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Andare in Chiesa / Church Going (1954)

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di Philip Larkin

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Church Going, in The Less Deceived (1955)

Traduzione di Jacopo Masi

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Andare in chiesa

Appurato che non c’è nulla in corso,
entro, lasciando la porta richiudersi
in un tonfo sordo. Ancora una chiesa:
tappeto, banchi, e pietra, e libricini;
una pletora di fiori recisi
per la domenica, ora già imbruniti;
in fondo, alla sacra estremità, robe
varie d’ottone e altro; l’organo piccolo
sobrio; ed un silenzio teso, stantio
che non si può ignorare, fermentato
Dio sa quanto. Senza cappello, tolgo
con un gesto di goffa riverenza
le mollette da bici, avanzo, passo

la mano sul bordo del fonte. Visto
da qui, il soffitto sembra quasi nuovo –
ripulito, o restaurato, chi può
dirlo? Altri, forse: non io. Mi avvicino
al leggio, contemplo alcuni versetti
imperiosi vergati a grandi lettere,
dichiaro “Qui termina” a voce più alta
di quanto volessi. L’eco sghignazza
per un breve istante. All’uscita firmo
il registro, lascio un mezzo scellino
irlandese in offerta. Il posto, mi dico,
non valeva la sosta. Eppure, sosta

l’ho fatta: e in verità spesso mi accade
e puntualmente finisco, come oggi,
spaesato, a cercare cosa cercare
e a chiedermi poi cosa ne faremo,
delle chiese, quando saranno tutte
cadute in disuso, se manterremo
qualche cattedrale in cronica mostra,
le pergamene, gli argenti e la pisside
in teche protette e il resto ceduto
in uso gratuito a pecore e pioggia.
Le eviteremo come luoghi infausti?

O, scesa la sera, donne dall’aria
equivoca verranno a far toccare
ai figli una pietra particolare;
cogliere erbe e piante contro un tumore;
vedere, in notti designate, un morto
che cammina? In modo apparentemente
casuale, ancora perdurerà
un qualche tipo di potere in giochi
e indovinelli; ma come la fede,
così morirà la superstizione
e svanita l’incredulità, cosa
resta? Prati, pavimenti infestati
d’erbacce, rovi, contrafforti, cielo,

una forma meno riconoscibile
di settimana in settimana, un fine
più oscuro. Mi chiedo chi sarà l’ultimo,
l’ultimissimo a visitare il luogo
per quel che è stato; sarà della schiera
di chi picchietta e prende appunti e sa
cos’era un jubé? Un qualche rovinomane
che sbava dietro a cimeli e anticaglie,
un maniaco del Natale che spera
in un sentore di talari, canne
d’organo e mirra? O sarà uno a mia immagine,

invece, annoiato, disinformato,
che pur sapendo ormai disperso il limo
spettrale, tende fra incolti sobborghi
a questa croce di terra, perché a lungo
e serenamente tenne raccolto
quanto da allora si trova soltanto
nella separazione – matrimonio
e nascita e morte e il pensiero di questi –
cose per cui questo guscio speciale
fu edificato? Perché, sebbene io
ignori a che valga questa baracca
ben attrezzata che odora di chiuso,
stare qui in piedi, in silenzio, mi aggrada;

Una dimora seria su una terra
seria è questa; qui, in un’aria composita,
i nostri impulsi si incontrano, sono
riconosciuti e ammantati di un’aura
di destino. E tutto ciò mai potrà
essere obsoleto poiché qualcuno
sempre sorprenderà una brama in sé
di essere più serio e, assieme, un richiamo
a gravitare verso questo suolo
adatto, gli giunse voce, a far crescere
in saggezza, se non altro per tutti
questi morti che giacciono qui attorno.

*

Church Going

Once I am sure there’s nothing going on
I step inside, letting the door thud shut.
Another church: matting, seats, and stone,
And little books; sprawlings of flowers, cut
For Sunday, brownish now; some brass and stuff
Up at the holy end; the small neat organ;
And a tense, musty, unignorable silence,
Brewed God knows how long. Hatless, I take off
My cycle-clips in awkward reverence,

Move forward, run my hand around the font.
From where I stand, the roof looks almost new –
Cleaned, or restored? Someone would know: I don’t.
Mounting the lectern, I peruse a few
Hectoring large-scale verses, and pronounce
‘Here endeth’ much more loudly than I’d meant.
The echoes snigger briefly. Back at the door
I sign the book, donate an Irish sixpence,
Reflect the place was not worth stopping for.

Yet stop I did: in fact I often do,
And always end much at a loss like this,
Wondering what to look for; wondering, too,
When churches will fall completely out of use
What we shall turn them into, if we shall keep
A few cathedrals chronically on show,
Their parchment, plate and pyx in locked cases,
And let the rest rent-free to rain and sheep.
Shall we avoid them as unlucky places?

Or, after dark, will dubious women come
To make their children touch a particular stone;
Pick simples for a cancer; or on some
Advised night see walking a dead one?
Power of some sort will go on
In games, in riddles, seemingly at random;
But superstition, like belief, must die,
And what remains when disbelief has gone?
Grass, weedy pavement, brambles, buttress, sky,

A shape less recognisable each week,
A purpose more obscure. I wonder who
Will be the last, the very last, to seek
This place for what it was; one of the crew
That tap and jot and know what rood-lofts were?
Some ruin-bibber, randy for antique,
Or Christmas-addict, counting on a whiff
Of gown-and-bands and organ-pipes and myrrh?
Or will he be my representative,

Bored, uninformed, knowing the ghostly silt
Dispersed, yet tending to this cross of ground
Through suburb scrub because it held unspilt
So long and equably what since is found
Only in separation – marriage, and birth,
And death, and thoughts of these – for which was built
This special shell? For, though I’ve no idea
What this accoutred frowsty barn is worth,
It pleases me to stand in silence here;

A serious house on serious earth it is,
In whose blent air all our compulsions meet,
Are recognised, and robed as destinies.
And that much never can be obsolete,
Since someone will forever be surprising
A hunger in himself to be more serious,
And gravitating with it to this ground,
Which, he once heard, was proper to grow wise in,
If only that so many dead lie round.

Incendiare il buio

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Lo scorso maggio è uscito Incendiare il buio. In viaggio con Annie Ernaux e Goliarda Sapienza, una sorta di diario di vita e letture scritto da Valeria Nicoletti (Collettiva, qui). Ne pubblico il paragrafo intitolato “Salvare la vita dall’oblio”. [ot]

 

 

di Valeria Nicoletti

“Tomber aux oubliettes” è l’espressione francese che si usa per dire “cadere nel dimenticatoio” o “finire nell’oblio”, una perifrasi dal suono grazioso, quasi da filastrocca per bambini, tra le prime che riesco a memorizzare in quella che per me è stata l’avventurosa conoscenza della lingua francese. Per arrivare a intervenire e conversare in ogni registro, con ogni tipo di interlocutore, ci sono voluti anni. Anni di “Pouvez-vous répéter, s’il vous plait?”, di letture con la matita tra le mani per sottolineare i vocaboli sconosciuti, di film con i sottotitoli e, come scriveva Emil Cioran, “lettere d’amore scritte con il dizionario” in una rocambolesca educazione sentimentale che, per me, iniziava da un libro di grammatica. Ho corteggiato la lingua francese con testardaggine e abnegazione, senza essere sempre ricambiata. “Un desiderio non è altro che un bisogno folle. […] Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me”, è quanto scrive Jhumpa Lahiri, scrittrice di origini indiane, cresciuta in America, innamorata dell’italiano, in esilio linguistico a Roma per essere circondata dal suo idioma straniero preferito. L’ebbrezza di sentirsi analfabeti e di poter riscrivere la realtà, in altre parole. È come svegliarsi la prima mattina in una nuova città, mettere i piedi in un aeroporto sconosciuto, fare qualcosa per la prima volta, ritrovarsi in una situazione di disagio, certo, di scomodità, di voluta precarietà, ma anche di eccitazione, stupore, meraviglia. “Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza. Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato”, scrive ancora Lahiri, “quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile”. È dalle parole che parte Annie Ernaux, con il piglio dell’archivista, per collezionare dati e informazioni e imbastire una vera e propria “etnologia del sé”, scandagliando gli stili di vita di intere generazioni, con un approccio alla realtà ben più sicuro della memoria, impregnata com’è di interpretazioni soggettive e di emozioni. Le sue parentesi personali, i dettagli della vita intima, sono solo un modo di rafforzare la testimonianza della storia, un artificio necessario per salvaguardare il ricordo, il tempo che passa, dall’oblio, personale e collettivo. L’autobiografia è al servizio della memoria. Ernaux lotta contro il carattere fugace dell’esistenza, cerca di lasciare una traccia di se stessa e degli altri. Le parole diventano un porto sicuro cui ritornare, punto fermo e appiglio della creazione. La scrittura, piana, quasi telegrafica, diventa allora un etnotesto. “Sì. Dimenticheranno. È il nostro destino, non ci si può fare nulla”, scriveva Anton Cechov nella citazione in esergo a Gli anni, “Ed è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che cosa meschino, ridicolo. […] E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale.” La narrazione prende vita da una ricerca del contesto storico e sociale dell’epoca. La memoria è una risorsa, dove pescare il materiale per la scrittura, ma i suoi ricordi non sono sufficienti. “Tutte le immagini scompariranno”, afferma all’inizio del libro. E la prima immagine che segue, come una sfilata di diapositive, è “la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè”. Siamo a Yvetot. Un luogo ricorrente, i lettori fedeli lo sanno già, la cittadina d’origine di Ernaux, in Normandia. Possiamo quasi vederla la piccola Annie, nascosta dietro le persiane del bar dei suoi genitori, mentre spia una donna in questo bagno di fortuna. A seguire, una seconda immagine, “il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L’inverno ti farà tornare. Dalla prima pagina, Ernaux tesse una storia che scava nell’immaginario collettivo, quello del cinema, con il viso di Simone Signoret, la sagoma di Philippe Lemaire, Scarlett O’Hara, che trascina per le scale il soldato che ha appena ucciso, la pubblicità delle caramelle Picorette della Nestlè, e i ricordi della sua famiglia, le spiagge delle vacanze, i primi fotogrammi della vita adulta. Le immagini, reali o immaginarie, sognate o morte “scompariranno in un colpo solo”, se ne andranno così come sono arrivate. A meno che qualcuno non le fermi su un foglio bianco. Non sono solo le immagini a essere coinvolte. Anche le parole scompariranno, “Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole”, le parole che abbiamo faticato ad assimilare, quelle incamerate per sentirci parte di un gruppo, quelle che non piacevano alla mamma. “Si annienteranno d’un tratto le migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo, che ci hanno fatto palpitare e bagnare”. Gli slogan, le frasi sofisticate che abbiamo fatto nostre, le offese terribili che abbiamo dovuto dimenticare, gli esempi di grammatica, le metafore usurate, “le parole da uomo che non ci piacevano, godere, le seghe – quelle imparate durante gli studi, che davano la sensazione di trionfare sulla complessità del mondo. Appena superato l’esame, sparivano dalla memoria più in fretta di come ci erano entrate”. Qui è questione di frontiere, nello spazio e nel tempo, tra il sé e gli altri, tra la vita interiore e la realtà sociale esteriore. La memoria è l’appiglio ultimo per l’esistenza. Un’eco innegabile, un dialogo che verosimilmente ha attraversato lo spazio e il tempo quando, nei taccuini di Goliarda Sapienza, si legge “Ricordare è tutto: l’etica fondamentale della vita”. C’era Parigi, c’era il silenzio di un parco in un primo pomeriggio d’inverno e c’ero io con l’impressione di aver scoperto una corrispondenza segreta, tra due donne, due scrittrici, che non s’erano mai incontrate. In Sapienza, è la memoria che viene in servizio dell’autobiografia, per recuperare una versione accettabile della vita stessa. Goliarda è terrorizzata all’idea di confrontarsi con questa cassapanca riempita di lettere ingiallite, vecchi libri, nastri, camicie usate, foto d’epoca. “I primi venti anni di questi quarant’anni, a furia di volerli scientemente ignorare, si sono così ingarbugliati che non riesco a districarli, a fare ordine. Io purtroppo sono molto ordinata, anzi direi un po’ fissata: e così i fatti passati mi schiacciano come una mosca ai muri di questa stanza che si è fatta troppo piena”. Se la narrazione per Ernaux segue quasi sempre un preciso ordine cronologico, i lettori di Lettera aperta sono costretti più volte a domandarsi chi parla e quando si sono verificati gli eventi raccontati. Il passato e il presente sono labili e la voce narrante si intreccia a quella degli altri personaggi. C’è confusione, nell’attribuzione delle date, ma anche dei dialoghi. Goliarda scambia i volti, le voci, i ricordi. Un topos ricorrente nel testo è l’esigenza di ricordare confrontata all’impossibilità, o al rifiuto, di comprendere. “Tutto un passato mi cade sul corpo come pece: non c’è gioia nel ricordo. Solo terrore dell’abisso del tempo: da dove sono venuta? Da una voragine di antichità terribile. E come ce l’ho fatta? Non lo so”.

La memoria è al tempo stesso un bacino da cui attingere e una miniera che nasconde tesori inaspettati e pericolosi. “È incredibile come non ci sia niente di più invitante che delle voci intese e non intese dietro una porta chiusa. Ma ascoltare significa sapere. Quelle voci però rintronano così forte che ho fatto bene a chiudere la porta”. La porta si chiude, spaventata, davanti al timore di ritrovarsi di fronte ai fantasmi del passato. Si aprirà, in futuro, con benevolenza e accoglienza, per abbracciare la vita e, nel suo ultimo appartamento, a Gaeta, addirittura quella porta non si chiuderà mai a chiave, sempre pronta a spalancarsi, per andare incontro allo stupore dell’esistenza. Da qui, l’esigenza di “mettere in ordine” i suoi ricordi, poco importa se il risultato finale somiglia alla verità. Dall’inizio, l’intenzione manifesta non è quella di riconciliarsi con il vero, ma di trovare lo spazio per tutti gli stralci di vissuto. L’immagine della camera da rimettere a posto, magari quella dei genitori, i loro oggetti da repertoriare o anche gettare, accompagna e dà un ritmo a tutto il racconto. Con il bisogno di raccontare, ritroviamo il desiderio di sbarazzarsi delle bugie, quelle dette dai genitori, quelle inoculate a scuola, quelle inventate da se stessa, quando comincia a farsi chiamare con il nome della madre, per esempio. Il desiderio urgente di costruire la propria realtà, lontana dai luoghi comuni, dalle paure iniettate da bambine, dalla sorte che ci avrebbe inevitabilmente colpite, se non avessimo fatto come tutte le altre. L’utilizzo della scrittura per dire a tutti che no, non è vero, che io posso essere altro. Cara Goliarda, era proprio così: “Sì. Raccontare ancora, aggiungere”, scrive, “come un dovere verso me e gli altri di testimoniare”. La scrittura autobiografica come campo di battaglia. Per sbarazzarsi di queste menzogne, mettersi a spolverare, con il rischio di andare contro “uno specchietto antico, un orologio fermo dalle due e mezzo (da quando)?”. L’orologio che si è fermato, il tempo che non scorre più, è un’analogia temporale di questo disordine spaziale. Affrontando l’autobiografia, come scrive la ricercatrice Anna Langiano, Sapienza “capovolge il rapporto tra bugie e verità in favore delle prime: di fronte all’impossibilità di imbrigliare le pulsioni vitali in una qualche ‘verità’, le bugie possono almeno rifletterne l’ambiguità, giocare con la realtà e indirettamente parlarne. […] Proprio nel momento in cui scrive nella forma che definisce se stessa sulla base del ricordo, l’autobiografia, difende il proprio diritto a non ricordare”, e a dirigere la propria nostalgia verso figure e luoghi clementi della sua esistenza, soavi isole di libertà e familiarità: il burattinaio del quartiere, l’impagliatore di sedie, la dolce Positano. “Questa assenza di commozione mi dice che ho fatto bene a rubare, sempre, la mia parte di gioia a tutto e a tutti: eventi, perso- ne, soldi o mancanza di soldi… E forse quella nostalgia non era che la pienezza della serenità che godevo e che sapevo essere rara nel vivere di ognuno di noi”. Per rendere l’effetto che hanno su di me queste parole, prenderò in prestito un’immagine da Ernaux, ne L’altra figlia: “Qui, ora, mi pare che le parole squarcino una zona crepuscolare, mi afferrino, e sia la fine”.

 

Bateaux Ivres Anonymes

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di Igor Antonio Lipari

I

Si era specializzato a sferrare colpi: non ai cerchi né alle botti – soltanto alle dita degli altri. Non che mancasse di suscitare malumori e rimostranze: e qualcuno sarebbe anche passato alle vie di fatto – ma superiori urgenze premevano. Doghe da stagionare e incurvare, botti da fasciare, tostare e collaudare, vendemmie e vinificazioni. A grappoli penduli dai suoi pregiati vitigni, la Realität DOP[ata] (da non confondersi con la molto meno pregiata e non registrata varietà Wirklichkeit) aspettava di essere pigiata, fermentata, affinata e infine invecchiata nelle apposite botti, che per quanto numerose non bastavano mai. Chi aveva tempo da perdere dietro a costui?

II

L’irregolarità delle precipitazioni diviene una costante, peronospore e fillossere prosperano a danno di tralci e radici, la materia prima diminuisce e i prezzi salgono. Neanche a pensare di interrompere la produzione (come si sarebbero sfamate le tante famiglie allargate dei consigli d’amministrazione in questa Grande Distribuzione Disorganizzata?); meno che mai di lasciare semivuote le botti (troppo cavernosa l’eco dei loro ventri cavi nel chiuso delle cantine). Che fare allora?

Diluirne il contenuto (peraltro già composto all’87% di sola acqua) in ogni modo possibile. Sangue bovino, metanolo, caramello, decotti di agar-agar, banane marce, tannini sintetici: tutto purché non lasci traccia.

III

Quando cominciò la penuria anche di questi beni succedanei, si dovette ricorrere all’unica sostanza la cui sovrabbondanza è sempre assicurata: sangue umano. I volontari (e in seguito i coscritti) si aprivano i polsi proprio sopra i tini e ne lasciavano sgocciolare il contenuto; talora fino allo svenimento. Si vociferava anzi di incauti precipitati nel mosto e mai più ripescati, i cui cadaveri continuarono a macerarsi nella poltiglia fino a completa dissoluzione; ciò che avrebbe conferito quel caratteristico gusto morbido e rotondo ad alcune delle migliori annate.

Calunnie sparse ad arte da agenti provocatori?

IV

Come quel molestatore delle altrui falangi; il quale, stanco di vedere ignorate le sue campagne diffamatorie (famigerate quelle sul sangue degli agnelli e sul vinum sabbati) in mezzo allo scalmanarsi di tutti i lavoranti delle cantine, e parecchio stordito dai vapori di fermentazione, non trovò di meglio che radunare altri scontenti non meno emarginati di lui (e con altrettanta giusta causa che non serve approfondire), coinvolgendoli in un’impresa assurda quanto la loro medesima esistenza.

