellissime, con la Luna, e le Stelle al naturale, ed altre cose.

Improbabili evocatori di remote «lontananze e prospettive», i savoiardi, stagionali girovaghi provenienti dalle valli alpine al confine tra la Francia e l’Italia, recavano in spalla il mondo intero, racchiuso nella loro cassela (cassetta), e offrivano in visione «un fine spettacolo a Londra, e un nuovo mondo a Roma». Nel xviii e xix secolo, forme di intrattenimento popolare come questa offrivano esperienze «immersive» che trasportavano lo spettatore in un altrove, adombrando le esperienze di realtà virtuale o aumentata fornite oggi dai nostri dispositivi digitali. Tutte le curiose esperienze di cui si parla in questo libro non sono ancora immersioni totali in realtà virtuale come quelle consentite oggi dalla tecnologia digitale ma vi preludono già, le prefigurano (dove il termine «figurare» ha una centrale importanza, come sinonimo di «simulare»). Tradizionalmente oggetti della storia del precinema, o dell’archeologia dei media, dispositivi analogici come il «mondo nuovo» o il cosmorama, la lanterna magica, la fantasmagoria, il panorama e lo stereoscopio, si offrono anche a suggestive considerazioni da un punto di vista che possiamo definire di preistoria del postcinema. In sei casi-studio, o racconti epistemologici, questo libro passa in rassegna alcuni significativi episodi nella lunga preistoria del «realismo virtuale» che caratterizza la cultura moderna, gettando al contempo un’inedita luce su figure illustri o dimenticate del nostro passato che hanno aperto la strada alla formazione della nostra idea di un mondo virtuale, doppio o, come si dice oggi, «gemello» utopico o perturbante del mondo in cui viviamo. Categoria storica ed epistemologica, oltre che estetica, questo «realismo virtuale» è un concetto bifronte, descrive la virtualizzazione del reale che caratterizza l’età moderna e prelude alla realizzazione del virtuale inaugurata dall’età contemporanea: il mondo in cui viviamo, l’età del simulacro e della simulazione, paradossale prodotto del nostro razionalismo magico, come il pioniere e guru della realtà virtuale Jaron Lanier sottolinea nella citazione posta a epigrafe.

 Giovanni Volpato, da un soggetto di Francesco Fedeli, detto il Maggiotto, Savoiardi colla lanterna magica, acquaforte, 1765 circa.

 

2. Viaggio virtuale e voyeurismo sociale.

Il nostro itinerario prende avvio nella Venezia del xviii secolo, con il dispositivo chiamato «mondo nuovo», che registra già nel nome tanto l’inedita visione che offriva quanto il fascino della novità da cui era avvolto il semplice congegno che quella visione rendeva possibile. Nel primo dei nostri casi-studio, il dipinto di Giandomenico Tiepolo noto appunto come Il Mondo novo apre il sipario, fornendoci una lente di ingrandimento utile per mettere a fuoco i due temi principali del nostro percorso: il viaggio virtuale e il voyeurismo sociale che lo accompagna, due fenomeni costitutivi del paradossale realismo che informa la cultura popolare sette-ottocentesca e l’ideologia della modernità, prefigurando due aspetti essenziali dell’epoca digitale a noi contemporanea. Anche quando il viaggio virtuale era basato su riproduzioni fotografiche di luoghi reali, come nella stereoscopia, quella che veniva evocata era una copia umbratile della realtà, un’eterotopia che esercitava sull’osservatore una sorprendente e strana attrazione. Viceversa, questa prospettiva radicata nel presente permette di gettare una luce inedita sui reperti del passato, instaurando una sorta di meccanismo cognitivo a retroazione che rivela aspetti poco esplorati della modernità. Rimanendo a Venezia, il secondo caso-studio mette in scena il «casotto» di Domenico e Lorenzo Selva, un «mondo nuovo» di grandi dimensioni che offriva a chi vi entrasse una veduta panoramica e un magico miraggio della Venezia del 1760, confermando come una realtà teatralmente percepita tramite un apparato ottico, di fatto un’immersiva camera oscura, esercitasse un fascino singolare sulla mentalità del tardo Illuminismo. Completando un simbolico trittico, il terzo caso-studio si sofferma su due opere teatrali di due celebrati autori del Settecento veneziano, Carlo Goldoni e Giacomo Casanova. In queste due pièces, un dramma giocoso per musica e una tragicommedia, due dispositivi ottici, il telescopio e il polemoscopio, forniscono rispettivamente tanto la macchina scenica quanto la chiave di una rappresentazione sofisticata e ironica della società settecentesca: un gioco di specchi e di lenti che mette a fuoco le illusioni e gli inganni delle relazioni amorose, inesorabilmente invischiate nella rete di sorveglianza dell’occhio sociale. La pièce di Casanova prefigura persino alcuni aspetti «paranoici» dei social media contemporanei, all’insegna di una simulazione non proprio onesta. La rilettura di alcuni episodi della Storia della mia vita dello stesso Casanova aiuta a illustrare poi il voyeuristico patto con il lettore che informa la scrittura di quest’opera, in cui il polemoscopio diventa dispositivo retorico. L’autobiografia del libertino viene paragonata a uno spettacolo di lanterna magica, in cui l’autore è personaggio e spettatore insieme: le ombre del passato tornano a condensarsi sullo schermo della memoria e da qui sulla pagina, nella «camera oscura» del castello boemo di Dux, dove l’esule veneziano trascorre gli ultimi, melanconici anni della sua esistenza. La conclusione del caso-studio immagina, con l’aiuto di un artista del teatro di figura, un ipotetico «ultimo spettacolo» di Casanova: un gioco eterotopia sottomarina evocata dall’Icosameron, romanzo filosofico e fantascientifico, l’ultimo viaggio virtuale del libertino grafomane. Il quarto caso-studio ricostruisce la straordinaria messa in scena che nel 1821 consentí ai londinesi di visitare le camere sepolcrali del faraone Psammis (Seti I). Concepita da Giovanni Battista Belzoni, singolare figura di saltimbanco e pioniere dell’archeologia che aveva scoperto e scavato il labirintico complesso sepolcrale nella Valle dei Re e «riprodotto» un perfetto facsimile di due delle sue stanze, la Tomba egizia è un’illusione ottica che non utilizza lenti e dispositivi. Si tratta piuttosto di un dispositivo architettonico atto a produrre un’esperienza immersiva non dissimile da quelle che consentono i nostri apparati digitali. Al centro del caso-studio c’è un concetto fondamentale nella nostra ricostruzione di una preistoria della realtà virtuale: l’aura del facsimile, ulteriore manifestazione di un paradossale realismo che da tecnica di rappresentazione evolve in sistema di riproduzione culturale, raggiungendo la sua epitome nelle grandi fantasmagorie delle Esposizioni universali. La pionieristica installazione di Belzoni, infatti, non solo prefigura l’applicazione delle tecniche piú sofisticate a disposizione degli archeologi contemporanei per ricostruire un passato remoto e perduto, ma inaugura una nuova esperienza emotiva e interattiva che ha largo corso nei musei contemporanei, una tendenza che la pandemia del 2020 ha ulteriormente consolidato. La Tomba allestita da Belzoni all’Egyptian Hall, episodio saliente dell’egittomania ottocentesca, illustra inoltre quanto la realizzazione del virtuale si intrecci per tutta l’età moderna con l’appropriazione sia materiale sia fantasmagorica dell’Altro coloniale: un vero e proprio saccheggio, fisico e psicologico. Il quinto caso-studio illustra la vita e la carriera di Giuseppe Garibaldi raccontata in un panorama mobile acquisito e digitalizzato dalla biblioteca della Brown University circa vent’anni fa. Viene ripercorso l’itinerario che porta questo singolare artefatto da Nottingham, la cittadina inglese dove fu prodotto nel 1860 – all’apice della popolarità dell’eroe in camicia rossa, impegnato in quei mesi nella storica spedizione dei Mille –, al Nordamerica, dove approdò verso la fine della guerra civile, nel 1864. In entrambe le sue tipologie, quella circolare e quella mobile, il panorama è forse il piú rappresentativo dei media ottocenteschi analizzati in questo libro, emblematica incarnazione del realismo virtuale che caratterizza l’arte popolare e la società dell’informazione del secolo xix. Precursore del CinemaScope e dei cinegiornali, strutturalmente collegato al ciclo della stampa illustrata, il panorama Garibaldi dimostra come forme ibride di informazione e intrattenimento svolgano un ruolo cruciale nella spettacolarizzazione della storia contemporanea, producendo una nuova dimensione del viaggio virtuale e del voyeurismo sociale: il turismo di guerra, componente essenziale di una nascente coscienza collettiva del presente storico nell’epoca delle rivoluzioni nazionali e della globalizzazione imperialistica. Per finire, il sesto caso-studio guida il lettore in un mini Grand Tour dell’Italia di fine Ottocento e dei primi del Novecento, attraverso lo stereoscopio. Quest’ultimo esempio di viaggio virtuale è reso possibile da un sistema brevettato da una ditta americana, la Underwood & Underwood, che per molti aspetti prefigura il sistema di geolocalizzazione di Google, con la sua duplice visione cartografica e immersiva, al livello di strada. Con lo stereoscopio, per molti aspetti il dispositivo che corona tecnicamente il sistema un’autonoma attività voyeuristica, una consumistica appropriazione del mondo del tutto coerente con l’ideologia del nascente imperialismo americano, che porta a compimento l’epoca dell’immagine del mondo. Lo stereoscopio è l’apparato che piú fedelmente prefigura l’esperienza immersiva consentita dai dispositivi digitali, antenato dei visori che alimentano l’industria del turismo virtuale rilanciata dalla pandemia. Fedele al suo etimo (stereos in greco vuol dire «solido »), lo stereoscopio solidifica, rendendoli quasi tangibili, gli stereotipi culturali mentre offre l’assoluta libertà di movimento consentita dalla smaterializzazione del reale. Prefigurando quel mondo nuovo che oggi chiamiamo metaverso, lo stereoscopio prelude anche a quelle pratiche solipsistiche e allucinatorie che i social media hanno virtualmente sostituito ai concreti rapporti sociali e personali, portando a compimento la trasformazione del mondo in una fantasmagoria. Ma il lettore sia avvertito: alla fine del viaggio, in fondo alla penisola, in una landa suggestiva di rovine archeologiche e vulcanici paesaggi, meta di un turista onnivoro che vuole consumare in breve tempo, con i propri occhi, il mondo intero, presente e passato, una rivelazione inattesa lo attende. E l’immaginazione di un altrove che accomuna tutte queste simulazioni si rivela per quello che veramente è: una dimensione al confine tra il «qui e ora» e il «là e allora», prefigurando un’età in cui il virtuale ha ormai colonizzato (quasi) del tutto l’esperienza vissuta.