V

Si metta su un’industria concorrente. Da un achenio amarognolo, ipnotico e anafrodisiaco (volgarmente detto oneiros), misto ad acqua e malto, si ricavi per alchemiche decantazioni, filtraggi e fermentazioni un liquido di volta in volta biondo, rosso o scuro. Lo si imbottigli (ma vanno bene anche lattine e barilotti) e potrà viaggiare per il mondo. La schiuma scaturita dalla spillatura estasierà ogni fruitore, riportandolo allo stato oniromantico da cui l’universo ebbe origine e a cui cerca invano di ritornare. E il successo sarà una mera conseguenza.

VI

L’Invidia è una dea esigente. I suoi adoratori la venerano attraverso periodici shitstorm, culti elaborati che prevedono l’uso di pale eoliche prima cosparse in abbondanza di guani, sterchi, fimi e deiezioni ominidi scelte lungo tutta la scala di Bristol, e poi fatte ruotare alla massima velocità (avendo cura di orientarle verso le opportune direzioni con precisione micrometrica, compito che richiede la severa disciplina di una ristretta casta sacerdotale). Correttamente eseguite, queste pratiche si dimostrano pressoché infallibili contro gli infedeli.

I vignaioli della Realität ne scatenarono addosso una raffica ai pagani oniromanti. Il loro nettare causerebbe rutti. Flatulenza. Epa ridondante. Sarebbe adulterato tramite aggiunte di minzioni di dromedario o fiele di coccodrilli. Lo avrebbero inventato i Sumeri, niente di nuovo sotto il sole. E via sventagliando.

VII

La situazione raggiunge uno stallo imbarazzante. I due business vanno a gonfie vele entrambi; ma il fatto stesso che l’avversario esista, e non mostri segno di declino, sembra sufficiente a guastare metà della soddisfazione dell’altro competitor.

Sia detto a mezza voce: di recente in certi ambienti ben informati si sta facendo un gran parlare di una neonata start-up, i cui soci fondatori si nascondono dietro l’astruso nickname collettivo di astemi. Fra le varie illazioni, è trapelato qualche estratto da un loro presunto white paper, che sembrerebbe composto in massima parte da enunciati criptici, il cui senso (sempre che ce ne sia uno) resta tutto da interpretare. Valga come esempio questo: né vini più realisti dei re, né birre schiumanti di sogno: solo le chiare fresche e dolci acque del nulla.

Oggi non c’è nessuno che in tutta onestà potrebbe dire di saperne molto di più; ma già alcuni fra i principali strateghi del marketing iniziano a drizzare le orecchie, e molti fra gli investitori meno conservativi si stanno muovendo di conseguenza.

Foto di Adriano Gadini da Pixabay

Citazioni sulla natura instabile dell’informazione (Darnton, Cristianini, Vonnegut)

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Di Andrea Inglese

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Sono sempre parecchio scettico non nei confronti di chi addita l’estrema gravità di situazioni presenti o a venire – il male umano e sociale è un pozzo senza fondo – ma riguardo a chi vanta le grandi virtù di epoche passate. La prevalenza di uno sguardo “discontinuista”, l’accelerazione effettiva degli eventi portati dai mutamenti tecnologici, e un rimodellamento “in rosa” del passato da parte della nostra immaginazione, fa sì che sia difficile accedere a una prospettiva sufficientemente obiettiva rispetto alla nostra condizione storica. Per questo, mai come oggi, mentre il futuro incombe su di noi in modo prepotente, con un volto che, a seconda dei giorni, o dei minuti, muta da minaccioso a salvifico, è sacrosanto ristabilire un minimo di “proporzioni storiche”, ossia fare l’esercizio di guardarci non solo dal futuro, ma anche da quello che sappiamo del nostro passato. Ci esorta a farlo Robert Darnton in un libro del 2009, The Case for Books. Past, Present, and Future. (In Italia è apparso nel 2011 per Adelphi, con il titolo Il futuro del libro). Darnton studioso di storia delle idee e del libro, specializzato nell’inquieto XVIII secolo francese, direttore della biblioteca universitaria di Harvard dal 2007 al 2016, fa parte di quegli studiosi reticenti a forzare la moltitudine disordinata dei fatti in schemi anelastici ma puliti. Anche se poi proprio i fatti sono così difficili, per uno storico, da stabilire. Ma questo è già un tema interno alla ricerca di Darnton. In ogni caso, m’interessa fissare l’attenzione su un preciso passaggio del suo libro del 2009.

“L’informazione non è mai stata stabile. Può sembrare una banalità, ma merita riflessione. Questo potrebbe fungere da correttivo alla credenza che l’accelerazione delle mutazioni tecnologiche ci ha proiettato in un’età nuova dove l’informazione sfugge a ogni controllo. Suggerirei piuttosto che le nuove tecniche di comunicazione dovrebbero costringerci a riconsiderare la nozione stessa d’informazione. Non bisogna comprenderla come se essa avesse la forma di fatti duri o di pepite di realtà pronti e essere estratti dai giornali, dagli archivi, e dalle biblioteche, ma piuttosto come messaggi rimaneggiati di continuo nel corso del processo di trasmissione. Noi abbiamo a che fare con testi molteplici e mutevoli, piuttosto che con documenti solidamente stabiliti. Studiandoli con sguardo scettico sugli schermi dei nostri computer, noi possiamo apprendere a leggere i giornali quotidiani nella maniera più efficace – e anche imparare ad amare i vecchi libri”.

Al di là dell’amore dei vecchi libri, possiamo trarre una lezione da Darnton. Sì, è indubitabile, la nostra società della comunicazione globalizzata (istantanea e diffusa) ha reso immensamente più accessibile l’informazione alle persone, ma non le ha strappato, né potrà mai farlo, il suo carattere di “costrutto sociale”, esposto alle più varie diffrazioni ideologiche, culturali, politiche. Solo un’assoluta ingenuità nei confronti di un accesso diretto e trasparente ai “fatti puri” e “oggettivi” – mito ampiamente decostruito dal pensiero novecentesco –, può a un tratto trasformarci in disgustati e offesi sostenitori della falsificazione totale, a cui l’era di internet ci avrebbe sottoposto. Siamo costretti ad essere ancora una volta “post-moderni”, anche perché – come ci ha ricordato Bruno Latour – non siamo mai stati moderni. Ma il nostro post-moderno non è quello di una “società trasparente” – per riprendere il titolo di un celebre libro del 1989 di Gianni Vattimo. Si è in qualche modo creduto che la velocità dell’informazione costituisse un fattore di traslucidità: più un’informazione scorre velocemente nel suo canale, meno “tempo” sarà concesso ai fattori di diffrazione, mediazione e intorbidamento, per intervenire su di essa. Ma così non è. Questa è anche la lezione che ci viene oggi dal funzionamento degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale: il dato, che entra in un processo di “pulita” automazione, è già stato ampiamente “costruito socialmente,” e quindi inevitabilmente intorbidato dalle ideologie. Questo processo d’intorbidamento del “fatto” o del “dato”, è ciò che rende l’informazione instabile – sia nella sua circolazione sia nel suo calcolo. Nell’ambito dell’intelligenza artificiale si parla di bias, di un vizio a monte del funzionamento di un algoritmo, che riproduce un pregiudizio – ossia non un fatto statistico, ma una proiezione ideologica sui fatti.

Per costituire un parallelo tra l’instabilità dell’informazione, intesa come notizia, e di quella intesa come dato, faccio riferimento a un passaggio di La scorciatoia (il Mulino, 2023) di Nello Cristianini, professore d’Intelligenza Artificiale all’Università di Bath (Regno Unito).

“Il 23 maggio 2016 il giornale investigativo ‘ProPublica’ descrisse un sotware usato in alcuni tribunali americani per stimare la probabilità che un imputato diventi un recidivo. Il sotfware si chiama COMPAS (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions) ed è usato in diversi Stati, inclusi New York, Winsconsin, California e Florida, per assistere alcune decisioni giudiziarie. Ricevere un punteggio alto può avere conseguenze pratiche per la libertà di un imputato, per esempio influenzando la sua possibilità di essere rilasciato ‘sulla parola’ in attesa di processo. L’articolo affermava che quei punteggi avevano un bias contro imputati afroamericani, dopo aver comparato i tassi di ‘falsi positivi’ e ‘falsi negativi’ in diversi gruppi etnici. La sua conclusione era: ‘gli imputati neri hanno probabilità quasi due volte superiore a quelli bianchi di essere etichettati ad alto rischio senza poi rioffendere in realtà’ e ‘quelli bianchi […] hanno una probabilità più alta di quelli neri di essere classificati a basso rischio e poi di commettere altri crimini’.”

Un acuto esperto (e dileggiatore) di intelligenza umana, ossia Kurt Vonnegut, tra i massimi scrittori satirici statunitensi dello scorso secolo, aveva già nel 1990 capito l’inghippo. Nel suo romanzo Hocus pocus, immagina un gioco elettronico – GRIOT – costantemente aggiornato “con notizie d’attualità riguardanti idraulici, podologhi, falegnami, riguardanti i profughi vietnamiti e gli immigrati clandestini messicani, gli spacciatori di droga, i paraplegici, insomma riguardanti ogni sorta di gente pensabile e immaginabile entro i confini di Stati Uniti e Canada”. Il giocatore deve fornire a GRIOT tutta una serie di dati sulla sua età, mestiere, città di provenienza, razza, famiglia d’origine, ecc., e l’oracolo elettronico gli restituisce una biografia completa, ossia la storia della sua vita così come potrebbe andare a finire. Se un giocatore riprova più volte, ottiene delle biografie diverse, ma globalmente sottoposte a uno stesso impietoso determinismo. Quando i detenuti – in maggioranza neri – del carcere dove lavora il protagonista, scoprono l’esistenza di GRIOT, si precipitano a presentargli tutti i dati che li riguardano, e ripetono la stessa azione svariate volte alla ricerca di un biografia minimamente decente. “A uno a uno gli fornirono i dati relativi alla loro razza e età, ai loro genitori, se li conoscevano, alle scuole frequentate e alle droghe prese e così via, e GRIOT li mandò tutti in galera, a scontare lunghe condanne”.

Anche il funzionamento di GRIOT era probabilmente viziato da qualche bias.

All’epoca del suo apprendistato di giornalista, il giovane Darnton lavorava al quartiere generale della polizia di Newark (1959). Non c’erano testate in rete, non c’era la rete, non c’era l’IA a orientare gli utilizzatori di piattaforme digitali. Darnton doveva reperire, tra i resoconti in continuo arrivo alla centrale, quelle notizie suscettibili d’interessare i redattori di cronaca esperti, i quali avrebbero poi trasformato il rapporto giunto alla centrale di polizia in trafiletto “gustoso” per il quotidiano del giorno seguente. E, ovviamente, anche Darnton apprese presto che interessa più l’uomo che morde un cane, piuttosto che il solito cane che morde un uomo. Un giorno gli capita sotto gli occhi un fatto ben raro: uno stupro seguito da omicidio. Si prepara quindi a trasmetterla ai redattori di nera, quando il luogotenente di polizia gli indica disgustato una B posta tra parentesi dopo il nome della vittima e del sospettato. Così conclude l’episodio Darnton: “Solo allora mi sono reso conto che tutti i nomi erano seguiti da una B per Black, o da una W per White. Ignoravo che i crimini riguardanti i Neri non avessero valore d’informazione”.

Ricordare che oggi, come per le gazzette del XVIII secolo, l’informazione ha una natura instabile, di “costrutto sociale”, non significa sostenere che l’informazione è finzione, ma che è parte di un processo continuo di negoziazione-interpretazione-elaborazione, in cui è coinvolta la società nel suo insieme, con tutte le tensioni e i conflitti che l’attraversano.  E nonostante l’informazione circoli a grandissima velocità e attraverso passaggi automatizzati – che non implicano l’intervento umano –, essa non per questo si rende più trasparente e univoca. L’Achille della tecnologia è sempre più veloce per acchiappare il “fatto puro”, ma la tartaruga della mediazione sociale l’ha già da sempre inevitabilmente alterato. E questo non è un fatto nuovo.

Tappan Zee

5

di Patrizia Tenda

Abitavo a Tarrytown, vicino al bosco di Sleepy Hollow, dove da bambini andavamo a correre e a spaventarci nelle notti di Halloween. Già alle elementari ci facevano leggere la storia di Icabod Crane e del Cavaliere senza testa. Seduti nei nostri banchi, immaginavamo di percorrere quei calanchi tenebrosi, fra i tronchi contorti degli alberi, e la classe si riempiva di gridolini di paura. Gli adolescenti e gli adulti ci andavano a fumare erba e a bere, ed erano più spaventati dei bambini.

Tarrytown rimase un paesotto pigro e tranquillo, fedele al suo vecchio nome, finché non costruirono il ponte di Tappan Zee. A quel punto eravamo circondati da due orrori: a nord il bosco delle decapitazioni misteriose, e a sud un ponte lungo cinque chilometri, gettato fra le due sponde del possente fiume Hudson. La corrente lì è forte perché l’oceano è vicino. Da ciò l’origine del nome che diedero al ponte: “Tappan” era una tribù indiana del posto e “Zee” era la parola olandese per “mare”.

Per resistere alle correnti, il ponte a sbalzo s’immetteva nel fiume con due grandi curve, una dalla riva del New England, l’altra da quella opposta del New Jersey, mentre a metà del fiume il ponte aveva alte capriate d’acciaio e lasciava spazio sotto di sé per i battelli che salivano e scendevano la grande acqua.

Tutti erano entusiasti per l’imponente struttura a sette corsie, in grado di portare centomila veicoli al giorno. I ponti di New York erano intasati, e presto lo fu anche la nostra costa, e la sonnolenta Tarrytown si svegliò ai rumori infernali dei camion con rimorchi e dei pendolari in corsa verso la City.

Io ero troppo piccola per ricordare l’inaugurazione, ma so che mio padre volle subito portare tutta la famigliola sul nuovo ponte. Pagato il pedaggio all’entrata, prese la grande salita in curva a tutto gas. Mia madre mi raccontò di aver urlato di paura per tutto il tempo. Il ponte era altissimo sull’acqua scura e vorticosa, e mio padre guidava come un ossesso. Aveva bevuto, come faceva sempre prima di una bravata.

Da allora mia madre si rifiutò di attraversare il Tappan Zee. Era troppo lungo, l’angoscia durava in eterno, fino a togliere il respiro. Lo ricordo senza sponde, solo con i guardrail. In seguito aggiunsero grate più alte, quando il traffico divenne frenetico, quando gli incidenti sul ponte si fecero frequenti. Collisioni con grossi camion, rimorchi che si ribaltavano, un incubo. Le auto sfrecciavano così veloci che bastava un attimo di distrazione, bastava non tener la curva.

La fobia di mia madre per il Tappan Zee era fonte di motteggi e risate per noi ragazzini, finché non scoppiò lo scandalo di Chappaquiddick. Io avevo appena finito le Superiori, ero in giro per il New England in cerca dell’università adatta per me, quando uscì su tutti i giornali e i canali TV la terribile notizia dell’incidente d’auto del senatore Ted Kennedy, e della morte della giovane Mary Jo Kopechne. Il senatore, forse ubriaco, aveva perso il controllo dell’auto su un piccolo ponte senza sponde, ed era finito nel canale. Era riuscito a liberarsi e a nuotare fino a terra, ma aveva lasciato la povera Mary Jo a morire nell’auto capovolta sott’acqua.

A quel punto cominciai anch’io a temere i ponti avveniristici, le campate vertiginose, e ad avere sudori freddi al solo pensiero di attraversarli. Tenevo sempre i finestrini dell’auto aperti, anche d’inverno, come via di fuga.

Un mese dopo la tragedia ci fu il primo, storico festival di Woodstock, in un enorme prato a nord nello Stato di New York. Ci andai con alcuni amici, partimmo in quattro su un’auto sgangherata. Io ero ancora vergine, col viso paffuto e innocente e la testa vuota. Tornai da quel mega-sballo di musica e droghe con la verginità perduta e l’acquisita dipendenza dall’alcool. Ero così sicura che non avrei fatto gli errori di mio padre, ma eccomi qui, ogni sera dopo il lavoro, alle riunioni degli alcolisti.

Mio padre aveva sviluppato una grave forma di diabete e, non volendo morire subito, era andato a quelle riunioni molto prima di me. Aveva resistito per anni prima di cedere e chiedere aiuto. La sua malattia era un monito per la nostra famiglia, ma anch’io accettai di avere un problema solo dopo gli anni selvaggi dell’università. Li ricordo come un vortice di annebbiamento, che mi travolse senza trovare in me alcuna resistenza.

Proprio allora era esplosa la “liberazione sessuale” e di certo i ragazzi si sentivano molto liberi di imporre i propri bisogni a ragazzine vergini e stupide come me. L’offerta del proprio corpo era sempre stata un dovere della moglie, che non poteva esimersi. Ora quest’obbligo ineluttabile era stato esteso a tutte, tranne quelle brutte. Era l’imperiosa ideologia del momento, e se nel campus universitario non stavi con qualcuno o ti rifiutavi, eri subito bollata come frigida o lesbica.

Insicura, sempre in cerca di approvazione, mi sentivo impotente, cinica e disperata. L’anima mi era fuggita via dal corpo. La promiscuità sessuale, che prima consideravo oscena, era diventata il tran-tran dei miei giorni, e per sopportarla avevo bisogno di anestetizzarmi. L’alcool era la mia medicina preferita per digerire il mondo, per rendermi insensibile alla vergogna, al disincanto.

Quando iniziai le famose “90 riunioni in 90 giorni”, dovetti girare tutti i paesi vicini che ospitavano gruppi di alcolisti. Mio padre mi portò al suo gruppo. Lo chiamavano il gruppo “Guardie e Ladri”, perché si teneva vicino alla prigione di Ossining. I membri erano quasi tutti uomini, sui cinquant’anni e più. Mio padre me ne additò qualcuno, per farmi capire chi erano le guardie e chi gli ex-galeotti. Si riconoscevano un po’ dal modo di vestire, sciatto o azzimato, dal taglio di capelli e dagli sguardi duri o sfuggenti. Certe guardie facevano paura, coi vestiti di pelle nera borchiata sado-maso. Dato che ero l’unica ragazza giovane presente, qualche vecchio borchiato ebbe la faccia tosta di venirmi intorno, ma quando mi vedevano stretta a mio padre, si ritiravano in buon ordine.

Potevo capire perché mio padre si trovasse bene con gente della sua età, ma uscii dalla prima riunione convinta che quel programma non faceva per me. Non mi identificavo in nulla. Il machismo, il testosterone presente in quella stanza mi disgustavano. Trovai un gruppo più adatto a me in una chiesa di Tarrytown. Ci ospitava il prete nella sua canonica, un vecchio stabile con l’interno tutto in legno scuro. Le scale e i pavimenti scricchiolavano sotto i piedi, e non c’era verso di passare inosservata quando arrivavi in ritardo o quando volevi sgattaiolare via dalla riunione.

In quella grande sala antica, odorosa di resina come un bosco, piena di sedie di legno, si riunivano molti giovani hippies, ragazzi e ragazze dai vestiti variopinti e logori, le zazzere multicolori, cotonate e laccate. La mia era torreggiante e gonfia per farmi sembrar più alta, o più fuori di testa. C’era anche qualche anziano, che doveva intervenire quando divagavamo parlando della nostra tossicodipendenza.