Underwood Travel System, serie Italy through the Stereoscope (1900-12), Underwood & Underwood, New York 1903.

No Other Land

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di Giuseppe Acconcia

Girato nell’arco di cinque anni, dal 2019 al 2023, documenta gli sforzi di Basel Adra ed altri attivisti palestinesi di opporsi alla distruzione del loro villaggio natale di Masafer Yatta, situato nel governatorato di Hebron in Cisgiordania, da parte delle forze di difesa israeliane (IDF), per costruirci un poligono di tiro e zona d’addestramento militare. Un’ingiunzione della Corte suprema di Israele ha infatti respinto un ricorso pluridecennale dei suoi abitanti contro questa decisione, non riconoscendo l’esistenza di Masafer Yatta sebbene quest’ultimo sia attestato sulle carte geografiche dal XIX secolo. Essendo parte della “Zona C” della Cisgiordania, l’area è sotto il completo controllo civile e militare dell’IDF, che limita arbitrariamente gli spostamenti della popolazione e arresta chi si espone in proteste pacifiche contro l’occupazione, come in una scena col padre di Basel, Nasser, un benzinaio anch’esso con un passato da attivista. Il film incorpora anche filmati d’archivio girati dalla famiglia Adra nell’arco di vent’anni (fra cui una visita di Tony Blair al villaggio nel 2009). Forte di questa tradizione, Basel decide di iniziare a filmare dopo l’arrivo delle prime ruspe nell’estate 2019.

Il Malinconico che dunque scrivo. Considerazioni sull’ultimo saggio di Paolo Godani

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di Fabrizio Bondi

0. Premessa

Non mi sembra frivolo precisare che non scrivo questo pezzo solo per interesse di studioso, né tantomeno su commissione; se non ‘su commissione di me stesso’, cosa che non credo abbia molto senso dire ma renda insomma l’idea dell’(auto) prescrizione, della medicina di cui si va in cerca per necessità. La verità, del resto, come insegna Deleuze a proposito di Proust, non viene mai perseguita “gratuitamente”. Qui scrive e (almeno così in votis) pensa, un soggetto intellettuale e fisico profondamente interessato, nel senso etimologico, ai due termini che la congiuntiva «e» incatena nel titolo del libro di Paolo Godani Malinconia e fine del mondo (2025). Come credo del resto siano, o dovrebbero essere, molti se non tutti.

Godani, autore di testi importanti, aveva già in parte affrontato la problematica qui sviscerata in Sul piacere che manca, una molto originale rilettura dell’epicureismo, quasi degna di stare al pari della serie ‘antichistica’ di Foucault (Storia della sessualità); una rivalutazione del «piacere», anche, in anni in cui il «desiderio» andava assai più di moda. Poi, si era misurato addirittura con l’archeologia del concetto di persona[1].

Non ha paura di prendere i tori per le corna, dunque, il nostro autore: e anche in questo caso egli si misura con un tema non solo filosoficamente ‘centrale’, ma anche come si suol dire scottante nell’attualità.

È noto infatti come ai nostri tempi la malinconia, sotto forma di disagio, disturbo o vera e propria depressione, venga sperimentata – per motivi sociali e personali, e più spesso per un intreccio dei due fattori – da un numero sempre maggiore di soggetti; d’altra parte la «fine del mondo» sembra a molti di noi un’aspettativa ragionevole, nell’ordine del possibile, quasi prosaica – sia essa nella forma del disastro ambientale, della rinnovata paura della Bomba ecc. – e produce a sua volta forme di tristezza persistente, blocco, inazione, ecc. Si prenda la cosiddetta «ecoansia» degli adolescenti: essa pare non essere solo un’invenzione giornalistica, se un gruppo di giovani attivisti si è voluto dare un’insegna nominale così estrema (e pare proprio il caso dirlo, apocalittica) quale Ultima generazione.

Di questi tempi, dunque, un testo che affronti il rapporto tra melanconia e fine del mondo in una prospettiva squisitamente filosofica – per quanto non esente da esplicite implicazioni etico-politiche – potrebbe venir percepito, qualora non venga letto con l’intenzione adatta e considerato dal giusto punto di vista, quale troppo ‘astratto’. E dunque non adeguatamente valorizzata l’invece altamente preziosa prospettiva di un’archeologia della Melanconia Moderna, strettamente intrecciata, nel discorso di Godani, a un suo possibile «rovesciamento» (pensiamo a una ‘trasvalutazione’ dei valori à la Nietzsche) estatico, liberante, che apra un occhio inedito sulle cose e rimetta in auge un’idea di natura (e del ruolo dell’uomo in essa) insieme inedita e antichissima.

Un antidoto necessario, credo contro il discorso nichilistico capitalista, più o meno tecnocratico, che ci intossica sempre più ogni giorno che passa come una nube irrespirabile, sia che venga dai suoi più o meno mascherati fautori, sia dai suoi critici-teorici (a volte, sotto sotto, sottilmente compiaciuti).

  1. Melanconie vecchie e nuove

La «malinconia» che Godani vuole tratteggiare, come afferma l’autore stesso puntualizzando sulla sua scelta grafica, non è quella sindrome che, a partire dai filosofi e dai medici greci e arabi fino almeno a tutto il XVII secolo, si chiamò melancholia, termine derivato dall’eccesso di bile nera da cui sarebbe stata causata. La melancholia – quella che campeggia, per intenderci, sul cartiglio sorretto dal perturbante pipistrello sullo sfondo dell’omonima e celeberrima incisione di Dürer – è stata certo descritta nel corso dei secoli in modo anche molto diverso: ma certi tratti sono rimasti invariati, la sintomatologia e l’eziologia più o meno le stesse. Anche l’iconologia non variò più di tanto: mento sorretto dalla mano, occhi infossati, corpo macilento e rilasciato, il ritratto del melancholicus – che si trattasse di un poeta preso dall’amor hereos, di un filosofo sprofondato nelle sue elucubrazioni o di un monaco tentato dal demone dell’acedia a disperare nella Salvezza ha avuto una sua longue durée.

La medicina classica e post-classica, e poi la psicologia e la psicanalisi, hanno attinto piuttosto spesso da questo repertorio allo scopo di definire fenomeni che assomigliavano alla malattia antica[2]. Kraepelin definì melanconica la sindrome maniaco-depressiva, in cui il malato è immobile, spento, muto e pressoché incurabile. Ma – come sanno bene i lettori dell’Orlando furioso, tanto per dirne una – il melancholicus antico aveva anche accessi di ipercinetica e catastrofica rabbia. Dagli scritti “naturali” di Aristotele, invece, il binomio genio-melanconia arriva fino al Romanticismo, che vi trovò troppo facile emblema nella follia (e ricovero coatto) del Tasso: soggetto, infatti, di innumerevoli quadri e tragedie. Da lì, il duo arriva fino ai nostri giorni, magari un po’ mutato, sotto forma di luogo comune ancora circolante.

Jacques Lacan, dal canto suo, recuperò invece apertamente l’acedia (il peccato a cui dovrebbero più indulgere i melancholici, quella che lo ‘psicanalista’ immaginario di Petrarca, cioè Agostino d’Ippona, rimproverava al suo paziente) per bollare il depresso-nevrotico[3] che non riesce a essere all’altezza del proprio desiderio. E vedremo appunto a quale trattamento Godani sottopone, in vari punti del suo testo, questa categoria. Prima però sono necessarie alcune osservazioni sulle sue fonti, cioè sul suo metodo.

  1. Un ‘personaggio filosofico’

Le fonti di Godani sono, come da lui apertamente rivendicato, non solo filosofiche ma anche giustamente mediche, nel senso generico e psichiatrico-psicanalitico. L’altra campata su cui poggia il suo discorso è antropologica, e in particolare vi è capitale l’ultimo duplice cantiere di De Martino[4]. Questo è letteralmente, in altre parole, il punto da cui muove la riflessione di Godani: quasi che egli si ripromettesse di compierne, naturalmente ‘tradendoli’ (come è giusto che sia per ogni passaggio di consegne) i pensieri e gli insegnamenti.

La presenza della ‘letteratura’ appare anch’essa al posto giusto – e non solo per eventuali specializzazioni buro-accademiche dello scrivente. Quante rappresentazioni dello stato d’animo malinconico ricordiamo, in prosa ma soprattutto, ahi ahi, in poesia? La malinconia di tanta deleteria pseudo-poesia dell’Io e della maggioranza delle canzonette, culturalmente ha un’origine romantica: e già a quell’epoca sembrava un poco canzonettistica, se si ricorda la «Malinconia | ninfa gentile» del Pindemonte[5]

Il rilievo non è marginale perché l’autore stesso ci indica (in un altro contesto geografico) la radice di una certa moda romantica di ‘degustazione’ della malinconia, magari in salsa poetica, in un periodo di stasi politica della borghesia tedesca, che non riusciva a far valere le sue istanze nonostante il peso economico raggiunto[6]. (Qui Godani si ispira più che a Gramsci, diciamo a un Jacques Rancière, filosofo e critico a lui caro[7]).

E tuttavia, al netto di ogni di ogni tara non è scontata l’entità, la quantità del materiale letterario usato da Godani. In questo senso egli è fedele agli usi del suo indiscusso maestro ideale, Gilles Deleuze[8]. Di fronte al peso e all’importanza che assumono La nausée sartriana, la poesia di Rilke, di Benn, la prosa di Céline, Musil, Flaubert, Kafka ecc. si sarebbe quasi tentati di affermare che sia la ‘letteratura’ il piede su cui poggia maggiormente, insieme a quello antropologico, la teoria di Godani. Gli autori citati hanno in questo libro peso pari, se non maggiore, rispetto a Nietzsche, Freud, Heidegger, Lacan; e questo è un fatto cui bisognerà dedicare un quanto di riflessione. Perché?