“Vi prego di attenervi alla dipendenza dall’alcool – diceva il vecchio Wayne – sennò gli altri presenti non si identificheranno con la vostra storia.” Ancora non era nata l’associazione per i tossici, ma già in quella stanza avremmo potuto fondarne una, perché i giovani della mia età si facevano di droghe. L’alcool era solo un sostituto temporaneo. Erano i vecchi a preferire l’alcool.

Dopo Woodstock, mi ero spaventata troppo per continuare a sballarmi con i narcotici, e mi ero convinta che bere alcool fosse “normale”. Con quella scusa, continuai a ubriacarmi per tutti gli anni dell’università. Quando capii che l’alcool mi faceva “mutare” personalità, quando le sbornie non annullavano più il dolore ma lo ingigantivano, facendomi perdere ogni rispetto per me stessa, allora mi rassegnai ad accettare una cura. Era una disciplina tosta, quella praticata nei gruppi, molto difficile da accettare per noi giovani ribelli e sbandati.

Una sera le scale scricchiolarono per un sessantenne piccolo e ben vestito, capelli castani corti pettinati all’indietro, senza ciuffi ribelli. Aveva lo sguardo perso di un ragazzino, e lo notai subito perché mi si sedette accanto, nell’ultima fila di sedie vicino alla porta. Si chiamava John.

Né lui né io prendemmo la parola quella sera, lui ascoltava attento, e pensai fosse nuovo. A fine riunione però, Wayne, l’anziano moderatore, gli si fece incontro e lo abbracciò. Andarono fuori a parlare e a fumare. Io mi distrassi a parlare con altri e lo dimenticai fino alla settimana dopo, quando riapparve sulle scale, in blue jeans e pullover blu. Fu allora che notai i suoi occhi azzurri, due pezzetti di cielo timido e inquieto. Era vestito in tinta con gli occhi.

Quella sera John andò al piccolo podio davanti alle sedie schierate e prese la parola. Disse di aver aspettato due infarti prima di decidersi a smettere di bere. Il dottore che lo aveva ricoverato in clinica per disintossicarsi, gli aveva detto che sarebbe morto. “Ma io ero già morto. Sentivo di avere il cervello danneggiato, e avevo perduto ogni umana dignità.”

John aveva uno strano accento, da aristocratico inglese, pensai. Ero così incuriosita che chiesi al suo amico notizie di lui. Wayne mi rispose: “Perché non ti fai i cazzi tuoi?” Me ne andai offesa. Wayne era un pensionato pacioccone, non lo avevo mai sentito insultare qualcuno così.

Anche John stava facendo il giro dei gruppi della zona. Lo ritrovai una sera al gruppo di Chappaqua, a nord, verso Gedney Park. Non era un gruppo affollato come il nostro, si stava tutti seduti in cerchio, senza podio. Quando John prese la parola, notai di nuovo quel suo accento distinto. Usava parole semplici, ma sentivo che si sforzava di escludere quelle difficili.

“Quando fa buio, mi torna la voglia di bere. Il buio scatena un bisogno profondo, che io penso sia sete d’alcool, ma gli strizzacervelli dicono che sia un bisogno di amore mai soddisfatto.”

Qualcuno tra gli ascoltatori rise, pensando fosse una battuta.

Durante un intervallo, mi fermai col bicchiere di plastica fumante vicino al grande percolatore di caffè e chiesi di John a una donna coi capelli grigi e il volto disfatto di chi non dorme.

“Stai cercando uno sponsor?” mi disse scrutandomi in faccia.

“Sì, mi piace quel che ha detto, mi identifico.”

“Sarà meglio che ti cerchi uno sponsor donna” rispose scortese, e girò il culo.

Ebbi allora la sensazione che un invisibile muro di gomma proteggesse John. Di lui avrei saputo solo quel poco che lui stesso decideva di rivelare alle riunioni.

Lasciai perdere. Perché mi incuriosiva tanto un vecchio alcolista? Forse perché parlava così bene? mentre gli altri compagni di sventura erano grezzi e ignoranti? Anch’io del resto, dopo la disastrata parentesi universitaria, non avevo più preso in mano un libro o un giornale. Anch’io pensavo che l’alcool e le droghe mi avessero fottuto per sempre il cervello.

Una sera a Tarrytown lo vidi arrivare alla canonica su una vecchia Volkswagen. Era sera inoltrata, e sotto la luce scarsa dei lampioni mi parve che l’auto fosse rossa, o forse solo arrugginita. John parcheggiò male sul marciapiede e per un po’ non si decise a uscire. Stava riverso sul sedile di guida, la testa abbandonata, gli occhi chiusi. Pensai fosse ubriaco. Gli andai incontro e bussai al vetro del guidatore.

“Ti senti bene?” John aprì gli occhi e mi guardò. Tirò giù il finestrino. Aveva indosso un elegante completo di tweed.

“Non sono ubriaco. Sono stato in New Jersey e ho appena attraversato il Tappan Zee.”

“Oh, Cristo! Soffri di vertigini?” gli chiesi, appoggiando le mani all’auto per sostenermi.

“Scusa, devo aspettare che mi passi. Vai dentro, non perderti la riunione.”

A malincuore lo lasciai solo, ma lo aspettai sulle scale, in caso avesse bisogno di un sostegno. Dopo dieci minuti buoni arrivò, il volto bianco come un lenzuolo. Rifiutò il mio braccio e andò subito al tavolo con la macchina del caffè in fondo alla sala. Bevve, riempì un’altra tazza e la vuotò. Wayne gli si avvicinò e confabularono sottovoce. Poi John annuì con la testa e si avviò verso il podio.

“Devo condividere con voi quel che mi è successo. Da adulto ho sempre sofferto di vertigini, sia che fossi su una banchina ferroviaria, in Grand Central, o nelle autostrade, nei tunnel, o sui ponti. Credevo dipendesse dal bere. Sarà capitato anche a voi di guidare in stato di ebbrezza, e zigzagare sulla doppia linea gialla di mezzeria, o nella corsia sbagliata. Una volta mi hanno sospeso la patente per sessanta giorni. Beh, questo non è più successo da quando sono sobrio. Stasera ho attraversato il Tappan Zee col buio, e ho rivissuto l’incubo: non riuscivo a respirare, ansimavo. Le gambe erano così deboli che temevo di non riuscire a usare il pedale del freno. A metà del ponte mi si è appannata la vista e ho pensato che sarei precipitato giù, morto affogato nel fiume. L’attacco di panico è durato fino alla fine del ponte, fino al parcheggio qui fuori. Ho pensato: sono ubriaco anche se non bevo più. Ora che vi vedo e vi parlo, sento che almeno sono vivo. L’alcolismo viaggerà sempre accanto a me, nel sedile del passeggero, e cercherà di prendere il controllo del volante. Ma se non cedo, avrò il privilegio di restare vivo.”

Dopo quella sera, non rividi più John, e non pensai più a lui. Ero tutta presa a cercare l’amore nei posti sbagliati. Passò un anno, forse due, e una sera Wayne mi disse: “John è malato di tumore.”

Provai un dolore sincero, più che se fosse un parente. “È grave?”

“Lo hanno operato a un rene, speriamo che sia fuori pericolo.”

Ma John non tornava. Quando chiesi notizie a Wayne, capii che si sentivano spesso al telefono, che andava a trovarlo, a casa o in ospedale.

“Dopo l’operazione stava bene. Ancora convalescente, passeggiava nei campi intorno a casa. Lui è un tipo sportivo, gli piace sciare, pattinare sul ghiaccio. Sperava di rimettersi in forma fisica, ma ha cominciato a zoppicare, e pensava fosse uno strappo muscolare. Poi gli sono venuti dei dolori al petto. Hanno fatto le analisi, e il cancro è ritornato nelle ossa delle gambe, e nella cassa toracica.”

Wayne aveva gli occhi lucidi, mentre mi parlava.

“Mio Dio!” dissi con un fil di voce.

“L’ho sentito ieri sera, e mi ha detto: ‘Sono pronto a morire’.”

Eravamo sulle scale, e Wayne si voltò all’improvviso e corse fuori, a nascondersi dietro gli alberi della canonica. Anch’io ero sconvolta, e non sapevo nulla di John, ma era come se lo conoscessi più intimamente di qualsiasi altro amico o parente. In quelle stanze, ognuno di noi apriva l’anima, cosa che non succede neppure tra consanguinei.

Seppi che John era morto quando Wayne portò in riunione un grande vaso di fiori, e un quotidiano locale con la faccia di John in prima pagina. Ormai non c’era più bisogno di proteggere la sua identità. Lessi così per la prima volta il suo cognome. Provai vergogna per la mia ignoranza.

Avevamo avuto con noi, per tutti quegli anni, un grande scrittore, il “Cechov dei sobborghi”, e io non avevo mai letto i suoi romanzi e racconti, perciò non lo avevo riconosciuto. Prima di andarmene quella sera, salutai Wayne e gli dissi: “Tu l’hai sempre protetto.”

“Sì, dai ficcanaso come te. Qui al gruppo, noi anziani sapevamo chi era John, ma lui non voleva che si sapesse.”

“Voleva essere uno di noi. Anonimo.”

“Per fortuna, tu e i tuoi amici saputelli non leggete mai i giornali.”

Il giorno dopo era domenica e andai a Croton Point Park, a fare jogging sulla spiaggia. Il fiume qui si allarga come un mare, e nessun ponte potrà mai varcarlo. Poi, a sud, la penisola di Croton lo stringe contro le alte scogliere delle Palisades. Sulla riva del fiume, quella domenica, l’aria era così pura, il silenzio sovrumano, che mi sentivo dentro un antico dipinto dell’Hudson River School, quando la vallata era una immensa selva nera, senza insediamenti coloniali. La visione sublime però svaniva se rivolgevo lo sguardo a nord, dove svettavano le tre cupole della centrale nucleare di Indian Point. Le avevano costruite in riva al fiume. Senza rispetto, con avidità cieca. Una dipendenza tossica e mortale, non molto diversa dalla mia.

John aveva comprato casa su queste colline, una vecchia casa coloniale olandese di fine Settecento. Dalla sua balconata bianca, tra gli alberi, si vede il fiume scorrere maestoso, nonostante gli sforzi umani di domarlo e contaminarlo. La centrale nucleare di Indian Point, dopo tante proteste, è stata chiusa. Il ponte di Tappan Zee, vecchio e arrugginito, è stato demolito, i piloni di cemento, che reggevano le campate, fatti saltare con la dinamite. Un ponte nuovo, strallato, è stato costruito poco più a nord del vecchio, usando una delle più grandi e mostruose gru del mondo.

Non ho mai traversato il ponte nuovo. E non ho più avuto la tentazione di bere, dopo la morte di John. Lui è uscito di scena con grazia, restando sobrio fino alla fine. Uno che sta per morire di cancro potrebbe anche dire: “Chissenefrega! Tanto vale ubriacarsi.” Ma John voleva morire “pulito”. Ora lo ricordiamo com’era nei suoi ultimi sette anni senza alcool, piuttosto che negli altri cinquanta da sbronzo.

“Vide sanitaire” di François Durif: un estratto in traduzione

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Vide sanitaire è il primo romanzo di François Durif, uscito nel 2021 per le Éditions Verticales e attualmente inedito in italiano. L’autore è stato residente a Villa Medici da settembre 2022 ad agosto 2023. L’estratto che segue viene pubblicato in traduzione su Nazione Indiana con il sostegno dell’Institut Français Italia.

 

 

di François Durif
traduzione di Ornella Tajani

È per evitare di prendere il posto del morto che ti sei messo a fare il beccamorto? Per capire di cosa si trattava? Negli anni in cui lavoravi alle pompe funebri un dispositivo di sicurezza ti impediva di identificarti col morto – fino al giorno in cui… nel crematorio della Salle de la Coupole, durante una delle ultime cerimonie che hai preparato, alla fine è successo, ti sei identificato col tizio che stava nella cassa: aveva la tua età, due sorelle maggiori e un fratello, una famiglia molto simile alla tua, stesso ambiente sociale; era gay, esercitava una professione artistica e tutti i dettagli biografici che i suoi cari ti avevano raccontato avevano qualcosa a che fare con te.
Si era suicidato a casa, il corpo era stato trasportato all’istituto medico-legale. Il fratello era venuto all’Altra riva[1] insieme alla compagna; sembrava che lei volesse risparmiargli ogni sofferenza, assumendosi l’incarico di organizzare le esequie e instaurando con me un rapporto privilegiato. Erano attratti dalla mia personalità e io non avevo saputo proteggermi. Nel momento del rito ero come pietrificato, a pochi metri c’erano la sagoma ricurva del padre, lo sguardo fisso della madre, le sorelle e il fratello che si sforzavano di reggere il colpo; vedevo soltanto la loro solitudine, il dolore impossibile da condividere. Non pensavano che il gesto del secondogenito fosse rivolto a loro, non cercavano di interpretarlo. D’ora innanzi avrebbero dovuto conviverci – cosa che apriva una breccia difficile da richiudere. Quando li ho visti passare uno dopo l’altro accanto alla bara le gambe hanno preso a tremarmi. Non ero più al mio posto, ero io, il morto.
A quel punto la decisione di lasciare L’altra riva era già stata presa. Forse per questo avevi abbassato la guardia, permettendo che la sorte di quel fratello minore ti toccasse così tanto? Era giunta l’ora di riporre l’abito da becchino nel guardaroba. Magari il turbamento che sentivi era eccessivo, ma capita di diventare la caricatura di sé stessi. A volte la tentazione di giocare con le proprie paure è grande; ci tendiamo delle trappole da soli, invasi come siamo da immagini congelate e frasi fatte. Avevi scavato e ormai non c’era più niente da imparare, niente da aspettare – il vincolo di parentela si stava già allontanando, il vuoto era altrove.

Tra i vari foglietti che ho conservato degli anni alle pompe funebri ci sono alcuni appunti datati 16 ottobre 2006. Brandelli di frasi scritte velocemente con la penna a sfera. Ricordo bene il volto della donna che mi ha affidato questi pensieri colti al volo. I suoi occhi azzurri, pallidissimi. Le mani nodose. L’intensità del nostro primo incontro. Un sabato, nel primo pomeriggio, ero da solo in agenzia. Appena è entrata sono stato rapito dal suo sguardo. Voleva vedere Raphaël. Le propongo di sedersi, offrirle un caffè. Così mi racconta la sua storia. A distanza di dieci giorni aveva perso la figlia e il compagno – che non era il padre, mi specifica. Lei era annientata dal dolore per il suicidio della figlia e lui l’aveva sostenuta in tutti i modi; durante gli anni di convivenza l’aveva sempre circondata di un affetto ardente. Qualche giorno dopo le esequie era morto all’improvviso – di infarto – per strada.
Da quel momento in poi aveva dovuto attraversare i lutti, scavare dentro di sé, inventarsi ritualità che la sostenessero nella riconquista di pezzi di vita: camminare intere giornate per Parigi, immergersi nel flusso della città, trovarvi riserve d’energia; e poi, ogni anno, nei primi giorni dell’estate, tornare nel posto in cui erano state disperse le ceneri del compagno, in mare aperto, e fare il bagno lì.
Ho scritto ciò che mi ha confidato subito dopo che se n’è andata. Ogni volta che veniva a trovarmi le prestavo il libro che stavo leggendo. Dopo qualche settimana me lo restituiva in una busta di plastica. Mi diceva che leggevo cose troppo complicate. Eccole qui, le sue parole:

sembra di vivere a metà
mi sento sola
sono i miei morti
poiché ho fede, ho la speranza di rivederli
mi sento più vicina alle donne che sono sole
mi ritrovo debilitata
bisogna sopportare
fare tutto da sola
stavamo fuori notte e giorno
un vuoto enorme, ora
un tale silenzio, ora
lui c’è sempre, certo
non è bello essere vedova, non è bello
non riesco a piangere
il cervello è invaso
non c’era niente da fare
ci vuole tempo
è davvero un vuoto
accendo il camino
all’inizio lo vedevo ogni momento
nel letto restavo al mio posto
di solito gli uomini se ne vanno prima delle donne
avevo amici intorno a me
non posso stare un giorno senza lavorare
nessuno con cui parlare
la mancanza è comunque la presenza
dormo sempre dallo stesso lato
la sua barca si chiamava «mi piace»
siamo costretti a vivere
nella vita ci vuole sentimento
ti esplode in faccia
da quando mio marito è morto lo cerco ovunque
la casa è abitata
c’è qualcosa di lui che resta
il letto è freddo, il letto è freddissimo
ho sempre saputo che mi amava, ma
spesso ho pensato che mi amasse male
l’altro è sempre altro
(ciò che manca)
credo che i morti siano vivi
mi sento amputata, amputata di lui
ci sono parole che cominciano a far male
faccio coppia con un morto
l’uomo che amo è morto
ho sepolto le sue spoglie ma non il mio amore
conservava tutto ma ha scritto
è un’assenza in più
ho dovuto camminare, ho dovuto reggere
non contavo i giorni
oggi mi capita di dormire dal suo lato

_

[1] Come chiarito sin dall’inizio del romanzo, è il nome dell’agenzia di pompe funebri per la quale ha lavorato il narratore.

Les nouveaux réalistes: Luca Maiolino

1

Il guardiano delle fogne

di

Luca Maiolino

Io lavoro nelle fogne, e credo sia troppo tardi per scegliermi un lavoro diverso. Ho preso questa strada da ragazzo, una scelta che credevo felice, ma è ormai da qualche tempo che mi pare di agire esclusivamente per dovere: ogni mattina, quando la torre dell’orologio segna le 04.00, mi sveglio, e mi ritrovo negli occhi l’immagine di un tombino serrato nella mia zona di competenza, e il mio animo non è in pace finché non infilo l’impermeabile per andare a sollevarlo. Solo quando arrivo sul posto mi calmo e mi giudico sciocco per essermi preoccupato.

Faccio un respiro profondo e, pochi minuti prima che sorga l’alba, col solito sforzo di reni, sollevo il tombino e riesco a violare il passaggio: scendo la scaletta una gamba alla volta, arrivo a mettere piede sulla banchina, e la puzza di feci mi avviluppa completamente e mi libera da ogni pensiero. È un attimo che dura il tempo di abituarmi al fetore; ma tanto basta perché, fino a sera, io sia concentrato esclusivamente sul lavoro, e questo ancora mi dà soddisfazione.

Quando sono di sotto, per quattordici ore, percorro lo stesso tratto di strada, al buio, e questo potrebbe dirsi noioso, ma è necessario. Infatti succede che un tubo perfetto il giorno prima, faccia difetto il giorno dopo senza dare nessun preavviso. L’esperienza aiuta a orientarsi al buio, e si scopre che percorrere la stessa via, piuttosto che un avvilimento, diventa un vantaggio. Da ragazzino mi aiutavo nelle ricerche con una torcia, ed è naturale, ma ho imparato prestissimo che la torcia mette in pericolo tutto il lavoro (l’oscurità gioca un ruolo essenziale). D’altronde, se dovessi avanzare a orecchio, con tutto quel frastuono di ruscelli di melma, sarebbe impossibile scovare il difetto nella tubatura. Il guasto invece si trova sempre, con un trucco, che vale per tutti gli operatori ma ognuno crede di averlo inventato da sé. Si sfrutta la caratteristica del terreno di essere poroso: qualora un tubo ceda, cede anche il terreno, che si apre mostrando un filo di luce scappato alla superficie. È questa la luce che io devo cercare – anche se dovrei dire che noi dobbiamo cercare, ma è sempre difficile dirlo. Su questa luce io non ho lamentele da fare, e nemmeno niente di buono da dire; è persino difficile descriverla. Anche andandoci sotto con la mano, infatti, toccherei un filo senza calore, trasparente come una vestaglia di donna, e così effimero che potrei dubitare della sua esistenza se non fosse per l’acqua che ci scorre in mezzo. Questa luce potrei anche chiamarla aria se fosse possibile respirarla; ma non si può. Senza l’abitudine all’oscurità, accumulata negli anni, mi sarebbe impossibile riconoscerla. Eppure esiste, è un fatto. Così come è un fatto che, quando risalgo la scaletta la sera, questa luce per me è finita.