A nessuno sfugge che la Nausea è un romanzo filosofico, o se vogliamo il romanzo di un filosofo; che Musil sapeva, eccome, di filosofia e fa un romanzo-saggio; e Flaubert aveva letto Spinoza, come del resto la Morante (anche se Godani, qui, preferisce non approfondire il punto). Ma ciò si spiega a mio parere con l’impossibilità (ribadita in Italia a mezzo il Novecento, per esempio, da Arbasino & C.) di una qualsiasi innocenza/ignoranza, cioè rivendicata minorità culturale, nel mondo della scrittura e della narrazione.

È banale, del resto, dire che uno scrittore non legge Spinoza allo stesso modo di un filosofo. Meno banale è dire che uno scrittore, anzi una scrittura ha pensiero, che il sempre comunitario atto della scrittura-lettura ci può portare, nei suoi momenti più alti, nel bel mezzo di un processo d’indagine veritativa, dove il senso si addensa a tratti nel linguaggio (diffidare, invece, quando l’enunciato detto veritativo è dato a priori, anche se, putacaso, abbiamo simpatia per esso).

Mi pare dunque che, con questo Melanconico absolument moderne che prende forma lungo il corso del suo saggio, peraltro assai agile e limpido stilisticamente, Godani inventi un vero e proprio ‘personaggio filosofico’, categoria da far risalire ancora una volta a Gilles Deleuze che ne esemplificava il concetto ricordando il memorabile Pierre di Sartre, l’amico eternamente atteso. Creare un personaggio è in letteratura, si sa, una grossa impresa; e creare un personaggio letterario avrà i suoi problemi, come quello filosofico i suoi: ma con qualche, si crede, zona d’indistinzione…

Ma qual è dunque, infine, la radice della malinconia di questo preteso (da me) ‘personaggio filosofico’? Partendo da Sartre, Freud e Rilke, Godani descrive un Soggetto Sofferente il cui Oggetto Perduto è nientemeno che il Mondo, e il senso di colpa che il Soggetto prova per questo inabissarsi delle cose sarebbe causato dalla sua stessa incapacità di salvarlo. Tale, ridotta allo scheletro, è la tesi fondamentale del saggio.

Dunque, come tutti ben vedono, si tratta di qualcosa che va oltre la clinica e oltre l’antropologia, per diventare una sorta di categoria trascendentale. Siamo naturalmente dalle parti del Dasein di Heidegger, della ‘gettatezza’ dell’uomo nel mondo. Ma il vero obiettivo di Godani non è, se vogliamo, così scontato.

Conviene tornare ai concetti fondamentali della riflessione di De Martino (intinto del resto di heideggerismo). «Crisi della presenza» come incapacità di realizzare «l’ethos del trascendimento», cioè la prerogativa specificamente umana di elevarsi oltre la prospettiva biologico-animale-istintuale, per volgersi alla considerazione del mondo, del sapere, della comunità: e operarvi attivamente. Tale incapacità non si verifica solo nel «mondo magico», caratterizzato da penuria, fame e paure, ma anche e soprattutto nella onnipresente ‘crisi’ che nel mondo occidentale occupa con fragore la scena soprattutto tra Otto e Novecento (oltre a perdurare, magnificata, fino ai nostri giorni).

Il rovesciamento di Godani si attua proprio nell’inquadrare questi concetti come – par di capire – essi stessi presi nel gomitolo di concause della crisi. In altre parole: l’ethos del trascendimento ha come presupposto appunto trascendentale l’idea che il Mondo sia qualcosa di necessariamente mancante, corrotto, imperfetto: dunque inaccettabile. Da ciò discende il dovere morale che si pone all’uomo: di esercitare su di esso un perpetuo e incessante lavorio vòlto a migliorarlo, a perfezionarlo, a colmare lo straziante manque che il Malinconico Moderno avverte al suo centro.

È per questo che nessuna ‘iniezione di Desiderio’ può valere a guarirlo. Il desiderio, contrapposto al godimento mortifero che sarebbe secondo Recalcati il vero male del nostro tempo, non fa che dare benzina al meccanismo che si è descritto, far girare più velocemente la ruota alla quale siamo, come Issione, perennemente avvinti: e che non è certo una Macchina Inutile, ma anzi produce energia per alimentare processi ben precisi.

Continuiamo ora nell’esplorazione del ritratto del melanconico, vagliandone com’è giusto la dimensione fisica.

  

  1. Il corpo (del) malinconico

Prevedibilmente, la catastrofe del Soggetto incapace di trascendere la bruta natura si manifesta in ciò che di ‘naturale’, ‘animale’ ecc. il soggetto medesimo sperimenta più direttamente: il proprio corpo. Qui Godani ha buon gioco nel rilevare l’incrociarsi di due tradizioni: quella cristiana degli apologisti e dei Padri, che considerano il corpo come già cadavere, sacco di sanie ed escrementi. L’altra, più recente, è quella dell’anatomia di origine rinascimentale, che ha come immagine iconica il Dr. Tulp di Rembrandt.

Essa prospetta una pratica di svelamento/messa a nudo del soggetto che finisce per coincidere con la spudoratezza delle sue viscere, esposte alla curiositas voyeristica degli spettatori nel teatro anatomico.

Dunque anche in questo corpo anatomico rinascimentale-barocco potrebbe avere una sua radice genealogica il «nichilismo medico» (Benjamin). Ma quello di Benn, di Jung e di Louis Ferdinand Céline è però soprattutto figlio del biologismo positivista ottocentesco. Oltre all’indulgere, anche qui, sugli aspetti più rivoltanti e schifosi dell’esperienza medica, il punto è che l’essenza dell’uomo è più percepibile nel suo cadavere che nel corpo vivente.

Céline e il suo Bardamu vengono però, a mio parere giustamente, salvati da Godani. In questo caso il veleno fascista, che pur scorreva in una certa quota nelle vene di Louis Ferdinand, non agisce. Sono orrori creaturali a essere da lui dispiegati, ma anche la basilare voglia di vivere, ad esempio, di una sua indimenticabile vecchia, «renfermée» in casa non per fuggire dalla vita, ma proprio per non perdersi niente della vita[9].

Un capitolo del libro analizza, con bel pun nel titolo, il «fascino fascista» di un corpo perfetto, bello, agile, totalmente dominato e naturalmente pronto alla battaglia[10]. È il corpo esaltato nelle pellicole di Leni Riefensthal, il corpo «dorico» che dell’ellenismo tedesco (Nietzsche compreso) privilegerà, per orrore della décadence, la parte apollinea sullo scatenamento dionisiaco.

Sulle orme di Lévinas e di Horkeimer-Adorno, questa volta, Godani sottolinea l’orrore della fisicità e delle sue funzioni sempre nutrito dal nazifascismo, anche perché – corollario importantissimo – visto come luogo di passioni indistinte, poco decifrabili: spire di serpenti psichici aggirantisi nell’area psicosomatica. Il culto della morte nazifascista è stato peraltro studiato mirabilmente da Jesi, come ricorda Godani e, se ci si permette un’aggiunta, da Philippe Ariès, storico della morte in Occidente[11].

Naturalmente, l’autore non dimentica nemmeno l’orrore del Campo nazista, «macchina per la produzione di cadaveri», con lo scandaloso paradosso notoriamente approfondito da Agamben (ma, prima di lui, mirabilmente rappresentato da Primo Levi) del Muselmann, un corpo senza vita e senza morte, deprivato di ogni caratteristica che si possa definire ‘umana’[12].

  1. Marxismo e melanconia

Cose non del tutto inedite, si dirà. Più di un tremito, invece, ancora soffonde paradossalmente il nesso tra marxismo e melanconia. È del resto un’esperienza comune la frustrazione inesorabilmente tipica, marchiante nemmeno il marxista, ma genericamente la ‘persona di sinistra’, che sente la terribile necessità di ‘fare qualcosa’ per cambiare lo stato delle cose che gli sembra intollerabile e insieme la soverchiante sensazione che niente possa valere, che nulla possa essere fatto per mutarlo. Del marxismo (e della sua tradizione, anche critica), insieme al soggettivismo sartriano, Godani sembra sbarazzarsi sulle prime troppo disinvoltamente, opponendogli una fulminante, classica citazione di Foucault, per cui nell’Ottocento esso (il marxismo) stava come un pesce nell’acqua: tolto da questa, non può respirare[13]. Dunque il marxismo sarebbe nato a un parto con Adam Smith e Ricardo, e ne condividerebbe certe istanze di fondo (penuria originaria ecc.).

Più avanti, con l’ausilio della Storia di Elsa Morante – in pagine che sembrano quasi più una rivendicazione di quel romanzo che l’elaborazione attraverso di esso di un tratto di pensiero[14] – Godani si sbarazza della Storia, incapace di dar conto dei felici “divenire” rappresentati soprattutto dal personaggio di Useppe. E qui scatterebbe il dubbio, sempre pronto del resto in questi casi, e cioè: di che Storia o storia stiamo parlando? Non certo di quella dell’ultimo Benjamin, ad esempio[15], di cui peraltro Godani si serve eccome, in generale, meritevolmente recuperando e rileggendo originalmente alcuni testi meno noti del filosofo berlinese, ad es. Sulla vita degli studenti e altri, v. infra.

Più avanti l’autore ritorna sul problema, analizzando il marxismo ‘dichiarato’ da Deleuze e Guattari, cui egli non crede, se non come critica, appunto, del Capitalismo (il che comunque, ci vien da dire, non è poco). Ciò che i due contestano a Marx sarebbe viceversa l’idea che la sua dottrina implica uno sviluppo indeterminato, un accrescimento costante della produzione, esattamente come il suo contraltare capitalista.

Godani dà anche per assodato che il «lavoro vivo» non ha più potenza rivoluzionaria, e la lotta di classe ha perso la sua centralità nella società contemporanea. Il social-comunismo richiederebbe intrinsecamente, data la continua mobilità del capitalismo, di un apparato di stabilizzazione: quello di Stato[16]. Ciò porterebbe a due modelli, esemplificati dal consolidamento di un capitalismo appunto di Stato (Stalin et similia) o il lento scioglimento e annullamento di formazioni quali il PCI italiano.

Gli agenti di una potenzialità rivoluzionaria come li vagheggia Godani non si pongono contro la logica del capitale, ma fuori. Non accettano i termini del gioco, il suo piano di consistenza. E ciò anche se apparentemente fanno una vita più o meno ‘normale’ (non si tratta, ancora una volta, di scimmiottare gli outcasts). A porre scacco al capitale non varrà lo psicotico fascista, macchinetta da guerra sempre ricaptata dal capitalista a sua protezione, né il marxista nevrotico: ma bensì lo «schizo» (altro personaggio filosofico-psicanalitico?) e i suoi simili.

Di sicuro, benché non si abbiano molte notizie certe a riguardo, lo schizo non è depresso.

  1. Malinconia e depressione: una riflessione (non troppo) laterale

Godani non può che toccare il problema della depressione, «che molti studi considerano da almeno due secoli come la malattia del secolo», e attribuirle «senza dubbio una molteplicità di concause». Su questo, verrebbe da dire, non ci piove. A livello di ipotesi si potrebbe pensare che il concetto di malinconia ‘diffusa’ che Godani prospetta possa aiutare a risolvere un’aporia che, a mio parere, si riscontra ad esempio nel pensiero di un Mark Fisher, tra gli altri[17].

Quest’ultimo, pur avendo scavato a fondo nel problema della depressione (anche per ovvi motivi personali) non ha mai articolato a fondo il nesso che si deve presupporre tra un’eziologia ‘personale’ della depressione (storia familiare, primi anni di vita ecc.) e un’eziologia sociale della medesima (individualismo spinto della società, precariato lavorativo, ecc.).

Naturalmente, Deleuze e Guattari chioserebbero che il romanzo familiare, anche se non edipicamente à trois, è un fatto che coinvolge troppo pochi attanti. Il bambino, fin dai primissimi tempi della sua evoluzione, è preso in una molteplicità, che è quella del suo ambiente[18]. E la questione della pluralità Godani l’ha senz’altro presente anche nella sua critica del desiderio. Esso poteva funzionare se preso in «concatenamenti collettivi» (immagino che l’Autore abbia in mente il Sessantotto[19]). Infatti

Come è ormai noto, per produrre impotenza e inibizione all’azione non c’è bisogno di arrivare a situazioni estreme come la schiavitù o la prigionia; è sufficiente tagliare i nessi che fanno in modo che gli esseri umani siano agenti collettivi, è sufficiente cioè isolare gli individui impedendo loro di far valere una potenza [termine spinoziano, Ndr] comune o di farla valere solo nella forma dimidiata del servizio e dell’obbedienza, come accade per la gran parte del lavoro contemporaneo (qualunque cosa ne dicono i suoi apologeti)[20].

L’ipotesi di una malinconia moderna come declinata da Godani potrebbe fungere da coadiuvante, da emulsionante per così dire (si prenda tutto ciò con beneficio d’inventario) tra queste due dimensioni – i traumi infantili, più o meno ‘fondativi’, ‘generativi’ di nevrosi del bambino, e quelli adulti, legati all’identità, al ruolo e all’inserimento nel mondo sociale, lavorativo ecc. – per saldarli in un’unica, malefica, catena depressiva. Ma non facciamoci travolgere, anche noi, dal pathos dello scacco: il nostro filosofo ha in serbo dei rimedi, come vedremo: e addirittura una «gaia scienza». È un’espressione che anche Lacan usa.

Lo psicanalista francese accusa di lacheté, di viltà morale il depresso nevrotico. E quale sarebbe il suo peccato? Il ne savoir bien dire, non avere il coraggio di dire la verità su sé stesso. A bilanciamento, ma sempre su uno sfondo medievaleggiante (come abbiamo detto, quel peccato era l’acedia) sta un gai savoir che per restare tale, deve limitarsi al gusto della decifrazione, sennò rischia di andare troppo a fondo e trovare ancora il non-senso basico dell’esistenza. Dunque la riflessione lacaniana sulla depressione giunge a uno scacco, perché dove non perviene l’inconscio e si ha il discorso, e «c’è sapere solo di non senso»[21]; dove invece l’inconscio c’è, abbiamo la depressione melanconica.

Una via al gai savoir (e anche la fonte dalla quale Nietzsche trasse l’espressione), come dimostra Agamben in un capitolo di quello che resta forse il suo capolavoro[22] esiste, ed è la joi che mai non fina dei trovatori medievali, il loro circolo-circuito poetico tra amore, fantasma e poesia. Lì sta forse una via d’uscita. Lacan l’aveva intravista.

  1. Sei

[…] pur non potendo certo diventare una forma di gioia, la melanconia può tuttavia essere cercata, come segno di rivolta contro quello stesso ordine oppressivo. Da Baudelaire agli hikikomori, questa compresenza di passività e rivolta, di tristezza e di conflitto, è caratteristica dell’atteggiamento melanconico[23].

Si potrebbe anche osare di più, volendo, e attribuire alla forza di negazione – certo magari passiva – che la melanconia porta in sé, un valore paradossalmente attivo[24]. E questo è il valore del rifiutarsi, del ‘no’ di chi butta in faccia il proprio dolore, il proprio fallimento, la propria coscienza infelice ai modi di vita, di lavoro e di relazione che compongono il must del neoliberismo, o del capitalismo avanzato che dir si voglia e che stigmatizza quelle condizioni come segni di fallimento e svalorizzazione.

A questo punto mi viene un dubbio. Può essere considerato un MM (Malinconico Moderno) il Bartleby di Melville? In fondo, anche la sua è una ‘protesta’ passiva, anzi involontaria. È probabilmente malinconico, ma sospetto che non sia questo il tratto che lo caratterizza, che lo inchioda a una patologia. E ricordiamoci sempre che lo scrivano si rifiuta, è vero, ma con una formula negativa a propria volta sabotata (I would prefer not to ne è una delle versioni). Forse Bartleby è un eroe diverso, su cui del resto si è riflettuto filosoficamente in alto loco[25].

L’altro carattere ‘positivo’ della malinconia, o meglio la possibilità di farne, in termini lacaniani, un sinthomo – qualcosa che insieme rivela e taglia, stacca dal soggetto la manifestazione nevrotica – è la sua vicinanza alla contemplazione.

A questo punto del libro di Godani, a squarciare le nebbie dialettiche del Narrare o descrivere di Lukács – difensore dei narratori della Storia, smanaccianti coi fatti, cantori dell’individuo agens immerso ‘da protagonista’ nel divenire storico – ecco una linea di luce abbagliante, benignamente pietrificante che si irradia dalla ‘vita immobile’ di Caravaggio e giunge fino all’illuminazione materialistica e panteistica del Sant’Antonio di Flaubert. E ciò passando per l’«estasi» di cui discettano Ulrich e la sorella nell’ultima, misteriosa plaga dell’Uomo senza qualità. ‘Il mondo visto nella sesta giornata della Creazione’ cioè prima che sia creato l’uomo, è ciò che contempla Musil e che ci dovrebbe mostrare il «rovescio della malinconia». Uscire dall’individualismo moderno, dal personalismo religioso, dallo storicismo dialettico sono le condizioni indispensabili per vederlo.

È interessante la contro-analisi che Godani fa di un sogno malinconico riferito dallo psicologo Frédéric Lambotte. La paziente si trova in un teatro illuminato in cui può vedere tutto. Essa si sente estranea alla recita, di cui vede la falsità, ma anche dalla generale macchinazione teatrale del regista e dei tecnici. L’autore attrae la nostra attenzione sul carattere panottico del sogno: ella, certo, viene confermata radicalmente nella sua esclusione dal mondo, ma può vederlo per intero, nelle sue connessioni di tutto con tutto. (Un perfetto colpo anti-edipico, peraltro: se la teatralità è una dimensione intrinseca a quella costruzione mitico-psicanalitica).

Un po’ di gloriosa luce è anche quella che proietta sullo schermo, è il caso di dirlo, il cinema Neorealista italiano nell’interpretazione, questa volta, del Gilles ‘cinefilosofico’: sulla passività ostinata, senza illusioni, di un popolo che formò la vera base della Resistenza italiana. Quel cinema, dal punto di vista tecnico, mirò alla creazione di un’immagine piena, non documentaria né metaforica, ma tale da rendere personaggio e spettatore veggenti o visionari. E la luce è poi quella delle giornate di Tournier, «ancorate come barche in rada»: ci si permetta questa sovrapposizione montaliana al tempo “sprogettato” del nuovo Robinson in Venerdi o il limbo del pacifico.

Sulla scorta poi dell’‘autonalisi’ di Spinoza[26] si addita al nevrotico la crepa che talvolta si manifesterebbe in ogni dolore e attraverso la quale può filtrare la luce di un’ipotetica guarigione. Essa è il «risultato di una decisione», presa la quale il mondo gli apparirà già da sempre «salvo» e il proprio «non essere che una cosa tra le cose» una fonte di consolazione.

Si ricorderà però che proprio la decisione è il locus desperationis del depresso[27].

Ma il depresso non si sovrappone (completamente) alla silhouette del malinconico, ci rimbeccherebbe Godani. E così sia.

  1. Ricordi di un lettore di uno spinoziano

Mai come nella parte finale del libro l’autore si conferma buon allievo di Spinoza, oltre a confermare come l’opera di rilancio del filosofo olandese da parte del solito Deleuze sia stata una delle operazioni filosofiche veramente ‘magistrali’ nel secolo scorso: e ora se ne raccolgono i frutti. Baruch rappresenta il filo conduttore attraverso il quale Godani intreccia l’idea benjaminiana di bene ‘inappropriabile’ («la società si presenta come un bene comune che precede e dissolve il carattere di possesso di ogni singolo bene fugace e appropriabile. Per questo manca il suo indirizzo ogni teoria socialista o comunista che miri soltanto a una equa distribuzione dei beni, perché si tratterebbe pur sempre di un “ordine del possesso”[28]»; è l’Amor Dei Intellectualis spinoziano che lo aiuta a illuminare la complessa dinamica di esposizione/nascondimento dell’«indistruttibile» che Kafka intreccia negli Aforismi di Zurau[29], così come la a prima vista sconcertante affermazione di Benjamin secondo cui «la porta della giustizia è lo studio» (Frammento teologico-politico).