Io richiudo il tombino con attenzione, e cammino la strada del ritorno voltandomi a guardare le ombre che ho superato, senza sapere se sono colleghi che tornano come me dal lavoro. Solo quando arrivo nella mia stanza, dopo aver fatto una doccia che lava via la sozzura, mi sento al sicuro, e mi infilo nel letto con la tranquillità che una squadra si sta già occupando della mia crepa, e che il giorno dopo la troverò sigillata. (E chi sa come sarà la nuova!).

Nelle notti più serene cammino con più parsimonia, e mi attardo a osservare le sagome dei passanti che diventano più misteriose mano a mano che si avvicinano alla portata dei lampioni. Talvolta getto uno sguardo nei vicoli, e penso di imboccarne uno a caso e di perdermi in una parte di città sconosciuta.

So già come andrebbe a finire.

All’inizio sarei spaesato, crederei subito di essermi perso. Le finestre e i portoni delle case si assomiglierebbero così tanto che solo con un occhio più attento, che penetri all’interno, distinguerei una facciata dall’altra. Se io volessi, mi basterebbe bere da una fontanella pubblica per sapere, solo dal sapore dell’acqua, di non essere stato io a ripararla. Forse mi lascerei vincere dallo sconforto, e cadrei addormentato su una panchina. Ma camminando per cinque minuti, con gli occhi sempre rivolti verso l’alto, prima o dopo scorgerei la torre con l’orologio, che da vent’anni è lì e mi aiuta a ritrovare la strada. Io dico da vent’anni mi aiuta a ritrovare la strada, ma potrebbero essere meno o molti di più. I giorni bui si assomigliano tutti, l’uno mi riconduce all’altro, e perciò non sento il peso del tempo che passa.

Il vigilante delle fogne, un nuovo assunto

Io lavoro nelle fogne, settore vigilanza, e qualcuno crede che il mio sia un lavoro facile, pagato il giusto, e che chiunque sarebbe in grado di portarlo a termine.

Di regola dovrei occuparmi solo di vigilanza, ma per via della disorganizzazione burocratica di cui è vittima il mio mestiere ­– e non solo il mio – finisco per fare anche altri e secondari lavori. Di questo non mi lamento: ci sono colleghi in grado di parlare meglio di me, che si lamentano al posto mio, e mi sembrerebbe, sommando la mia voce alla loro, di rendere la lamentela meno chiara e produttiva. D’altronde, delle questioni di cui bisognerebbe lamentarsi davvero purtroppo nessuno ne parla.

Una di queste riguarda l’abbattimento dei topi, che ci tocca seguire a giorni alterni, per turni stabiliti. Durante le prime settimane di servizio questa era la mansione che più mi avviliva: provavo schifo per i resti dilaniati di questi ratti, che flagellavo infilzandoli col punteruolo senza nemmeno guardarli mentre li ficcavo nel sacco di tela. Mi pareva che quest’azione soffocasse la mia natura, che è quella di presidiare i luoghi, e non di voltarli in cimiteri. Perciò, se sentivo che a un singolo squittio seguiva il silenzio, tiravo dritto; oppure, ignoravo un topo che avanzava rasente al muro, premiandone la prudenza, e confidando nella capacità di coltivare la sua solitudine senza affidarsi agli amici. Mi accanivo solo con i topi più audaci, che zampettavano impuniti al centro della passeggiata, o che addirittura al mio passaggio si davano a bagni nei ruscelli di melma.

Purtroppo ho scoperto che la natura di questi ratti è di tradire la fiducia di chi li protegge: in una settimana più di mille code impazzite, ritte come bandiere, mi gioivano incontro, quasi volessero, con la loro ottusa euforia, offuscare la mia disfatta. La delusione per il fallimento moltiplicò la mia pietà, che decisi di rivolgere tutta verso me stesso. Da quel giorno svolgo i compiti assegnati con diligenza, e nei termini previsti dalla legge.

Individuare i crolli nella controsoffittatura rimane sempre una grande responsabilità, soprattutto se si considerano le conseguenze secondarie, e cioè, che qualche idiota della superficie potrebbe cadere di sotto e farsi molto male. Questo aspetto non riguarda direttamente le nostre responsabilità, ma è di fondamentale importanza per la nostra motivazione. È per questo motivo che i lavoratori di sopra, una volta l’anno, organizzano una parata in nostro onore, alla quale, per questioni di orario, siamo costretti a rinunciare. Purtroppo nella città in cui ho preso servizio quest’usanza si è persa, ma mi è stato riferito, con assoluta certezza, che al mio paese d’origine continuano a organizzarla ogni anno, e questo ancora mi dà soddisfazione.

Quando mi annoio, nei giorni di massima saggezza animale, e pure di quella umana – per quale altro motivo, mi si dovrebbe spiegare, dovrebbe cedere la controsoffittatura, se non per qualche scelleratezza nel camminare – quando mi annoio, dicevo, mi intrattengo raccontandomi delle storie ad alta voce che assomigliano alle favole che ascoltavo da bambino; a volte cambio il finale, oppure le racconto usando le stesse parole, ma le uso per dire l’opposto. Qui purtroppo gli unici giochi nascono dall’immaginazione e bisogna fare con quello che si ha; questa è certamente la parte più difficile del nostro lavoro, sentirsi soli e non annoiati; e allora si potrebbe anche sostenere che il nostro non sia proprio un lavoro che chiunque può portare a termine; e non c’è neanche tanto tempo da dedicare a questi giochi: ci sono tantissimi lavoretti che attendono, lavoretti infimi e di nessuna importanza, che a trascurarli si rischia di compromettere il lavoro di anni.

Quando li ho terminati, risalgo la scaletta e richiudo il tombino con attenzione; passeggio poi la strada del ritorno zigzagando tra le stradine e i resti della folla del pomeriggio, avvicinandomi alle vetrine e scrutando le facce dei passanti che, non appena mi vedono, scappano via spaventate.  Seguo la luce che filtra dalla piazza principale, che mi consente, come lo spioncino di una porta infernale, di presentire il calore i miei colleghi radunati sotto il chiosco di un bar. Non vedono l’ora che li raggiunga per lamentarsi delle loro giornate! Per non farmi vedere, taglio per una strada secondaria, e infilo un vicolo che conosco soltanto io. All’interno non affacciano negozi, né abitazioni; l’altro capo è cieco, perciò nessuno ha motivo di entrarci. Al centro sta un buco in cui ci passa a stento un dito, che è nient’altro che un tombino senza il suo chiusino. Questo tombino è l’unico accesso a una sezione di fogna isolata dal resto della banchina. Controllare in superficie se ci siano cedimenti strutturali della strada per verificarlo è inutile, poiché le mattonelle sono saldate in un unico blocco indivisibile. Da nessun altro punto la si può raggiungere. Le acque sporche si accumulano al centro, come in un pozzo, e defluiscono ai lati attraverso canali così stretti che neanche i topi riescono a entrarci; lo so perché sono stato io a costruirli. Ogni giorno controllo se qualcuno c’è caduto dentro per sbaglio. Da vent’anni che sono in servizio non è mai accaduto. Io dico Vent’anni che sono in servizio, e sono certo d’ogni minuto. La direzione ci fornisce di orologi da polso precisi, da quando il comune decise di abbattere la torre con l’orologio, nel mio primo giorno di servizio, quando mi svegliai di soprassalto, nel cuore della notte, alle 04.00 del mattino.

 

Granchio reale

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di Matteo Crescenti

Delle dimensioni di un sassolino, bianca brillante, teneva nel palmo della mano una tellina ed era come se, attraverso striature grigie e increspature concentriche, riuscisse a vedere il mollusco nascosto dentro. Al contrario di tante altre, la conchiglia ospitava ancora l’abitante. Un po’ come trovare un quadrifoglio in un campo di trifogli, avrebbe detto suo padre che non tanto di numeri quanto di telline se ne intendeva. La vongolina – così le chiamavano dalle parti sue – era di proporzioni belle, simili a quelle che coltivavano loro e anche per questo motivo l’aveva notata. Girava e rigirava l’animaletto fra le dita e, con sguardo distratto, controllava l’orologio.

Poco prima, la sua donna aveva avvisato con un vocale che sarebbe arrivata in ritardo. Anziché proseguire verso il borgo, aveva imbroccato la strada per le spiagge e, in uno spiazzo non asfaltato nascosto fra le dune, aveva parcheggiato la macchina. Era in anticipo e decise di fare due passi in riva al mare. Faceva ancora molto caldo. Marzio si pentì quasi subito di aver lasciato il costume da bagno sul sedile posteriore della macchina. Era preoccupato ma la calura, forse anche la stanchezza, gli impedivano di pensare più di tanto. E quando sbucò su una lunga lingua dorata senza ombra né ombrelloni davanti alle acque turchesi del mare, fu tentato di tuffarsi in mutande. Lo sguardo fu però catturato da un riflesso bianco e, tra due cunette di sabbia, trovò la conchiglia. Si era alzato un lieve alito di vento, un tavolo per due e una vista mozzafiato sull’Adriatico l’aspettavano in un ristorante poco più in là. Tenendo stretta in pugno la conchiglia, riprese a camminare lungo il mare.

* * *

Il sole batteva sul lago e sulle nuche di pescatori e allevatori. All’estero il corpo aveva perso dimestichezza con il caldo della sua terra in estate e, ogni tanto, per rinfrescarsi, immergeva il polso nell’acqua salata. Renata invece, malgrado l’età e la pelle chiara, sembrava perfettamente a suo agio.

“Quest’anno produciamo la metà dell’anno scorso”, disse davanti a una vasca vuota. Facevano il giro degli impianti per l’acquacultura delle telline e intanto la donna gli spiegava perché quella era una stagione da dimenticare. L’acquacultura rispetto alla pesca aveva il vantaggio di controllare e proteggere passo dopo passo la crescita dei molluschi. Ma quest’anno avevano avuto problemi sin dalla raccolta delle larve. Era colpa di una specie invasiva mai vista prima nel lago, Renata la chiamò granchio blu. Parlava in dialetto e teneva un discorso ruspante dagli accenti drammatici. Un altro non avrebbe seguito, lui invece con quella parlata ci era nato: capì quello che c’era da capire.

Il granchio faceva la tana dove crescevano le larve di telline, magari ne andava pure ghiotto, fatto sta che da quando era arrivato, non se ne trovavano più. Sentì un gusto amaro in bocca davanti a una vasca in cui i molluschi che avevano raggiunto le dimensioni giuste per la vendita si contavano sulle dita di una mano. Era semplice: niente larve niente acquacultura. Non poteva fare altro che constatare ciò che l’allevatrice sapeva già da tempo: erano arrivati tardi. Per la stagione in corso non c’era più niente da fare.

“Meno male che ho le galline”, disse la donna. Aveva non solo un pollaio ma anche un bellissimo orto nelle vicinanze. Prima di congedarsi, come spesso capitava quando andava a trovarla, Renata gli regalò uova e zucchine.

“Portale ad Angelica”, disse accarezzandogli la guancia. “Quant’è bella quella ragazza, tienitela stretta”.

“Torno a trovarti presto”, disse lui e poco prima di mezzogiorno era di nuovo in macchina.

Teneva il finestrino abbassato quando guidava sulla strada che separava il lago dal mare ed era un modo per fare entrare i profumi della sua infanzia: il lago, le spiagge, i frutti di mare si mescolavano in un unico odore. Un sentore evocatore di ricordi che non sapeva più di avere. Come la prima volta che era andato a visitare l’azienda da bambino o la prima pesca subacquea con suo padre. In famiglia, erano pescatori da sempre e allevatori di telline da almeno un paio di generazioni. Suo padre e il padre di suo padre avevano cominciato a lavorare in proprio e, come tanti altri nella regione del Gargano, allevavano le telline di Lesina rinomate per il loro colore e sapore delicato.

Era figlio unico. Sin dai diciott’anni, aveva seguito gli affari dell’azienda e, data l’età avanzata dei suoi, si preparava all’imminente cambio di testimone. Ora arriva questo granchio blu e spazza via tutto. Aveva controllato: il problema era lo stesso per tutti gli allevatori di telline dei laghi. Non ci avrebbe scommesso nessuno un paio di mesi prima. Eppure, quell’estate, non ci sarebbero state le loro telline sui banchi del pesce al mercato né sulle tavole dei ristoranti in riva al mare e nemmeno a scottarsi appena con prezzemolo e scalogno, in un soffritto colorato cucinato da una comare in un qualsiasi borgo di pescatori.

“Sono arrivati con l’acqua di zavorra delle navi e ormai proliferano nel Mediterraneo. Hanno devastato Ostia”, avevano fatto eco poco più tardi le parole di Gigi. Si erano incontrati al porto. L’uomo della guardia costiera era arrivato con il motoscafo e lo aveva fatto salire prima ancora di salutarlo. Al largo, sotto un sole spaccasassi contrastato appena da una leggera brezza marina, avevano parlato del più e del meno, scherzando come se si fossero visti il giorno prima l’ultima volta. Erano invece passati più di due anni dal loro ultimo incontro. Notò che la barba dell’amico era diventata grigia e qualche ruga in più segnava il volto. Probabilmente anche lui appariva cambiato. Più magro e pallido del ragazzo che era partito per studiare; i suoi, perlomeno, non mancavano occasione di farglielo notare.

Al di là dell’amicizia che li legava da sempre, Gigi era prezioso perché con i pescatori aveva a che fare ogni giorno. Come guardia costiera, a suo tempo anche pescatore, aveva una visione d’insieme e una comprensione privilegiata di tutto ciò che riguardava le attività di pesca, la protezione della biodiversità e del territorio. Sapeva ciò che si diceva in giro, le nuove tendenze: perché quell’annata le sarde erano poche, chi vendeva le ostriche migliori o da quando quel promontorio delle faggete patrimonio dell’umanità era franato. Andava a trovarlo quando aveva bisogno di un consiglio.

“Reggi la barra, ti voglio mostrare una cosa”, disse Gigi sparendo sottocoperta. Il motoscafo navigava all’ombra di una parete bianca, nel mezzo di un’insenatura ampia: bastò mantenere la barra dritta. L’amico tornò qualche istante dopo con il pesce pescato in mattinata: una sogliola e nel fondo di una gabbietta metallica un granchio ancora vivo. Quando il pescatore lo tirò fuori tenendolo per il carapace, riconobbe un bell’esemplare di granchio azzurro. Era grande quanto una granceola, con chele e zampette blu elettriche. Si dibatteva furiosamente, agitava le antenne a ritmo frenetico schioccando le grosse chele azzurre.

“Piuttosto combattivo, no? Ha un’aria esotica”, notò.

“Da queste parti non si erano mai visti prima” confermò l’altro. “Proliferano grazie all’innalzamento della temperatura dell’Adriatico. È un predatore, un po’ come i nostri granchi verdi ma resiste molto meglio ai cambi di salinità. Le lagune sono…”, un’imprecazione e interruppe la frase: il granchio era riuscito a pizzicargli l’avambraccio. Gigi lo ripose e rinchiuse con attenzione dentro la gabbia.

“L’ho trovato stamani impigliato in una rete da pesca. Di telline non ce n’erano più, se le era pappate tutte”.

“Le vedi queste”, disse infilando un bastoncino tra le sbarre a portata delle chele sproporzionatamente grandi del granchio, “queste sfondano la maggior parte delle reti”, disse e il bastoncino fu spezzato. “Ci vogliono buone attrezzature. E un piano di pesca e controllo serio altrimenti si mangeranno un po’ tutto quello che c’è di buono nelle nostre lagune”.

“I danni finora?”

“Difficile da dire, ma lo sai meglio di me che non si pesca più una tellina. C’è da chiedersi anche quanto sia reversibile il suo impatto sulla biodiversità”, disse passandosi la mano sulla pelle arrossata, “Se li lasciamo proliferare e razziare le nostre lagune, assisteremo presto all’estinzione di molte specie”.

Una gocciolina di sudore gli scivolava giù dalla tempia, l’asciugò con il dorso della mano.

“Siamo ancora in tempo?

“Non lo so, Marzio”, disse, “onestamente non lo so”.

Poi con la fronte corrugata aggiunse: “È un po’ come la domanda che fa il malato di tumore al medico. Solo con la diagnosi precoce e un intervento mirato si ottengono buoni risultati”.

“Ammazza, non ti facevo esperto di medicina!”

“C’è poco da scherzare, qua si rischia grosso”, disse con un mezzo sorriso.

Mentre l’amico aggiustava la rotta, tornò con lo sguardo alla gabbietta. La creatura continuava a dimenarsi e ad attanagliare le sbarre con ferocia. Un’ondata più forte lo costrinse ad interrompere l’attività forsennata. E gli sembrò che gli occhietti piccoli del prigioniero lo fissassero da dietro le sbarre – rabbrividì. Per il caldo, per la sete, o per qualche altro motivo ancora gli girava la testa. Vide una massa scura all’orizzonte, cellule impazzite che si diffondevano con passo sbieco, al ritmo ipnotico delle tenaglie. Poi l’inevitabile moltiplicazione delle parti e lo stadio terminale: laghi e mare vuoti, nei fondali solo granchi azzurri impegnati in una macabra lotta cannibale.

“È da tanto che non facevamo un giro in barca io e te”, squillò vicina la voce dell’amico. “Non ti è mancato tutto questo?”

“Saranno almeno un paio d’anni”, calcolò, “ma ora che sono tornato ti verrò a rompere le scatole molto più spesso”. Lo sciabordio delle onde si fece più intenso, rivolse lo sguardo alla costiera e la bellezza delle spiagge scintillanti e delle rupi bianche a picco sul mare gli provocò una stretta allo stomaco.

“Pesca selettiva e magari anche mangiarseli”, sentenziò Gigi, “È l’unico modo per frenare la loro diffusione”.

“Mangiarseli?”

“In America e Cina ne vanno ghiotti”.

“Ma tu li hai mai assaggiati?”

“Ma, sai… roba da americani…”

“Per questo, hanno pensato bene di trasferirsi da noi”, fece ridendo. Intuì uno sguardo divertito dietro gli occhiali scuri dell’amico che replicò:

“Pensaci bene: se potessimo venderli e guadagnarci quanto e come con le telline, il problema sarebbe risolto. I cinesi se li comprano di sicuro, bisogna solo allargare un po’ il mercato”. Cosa che però da queste parti ancora non era nemmeno stata presa in considerazione.

Con gli occhi socchiusi a causa del riverbero, Gigi guardava la costa.

“È vorace e aggressivo: una minaccia per la maggior parte dei pesci in laguna”, ribadì. C’era un’unica via per ripristinare il delicato equilibrio ittico del territorio. Intraprenderla richiedeva il contributo di tutti.