Uno studio che «non può essere un’attività formale, fredda, disinteressata, giacché esso soltanto produce in noi una gioia attiva che ci sottrae al gorgo delle passioni e consente quella che Spinoza chiama acquescientia in se ipsum»[30]. Attraverso l’immaginazione spinoziana, quella che vede le cose solamente in modo finito e staccato tra loro, Godani interpreta l’insensatezza percepita da Roquentin nella Nausea, uno dei suoi punti di partenza. La razionalità è il secondo genere di conoscenza, quello che vede i legami comuni, e dunque atemporali, tra le cose. Il terzo genere di conoscenza fa sì che

le cose non ci appaiano più come […] individui eslege che emergono in maniera effimera dal nulla che li circonda, ma si presentano come parti dell’intera natura. La natura, se seguiamo Spinoza, non è un arcipelago di isole emerse a caso dall’oceano del non-essere, ma è una sostanza, un tutto articolato, di cui le singole cose sono le parti. Questo tutto che è la Natura, che è anche Dio, ha due caratteristiche fondamentali: è necessario ed eterno[31].

Alla luce dell’amore intellettuale del Deus sive Natura Godani rilegge anche una molto suggestiva triangolazione letteraria tra Keats, Borges e Schopenhauer[32]. Visto sotto la luce di questa terza e suprema specie di conoscenza, il canto della rondine della lirica di Keats non è effimero, e nemmeno si ripete in quanto se ne riconosce l’archetipo, l’idea platonica (soluzione Schopenhauer). Prendendo sul serio il dubbio di Borges, quella precisa rondine, nella sua individualità, ha già cantato e canterà nell’eternità ininterrotta delle cose: è una «rondine-formula», dice Godani con bella invenzione che dà a quel piccolo essere (‘piccola forma’) la consistenza degli enti matematici e logici.

Si capisce che, anche per una nuova generazione politica – per la quale non si danno ovviamente ricette certe – l’autore auspicherebbe una «educazione spinoziana», così come Sul piacere che manca aveva con sottile ironia preconizzato il formarsi di comunità neo-epicuree lungo il Mediterraneo. Non possiamo che aderire al suo presunto auspicio, in questi tempi così calamitosi per lo studio, la conoscenza e la contemplazione, fuori e dentro le istituzioni accademiche[33].

  1. Dialoghi

Con chi dialoga o può dialogare questo libro, oltre ai malinconici di sinistra in cerca di panacee? È facile, scolasticamente facile, sentirvi consonanze con altre ‘filosofie dell’essere’ o neo-parmenidee che dir si voglia, che l’autore però non chiama in causa sia per formazione filosofica sia, probabilmente, per ragioni politiche. Del resto, non crediamo che quelle filosofie, né i loro fautori che ancora vedano «il dolce lome», siano molto disposte al dialogo. Piuttosto i movimenti di pensiero ‘dell’Antropocene’, per quanto quasi impossibilitati a stabilizzarsi e acquisire continuità dal continuo ‘rilancio’ che le potenze mondiali operano sulla bilancia della catastrofe ambientale, che nel frattempo viene sempre meglio studiata, conosciuta, ecc. Piuttosto, e pour cause viene da dire, il libro dialoga con l’arte: e soprattutto, in letteratura, con una certa ‘scuola dello sguardo’ che si dirama dal nouveau roman francese fino a Francis Ponge, e da questo a esperienze soprattutto poetiche contemporanee, anche italiane, di ‘descrizione del mondo’.

Inoltre, il libro di Godani può dialogare con alcune proposte teoriche che hanno cercato prospettive politiche di liberazione proprio nella poesia, ad esempio nel saggio di Italo Testa Autorizzare la speranza. Solo una citazione tra le tante possibili:

Materia sognante. Come pensare un materialismo poetico per cui quest’indifferenza abbia un valore e contenga possibilità vitali, non solo estetiche? Se torniamo col pensiero tradizionale della natura, ci rendiamo conto che essa possiede sì la possibilità della violenza e del dolore, e di un ordine del mondo indifferente ai nostri scopi, ma anche del suo contrario; ché anche la dimensione del bene, e del giusto, è un modo, per quanto fragile, di manifestazione, emerso a un certo punto sul palcoscenico della physis[34].

Le connessioni col cinema, già energicamente sottolineate da Godani stesso, potrebbero rivelarsi una traccia assai feconda di sviluppo, ma forse troppo per essere seguita in questo luogo. A questo proposito vorrei solo ricordare un’ipotesi, appunto, che collega De Martino al cinema. L’ha formulata Carlo Ginzburg, riflettendo sulle radici anche biografiche del lavoro sulle apocalissi culturali. Esso secondo lo storico sarebbe stato ispirato anche, grazie alla mediazione del filosofo Enzo Paci, dal film l’Eclisse di Michelangelo Antonioni, soprattutto dal perturbante finale ‘senza attori’ in cui il fenomeno astronomico assume, nelle inquadrature di edifici, strade vuote, titoli di giornali occhieggianti al pericolo atomico, risonanze da vera e propria fine del mondo. L’articolo, peraltro, sembra pienamente dare ragione a Godani, se conclude «Crisi della presenza e fine del mondo: due facce della stessa esperienza emotiva ed intellettuale»[35].

La citazione precedente, però, tratta dall’edizione del 1974, sembrava piuttosto segnare una tensione tra le dimensioni individuale e universale dell’esperienza in questione: «Due antinomici terrori governano l’epoca in cui viviamo: quello di “perdere il mondo” e quello di “essere perduti nel mondo”»[36].

In effetti il pericolo nucleare aveva all’epoca segnato un effetto di emergenza che appare simile ai giorni in cui viviamo, in cui le nostre personali angosce e quelle di un mondo in sempre imminente pericolo di finire non si armonizzano, nemmeno nella negatività del pessimismo: l’antitesi rimane divaricata, così che sentiamo di chiederci, a posteriori, se il persistere della melanconia godaniana non si riveli, quale appunto ogni formazione nevrotica, quasi una forma di paradossale difesa[37].

NOTE

[1] Cfr. Paolo Godani, Il piacere che manca, Etica del desiderio e spirito del capitalismo, Roma, DeriveApprodi, 2019; Id., Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, Macerata, Neri Pozza, 2021.

[2] Le malattie, com’è noto, cambiano, o meglio cambiano le epistemi che ne riconoscono e organizzano i sintomi.

[3] Ma v. infra, paragrafo 5.

[4] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, nuova ed. a c. di G. Charufy, D. Fabre e M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2019; Id., Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a c. di M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2021.

[5] Ma ricordiamoci anche che Leopardi dichiarava: Non è proprio di questi tempi altra poesia che la malinconica, Zibaldone, n. 2364, in Id., Zibaldone, Milano, Mondadori, II, p. 2526.

[6] Cfr. P. Godani, Melanconia e fine del mondo, Milano, Feltrinelli, 2025, p. 120.

[7] Pure, l’equivoco poteva forse scattare, facendo sospettare qualche problema metodologico.

[8] Sul quale egli ha scritto anche una monografia, cfr. P. Godani, Deleuze, Roma, Carocci, 2009.

[9] E ricordiamoci di quel manifesto medico eccezionale, che definirei anti-nichilista, il dolcissimo Dr. Semmelweis che fu oggetto della tesi di laurea in medicina di Céline.

[10] Per chi voglia invece oggi farsi ‘un corpo non fascista’ si può rivolgere a Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Milano, Feltrinelli, 2012.

[11] Che schedò anche l’inverosimile necrofilia dei racconti di Charles Maurras.

[12] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone. Homo sacer III, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 37-80 (e passim).

[13] Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 283-284.

[14] Non voglio entrare nell’inveterata polemica. Mi metto tranquillamente da solo nell’angolo degli Infelici Molti.

[15] Penso ad esempio all’idea di immagine dialettica ‘in stato di immobilità’ (abbozzata in Passagenwerk). A essere onesti però Godani cita le Tesi sul concetto di storia in un passo abbastanza capitale (cfr. Godani, Malinconia cit., p. 188).

[16] A questo proposito, l’ipotesi trokista non è presa in considerazione.

[17] Possiamo prendere ad esempio il noto M. Fischer, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2017.

[18] Ma il loro exemplum era il Presidente Schreber, cresciuto fin da piccolo in un ambiente carcerario: non credo che questo possa valere come paradigma collettivo, il che non toglie nulla, a mio parere, alla loro critica del «teatrino» edipico del freudianesimo ortodosso.

[19] Rocco Ronchi, altro pensatore deleuziano o post-deleuziano, indica nel Sessantotto un carattere di Evento (cfr. l’introduzione alla sua bella monografia su Deleuze per Feltrinelli “Eredi” diretta da M. Recalcati).

[20] Godani, Malinconia cit., p. 119.

[21] Letto in ivi, p. 197.

[22] G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 1975.

[23] Ivi, pp. 120-121.

[24] Sarebbe questa la tesi, ridotta all’osso, di George Edmondson e Klaus Mladek, A politics of Melancholia. From Plato to Arendt, Princeton University Press, 2024. Dove però, non sarà sfuggito al lettore attento, viene recuperata la grafia antica, latineggiante del termine.

[25] Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Bartleby La formula della creazione, Macerata, Quodlibet, 1993.

[26] De emendatione intellecti, 1677.

[27] A puro titolo documentario, rimando a Gli innesti di un impoetico. Sul Poema osceno di Ottiero Ottieri, in: «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», n. 5 (2016).

[28] P. Godani, Malinconia cit., p. 184.

[29] Rimandiamo al lettore la densissima ermeneutica degli Aforismi di Zurau di Kafka che Godani compie verso la fine del libro. Darne un riassunto non servirebbe a nulla.

[30] P. Godani, Malinconia cit., p. 195.

[31] Godani, Malinconia cit., p. 199.

[32] Ivi, pp. 190-194.

[33] Le università erano sì i luoghi di custodia ‘molari’ di quel sapere umanistico in senso deleterio di cui parla Godani, ma anche luoghi in cui talvolta si è potuta dare, in passato, l’esperienza di una ricerca ‘pura’, non astralmente lontana da quella sospensione del possesso, del lavoro, dell’azione passionale che deve esserne premessa. O si tratterà forse di un mito?

[34] Italo Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Novara, Interlinea, 2023.

[35] Carlo Ginzburg, Verso «La fine del mondo». Sull’ultimo progetto di De Martino, in Id., La lettera uccide, Milano, Adelphi, 2021, p. 211.

[36] Ernesto de Martino. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a c. di C. Gallini, Torino, Einaudi, 1977, p. 475. Il pensiero contiene un cataloghetto ancora in parte valido dei vari tipi di ‘apocalittico’.

[37] Anche si potrebbe registrare una specie di ‘perdita dell’aura’ della fine del mondo: l’apocalisse atomica poteva ancora mantenere infatti un certo fascino prometeico-faustiano proprio dell’essere superiore che perisce per aver scoperto il fuoco intimo, il segreto del mondo. L’apocalisse ‘ambientale’ ci scorona del tutto, mettendo in luce soltanto una specie che perisce per avidità e stupidità, per non aver avuto cura del Mondo, ormai ‘ridotto’ a pianeta. Anche questo fa parte di un trauma antiumanistico che la situazione attuale ci fa vivere: ma dal quale, anche grazie al libro di Godani, possiamo imparare.

*

Immagine: Le Tasse en prison visité par Montaigne di Fleury François Richard

Minitrilogia della schiavitù

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di Leonello Ruberto

                                                        Uno schiavo

 

C’è un regolare contratto. E io l’ho firmato. Quindi è fatta.

Non sono nato schiavo, come gli schiavi del passato, se così era. Che ne posso sapere io che ho studiato poco.

So che oggi ci sono vari tipi di schiavi, non sono il solo. Alcuni sono di altissimo livello. Si tratta soprattutto di sportivi, cantanti o attori, messi sotto contratto a vita da qualche ricchissima persona.

Degli sportivi mi chiedo che se ne fanno una volta invecchiati, ma forse non è questo il problema. Hanno così tanti soldi che ragionano diversamente da me, forse vogliono andare sul sicuro, è una dimostrazione di potere. Si possono permettere di sprecare, anche una vita. E che può importare al diretto interessato, anzi è meglio per lui, forse si fa una lunga pensione dorata. Chi si tirerebbe indietro.

Io di soldi, stipendi e pensioni non mi dovrò più preoccupare, ed è per questo che ho accettato di essere uno schiavo. In questo senso forse assomiglio agli schiavi del passato, ma come al solito non ne sono sicuro perché che ne so io.

Qualcuno dice che non è giusto, ma c’è un contratto che ho firmato. E allora tutti dicono che si può.

Nel contratto è specificato che non si può disdire e che la fine è solo in caso di morte. Più chiaro di così. Non ci sono appigli, formule nascoste, l’hanno scritto dei bravi avvocati del padrone.

Ecco, mi sono già abituato a chiamarlo padrone, e non è peggio del vecchio padrone che era cioè il mio datore di lavoro. Il mio vecchio padrone mi faceva soffrire sul serio, perché stavo sempre sul filo del rasoio.

 

Vero, ora come schiavo sono obbligato a ubbidire da contratto, ma anche prima ero obbligato a ubbidire da un contratto che però si poteva disdire. E non ero certo io a volerlo disdire perché avevo bisogno di quel contratto, e disdirlo voleva solo dire cercarsene un altro.

Quindi cosa cambia, ne firmo uno per sempre ed è fatta. Almeno mi tolgo quell’illusione che crea tanto disagio.

Questo è stato il mio ragionamento e come darmi torto. Addirittura alcuni arrivano a dire che sono fortunato a essere uno schiavo. Mah, non so, la fortuna è un’altra cosa.

Si sa, ognuno dice la sua, siamo tutti diversi e vogliamo sentirci diversi, ma poi di fronte a qualcosa di regolarmente firmato siamo tutti d’accordo.

La cosa peggiore sono i parassiti della società, quelli che vivono come capita, che sfruttano il ricco sistema perché a loro basta poco per campare e che gli altri si arricchiscano pure. Eh no, non funziona così, tutti abbiamo l’obbligo di cercare di arricchirci. E quello che è in più va buttato, non dato ai parassiti. Non vanno incoraggiati.

Allora essere un regolare schiavo è davvero un’alternativa, per chi non ci crede alla possibilità di diventare ricco (non volerlo, come ho detto, non è permesso).

Io avrei voluto solo stare in pace. E ora lo posso fare. Magari dimostrerò davvero che esistono gli schiavi contenti.

 

 

                                                        Cani guida

 

Il numero di cani è ormai arrivato, dall’essere uno ogni due persone, a uno per persona.

C’è anche chi ne ha due o tre, ma chi non ne ha nessuno è ormai ai margini della società. Non in senso economico, anche chi vive per strada ha un cane, ma nel senso di poter stare, e muoversi, in questa società.

Da quando le auto rimasero incastrate nelle strade e ci vedemmo costretti a scendere e muoverci a piedi, la semplice passeggiata quotidiana col proprio cane si è trasformata in qualsiasi percorso si voglia fare.

C’è stato un adattamento spontaneo. Non è facile districarsi tra le lamiere che invadono città, periferie e campagne, soprattutto guardando il proprio dispositivo.

Così l’essere vivente animale che è il cane al guinzaglio ha cominciato a farci da guida. Tanto lui deve camminare e non ci lascia sbattere a destra e sinistra.

Anche il rientro a casa ha cominciato a essere guidato dal cane, in quanto i dispositivi sempre più moderni non permettono a conti fatti di cui non ci rendiamo nemmeno più conto di distoglierci.

A questo si aggiunge il fatto che da tempo i dispositivi non hanno più pulsanti, quindi nemmeno quelli di accensione e spegnimento, e che anni fa sono spariti pure i piccoli led rossi di notifica silenziosa, quindi il dispositivo si illumina tutto ogni volta che è necessario, anche di notte. Il volume non si può più abbassare per nostra scelta, nel senso che si è scelta la comodità del volume che si regola da solo secondo le esigenze. Che possono essere nostre, o del mercato nel caso delle pubblicità che finanziano i nostri dispositivi: in questo caso per forza di cose il volume solitamente è alto e richiede la nostra particolare attenzione.

Quindi in quanto esseri umani che necessitano di sonno continuato finiamo per essere molto stanchi e storditi durante la giornata. Per fortuna che il nostro cane ci riporta a casa e ci guida anche dentro, sta all’erta accorgendosi che ci stiamo alzando dal letto per andare in bagno, ci tiene d’occhio mentre pisciamo a porta aperta armeggiando con il dispositivo che ci ha svegliato per chiederci qualcosa.

Questi cambiamenti non hanno impattato sul mondo del lavoro, in quanto lavoriamo coi dispositivi. Quando le auto, sempre più prodotte e sempre più grosse, finirono per bloccarsi per le strade e nei parcheggi da cui non potevano più uscire, e questo non successe dappertutto contemporaneamente, comunque i produttori non si fermarono. Finché non si è riempito tutto. I telegiornali nei primi tempi mostrarono la tragedia dei depositi pieni di auto prodotte che non potevano più andare da nessuna parte. Ma come per ogni tragedia se ne parlò per un periodo limitato.

I produttori che prima non avrebbero saputo come fare a meno di quella produzione cascasse il mondo avranno trovato altro da produrre, che ne capiamo noi cittadini di economia a certi livelli.

Lamentele non se ne sentono, men che meno da noi per come viviamo, trascinati da un guinzaglio tra i fianchi delle automobili con passaggi stretti e tortuosi, tornando nostro malgrado a casa con qualche livido su cosce e braccia, per quanto il nostro cane stia attento a evitarcelo.

Così quella che alcuni malignamente insinuarono fosse una moda, la moda di avere il cane, in barba al fatto che sia un essere vivente che vive per un certo numero di anni e non un vestito che si cambia (ma sappiamo che anche i vestiti impattano), osando ammettere che le persone siano irresponsabili, alla fine comunque è tornata utile, molto utile, anche per quei pochi che si opposero dicendo qualcosa e sono stati zittiti dalla realtà.

Nella confusione che è la nostra quotidianità comunque sopravviviamo. Ci siamo adattati e si sono adattati i nostri animali, nonostante la tecnologia non c’entri niente con loro. Sembra che nemmeno si azzuffino più tra di loro quando si incrociano per le strade, occupati a non perdere di vista il proprio padrone con la testa piegata sul dispositivo nel guardarlo. Forse hanno anche rivisto il concetto di territorio, che non è più quello esteso animale, ma quello umano di recinti e portoni, così si evita di abbaiare e scatenare inutilmente il pandemonio quando solo si passa davanti a un recinto.

Purtroppo chi ha progettato i dispositivi è normale che li abbia fatti in modo da farceli usare il più possibile, è nei propri interessi, per quanto abbia potuto condizionare le nostre vite.

In tutto questo ha poco senso insinuare che magari anche i nostri cani, già che ci sono, aiutandoci enormemente, soddisfano i loro interessi personali.

Portandoci fuori secondo i loro bisogni, così che magari i nostri orari e percorsi sono scanditi e tracciati in base ai bisognini.

 

 

                                                         Robot

 

Sono abbastanza vecchia da ricordarmi di un sogno, che avevamo un tempo, di un futuro in cui i robot avrebbero lavorato al nostro posto.

Non molti se ne ricordano oggi, almeno a giudicare dalle brevi chiacchierate che ci facciamo coi colleghi mentre siamo chini sulle nostre faccende.

Io nei più lunghi momenti di solitudine lavorativa fantastico pensando alla storia del genere umano, alle invenzioni che avrebbero cambiato il mondo e reso il nostro futuro più facile.

Lo scopo sembra sempre essere stato quello, il progresso, il miglioramento dell’umanità. Fino a un certo punto.

C’erano già dei segnali quando io ero giovanissima, tutto era regolato, giustamente perché non c’era alternativa, dal mercato. Il mercato dava la spinta. Fortissima. Senza non c’era efficienza, era tutto lento. Ma si vedeva che spesso i risultati del mercato non coincidevano con un vero miglioramento. Se un’innovazione non porta guadagno, a che serve? Così si selezionavano le innovazioni, e quelle che in qualche modo ci avrebbero reso più liberi, anche dalle leggi del mercato, venivano lasciate da parte.

Ero giovane e ingenua. E studiavo. I giovani che fanno questo si immaginano il proprio futuro, credendolo possibile, in fase di realizzazione. Nemmeno tanto lontano.