“Ho parlato con quelli di Varano”, disse finalmente il pescatore lisciandosi la barba, “qualcosa si sta muovendo”.

“E a me tocca parlare con quelli di Lesina”, completò Marzio.

Gigi sorrise, gli lasciò la barra e scomparve sottocoperta un’altra volta. Riapparve con una bottiglia di vino bianco.

“Al tuo ritorno in paese”, fece porgendogli il bicchiere.

“Alla tua salute”. Il vino era fresco e frizzante: alleggerì l’atmosfera. Sulla rotta del ritorno trovò spazio ancora qualche risata.

 

Era tardi per iniziare un giro di telefonate, nell’attesa si era seduto sulla sabbia in riva al mare a pochi metri dal ristorante. Tra due onde di marea calante, aveva restituito la tellina al mare. Poco più in là, una coppia di adolescenti guardava il tramonto e lui si ritrovò a invidiare la loro spensieratezza. Solo all’idea di andare a parlare e convincere i numerosi allevatori e pescatori dei laghi, gli si rizzavano i capelli in testa. D’altra parte, non poteva concepire l’estinzione della tellina di Lesina. Il sapore della sua infanzia, le migliori telline del mar Adriatico, la storia della sua famiglia e di una regione intera mutilata, stritolata tra le chele di una specie aliena originaria d’oltreoceano, arrivata sulle rive dell’Adriatico per colpa dell’ingordigia e ignoranza degli uomini.

Faceva ancora molto caldo e gli tornò voglia di farsi un bagno. L’aria era pesante, il cielo tratteneva la pioggia da troppo tempo ma non sapeva decidersi. Di solito in quel periodo, un paio di rovesci e temporali capitavano spesso. Quest’anno niente: non cadeva una goccia d’acqua da mesi, era tutto secco. E pensare che cinquecento chilometri a Nord, affacciata sullo stesso mare, Venezia sprofondava nella laguna. “Non ci si capisce più niente”, pensò. E mentre si chiedeva se anche loro avevano problemi con il granchio blu o qualche altra calamità esotica, sentì la prima goccia.

Si rifugiò nel ristorante un attimo prima che venisse giù l’acquazzone. Angelica arrivò poco più tardi con il felpino coprispalle completamente zuppo. Era bella con i capelli bagnati e quando si chinò a baciarlo desiderò che la cena fosse già finita. Fu piacevole nel racconto di lei, dimenticare l’ossessione delle ultime ore e con appetito ritrovato fare segno all’oste:

“Cosa vi porto oggi Marzio?”

“Fa’ tu Anto’, basta che fai presto che siamo affamati”.

“Ho delle linguine al sugo di granchio azzurro” e fece un gesto come a significare la prelibatezza, “Pescato stamani, è fresco fresco!”

Rimase senza parole e quando poco dopo un ottimo antipasto di frutti di mare servirono la pasta con il granchio blu, avvertì un’improvvisa inappetenza, il desiderio rafforzato di saltare la cena. Angelica intuì qualcosa ma fece finta di niente e assaggiò il piatto. Non trovando niente di meglio da fare, seguì il suo esempio.

Il piatto era squisito. Il sapore del mare sprigionato dalla polpa del granchio si amalgamava perfettamente al sugo e alla pasta di grano duro. Antonio non aveva esagerato. Mentre masticavano, contenta lei, incredulo lui, si guardò attorno. Sui tavoli vicini vide i carapaci, diventati rossi con la cottura, decorare almeno una mezza dozzina di piatti come il suo: la clientela faceva onore alla portata. Tra un sorso di vino e l’altro, si sciolse sulla lingua il cancro di una giornata.

Foto di ThePalm52 da Pixabay

Riduzionismo (sillabario della terra # 13)

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Thai farmers spray fertilizers or pesticides in rice fields in Asia.

di Giacomo Sartori

Fino a tempi molto recenti i suoli venivano rispettati senza conoscere la loro diabolica complessità. Per buon senso, visto che davano il cibo agli uomini e ai loro animali. Per intuito. E certo fino alla prima metà del secolo scorso per gli strascichi della visione organicista, spazzata via da tempo dai modi di vedere delle società capitalistiche, ma che aveva nel mondo contadino più difficoltà a morire. Lì resisteva la consapevolezza che l’uomo fa parte di una rete di relazioni più grande di lui, non è isolato, non può fare qualsiasi cosa, non padroneggia tutto. E poi nella terra doveva pur risiedere un qualche mistero, se essa era capace di quel perenne miracolo, se si prendeva il compito di accogliere le nostre spoglie quando la nostra vita finiva.

Ci siamo in seguito messi a trattarla come fosse un semplice substrato, un supporto passivo sul quale applicare le tecniche più appropriate per generare nel corto termine i profitti maggiori: una materia morta e stupida, per dirla con le parole di Cartesio. La giovanissima chimica agraria aveva scoperto nella prima metà dell’Ottocento che la pianta ha bisogno soprattutto di azoto, fosforo e potassio, e che prende questi elementi minerali per mezzo delle radici: si è quindi cominciato a ritenere che si dovesse mirare a aumentarne la riserva del suolo, mediante l’apporto di concimi chimici. Senza prendersi la briga di considerare gli altri fattori in gioco, e ottenendone immediato vantaggio.

Per paradosso questo è successo proprio mentre si cominciava a capire, utilizzando la stessa arma delle sperimentazioni scientifiche, quanta e quanto varia vita albergasse la terra. L’attività microbiologica nel suolo è stata messa in luce infatti a partire dall’ultimo scorcio dell’Ottocento, in contemporanea con i primi utilizzi e l’ascesa delle concimazioni chimiche. Pur rendendosi conto che tutto quello che succedeva nella terra era dovuto al lavoro dei batteri e dei funghi, fino all’apparire delle tecniche genomiche, in questi ultimi decenni, i biologi non avevano strumenti per arguire nei dettagli chi c’era e cosa faceva: la maggior parte dei microbi non si lasciavano isolare e coltivare, come si dice in gergo. Ma insomma si sapeva che tutti i processi che sfociano nella cessione degli elementi minerali alla pianta sono svolti da organismi viventi: sono biochimici, non chimici.

Ha prevalso però la credenza che si trattasse di restituire in forma inorganica il maltolto (questo sì in forma inorganica, perché le piante vogliono quella). Una interpretazione completamente fantasiosa, che si è rilevata profondamente dannosa per i poveri suoli. L’apporto di elementi minerali con i concimi chimici inibisce infatti la maggior parte dei suoi processi biologici, tra i quali proprio quelli della naturale cessione degli elementi stessi alla pianta. Il risultato immediato c’è, perché le colture ricevono pur sempre il nutrimento di cui hanno più bisogno, ma la terra soffre e smette di lavorare, diventa un peso morto, uno zombie sempre più dipendente, come tutti i drogati, dai suoi fornitori. E per quanto si faccia attenzione una gran parte degli elementi somministrati finisce nell’ambiente, creando enormi problemi.

L’aumento delle produzioni agrarie mondiali è stato però impressionante, facendo mettere in sordina i danni, e anzi apparendo come un passo fondamentale nel progresso dell’umanità. Ancora adesso la cosiddetta Rivoluzione verde della seconda metà del secolo scorso è considerata dai più una magnifica e intoccabile prova delle capacità umane, e della Scienza, un esempio da seguire. Senza considerare che i buoni risultati produttivi, lasciando stare i drammatici guasti ambientali, li ha dati solo nelle terre migliori. Ha fallito invece completamente in quelle con limitazioni, contribuendo anzi al loro degrado. E ha causato una drammatica perdita di sostanza organica, il capitale alla base della loro fertilità, nei suoli di gran parte del Pianeta.

Colpisce ragionando a posteriori la simultaneità dell’acquisizione delle conoscenze e del loro occultamento. Per la sua natura la scienza è divisa in domini che sono quasi compartimenti stagni, anche quando l’oggetto di studio è lo stesso, quindi la cosa non è poi così difficile: si tratta solo di marginalizzare le discipline indisciplinate. In tanti altri campi la chimica aveva grandi e assai decantati successi, certo questo contava molto. E soprattutto nell’industria, la quale diveniva sempre di più il modello a cui riferirsi, la via vincente che anche la natura doveva seguire, se voleva imboccare anche lei la via del progresso. Ma certo aiutava anche la semplicità della visuale, così vicina alla contabilità a partita doppia, con le due colonne delle entrate e delle uscite.

La miopia con la quale si rappresentava la terra, perdurata per più di un secolo, è stata pilotata dalla scienza stessa, e a dispetto che le prove sperimentali, quindi scientifiche, che quel modello fosse sbagliato diventassero sempre più numerose e schiaccianti. Si propagandava una terra di natura solo chimica, senza sostanza organica, senza vita, senza interrelazioni di organismi, che non ha corrispettivo nella realtà. Spesso si parla di riduzionismo, ma è forse una definizione troppo clemente, che non rispecchia la sua anima farlocca e fuorviante, di esasperato stampo meccanicistico, agli antipodi degli oggettivi funzionamenti. Agli strapotenti gruppi che dominano il mercato dei concimi chimici, e ora anche delle sementi e dei pesticidi, e che hanno la mano anche sulla ricerca scientifica e tecnologica, e sui governi, faceva però comodo restare aggrappati a quel modo di vedere le cose, e sono riusciti a far sì che esso non fosse detronizzato, o anche solo scalfito.

La scienza è partita una volta per tutte per la tangente nell’euforia del secondo dopoguerra, dopo qualche decennio di tentennamenti, durante i quali alcune voci anche molto prestigiose hanno cercato di mettere l’accento sulla complessità di ogni ambiente coltivato e di ogni terreno. In Italia quella in particolare dell’agronomo più prestigioso e più conosciuto nel suo tempo, Alfonso Draghetti, il quale rispolverando l’impostazione organicista del passato, aveva una visione della terra e delle coltivazioni molto ecologica e attuale.

Chi dà per scontato che la scienza abbia una esse maiuscola e sia sempre infallibile, o anche solo saggia, dovrebbe tenere presente questa sua sbandata tutt’altro che anodina nella storia recente dell’agricoltura, che è diventata così centrale nei rapporti tra uomini e ambiente. Il vero problema è che la scienza, con la costellazione di tecnologie innovative che le sciama attorno, ha molta difficoltà a rappresentare la complessità della terra, per il suo modo di funzionare e per le sue necessità epistemologiche ha bisogno di separare i vari comparti e le varie problematiche e di trattarli separatamente, anche laddove  tutto è interrelazione.

Pure le soluzioni tecnologiche che ci vengono proposte adesso, più accorte e seducenti ma pur sempre miopi e incuranti della variabilità delle terre e dei territori, e poco attente nei fatti ai processi ecologici e ai consumi energetici nascosti, vanno quindi prese per le pinze. Senza mai dimenticare che quasi sempre hanno tendenza a riflettere gli interessi di giganti globali, a andare dove le spinge l’economia che non contabilizza i danni ambientali e non sanno cosa vuol dire inventare modelli adatti alle varie situazioni. Bisogna invece riuscire, è uno dei caposaldi dell’agroecologia, a metterle al servizio delle varie realtà, sempre ancorate nella terra, con tutte le sue complicazioni e bizze, e degli espedienti poco impattanti adatti a ognuna di esse.

Festival della nuova città

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di Gianni Biondillo

(dal 21 al 23 settembre si terrà la seconda edizione del Festival della Nuova Città, fortemente voluto dalla Fondazione Giovanni Michelucci. Mi piace qui ricordare la figura di quel geniale architetto. Raccontando come, da studentello, lo incontrai. G.B.)

 

Era l’aprile del  1990, ero uno studentello del Politecnico di Milano che si trovava a Firenze per l’inaugurazione del giardino dell’orto botanico progettato da Marco Dezzi Bardeschi, mio relatore di tesi che ebbe, a suo tempo, Giovanni Michelucci come suo professore alla facoltà di ingegneria a Bologna; fu proprio Dezzi Bardeschi, all’ultimo momento, ad invitare Michelucci a partecipare all’inaugurazione. Accettò di buon grado: era fatta! Bastava solo che qualcuno andasse a Fiesole a prenderlo.

A disposizione c’era uno di quei grossi macchinoni blu con autista (credo fosse del sindaco); Dezzi mi incaricò di salire da Michelucci; con cartina alla mano mi indicò la strada: “Sali per questa strada, appena trovi sulla destra un muro etrusco fermati: quella è casa sua”. Vi lascio immaginare l’ansia da prestazione: e se non avessi riconosciuto il muro etrusco, che figura ci facevo?

Trovai il muro etrusco (menomale!) ed entrai in casa. Nell’ingresso, accanto a una copia della pietà Rondanini, Michelucci, sorridente, asciutto, quasi rinsecchito, si stava aggiustando le scarpe. Io ero emozionato come un idiota. Avevo di fronte un punto di riferimento fondamentale per l’intera mia ricerca culturale – un pezzo di storia, anzi – avevo di fronte come l’intera storia dell’architettura, lui era in quel muro etrusco, in quella copia michelangiolesca; aveva quasi cento anni, mi guardava con la dolcezza di chi poteva guardare lontano oltre il tempo umano; col suo aspetto nodoso sembrava avesse realizzato su sé il progetto di un suo disegno del 1962, Uomo, albero, pilastro: era un grande vecchio, come un grosso antico ramo ancora fruttuoso, era l’architettura.

Sulla strada del ritorno chiacchierammo un po’. Ad un certo punto accennai al debito che Dezzi Bardeschi avesse nei confronti di un maestro come lui: “Nessun debito”, mi riprese, “le doti dei miei allievi non hanno bisogno di me per esprimersi”. Giunti a destinazione Michelucci non fu avaro di sé: salutò, si fece intervistare dalla televisione, strinse mani, abbracciò, sorrise a tutta la gente che gli stava attorno, assistette all’inaugurazione paziente, e finito il tutto venne riaccompagnato a casa.

Ripensai alle cose dette in macchina. Michelucci aveva torto, o di certo io mi ero spiegato male. Non era questo o quell’allievo ad avere un debito con lui, il debito l’avevamo (e l’abbiamo ancora oggi) tutti. Vecchie e nuove generazioni di architetti, uomini, cittadini, che si sono imbattuti con le sue idee, i suoi disegni, le sue incredibili ma vere architetture.

Credo si debba continuamente fare i conti con tutta l’intera sua opera, un’opera spesso dimenticata, banalizzata, riassunta in una stazione (opera maestra, riconosciuta anche da Wright) nella quale lui stesso spesso non si riconosceva, o per i più informati, in una chiesa (una tenda in pietra ai bordi dell’autostrada). Due capolavori basterebbero per entrare nella Storia. Ma Michelucci ci ha dato molto di più. Non solo decine di opere visionarie, ma anche il suo sguardo solidale, fraterno, nei confronti degli ultimi: i malati, i carcerati, gli esclusi. E una Fondazione che porta avanti nel suo nome il progetto di una nuova città. Quella che dobbiamo ancora imparare ad abitare.

 

E il Topo. Storia di una rivista d’artista con un’insolita strategia editoriale

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di Gabriele Doria

Se l’uomo non chiudesse

sovranamente gli occhi,

finirebbe per non vedere

più quel che vale la pena

di essere guardato.

 René Char

 

La performance nella nebbia dal titolo Il cieco e il topo inaugura l’esperienza della rivista E il Topo a Napoli, nei locali di viafarini, nel 1992.  Nasce nella nebbia scenica e programmatica, dalla sfocatura che , si legge nel manifesto, “è tutto ciò che rimane”. Nasce per non nascere mai, o per non smettere mai di nascere se d’altronde “E il Topo esiste come salma rivelando le tracce di eventi mai successi”. Ma la figura del cieco, che “filma” (l’assurdo di una diretta registrata) tutte le performance, è sempre in ritardo e coincide con lo spettatore, eyes wide shut, (stra)vede l’impossibilità di vedere, perché l’ immagine in quanto tale è prima di tutto lacerazione scomposizione scombinazione del mondo. L’immagine non è in frantumi perché è già frantume. Il tutto mentre si assiste a un concerto di voci che ricapitolano un discorso probabilmente già pronunciato, una ricostruzione che proviene da un’era “di cui, per paura o per pudore, si è taciuta e messa a sopire ogni traccia d’umana attività” ( come si legge nel “carteggio di Valles Marineris”, reinvenzione della storia della rivista come fortunoso ritrovamento, relitto satellitare di un passato in cui si procede a tentoni, come tiresia. Per ipotesi si muove il lettore, e colui che assiste alla performace, costretto a intravedere spiando, anche lui cieco, costretto a credere alla dimensione visionaria, costretto a credere di vedere.)

Storia dell’Occhio. E il Topo nasce a Napoli, muore a Milano, risorge “sparso, unico e molteplice”. Si dichiara “movimento” internazionale e transgenerazionale, apolide e dal modus operandi sottilmente sovversivo, “non valorizza alcuna individualità” in quanto “tutto si confonde in una zona grigia”. Posizionandosi al margine, all’esterno, in un certo qual modo adoperandosi per un sicuro e meritato insuccesso,  il collettivo conta circa venti artisti fra i suoi membri, in una configurazione fluida che varia da numero a numero, e che non riconosce firme individuali.

All’interno del volume che ripercorre la sua storia, recentemente pubblicato in un prezioso boxset curato da Viaindustriae Publishing ed edito da a+m bookstore, la stessa Francoise Lonardoni, membro del collettivo, scrive che funzione primaria della rivista era “risintonizzare il mondo con il suo doppio esitante e indeciso” introducendo una “prospettiva non del tutto reale” dagli evidenti echi letterari.

[si ricorderà qui, en passant, la fatalità (metaforica) dell’inquietante simultaneità della creazione del topo di Walt Disney con la scrittura dell’ultimo racconto di Kafka, Josefine la cantante, o il popolo dei topi. Nel racconto, quando Josefine inclina la testolina pronta a esibirsi, ogni animale lascia le sue occupazione per assistere. Ma Josefine in realtà fischia proprio come tutti gli altri topi, se non peggio: ma mentre gli altri fischiano distratti dalle preoccupazioni quotidiane, lei si consacra completamente  a quello che crede canto, esercitando un’attrazione irresistibile su tutti gli altri topi. Il narratore si chiede se il popolo, nella sua saggezza, non abbia finito per collocare così in alto il canto di Josefine, e la sua implicita promessa, perché in tal modo non andasse perduto (ma perduto sarebbe allora il canto o il popolo?)]

 

Kafka credeva di avere iniziato al momento giusto a “studiare lo squittio degli animali”, i topisti (così si chiamano tra loro i membri del collettivo) nel “grigio (topo) indefinito del loro colore” si muovono in modo “fugace e intermittente per apparire e scomparire, riapparire e scomparire di nuovo”. Proprio come il muscolo-occhio, proprio come il muscolo-topo. Enrico Ghezzi nella postfazione a L’Esperienza interiore di Georges Bataille, traccia la strada per raggiungere la propria “miopia genetica”: si tratterà di stringere l’occhio, spontaneamente per toccare mettere a fuoco con fatica il “proprio” vedere, e restringere serrare chiudere rimanda al greco myein, stessa matrice di “mistero” e di “mistico”, con sospetto, aggiunge, di mys, myòs, “topo”. Ancora Bataille, ancora letteratura: L’impossibile che si apre con Storia di Topi, con i suoi topi che fuoriescono dagli occhi. Nel deserto si grida: “ Non avrò, in nessun momento, la possibilità di vedere!” (l’esperienza interiore, p.250) perché: “Un’auto, un uomo entrano in un paese: non vedo né l’una né l’altro, ma il tessuto tramato da un’attività alla quale prendo parte”. A furia di stringersi strizzarsi, l’occhio si è chiuso, “stato visivo intermedio e galleggiante di fantasma o elettrone bilocato nello spazio e nel dormiveglia”, solo un uomo  e un’auto, a caso, così, grado zero,allucinazione dolce “sospensione che non si sospende su nulla”. D’altronde, i topisti hanno “anticipato le dinamiche della realtà aumentata per questo hanno deciso di unire i loro sforzi in direzione di una realtà diminuita” (manifesto topista, art.3).