Mi piaceva leggere, dipingere, creare, studiare per il gusto di farlo. E pensavo che facendo parte io, come tutti, dell’umanità, e seguendo io insieme a tutti gli altri il percorso dell’umanità verso il progresso, ne avrei goduto i frutti, i risultati.

Non mi pareva fantascienza immaginarmi donna adulta coi robot che fanno i servizi domestici per me mentre io dipingo la mia ultima tela, o qualsiasi altra cosa la mia creatività mi ispiri.

Non era così insensato pensare addirittura che le macchine avrebbero potuto lavorare per noi e a noi cittadini sarebbe toccata una parte dei redditi prodotti. Che cosa se ne fa un robot di uno stipendio?

C’erano però degli uomini saggi e ormai avanti con gli anni, che avevano lottato in un mondo di diseguaglianze sociali, ma anche di cambiamenti a cui loro stessi avevano contribuito, che avvertivano del pericolo. Magari con un semplice dubbio: le macchine sarebbero state in grado di lavorare per noi, ma chi sarebbero stati i padroni delle macchine?

Comunque non si arresta il progresso, che sia generato dall’atavica sete di conoscenza del genere umano o dal mercato.

Così i robot reali e virtuali sono diventati parte del nostro quotidiano. Io sono una donna comune, e siamo in tante, forse in proporzione non siamo meno di quanto saremmo state in qualsiasi medioevo della storia, e ho il mio lavoro come addetta alle pulizie.

Pulisco le macchine, i robot, e i luoghi in cui compiono le loro attività. Robot sempre più bravi e intelligenti, in grado di migliorarsi da soli. Sono loro a dipingere, comporre musica, scrivere sceneggiature e girare i film che alla sera guardiamo coi piedi indolenziti e la schiena dolorante per le fatiche fisiche che loro non sono in grado di compiere.

E per fortuna che ci sono cose che le macchine non sono in grado di fare da sole, i cosiddetti lavori, appunto, manuali. In cui ci vuole una certa manualità, umana. Altrimenti resteremmo senza lavoro e senza lavoro non si mangia, che è il limite del genere umano. O magari sarebbero in grado, ma sono diventate tanto intelligenti da non avere voglia di farlo.

Non sappiamo il reale grado di intelligenza raggiunto, sembrano non saperlo nemmeno i loro inventori, o forse lo sanno ma preferiscono tenere il segreto. Un po’ come la legge del mercato che sembra regolarsi da sé pur essendo fatta da noi. Ma come direbbe qualche vecchio che ha combattuto le vecchie battaglie del mondo di prima dell’intelligenza artificiale, chi fa parte di questo “noi”?

Potrei chiedere a mio marito – eh, da ragazza immaginavo addirittura che non ci sarebbero stati più i mariti e le mogli, non nel solito senso –, lui potrebbe saperne qualcosa di più.

Perché ha un lavoro migliore del mio, nel campo della manutenzione, come praticamente tutti. Però lui si occupa della parte informatica: di pulizia informatica, manutenzione software. Le intelligenze artificiali ne hanno bisogno per funzionare.

Ricomincio a fantasticare pensando ai vecchi romanzi o film in cui i robot si ribellano agli umani, immaginando una ribellione degli umani verso i robot.

Ma non la vedo possibile, non siamo così uniti, non abbiamo percezione di questa unità. Posso solo intuirla, sentirla dentro di me e crederla concretamente realizzabile come facevo da ragazza col mio futuro.

In ogni caso una rivoluzione del genere non potrei realizzarla nemmeno con l’immaginazione, che ne so, in un libro, perché non tocca a noi umani scrivere i libri.

Gli anni degli altri

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Di Marco Carretta

 

03:07

Dorme a stella
male al collo,
a sinistra per il reflusso.
Mai di schiena per il russare.

in piedi
ti guardiamo voler dormire

Resta con le mosche
degli occhi,
le scie.

Spesso cade
con il volto nelle mani.

 

 

 

 

2023

Arriva un pacco,
suo padre preme le bolle
come lui le parole.

Forza un pensiero di martello
fuori dalla sua testa.

Il pacco arriva dal passato.
È un pacco vuoto.
È un pacco di foto.

 

 

 

 

VII

La strada cola
fino al quartiere dopo e gira,
gira sul campetto delle estati viola.

essere vicino alla fontana. Lo eri.
avere il pallone gonfio. Lo avevi.

Tra le dita un filo d’acqua.
L’estate una mattinata sua.

quindi sentiamo sentiamo
a quanto ammonta l’ammanco?

 

 

 

 

Skincare Routine

La madre di Giulia ha poche rughe.
Non per le creme,
ma per le mancate preoccupazioni.

Non ha mai visto una bolletta.

La cura della pelle sai, è materia fiscale.

 

 

 

1996

I coetanei aggressivi,
discendenze manomesse in catena,
con i soffitti crollati, le crepe nei denti,
gli dicevano che non correva.

che pesavi, non salti
che eri l’uomo in meno

“Noi abbiamo l’uomo in meno”

eri tu eri tu
lo ricordiamo,
poi farne qualcosa is up to you

 

 

 

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Dalla Prefazione di Francesco Targhetta

Nell’immaginario poetico di Marco Carretta è ricorrente sin dall’esordio la figurazione della caduta, lì presente già nel titolo, qui, in questo suo secondo libro, Leitmotiv che ne scandisce i passaggi chiave, a partire dalle chiuse dei primi due testi. Se in Per far vivere altro cadiamo c’era uno sfondo sociale a connotare il collasso e il cedimento, secondo il filo rosso lavorativo che attraversava la raccolta, ne Gli anni degli altri l’impressione è che l’immagine rimandi piuttosto a un continuo carotaggio nei recessi interiori, accompagnato da un dolente senso di perdita, tanto che i due concetti finiscono a un certo punto per essere abbinati («perdi qualcosa che casca», VIII). Non è riferita al presente, tuttavia, la fear of missing out di Carretta: a sfuggire di mano è qualcosa che non c’è già più, ed è quanto rende l’«ammanco» ancora più frastornante.
Lo stordimento vale anche per chi legge: la poesia di Carretta è sincopata ed ellittica, fatta di inceppamenti e reticenze, controcanti e correzioni, vaste panoramiche e brusche zoomate a metà inquadratura, e a complicare questo dettato raggrumato e «fitto» quanto l’uomo che troviamo a inizio libro si aggiunge l’assenza di un accorpamento dei testi in sezioni.
La struttura della raccolta è volutamente sformata e labirintica: alcune coordinate per orientarsi ci sono, ma vengono lasciate prive di cornice e di ordine, per uno scompaginamento continuo che simula «il logorante lavoro di dover accadere» – l’unica costante, senza intervalli, di una vita. Anzitutto possiamo riconoscere un asse temporale, che procede su due diverse misure, una data dai minuti ossessivamente scanditi di una veglia notturna, l’altra dagli anni scombinati e rimescolati dall’alea del ricordo. Le poesie segnate in numeri romani, invece, si posizionano su un asse spaziale, per cui troviamo un soggetto che si sposta (i verbi di movimento fanno da costante) su uno sfondo preferibilmente urbano, incontrando gli altri del titolo – sconosciuti, familiari, fantasmi del passato, ma anche i diversi sé nel corso del tempo, in un riverbero di sovrapposizioni, transfert e illusioni ottiche vertiginoso. Ne esce un grafico di detriti dove ogni geometria interiore e ogni diagramma del proprio rapporto col mondo esplodono, per il bene della poesia. […]

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Gli anni degli altri di Marco Carretta è in uscita ad aprile nella collana di poesia Nereidi di Vydia editore, curata da Cristina Babino.

 

L’oblio è sempre un male?

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di Matteo Bianchi

La memoria tra forma di riscatto e condanna perpetua: Virginia e la verità nel cassetto di Stefano Biolchini

Il passato che ossessiona il presente, o meglio, un passato irrisolto che continua a tornare, a bruciare la realtà dei posteri come una brace sepolta ingiustamente. È soltanto una delle chiavi con cui accedere a Virginia nel cassetto (Caffèorchidea, 2024), l’esordio narrativo di Stefano Biolchini. Il romanzo segue la vicenda di Andrea Corsini, un giovane sardo benestante, che deve confrontarsi con il suicidio improvviso del padre. La prospettiva tragica dell’evento, benché il rapporto tra i due fosse connotato da un spesso silenzio emotivo, da subito spinge il protagonista a smuovere le radici della sua famiglia, intraprendendo un viaggio tra Parigi, Roma, Cagliari e Milano nel tentativo di dissiparne le ombre e, soprattutto, di ricostruire la vicenda di Virginia, una sua lontana parente la cui memoria è stata volutamente cancellata. Virginia Corsini era una donna emancipata che, nella Sardegna del Ventennio fascista, sfidò le convenzioni sociali sino a rendersi scomoda, ma di più, scandalosa per chi portava il suo medesimo cognome. La sua esistenza fu segnata dalla relazione tormentata con Dante Valdemontis, un rampollo dell’alta società che l’aveva sedotta per poi abbandonarla dopo aver appreso che era incinta. Nonostante la promessa amorosa che si erano scambiati, il ragazzo la infranse rifiutando ogni responsabilità sul nascituro.

Le ricerche di Andrea alimentano una storia dentro la storia, una struttura a “mise en abyme” che a ricordi alterna segreti. E il ritmo del racconto si fa più martellante con lui che tenta di dare voce a Virginia attraverso un romanzo, in modo da riscattarla: un dispositivo narrativo tipico della produzione di Gide, che in Les Faux-Monnayeurs argomentava su livelli sovrapposti. D’altronde, memoria e oblio sono gli impulsi opposti che si intrecciano e si sfidano costantemente, sia nella narrazione sia nel quotidiano dei personaggi di Biolchini. Ma la scrittura si rivela una condanna e Andrea perde persino il sonno, tanto da sentirsi trascinato a fondo: la memoria, da strumento nobilitante di verità, assume un peso psicologico che rende simbiotico il suo rapporto con Virginia. L’approccio introspettivo e il tentativo di fermare sul foglio il volto di lei che scolora, sono strumenti proustiani, così «il suo profumo confuso nell’aria di un cassetto che nessuno apriva più» e gli odori tenui che si percepiscono unicamente in determinati stati d’animo.