Realtà diminuita che però, scopriamo subito dopo, non esiste, proprio come quella aumentata, esiste solo la “realtà iperconnessa e le modalità di iperconnettersi alla realtà sono infinite e incontrollabili” Per Bataille condizione di vedere è quella di “uscire, emergere dal tessuto” quindi di “morire”. Là dove “si immagina di vedere” ciò che si vede sono “i legami che subordinano a questa attività ciò che è.”

La sovranità di ciò che è là, la sua non-subordinazione prima è ridotta in schiavitù dal vedere.

“E il Topo, come ciechi, cerca l’eco dell’urlo che ha sollevato il mondo.” (manifesto topista, art.1)

Da ciechi, bisognerà provare a “immaginare qualcosa di essenziale e sconosciuto alla vista”, come “una vita segreta, che riempia di senso gli spazi muti tra le piccole cose gli abissi i pianeti, pieni della stessa nostalgia”, un “ricordo che risalga ai primi rintoccchi della terra” quando si decise a non essere più fuoco ma traccia, fossile parola.  Perchè un mondo senza fossili è un mondo di solitudine.”

[In Il Paese del silenzio e dell’oscurità, film-documentario del 1971, Werner Herzog segue la quotidianità della signora bavarese Fini Straubinger, sordocieca in seguito a una caduta infantile. Grazie a questa sua particolare condizione, Fini può descrivere lo stato in cui si trova, e parla di infiniti fruscii e monocromie alternate a buio. Cerca di abbracciare Else, salutata come “sorella del destino”, sordocieca dalla nascita che ha smesso di comunicare dal giorno della morte della madre, e allora le parole rintoccano davvero come fossili. Deleuze in Immagine-tempo metterà il documentario aumentato in correlazione al successivo lungometraggio Kaspar Hauser (1974): nel cammino indifeso di colui che non smette mai di essere piccolo, quando Fini descrive il godimento di toccare un cactus la liberazione dei valori tattili “dischiude l’immagine a uno sdoppiamento analogo a quello del sublime; e tutto il sublime si ritrova dalla parte del Piccolo” Immagine-movimento, cap.XI, p.226]

Ma anche: uscita dall’immagine/mondo mediante l’immagine vista vissuta in esperienza interiore, “fuga dall’impossibile possibilità di vedere il presente come impossibile”, “avvertirsi interioriorissimo in uno spessore trasparente” Ghezzi)

È Derrida in Memorie di cieco a parlare di quella condizione teatrale, “accidentale” della messa in scena del quotidiano, uno “straordinario” che “richiama all’esperienza del giorno stesso, a ciò che sempre guida la scrittura verso la notte, più lontano del visibile o del prevedibile”.

Il filosofo ci conduce a capire che si scrive e si riscrive a partire da un’assenza, che qualsiasi forma di scrittura, verbale o non-verbale, serve a tracciare i confini dell’ombra. Usciti dalla caverna platonica ci si sforza di riabituare gli occhi alla luce del sole, così da poterlo poi comunicare a coloro che sono rimasti dentro. Qualcuno comincia dunque a raccontarci il mondo prima di vederlo con i nostri occhi, insegnandoci a rappresentarlo attraverso questo linguaggio. Nel primo atto del processo conoscitivo, non si è in presenza della cosa in sé, ma c’è sempre qualcuno che insegna un linguaggio che non gli appartiene. Secondo Derrida, senza l’assenza di ciò che non c’è più, giacché siamo in ritardo, e di ciò che non c’è ancora, perché siamo in anticipo, non è possibile né letteratura, né filosofia, né arte ma solo quella fatale coincidenza con se stessi che condanna Narciso a morte. Il filosofo, come l’artista, non è mai davvero solo, perché Eco ha disposto fossili risonanti, non vista intravede in controluce lo specchiofrantume, e il suo ti amo, che cambia di senso a tutta la storia, rappresenta l’infinita interpretabilità del testo, il suo infinito a-venire.

The blind man è il nome di una rivista fondata da Marcel Duchamp e pubblicata a New York probabilmente in seguito all’esito di una partita a scacchi nel 1917. Uscirono due numeri che riunirono il meglio del panorama Dada internazionale e lo presentarono per la prima volta negli Stati Uniti.

Con l’artista francese E il topo condivide una concezione di generale svalutazione dell’oggetto artistico in quanto feticcio e di critica del permanere di uno “stile artistico”, in quanto segnacolo di successo mondano e mercantile. Si cerca di avversare quella prassi per cui ogni artista entrato nel mercato diventa in qualche modo il primo falsario di se stesso, che pur di essere integrato tende a riprodurre la propria opera attraverso un processo di serializzazione, contrassegnandola con uno stile riconoscibile, riducendola a un simulacro, che si vorrebbe garantito da una firma e una data.

Emblematico il n.4, Ad Aperto ‘93 si scambiarono per se stessi, realizzato alla Biennale di Venezia del 1993, in cui sotto ai ritratti fotografici di tutti gli artisti esposti i nomi sono ridistrubuiti in modo casuale.

La “rivista di sabbia”, così borgesianamente ribattezzata da Lonardoni, chiude a Milano nel 1996 dopo dieci numeri, per poi rinascere dopo sedici anni, su iniziativa del giovane artista Francesco Fossati, laureando a Brera, che immaginò per la sua tesi l’undicesimo numero della rivista.

Nel n.16 viene presentato un manifesto topista in dieci punti (il decimo punto lasciato in bianco) pubblicato in coreano, mentre un’intera pagina di un giornale locale di annunci economici di Seoul viene acquistata per la sua pubblicazione in italiano. La trasmutazione in carne avviene col n.23, David Liver si presta a divenire fisicamente un numero della rivista (E’ il Topo) , accompagnato da apposito certificato. Per il n.26, Cesare Pietroiusti propone un disegno che verrà realizzato solo dopo la sua morte.

Se la “realtà” è descritta dal simbolico e dal linguaggio, il “reale” al contrario “coincide con il nulla e la creazione dal nulla”.

 “Se in quale modo abbiamo accesso a una soglia di senso, ciò avviene poeticamente”. (Jean-Luc Nancy)

Il “the fugitive sextodecimo”, E il Dopo, uscito in concomitanza con una performance al Macro nel giugno del 2023 a cui chi scrive ha assistito, accoglie nell’ultima pagina, accanto alla foto di due sedie vuote in aperta campagna, un congedo:

“Fuggo perché non posso scappare. Ora però che ho abituato il mio corpo a partire definitivamente con il piede sinistro, non aspetto più la fine dell’arte e neanche la morte della moda. Mi siedo e aspetto l’orizzonte.”

ancora parole  –    ancora non ultime.

 

Tempo intermedio

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di Gianni Biondillo

Uno dei miei tanti progetti mai realizzati (ne immagino uno alla settimana, ne realizzo uno all’anno) è quello di una “storia sentimentale della fotografia del paesaggio italiano”. A partire dalla mostra sull’architettura rurale di Giuseppe Pagano, alla VI Triennale del 1936, gli architetti hanno iniziato a fotografare l’architettura e il paesaggio con occhi più consapevoli. Fotografia non solo come appunto di un progettista in funzione di un eventuale cantiere, ma fotografia come un progetto in sé. I fotografi professionisti, chiaro, già lo sapevano. Ma la sovrabbondante produzione di qualità generata dalla generazione degli architetti razionalisti ha rimesso in gioco lo sguardo degli stessi “fotografi puri”, che fino a quegli anni cercavano il paesaggio incontaminato, o, nel caso dei centri urbani, documentavano il monumento in sé.

Uno dei tanti capitoli – il più nuovo, non di certo l’ultimo – di questa attenzione al paesaggio disegnato dalla modernità ce lo regala Manuel Cicchetti, “fotografo puro” e attento lettore del paesaggio, in un defatigante lavoro durato quattro anni in giro per lo Stivale, Tempo intermedio, pubblicato da Postcart (in un volume dalla resa notevole) e in mostra già da qualche mese in varie gallerie nazionali. Non conoscevo Cicchetti prima di questo libro, ho poi approfondito il suo lavoro, apprezzandone il pensiero e la costanza (mai una fotografia rubata, mai uno scatto occasionale, una progettazione del processo ideativo che può durare anni, anche lustri). Guardare le sue fotografie mi ha aperto a un ricordo sepolto nel tempo. A una lettura fatta davvero molti anni fa, anzi decenni: La nube purpurea di M.P. Shiel.

Qualcuno lo considera il primo romanzo apocalittico della letteratura. Non ho la minima idea se sia vero o meno, so che mi colpì molto quando lo lessi. Tra l’altro, detto per inciso, lo stesso autore del romanzo era un personaggio non da poco. Basti dire che a quindici anni fu incoronato da un pastore metodista sovrano dell’isola di Redonda, nei Caraibi. Uno scoglio di neppure tre chilometri quadrati perfettamente disabitato, ancor’oggi. E credo che questa cosa in fondo sia rimasta nel cervello del giovane Re Felipe I (questo il suo appellativo all’incoronazione). Insomma, essere sovrano di un regno disabitato, il Re di un regno vuoto, che significa? Ma mi sto già perdendo (ricordate? Voglio scrivere una “Storia sentimentale della fotografia” mica una cosa da studiosi!). Dicevo: La nube purpurea è la storia di Adam Jeffson, uno scienziato che completamente isolato durante una missione al Polo Nord, non sa che nel resto del mondo una enorme nuvola venefica ha estinto l’intera umanità. Adam torna fortunosamente in Inghilterra, gira per Londra e la trova completamente disabitata.

Pensavo appunto a M.P. Shiel guardando le immagini di Manuel Cicchetti. Pensavo che quell’esperienza di puro straniamento, da romanzo apocalittico, l’abbiamo vissuta più o meno tutti, durante il primo lockdown. Mia madre, proprio in quei giorni, venne ricoverata per una fortuita caduta casalinga. Viveva ostinatamente da sola nella casa dove ero cresciuto (ora non è più così). Saputo del ricovero sono uscito di casa, non ostante il divieto, per raggiungerla al pronto soccorso. Da via Padova al Fatebenefratelli a piedi. Piazzale Loreto, la rotonda più trafficata d’Italia, era spettrale. Sentivo persino il cinguettio dei passerotti. E così via Andrea Doria, piazza Caiazzo, La Stazione Centrale. Mi girava la testa. Mi venne l’improvviso istinto di Adam Jeffson, che dopo settimane di solitudine, preso da un raptus superomistico, decise di incendiare Londra. E poi di muoversi per il mondo intero per devastarlo, abbatterlo, bruciarlo, annichilirlo. A che servono le case, che senso hanno le città, se nessuno le abita?

C’è una mania dei fotografi di architetture. Si racconta che Gabriele Basilico si alzasse all’alba per riuscire a fotografare senza il traffico, i tram, le persone. Per riuscire a fare il suo lavoro senza distrazioni. Non era sono una questione di luce, era che la gente disturba l’inquadratura, le automobili la volgarizzano, le capigliature, gli abiti, la datano irrimediabilmente. Ma il progetto di Cicchetti è molto più preciso. Ossessivo, come La nube purpurea. Cicchetti ci mostra quanto sia farraginoso, invasivo, astratto il nostro paesaggio quotidiano. Antropizzato in ogni metro quadrato che ci tocca attraversare, eppure irreale, illogico, incomprensibile se non abitato, se non vissuto.

I geografi, gli economisti e gli architetti parlano da decenni di “paesaggi dell’abbandono”. Sono quelli prodotti da un Novecento pervasivo che ha costruito ovunque, senza posa, fabbriche, opifici, ferrovie, industrie, autostrade, centrali idroelettriche, cavalcavia, aree produttive, capannoni. E poi, quando tutte queste cose non servivano più, li ha abbandonati, come cose morte, inutili, dando loro le spalle, quasi non esistessero. Non guardarli significava in qualche modo farli smettere di esistere.

Ma la verità è che continuano ad esserci, a ferire il nostro paesaggio, a chiederci una risposta. La loro demolizione è assolutamente antieconomica e antiecologica. Che ce ne facciamo, allora? Ché la cosa dura da digerire è ammettere che quelli deperibili, mutevoli, fragili, quelli che potrebbero sparire da un giorno all’altro grazie a una nube purpurea pronta ad avvelenarci tutti – magari prodotta proprio da noi stessi – quelli che dal paesaggio è più semplice che scompaiano, siamo proprio noi.

Guardo le foto di Cicchetti e penso allo sguardo di un alieno che giunto sulla terra disabitata cerca di ricostruire la nostra vita quotidiana usando ciò che gli abbiamo lasciato. Un archeologo intergalattico, affascinato dai nostri centri commerciali, i silos, i parcheggi, le gru, i container. Questo gli stiamo lasciando. Questo siamo noi, spiaccia o meno dirlo.

(pubblicato precedentemente su L’Ordine, il 16-04-2023. Tutte le fotografie sono, ovviamente, di Manuel Cicchetti)

Overbooking: Stig Dagerman

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Tutti i tormenti di un grande scrittore

di

Nicola Vacca

Stig Dagerman (1923 –  1954) ha attraversato il Novecento con la velocità di una cometa. Morto suicida a soli trentuno anni, è stato uno dei più importanti scrittori svedesi e ancora oggi possiamo considerarlo un gigante della letteratura, leggendo i libri che ci ha lasciato.
Dagerman è stato un uomo in rivolta, in molti lo hanno paragonato a Camus e a Kafka.
È un anarchico inquieto e sempre in lotta contro se stesso e con un’angoscia lucida, incapace di accontentarsi di verità stabilite. Come pochi è riuscito a stare dentro la catastrofe bellica del suo tempo, lasciandoci con i suoi libri una testimonianza unica.

Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco, Il serpente, Breve è la vita di tutto quel che arde.

A cento anni dalla nascita lo scrittore svedese è una pietra miliare della letteratura e leggerlo ancora oggi significa interrogarsi su cosa sia rimasto da salvare del Novecento.

«Dagerman – scrive Alberto Riva in un articolo su Il Domani il 26 febbraio 2021 – si sentiva un autore compromesso, fallito, colpevolmente sedotto dal successo. Il suo vero fallimento, se c’è, è quello di non aver capito di essere già un classico moderno che stava lasciando un’indicazione di lavoro a molti autori di oggi: date più spazio al lettore. È un lascito importante, perché oggi prevale l’idea che il lettore debba essere continuamente imboccato. Dagerman viceversa, come nel Serpente, lasciava vaste aree incontrollate, ampie zone d’ombra che invitano il lettore ad avventurarsi, a interrogarsi, smarrirsi persino. In questo, anticipa scrittori che come lui sono stati capaci di tessere il mirabile intreccio di forza poetica, carica allegorica e sottinteso sguardo politico: l’Anthony Burgess di Un’arancia a orologeria, il Milan Kundera de Lo scherzo, il Michel Tournier de Il re degli ontani, la Christa Wolf di Cassandra».

Non si può prescindere da Il nostro bisogno di consolazione, che tra i suoi libri è quello che più lo rappresenta, e soprattutto mette in evidenza il dramma dell’uomo e le contraddizioni esistenziali di un grande scrittore di fronte al peso enorme del male di vivere.
Proprio questo piccolo libro verrà considerato il testamento letterario di Dagerman.
In queste pagine lo scrittore scava nel fondo del suo abisso di uomo a cui manca la fede e afferma di non essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa.


Inizia così Il nostro bisogno di consolazione, un viaggio di uno scrittore nel tormentato inferno della sua coscienza. Pagine intense, di disperazione e di sconforto, ma anche attraversate da un grande amore per la letteratura di cui Dagerman si avvale per scavare nella consumazione terribile della sua tormentata interiorità, sempre interrogando quella vita che sta stretta ai suoi anni.
Sono queste riflessioni che lo conducono a riflettere su quel concetto di consolazione spaventosa che riesce solo a fargli vedere le cose con intensità cinque volte maggiore.
Stig Dagerman scrive sempre in preda al dubbio e all’incertezza, mentre lo sconforto lo assale in ogni istante. L’unica cosa che gli importa è proprio quella che non ottiene mai: «l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo».

Come ci fa notare Goffredo Fofi nella postfazione a La politica dell’impossibile, l’inquietudine esistenziale veniva anche per lui dall’aver visto o vissuto con il paraocchi la tragedia della guerra e la durezza e la durata dello scontro di classe, e sì, Dagerman fu fratello di Camus (e anche di Majakovskij nella lucidità partecipe e dolorosa, nell’intensità con cui visse i propri dilemmi individuali.

Nei suoi libri si può leggere lo sguardo appassionato e disilluso di uno scrittore e di un uomo sulla condizione umana, l’indignazione per l’ingiustizia e per l’ipocrisia con cui le democrazie vengono a patto con le più feroci dittature nel nome degli affari.

Stig Dagerman è uno scrittore e un poeta d’impegno civile e nelle sue poesie (recentemente pubblicate da Iperborea nel volume Breve è la vita di tutto quel che arde) affonda la penna nella mischia confusa della storia e del tempo, denunciando senza alcuna mediazione e con la sua volontà di potenza anarchica le ingiustizie, i soprusi del potere a danno dei più deboli e degli ultimi.

Il mondo è più forte di lui, al suo potere non ha altro che opporre se stesso. Così non gli resta altro che la scrittura e la letteratura. Finché avrà la forza di resistere, si sentirà dotato del potere di opporre le sue parole a quelle del mondo.
Questa è la sua unica consolazione che non gli salverà la vita.

«Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione»

La sua opera è un monologo di un uomo che scrive perché combattuto tra il desiderio di essere felice e l’impossibilità di esserlo. È uno scrittore la cui lettura non lascia indifferenti. Le parole di Stig Dagerman scorticano, fanno male, sanguinano. Solo come i grandi scrittori sanno fare.

Moravia e la sabbia magica

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di Fernando Bassoli

Credevo fosse l’Africa: era solo Sabaudia, ma nel 1981 avevo dodici anni e le bianche mura dell’albergo delle vacanze mi sembravano quelle del palazzo di un romanzo d’avventura. Sembra ieri, ma non è così. Eppure è  tutto nella mia memoria: le palme che facevano capolino dalla vegetazione, simili a colonne di templi dalla cupola smeraldina, le staccionate di canne avvinte dai rampicanti, il viluppo sinuoso di policromie floreali, una scala interminabile che s’inabissava verso la spiaggia in un baccano di zoccoli, il bagnasciuga di velluto blandito dal respiro complice della natura, la tavola rassicurante di un mare blucobalto e il colore carminio del tramonto, estrema scintilla di vita di quelle giornate di fiaba…

Poi ricordo un pomeriggio speciale, quando incontrai un uomo misterioso, ormai di una certa età. Stava per conto suo, seduto nella sdraia, sotto un ombrellone. Il viso ben rasato, il capo reclinato, quasi fosse troppo pesante. Pareva aspettasse qualcosa o qualcuno. E qualcosa in effetti arrivò: il mio pallone lo colpì mentre era assorto nei suoi pensieri. Avevo una palla rossa con gli esagoni neri: a volte si lasciava addomesticare, altre assecondava i capricci del vento. Prese una traiettoria sghemba, si mise a ruzzolare sulla sabbia resa irregolare dai giochi dei bimbi, e gli centrò un ginocchio.

“Che succede?” sbottò.

“Mi scusi.” sibilai. Lui sorrise. Aveva il volto squadrato, con due sopracciglia bianche.

Alla sua destra notai un bastone, ficcato nella sabbia. Aveva l’impugnatura dorata, da lord inglese. Pareva un uomo che ne aveva viste di tutti i colori. In lui intuivo una certa sofferenza, forse dovuta a qualche malanno.

“Non preoccuparti.” sorrise. La voce era di porcellana. Eppure suonava fluida, nasale. Si chinò a fatica in avanti e indugiò sui miei piedi.

“E questi sarebbero piedi da calciatore? Sono troppo lunghi.” sentenziò. Io rimasi muto.

“Ci tieni tanto al tuo pallone?” rilanciò.

“Veramente me l’hanno prestato.” spiegai stentoreo.

“Come ti chiami?”

“Manuel.”

“Uhm… un nome spagnolo. Mi piacciono i nomi insoliti.” spiegò senza fretta. Ora le sue parole erano dense: sembrava di poterle toccare. Ogni tanto tossiva: doveva avere un bruscolo di catarro nella gola, da fumatore. Ad ogni sbuffo torceva la bocca. Ma subito si sforzava di rischiarare la voce.

“Io però sono italiano.” obiettai.

“Lo vedo.” commentò pacato. Mi scrutava. Poi sentì il bisogno di aggiungere qualcosa. Pian piano avevo la conferma che in quel corpo anziano si nascondeva un uomo affamato di vita.  Lo capivo dal modo in cui, di tanto in tanto, rimirava l’arruffio di fronde che adornava il Promontorio del Circeo. Gettava l’occhio verso quelle morbide linee o sulle cosce delle donne che sfilavano sul bagnasciuga. Erano guantate da costumi a fiorami, che a fatica trattenevano l’ondeggiare dei glutei e i fieri sussulti dei seni floridi della maturità. Oggi quei costumi sarebbero ridicoli, ma allora risvegliavano il desiderio, specie quando quelle donne si preparavano ad imbarcarsi sul pattino e ridevano a voce alta, senza motivo apparente, svelando bocche fiammeggianti di bagliori impuri e scambiando occhiate d’intesa.

L’uomo osservava la scena ed era chiaro che memorizzava ogni gesto e ogni dettaglio. Poi raccolse una manciata di sabbia nel pugno e la guardò cadere al suolo, lasciandola scivolare tra le dita affusolate. Solo quando la sabbia fu caduta, riprese a punzecchiarmi di domande.

“Dicevo: ti sembra così importante, la bellezza di questo posto?”

“Penso di sì. Le cose belle… sono belle da guardare.” spiegai. Dissi proprio così. Il mio viso dovette apparirgli una maschera sciocca e patetica, ma lui s’illuminò come uno che avesse trovato quel che cercava, ché fosse infine riuscito a farlo affiorare.

“Hai buon gusto: in effetti Sabaudia è un piccolo Paradiso. E sappi che questa sabbia è magica.”

“In che senso?”

“Lo capirai col tempo… Ma toglimi una curiosità: perché è così importante questo pallone, per te?”

“Perché… ci gioco!” risposi con il candore della giovane età.

“Ti ho osservato, mentre palleggiavi…”

“Davvero?”

“Secondo me sei un brocco. Il guaio è che dovresti usare entrambi i piedi. Non hai solo il destro. O forse quando fai a botte usi solo una mano?” chiosò, concludendo il ragionamento.

“Non faccio mai a pugni con nessuno. Se poi gli faccio male?”

“E bravo, Manuel: dieci e lode. Ciò vuol dire che sei un ragazzino più furbo di quel che pensavo. A che servono i pugni, quando basta parlare e spiegarsi?”

“È vero. Ma… sono tanto schiappa?” chiesi di rimando, perché nel mio piccolo ci ero rimasto davvero male. Stavolta il vecchio colse il mio disorientamento. Seguì un gemito rauco, quasi avesse inghiottito qualcosa di malavoglia. Allora mi accucciai sul pallone. Non ci avevo capito niente, ma di una cosa ero sicuro: la compagnia di quell’uomo mi faceva stare bene. Forse avevo trovato un nuovo amico.

“Tu che lavoro fai?” lo incalzai.

“Io? faccio lo scrittore.”

“E cosa deve fare uno scrittore?” domandai con aria trasognata, perché quella parola, pronunciata in punta di lingua, m’era suonata ambigua, inusuale.

“Deve imparare ad ascoltare i battiti del silenzio.”

“Cosa vuol dire?”

“Deve raccontare quello che gli altri non vedono.”

“E perché non vedono? sono ciechi?”

“In un certo senso sì. Più che altro sono ottusi. Vedi, la Letteratura… Hai presente un ventilatore? quando lo azioni, ad un certo punto le pale girano sempre più in fretta… finché ti sembra di vedere una nube e non si vede più nulla. Eppure qualcosa c’è. Bisogna essere bravi a capire cosa. E raccontarlo agli altri, per farlo vedere anche a loro.” spiegò. Mi girava la testa, ma non lo davo a vedere: al contrario annuivo, fingendo d’aver capito.

“Dimmi: ti piace leggere?”

“Certo, adoro i fumetti!” risposi, e i suoi occhi sfavillarono. Bisbigliò poi un commento a mezza bocca, ma una brezza si levò tra le file degli ombrelloni e un fremito gli percorse il viso, quasi avesse colto una minaccia nell’aria.

Un attimo dopo si sollevò dalla sdraia, afferrò il bastone con la destra e s’incamminò verso il bar, risalendo la spiaggia in diagonale. Lo circondava un’aura luminosa, carica di mistero. Mi accorsi che tutti lo osservavano ossequiosi, scambiando timidi cenni di saluto, ma lui era indifferente, distaccato in maniera forse inconsapevole, eppure spopolava senza battere ciglio. Per farsi amare, gli bastava essere sé stesso, sempre impelagato nel nebuloso polverone di riflessioni che gli affollavano la mente. Lo seguii come un cagnolino, assecondando l’istinto e la curiosità senza sapere perché. Dopo avere percorso il vialetto a fianco della piscina, si volse e mi sorprese dietro di lui.

“Che fai ancora qui? Vai a giocare col tuo pallone. Devi allenarti… o vuoi restare un brocco per tutta la vita?” borbottò. Poi mi diede un buffetto sulla guancia e cominciò a salire la lunga scalinata. Mi accorsi che i suoi passi erano stranamente leggeri, quasi che, smessi i miseri panni umani, avesse i piedi sollevati di un palmo da terra. Alzai gli occhi al cielo, richiamato da qualcosa di anomalo. Era ancora giorno, ma la volta celeste brulicava di stelle. Aveva ragione lui: la sabbia di Sabaudia era magica.

Entravo nella città di Roma, l’otto settembre del quarantatré

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di Davide Orecchio

{Dieci anni fa, proprio su questo sito, pubblicai un pezzo tra invenzione e ricostruzione dedicato al 25 aprile di mio padre. Lavoravo da tempo sulla vita della persona dalla quale provengo, vita che, tra adesione al fascismo, riscatto nella Resistenza e nel comunismo, conoscevo molto poco. Avevo pubblicato un racconto-biografia infedele su di lui nella mia prima raccolta edita, e stavo proseguendo il lavoro. Inaspettatamente, mia sorella lesse e apprezzò quel pezzo su NI (c’è anche un suo commento in calce) e pochi giorni dopo depositò a casa mia l’intero Nachlass paterno di lettere, manoscritti, diari ecc. Segno di fiducia, immagino, in un possibile mio amore verso nostro padre al quale, fino a quel pezzo su NI, mia sorella non aveva forse troppo creduto. Amore che avrebbe potuto generare una capacità di rispetto nel ricostruire la storia.

E così, come mi capita sovente, mi ritrovai condannato da me stesso a raccontare una storia. È una storia piena di biografemi e date cubitali, e certo l’8 settembre è una delle più importanti. Quell’8 (e 9) settembre 1943 a Roma propone uno dei pochi episodi che mi raccontò addirittura mio padre, sempre avaro e muto riguardo al proprio passato. Quindi ne ho potuto scrivere anche basandomi sulle sue memorie. In particolare le immagini di piazza Colonna, i gruppetti nella Galleria, un oscuro scrutarsi reciproco per capire chi sarebbe rimasto coi fascisti, chi sarebbe fuggito, chi andava a combattere con gli antifascisti. Mio padre, sottotenente dell’esercito, arrivava a Roma da tre campagne belliche, l’ultima in Sicilia, persa pochi giorni prima, era vivo per miracolo, era stanco e vecchio, aveva ventotto anni, ormai odiava il fascismo, insomma era pronto, come tanti insieme a lui, e lo attendeva l’unica guerra giusta che avrebbe combattuto, la Resistenza a Roma. La diagnosi del fascismo quale malattia politica era in lui ormai consolidata, ma potremmo immaginare l’8 settembre (e il periodo a seguire) come il momento nel quale mio padre, chirurgo e paziente, estirpò definitivamente il male da sé. Dall’onestà e accuratezza di questa operazione di defascistizzazione (di mio padre e di tutti gli italiani e le italiane come lui) sarebbe dipeso il futuro del nostro Paese.

Com’è andata a finire? Così così, mi sento di dire, visto che al governo, mentre scrivo, ci sono gli eredi della cultura politica fascista. È una storia ancora aperta, titolo appunto scelto nel romanzo che ho scritto per raccontarla; i brani che seguono vengono da lì, anche se formattati diversamente rispetto all’originale, sistemati in a capo come se fosse una poesia, più che altro per aiutare la lettura digitale.

Siamo a Roma, la mattina dell’8 settembre, e Pietro Migliorisi (alter ego di mio padre), aggirandosi per Prati, il quartiere delle caserme, ascolta una voce alla radio…}

∞ ∞ ∞

E ora troviamo un diario di guerra,
i giornali intimi maturano come la pastura nel campo,
piove la morte e per reazione loro crescono verdi,
sono erbe comuni,
coprono i teschi con le parole,
sommergono di frasi le canne mozze,
con le pagine asfissiano i calibri,
di solito raccontano sempre una storia: 

Così mi sono salvato,
ma dopo potevo morire,
però mi sono salvato di nuovo,
ma dopo volevano uccidermi,
e ancora mi sono salvato.

Cercavamo il sambuco, la pianta preziosa…

…e troviamo il diario che dice
«sono un soldato italiano, disonorato»,
ieri entravo nella città di Roma
e «avevo molte croci sul petto»,
tornavo da una guerra «combattuta a ritroso»,
era l’otto settembre del quarantatré,
i banchi di viale Angelico esponevano l’uva di Terracina,
grappoli d’oro agostani, acini enormi,
ne mangiai cinque per elemosina,
“una vera delizia”,
nessuno mi dava ancora la caccia,
ero vecchio, «sciupato e lordato»,
avevo le chele disidratate,
ma ne ho compiuti appena ventotto
– dice il diario del bambino diacronico –,
allora sono giovane o vecchio?,
chiede Pietro alla guerra.

Allora scopriamo la pianta preziosa…

… ha la sigla di Pietro sulla prima pagina,
una scrittura minuscola di carbone, di lapis,
a volte non rettilinea,
simile alla parabola della bomba sganciata,
una corda stringe il diario di guerra che dice:
ero nel quartiere delle caserme,
camminavo al fianco degli accasamenti,
settembre aveva ereditato il caldo di agosto,
fuggivo dal Foro di M.,
forse volevo raggiungere il Tevere
e poi, in centro, lo studio di un amico poeta,
ma a piazza dei Quiriti la radio di una trattoria,
dove mi ero fermato per un bicchiere d’acqua,
trasmetteva Una strada nel bosco,
che è la strada del cuore,
che non muore mai più,
e io sognavo quel nido semplice,
e volevo conoscere il nome
della strada nel bosco,
e mi fermavo più del dovuto,
poi la canzone finì
e attaccò una voce “cupa, metallica”,
quando il duca di Addis Abeba ci disse:

Ora voi dovete cessare,
quando il maresciallo Badoglio ci disse:
ogni atto di ostilità. 

La mongolfiera di M. dissipava il suo elio sull’Appennino…

…un golem laconico regnava sul Vaticano,
riaprivano teatri e cinema,
al Quirino si aspettava Un marito ideale,
gli studenti preparavano gli esami di riparazione,
“le ragazze andavano in bicicletta”,
“i contadini” entravano nel rettilario di Roma
“su carretti trainati da muli e cavalli”,
poi l’Eiar trasmise la voce di un basilisco,
il duca di Addis Abeba proclamava la resa,
a piazza dei Quiriti Pietro ascoltava Badoglio
quando annunciò l’armistizio e disse:
ogni atto di ostilità
contro le forze angloamericane
deve cessare,
e disse: da parte delle forze italiane,
e disse: in ogni luogo,
e aggiunse: esse però reagiranno,
e disse: a eventuali attacchi,
e disse: da qualsiasi altra provenienza,
e nel rettilario pochi capirono bene l’antifona,
ma Pietro già pensava che 

Non è finita,
non è finita,
non è finita.

Ma era solo un «disco marziale» che gira…

…e io ascoltavo una voce che ruota
– dice Pietro al diario –,
mentre Badoglio era già lontano da Roma,
e io arrossivo «fino alla cima dei miei capelli»,
e ricordavo la donna «vecchissima,
nella piazzaforte di Dagahbur»,
nella mia memoria dell’Africa
era rimasta la «vecchia matriarca»,
e il rosso del suo cranio spaccato,
e il fucile del miliziano fascista,
e il «ciuffo bianco» della criniera dell’Africa,
e mentre il duca di Addis Abeba parlava,
e ci lasciava «nudi e crudi ai nazisti»,
io provavo una «vergogna amara»,
una «decrepitezza precoce»,
mi sentivo «rotto e confuso,
pieno di collera che cerca
una sua direzione».

Ora la voce del duca finisce,
lascia le creature di Roma nella meraviglia,
dalle case delle iguane “straripa un brusio”,
dai negozi delle testuggini esce uno stupore,
per strada vanno lucertole ingenue e ottimiste
che “gridano gioiosamente alla pace”,
manticore terrificate scappano
verso i “capolinea dei mezzi pubblici”,
vogliono raggiungere genitori e figli,
e dalle soffitte e dalle cantine
Sillabari rossi,
tornati dal loro esilio,
preparano i centauri all’attacco,
distribuiscono armi, e dicono:

Presto combatteremo
per la libertà e l’uguaglianza,
subito uccideremo
il vostro fascismo.

Ora un insetto stecco si mimetizza…

…tra le querce di Villa Torlonia
ed è l’Enciclopedia del fascismo,
ora scorgiamo le piastre degli alligatori,
le squame di vipere e idre,
crocchi di aspidi sibilano
su cosa si debba fare,
tutti sono nemici di tutti,
tra il vecchio e il nuovo nessuno si fida,
le lingue biforcute chiedono al nostro fascismo:
ma se tu muori, noi come vivremo?,
poi “si sciolgono i crocchi”,
e i rettili “corrono dietro agli autobus”,
e le strade sono deserte nell’oscurità,
e “le finestre si spengono” con disciplina,
e verso mezzanotte il rettilario ascolta
“un nutrito cannoneggiamento lontano”
e gli ululati del nuovo nemico
portati da un vento di Tuscia,
scesi dai Monti Cimini.

L’Enciclopedia della guerra ci mostra la battaglia al mattino,
il lupo nazista non è più l’alleato,
vediamo le bombe che lancia, i mortai,
il “fuoco violento” sull’Ostiense e sulla via Cassia,
su piazza Cola di Rienzo e piazza Cavour,
il nostro esercito non è più del nostro fascismo
ma non è di nessuno,
lo stato maggiore l’ha abbandonato di nuovo
e lui non sa a chi obbedire,
i cefalopodi vanno a combattere,
i cefalopodi non sanno come combattere,
ai mercati generali centinaia di salamandre e rane si fanno coraggio,
“strisciano lungo i muri”,
“si mescolano alle pattuglie” dei cefalopodi, degli astici, dei granciporri,
“soccorrono i combattenti feriti”,
e i lancieri coi granatieri resistono alla Piramide Cestia,
a Porta San Paolo,
leggiamo nell’Enciclopedia della guerra

Nei palazzi di Roma “si bruciano le carte e gli archivi”,
mentre gli impiegati tornano a casa:
i criceti dai ministeri,
i castori dalle banche,
le talpe dalle assicurazioni,
e i funzionari di Palazzo Chigi
“appiccano il fuoco, attizzano fiamme”,
rinforzano a badilate i “bracieri”
di “cifrari, dispacci, minute”
che bruciano in un fumo che sale,
e il lupo nazista mitraglia
il “bivio della Laurentina”

E le campane delle chiese
suonano per il “vespro”.

Ora i Sillabari rossi convocano il popolo…

…a piazza Colonna,
pubblicano un giornale e l’intitolano 
Il Lavoro italiano,
Pietro ne prende una copia e ricorda
che quel foglio prima si chiamava 
Il Lavoro fascista,
allora capisco che i Sillabari mi stanno ammonendo
– dice il suo diario di guerra –
e ci tengono a che io non sia più fascista,
per questo mi chiamano a piazza Colonna
insieme a «tutti gli italiani amanti dell’onestà»,
e mi chiedono se ho «voglia di ringiovanire impugnando un’arma
per la libertà nazionale e repubblicana»,
leggiamo nel diario di guerra
annotato nel quartiere delle caserme
con la fretta per sottotesto, con la paura.

E io non sono più fascista,
non sono fascista,
non sono fascista
– dice il diario di guerra –,
dovrò andare alla piazza e spiegarlo,
e sono esausto ma proverò
a ringiovanire,
e i Sillabari mi devono credere,
userò parole sincere,
dirò quello che è successo e chi sono,
e per piacere non voglio il lupo nazista,
per cortesia sentite i cannoni e le bombe?,
quelle bestie sono feroci,
vengono qui a divorarci,
davvero dobbiamo combattere ancora?

Non è meglio
morire,
morire,
morire?

Ma non ho diritto al riposo…

…dice il diario di guerra –,
ora vado alla piazza e lo spiego,
ora “Roma è deserta”,
ma non è il “silenzio solito”,
c’è un “vuoto creato dalla paura”,
poi c’è chi si fa forza,
“su via Cola di Rienzo incontro” cefalopodi
“che vanno verso le mura in reparto”
contro il lupo nazista,
e testuggini e rane li “acclamano”,
e penso che “c’è uno sforzo da compiere”,
e «sul selciato di piazza Colonna»
mi ritrovo nei «drappelletti»,
con «uomini di diversa immaginazione»,
“non c’è molta gente, ma c’è una grande inquietudine”,
scoiattoli dalla fronte larga indossano
le loro tute operaie,
portano ghiande e cortecce,
camaleonti dagli occhi globosi
vengono con le camicie di cotone slacciate,
gli abiti lisi eleganti di intellettuali,
e dilatano e restringono le loro palpebre
di giornalisti, poeti, romanzieri e pittori,
e tutti circondiamo un camion
dal quale i Sillabari distribuiscono
«archibugi disusati e pistolettoni di modello antico»,
e finalmente li vedo,
Sillabari,
e loro vedono me,
e sento «gli occhi aperti dei morti su noi che viviamo»,
e vedo la mia «gioventù riconquistata»,
e inizia
la mia resistenza,
la mia resistenza,
la mia resistenza.