«Dante Valdemontis giaceva ai suoi piedi, il corpo contorto, la bocca socchiusa come in un ultimo, inutile tentativo di parola. Virginia respirava a fatica, il coltello ancora stretto nella mano. Il sangue le macchiava le dita, si insinuava tra le linee del palmo, caldo e appiccicoso. L’aveva fatto. Non c’era più ritorno». Disperata e umiliata dall’abbandono dell’amato del quale si fidava, Virginia decise di vendicarsi e ucciderlo, decretando con un gesto estremo il punto di non ritorno: l’omicidio è il fulcro della sua tragedia esistenziale, che da vittima di un sistema oppressivo la tramuta in colpevole agli occhi del suo contesto di appartenenza. Un gesto che, al contempo, realizza un atto di ribellione contro le regole patriarcali subite e traccia il suo destino da esiliata. Dopo il delitto fu costretta alla fuga, trovando rifugio in Francia, a Parigi, dove iniziò una nuova vita sotto una nuova identità. Eppure le conseguenze non tardarono a manifestarsi: il delitto non solo distrusse il suo futuro sull’isola natale, ma divenne il movente per cui i suoi cari la rinnegarono in toto. Suo fratello, per proteggere l’onore dei Corsini dall’onta, impose su di lei il silenzio assoluto, tanto da ridurre Virginia alla stregua di «un’eco spenta», di un fantasma che aleggiava nel buio.

Durante il suo viaggio fisico e interiore, Andrea scopre il legame profondo tra lei e suo padre: «Nelle sue lettere ho trovato le parole che non mi ha mai detto. Parole per Virginia, parole per se stesso. Parole che non erano mai per me». I due si erano incontrati e si scrivevano reciprocamente, mantenendo un filo di comunicazione celato che nessuno conosceva. Tuttavia, suo padre non aveva osato reintegrarla nella discendenza, soggiacendo all’imposizione della damnatio memoriae. Non a caso, la dimenticanza forzata che riguarda Virginia si rivolge alla tradizione francese dell’esclusione: Flaubert con Madame Bovary e Zola con Thérèse Raquin si sono focalizzati su chi veniva relegato ai margini a causa delle convenzioni e del moralismo borghese. Inoltre l’utilizzo di una lingua ibrida, che mescola francese, italiano e sardo, richiama lo stile barocco e stratificato di Céline, che in Voyage au bout de la nuit impugnava il linguaggio per esprimere straniamento e alienazione.

«Parigi non era solo la città dove mio padre tornava per ritrovare stesso, era anche il rifugio di Virginia. Camminavo tra le strade del Marais sapendo che lei le aveva percorse prima di me. Rue Saint-Antoine, l’ombra della chiesa di Saint-Paul, la luce riflessa nei vetri opachi dei bistrot». Stefano Biolchini non sbrodola e non sbava, bensì lavora su un lessico nutrito con un’attenzione a tratti maniacale per i dettagli e la nomenclatura degli oggetti (fotografie, lettere, vecchi appartamenti), che ricorda la precisione scultorea di Patrick Modiano nel descrivere scene e atmosfere, quasi la parola possa arrestare il corso del tempo. Andrea non si limita a essere un testimone della storia familiare, bensì intende riscriverla per darle un senso, grazie alla funzione inverante della letteratura. Un aspetto che ricalca ulteriormente le opere di Modiano, potendo dunque definire Virginia nel cassetto una saga familiare atipica, poiché combina elementi classici del genere (eredità e vincoli generazionali), a uno svolgimento più lirico e frammentato. E si avvicina alle saghe contemporanee che spezzano la linearità della narrazione, basti pensare a La famiglia Karnowski di Singer, nella quale il passato non è solo esposto passivamente, ma rivissuto attraverso una dimensione onirica e riflessiva dovuta alla crisi personale del protagonista. Il linguaggio giunge così a costruire (e a distruggere) le identità, come una riflessione meta-testuale o un calembour alla maniera del Perec de La Vie mode d’emploi. Parigi, o cara, titolo memorabile di un capitolo, sublima la Cité a spazio riservato all’intimità, per quanto labirintico e spesso oscuro, popolato da reminiscenze, cimeli e misteri mai del tutto risolti: Andrea si rifugia nell’appartamento del padre suicida per ritrovarsi ripercorrendo i passi di chi è venuta prima. Non è da tralasciare che lo stesso Biolchini abbia confermato nella flânerie Isola del silenzio nel brulicante caos parigino, un’affinità personale con questi luoghi, possedendo da anni un pied-à-terre nel Marais.

«Scrivere di Virginia era come cercare di trattenere l’acqua tra le dita. Ogni parola che mettevo su carta sembrava restituirle un pezzo della sua vita, ma nello stesso tempo la rendeva ancora più sfuggente. Forse la mia famiglia aveva ragione: forse ci sono storie che dovrebbero restare sepolte. Eppure, come si può davvero cancellare qualcuno che è esistito?» Se nella Ville Lumierè Andrea combatte per riportare alla luce il lascito immateriale di Virginia, disseppellire un vissuto porta con sé traumi indigesti e pagine di dolore; un passato doloroso che la famiglia Corsini aveva ripudiato, negandolo pubblicamente, che il protagonista affronta senza riserve per riuscire ad accettarlo. E al lettore non resta che un interrogativo inquietante: l’oblio è sempre un male?

Dito medio

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di Costantinos Hadzinikolaou

traduzione e nota di Elisabetta Garieri

 

Un breve testo del poeta, scrittore e giornalista Costantinos Hadzinikolaou sulla giornata storica del 28 febbraio, la più grande manifestazione vista ad Atene dai tempi della Dittatura dei Colonnelli (c’è chi dice anche dai giorni della liberazione dall’occupazione nazista). Altre manifestazioni si svolgevano in tutte le città della Grecia e in moltissime città del mondo dove vivono greci della diaspora, per un totale di un milione e mezzo di persone in piazza, per un paese che conta undici milioni di abitanti. A seguito del disastro ferroviario provocato dallo scontro frontale tra due treni due anni fa a Tembi, il governo di Mitsotakis ha letteralmente cercato di insabbiare le proprie responsabilità, ricoprendo di ghiaino la zona dell’incidente prima che venissero effettuati i necessari accertamenti. Con lo slogan «Non ho ossigeno», pronunciata da alcune vittime durante le telefonate ai soccorsi recentemente venute alla luce, la giornata è stata indetta per reclamare verità, giustizia, un sistema ferroviario pubblico e sicuro e le dimissioni del primo ministro Mitsotakis.

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I’m on the pavement / Thinking about the government

A volte devi scrivere in fretta. Come se non ci fosse tempo. Il tempo non c’è.

Cos’è rimasto della manifestazione, giorni dopo? È rimasto tutto. Tutto sta ancora lì.

La gente strizzata nei vicoli del centro, neanche volesse raccogliere  le ossa insepolte, sparse nella terra dopo l’incidente, due anni fa.

I bambini che giocano nel parco dello Zappeìon fino allo scoppio delle prime molotov.

I celerini che risalgono viale Amalìas come un esercito di formiche. Lacrime che scorrono lungo le guance, fumo, odore di cenere. Uccelli che volano via dagli alberi, impauriti. Magnifico.

Devi scrivere in fretta. Al punto che non c’è più ragione di scrivere.

Una città malata? Venerdì la mia città era più in salute che mai.

Quello che ho visto su Instagram. Una lista.

Un ragazzo con una chitarra acustica, vestito démodé. I celerini che lo spingono con gli scudi: “Cosa sei, pakistano?”. Lui, imperterrito. Non una parola. E con chi dovrebbe parlare? Con gente senza una faccia? Soffia nella fisarmonica e sputa per terra. Dylan nel Paese dell’Idiozia. Io sto sul marciapiede. Penso al governo. Il governo pensa a me?

Una ragazza magra alza le braccia e mostra il dito medio all’autoblindo con il cannone ad acqua che staziona davanti all’hotel Gran Bretagna, in piazza Syntagma. Abiti neri, mascherina nera, capelli neri, unghie tinte di nero contro la pressione del getto d’acqua. Era vera o no la fotografia? E basta con questa storia. Nessuna immagine è vera.

La sera stessa, Ghiorgos riprende le cameriere del Gran Bretagna. Indossano le divise nere inamidate e raccolgono i cocci sulle scale, davanti all’ingresso dell’hotel. Chi raccoglierà i nostri?

Cos’altro?

Una molotov cade in mezzo alla calca aprendo un buco nella strada. Come un ciottolo  infuocato.

Poliziotti che impersonano manifestanti. Poliziotti travestiti da anarchici. Celerini che picchiano ragazzi. Uomini in moto che accostano greggi di manifestanti e li picchiano.

È andata alla grande, la polizia. Certo, avrebbe potuto fare di meglio. Ha provato ad allontanare la gente. A farci sparire. Noi e le nostre ossa. Ma è andata male. Le ossa stanno ancora lì. Nell’aria di Tembi.

A volte devi scrivere a sprazzi. Come se non riuscissi a condurre le parole all’ovile.

Tornando a casa, un furgone della polizia sputa fuori un plotone su viale Vassilèos Alexàndrou. Il plotone risale ansioso il viale. Si posiziona all’angolo dell’Hilton. Aspetta la gente che arriva correndo da via Righìllis.

Dal quartiere di Kolonàki si sentono provenire esplosioni. Visto che Exarchia è diventata Kolonàki, perché Kolonàki non dovrebbe diventare Exàrchia? Così, anche solo per un attimo. 

Su viale Michalopoùlou un signore, con un maglione di lana e gli occhiali, ha tirato fuori una videocamera MiniDV e riprende il caos. “Bella videocamera”, gli dico. Neanche si gira a guardarmi. Tramite la lente, guarda l’autoblindo con il cannone ad acqua che è sbucata dal lato della Pinacoteca Nazionale.

Non volevo scrivere questo articolo. Volevo fare un dito medio.

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Articolo pubblicato sul magazine Athinorama il 5/3/2025

Kostandìnos Chatzinikolàou è autore del romanzo Iàkovos e della raccolta di poesie Woyzeck – Cielo Auschwitz. Scrive regolarmente per il magazine Athinorama e per il quotidiano Kathimerinì.

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Foto di Victoras Andonopoulos: Un giovane musicista suona la chitarra durante gli scontri tra persone e polizia, ad Atene, il 28 febbraio 2025, il giorno dell’anniversario dei due anni dall’incidente ferroviario di Tembi.