Pietro vede “carri di giovani scamiciati, che agitano bandiere”,
partire verso Porta San Paolo dov’è il lupo nazista,
poi “scoppiano due bombe”
e qualcuno grida che le ha gettate un fascista,
poi le creature di Roma aspettano il comizio dei Sillabari,
cince e martin pescatori si posano sulla colonna di Marco Aurelio,
polpi e cannolicchi fanno gruppo a piazza Colonna
nella vasca della fontana asciugata,
i cercopitechi si dondolano dai portici di Palazzo Wedekind,
motociclisti in divisa “attraversano rapidamente la piazza,
da largo Chigi imboccano il corso sparando”,
e Pietro dice al diario: sparano in aria,
ma noi scappiamo tutti nella Galleria.

E fuggono i roditori coi camaleonti,
e gli uccelli prendono il volo,
e le scimmie si arrampicano
fino alla statua di Paolo.

Poi il bambino diacronico…

…sta “appiattito contro la saracinesca
di un negozio, abbassata” nella Galleria
– leggiamo nel diario di guerra –
e pensa non è meglio morire, morire, morire?,
poi si volta a destra e scorge un uomo
che sfila un’arma da sotto la giacca,
una “pistola enorme”,
e riconosce il Comunista nell’uomo,
non lo incontra da anni,
da quella riunione a Palazzo Braschi,
quando il Comunista era già comunista,
e il nostro fascismo lo sapeva bene,
e Pietro lo chiama,
e il Comunista lo vede e si scambiano un cenno.

Poi la sparatoria si ferma
e il Comunista mi indica di seguirlo
su per una scala
dietro la Camera dei deputati
– dice Pietro al diario –,
e gli vado dietro e mi porta
a una guardiola,
qui i Sillabari rossi “discutono animatamente,
chiedono ancora più armi”
e li circondano donnole e cani procioni,
istrici e topi muschiati,
“poi ce ne andiamo”
e camminiamo insieme
– dice Pietro al diario –
e il Comunista mi chiede
se sono ufficiale
e rispondo di sì,
poi mi chiede
se sono ancora fascista
e rispondo di no,
poi al ponte Umberto mi dice:
sei pronto?

E ora inizia
la mia resistenza,
la mia resistenza,
la mia resistenza.

∞ ∞ ∞

Da Storia aperta, Bompiani 2021, cap. X, La città dei bambini (1943-1945), pp. 196-201. 

Alfredo Orecchio fu partigiano nei Gruppi di azione patriottica, Brigate Garibaldi, organizzati a Roma dal Partito comunista italiano, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944. Operò nel Gap della III zona (Flaminio, Parioli, Trieste, Salario) prima come responsabile militare (fino al 31 dicembre 1943), poi come gregario (cfr. Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione laziale per il riconoscimento della qualifica di partigiano e patriota, Attestato di partigiano combattente di Alfredo Orecchio, prot. n. 7091, Roma, 21 aprile 1949; Regio esercito italiano, Stato di servizio nell’esercito, Alfredo Orecchio; Mario Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana. La Resistenza dei GAP a Roma, a cura di Massimo Sestili, Odradek, Roma 2015, pp. 98, 139).

CITAZIONI

Di Alfredo Orecchio, tra «…»: “Così ritrovammo la gioventù”, Paese Sera, 9 settembre 1953 (l’8 e il 9 settembre 1943: le parole di Badoglio, la manifestazione a piazza Colonna, la donna uccisa a Dagahbur).

Tra “…”:

  • Fausto Coen, Una vita tante vite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004 p. 88 (l’uva di Terracina a viale Angelico).
  • Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale (1987), Ediesse, Roma 2008, pp. 179 sgg. (ragazze in bicicletta, contadini in città).
  • Luciana Castellina, La scoperta del mondo, nottetempo, Roma 2011, p. 52 (8 settembre: dopo aver trasmesso la canzone Una strada nel bosco, l’Eiar annuncia l’armistizio).
  • Lorenzo D’Agostini e Roberto Forti (a cura di), Il sole è sorto a Roma. Settembre 1943, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, Roma 1965, pp. 24-25 (la voce metallica di Badoglio e la reazione della popolazione romana), 39-40 (cannoneggiamenti tedeschi su via Cola di Rienzo e piazza Cavour), 44 sgg. (settembre 1943: la battaglia di Roma).
  • Giorgio Amendola, Lettere a Milano 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 159, 162-163, 166-167 (8 e 9 settembre 1943, la battaglia di Roma e il raduno di piazza Colonna).
  • Carla Capponi, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, il Saggiatore, Milano 2000, pp. 93 sgg. (la battaglia di Porta San Paolo).
  • M. Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana, cit., p. 32 (scontri di Porta San Paolo).
  • Paolo Monelli, Roma 1943 (1945), Einaudi, Torino 2012, pp. 197-217 (settembre 1943: la battaglia di Roma, gli archivi bruciati).
  • Carlo Trabucco, La prigionia di Roma. Diario dei 268 giorni dell’occupazione tedesca (1945), Borla, Torino 1954, pp. 11 sgg. (settembre 1943: la battaglia di Roma).
  • L’incontro tra Migliorisi e il Comunista nella Galleria Colonna durante la sparatoria del 9 settembre è ispirato alle memorie di Aldo Natoli, che nella Galleria vide Giaime Pintor estrarre una pistola e fare fuoco, cfr. Giovanni Falaschi (a cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, Manifestolibri, Roma 2005, pp. 323-324.

Un’estate con Manzoni #L’immaginario (Ghost Track)

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David Hockney, "A Bigger Wave", 1989

David Hockney, “A Bigger Wave”, 1989

 

[La rubrica “Un’estate con Manzoni” ci ha accompagnate/i per tutto il mese di agosto, ogni giovedì. Ecco oggi l’ultima puntata, non prevista: una Ghost Track. Per rileggere tutti i pezzi, basta seguire il tag Un’estate con Manzoniot]

 

di Marco Viscardi 

C’è un passaggio che, ad una lettura veloce del testo, può sfuggire. Siamo nel settimo capitolo e don Rodrigo sta progettando di rapire Lucia e chiudere così la partita. Per farlo, bisogna organizzarsi, così stila un piano di battaglia col Griso, che sa perfettamente dove poter stabilire il quartier generale di questa efferata azione:

Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa… vossignoria non saprà niente di queste cose… una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana, per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri.

Lo sguardo del Griso è materialista: il casolare è abbandonato perché è andato a fuoco e, in tempi di carestia, non ci sono i soldi per rimetterlo in sesto. Pensiero puro e visione disincantata. Mentre il pensiero popolare è creativo e fa di una casa-rovina il luogo di un Sabba, il Griso ha una visione disincantata del mondo. La sua esperienza di uomo d’arme lo mette a riparo dalle credenze dei nullafacenti. Sull’immaginario dei villani cade la sua risata distruggitrice. Certo, se leggiamo con attenzione, il laicissimo Griso non è così convincente… ma non è sabato, e me ne rido, certo andarci in giorno di Sabba, di notte, lontano da tutti… quella sarebbe un’altra storia!

A quelle streghe, però, Manzoni doveva tenere, se il rapido accenno viene amplificato da questa stralunata vignetta di Gonin, che spezza il periodo e ci restituisce visivamente quelle che erano le paure di Renzo e Lucia:

Come pensano i personaggi dei romanzi? Conosciamo gli immaginari di alcuni, sappiamo quali sono i sogni di Chisciotte e quelli di Emma Bovary; Werther e Ortis ci hanno confidato chi sono i loro eroi e quanto costi non adeguarsi a loro, ma non usciamo dalla letteratura. Anzi, i loro sogni sono letteratura al quadrato: Chisciotte pensa ai cavalieri antichi, Emma Bovary alle eroine dei romanzi e del melodramma, Ortis legge Plutarco e Werther declama Omero e Ossian… si potrebbe tornare a Paolo e Francesca che capiscono qualcosa dei loro caotici sentimenti solo attraverso le azioni immaginarie di Lancillotto e Ginevra.

Non si esce dalla letteratura e, soprattutto, dalla parola scritta. Al contrario Manzoni ci porta in un immaginario illetterato e analfabeta. Ai margini della vicenda principale, il narratore si fa antropologo e investiga un mondo mentale dove non esistono confini netti fra il cielo e la terra, fra il giorno e la notte, ma ogni cosa è permeabile, aperta, modificabile.

L’indagine storiografica del romanziere si allarga a nuove, sorprendenti regioni, il suo sguardo penetra nell’inconscio collettivo delle paure, dei deliri, in un momento storico in cui queste credenze non sono ancora elementi di un folclore oleografico, ma determinano concretamente le azioni degli uomini nelle vicende della piccola cronaca e della grande storia.

Il Griso, da cui è cominciato questo discorso, è un galileiano inconsapevole. La grande rivoluzione scientifica stava modificando per sempre la comprensione del cosmo, mettendo il sole al centro di un universo meccanicista, svuotato da spiriti e fantasmi, ma colmo di materia in movimento. Era iniziato il tempo del movimento puro, senza bisogno di un Dio a costituirne l’origine: il tempo delle tassonomie e delle catalogazioni della realtà per quella che è.

Un nuovo modo di concepire il sapere che avrebbe lentamente ma implacabilmente distrutto le fantasie delle campagne e i deliri dei cittadini. Un mondo nuovo e piatto che poteva stare tutto in un foglio di carta, bastavano penna e inchiostro per metterlo insieme; e forse per questo Renzo è così diffidente (ma stavo per dire “inorridito”) dalla scrittura che voleva incasellare la bellezza e l’irregolarità della sua esistenza nelle colonne di un elenco da riempire di generalità e dati esterni all’anima.

Se il Griso deride le streghe, molti invece credono alla loro esistenza, e non solo fra la povera gente. Nei capitoli nei quali Manzoni descrive la diffusione della peste, egli parla dell’assalto della folla impazzita alla lettiga del protomedico Ludovico Settala, autorità medica del Seicento milanese, colpevole di non aver colluso con le politiche di quanti volevano occultare il morbo per tenere tranquilla la popolazione. La moltitudine che l’attacca ravvisava in lui «il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici». L’ingiuria e la violenza sono il premio che «gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone», ma

quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.

«Del pari con la perversità, crebbe la pazzia»: I Promessi sposi sono saturi di storia, e anche le fantasie della notte sono storiche. Per comprendere la portata del contagio, non basta il conto dei malati, dei guariti e dei deceduti, ma bisogna capire il valore simbolico che la malattia assume agli occhi dei contemporanei, indagare quali paure riattiva, quali sogni e, soprattutto, quali incubi vengono scambiati per avvenimenti reali. Possiamo immaginare il grande Manzoni intento a leggere le cronache di quel contagio e, in particolare, quelle del Ripamonti e del Tadino, con gli occhi attenti a cogliere ogni vibrazione di irrazionalità e di pazzia che poi, rimeditati nella sua pagina, diventano chiavi essenziali per accedere ad un mondo oramai perso.

Leggiamone uno:

Due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come al suo rifiuto quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, «che sino al far del giorno vi dimororno»

Sembrerebbe il racconto di una cattiva digestione, ma siamo all’anticamera dell’orrore. Gonin si diverte a declinare il tratto allucinato e luminoso di Füssli in un interno milanese: manca lo splendore del corpo stravolto dal tumulto della mente, sostituito dall’espressione strozzata di chi sente davvero un pericolo la sua esistenza, fra le coltri di una casa non miserabile. Il lupacchiotto sotto al letto rima con l’allucinato cavallo, i gattoni hanno la stessa espressione della scimmia, ma passata al setaccio delle fiabe dei Grimm, persino le coperte si richiamano. Il russare di questo poveruomo si contrappone al silenzio sublime della sua compagna di travagli.

Anche un sogno può diventare documento, ora che tutto è storia, tutto è utile ad allargare la conoscenza sulla permanenza dell’umanità su questa terra.

L’inconscio individuale comprende sempre le paranoie collettive. Non si delira mai da soli ma, nei momenti più atroci della storia umana, il delirio è sempre generalizzato e l’occhio di una moltitudine spaventata deforma la realtà fino a renderla inconoscibile.

Il diavolo in persona passeggia in carrozza per le vie di Milano, sotto l’aspetto di «un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia». È arrivato in città per reclutare portatori di morte, i famigerati untori e, per meglio tentare le sue prede, li porta direttamente nella sua dimora, che sembra uscita da un delirio manierista:

Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio.

L’episodio è riportato dagli storici del tempo, è una notizia realmente diffusa ed è arrivata velocemente sino alle contrade lontanissime, se persino il vescovo di Magonza si è interessato presso il suo omologo milanese sulla veridicità della faccenda.

Siamo davvero nel mondo di Ariosto, ma soprattutto di Tasso; nel palazzo diabolico gli estremi, più che fondersi, si contrappongono, quasi si rispecchiano. Indimenticabile il tratto d’orrore dei fantasmi seduti a consiglio; la vignetta ci fa vedere questa combinazione di natura e cultura, dove la facciata del palazzo sembra una furba copertura al buio spaventoso della grotta, in cui si intravedono spettri e figure indistinte. Ma il centro è occupato dal buio che tutto vuole inghiottire: l’oscurità verso la quale è attratto il lettore, con la paura che se avvicina troppo il naso alla pagina, possa venire inghiottito da quell’abisso assoluto e inconoscibile. Non ci stupiremmo se da quella grotta, oltre alle fantasime manzoniane, uscissero anche i pagliacci assassini della narrativa dell’orrore statunitense.

Il lupo, il diavolo e i gattoni sopra al letto! Ci sarebbe da ridere, se da questo immaginario goyesco non scaturisse la cieca violenza. «Da principio, – scrive Manzoni – si credeva soltanto che quei supposti untori fosse mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si credette che ci fosse non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse la volontà». Nella caldea dell’immaginario, l’untore è un messo diabolico, posseduto da una voluttà, da una attrattiva, che ne tengono in scacco la libertà dell’arbitrio. Sono uomini che agiscono sotto la deduzione di quello che Ezio Raimondi ha definito «eros stregato e delirante». Spargere morte genera il godimento. L’immaginario collettivo partorisce i suoi mostri. Il ricordo degli untori lacera il mondo finzionale del romanzo e porta nel testo la violenza di una giustizia amministrata per compiacere il ventre e i sensi grossi delle masse. Il famoso processo della Colonna Infame, quello a cui Pietro Verri aveva dedicato le Osservazioni sulla Tortura e Manzoni l’appendice storica al romanzo. Due uomini, due innocenti, Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza vengono torturati, giustiziati come untori, e le loro case vengono abbattute. Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune. Il cristiano esercita la propria libertà, dice Manzoni in quella pagina, non arrendendosi all’orizzonte comune, ma seguendo la ragione e la pietà. Il ripudio della libertà, della ragione e della pietà hanno portato all’uccisione di due esseri umani: «un olocausto di innocenti, attuato e subìto dalla società milanese-lombarda del secolo barocco», secondo le parole, bellissime e tremende, di Ezio Raimondi.

Finora abbiamo visto il narratore affrontare il terreno dei sogni e delle fantasie come un campo estraneo, nel quale si muove col passo dell’antropologo che osserva senza partecipare, ma in una scena del Fermo e Lucia vediamo come persino lui, il narratore intriso di cultura illuminista, conservi nel fondo dell’anima un residuo delle storie e delle leggende popolari. Parlo di Rodrigo che, nei Promessi Sposi, chiude la sua esistenza nel disfacimento e nel delirio della peste; nel Fermo, invece, la sua vita si chiudeva con la sfida suprema all’ordine divino. Dopo aver riconosciuto, fra le ombre del lazzaretto, Fermo, Lucia e Cristoforo, nella «mente sconvolta» dell’appestato si era ridestato «l’antico furore», assieme al «desiderio della vendetta covato per tanto tempo». Moribondo, Rodrigo tentava la disperata affermazione di sé: balzato «su le schiene» di un cavallo lasciato libero dai monatti «e percotendogli il collo, la testa, le orecchie coi pugni, la pancia con le calcagne, e spaventandolo con gli urli, lo fece movere, e poi andare di tutta carriera» verso la chiesa del lazzaretto, fino a quando l’animale, «spinto dal demente, e spaventato da quei che tentavano di avvicinarglisi, s’inalberava, e scappava vie più verso il tempio».  La carriera del libertino si chiudeva coi toni esasperati dell’ordalia «“Giudizii di Dio!” disse il padre Cristoforo: “Preghiamo per quell’infelice”».

La fine di Rodrigo richiama la cavalcata dei morti del folclore europeo. Il romanticismo europeo, l’immaginario stravolto della Germania si stava facendo strada a Milano, sia grazie alle letture delle opere della baronessa de Staël, impareggiabile mediatrice culturale fra Europa gotica ed Europa latina, sia alle traduzioni e alle riflessioni critiche di Giovanni Berchet, traduttore dei versi di Bürger e teorico di una poesia che affondasse le proprie radici nell’immaginario dei popoli. In un saggio di qualche anno fa, Francesco de Cristofaro ha ricostruito i rapporti di Manzoni con queste idee, analizzandone le presenze e i rimaneggiamenti, le nuove declinazioni, le censure e le rimozioni del Manzoni romanziere rispetto ad un mondo letterario e poetico – quello del romanticismo nordico – che non lo lasciava indifferente, pur se in contrasto con le sue idee. La scena del Fermo appena letta va ad alimentare il dossier della storia notturna dei Promessi Sposi.

Manzoni è uomo di complesse sintesi: illuminista e cristiano, ma allo stesso tempo romantico, nell’accezione milanese del termine, quindi lontano dagli eccessi e dai compiacimenti dei letterati d’oltralpe e interessato a raccontare le vite dei popoli, a investigare quanto gli storici avevano fino a quel momento trascurato. Nella sua Storia dei Longobardi, Manzoni eleva a suo modello ideale una fusione di Muratori e Vico, ossia della grande erudizione e della filosofia investigante e visionaria.

Per quanto Renzo diffidi della scrittura, è proprio questa che permette al suo mondo di esistere e di arrivare fino a noi. Manzoni evoca di continuo l’immaginario dei suoi personaggi, a volte con tenerezza, ma più spesso con diffidenza e orrore, e lo fa consapevole del pericolo che la superstizione ed i falsi miti arrecano alla vita associata. L’uso della ragione e della pazienza, insieme all’esercizio della pietà e del perdono fanno disperdere le ombre che rattristano l’orizzonte. Ma nella periferia del racconto insiste un mondo di storie, di leggende, di consuetudini che rendono questo romanzo più ricco di altri testi del suo tempo. Secondo Giorgio Manganelli, Manzoni era il solo scrittore italiano paragonabile ai russi. Ed è vero, c’è tanta aria di famiglia con Dostoevskij, ma anche con altri creatori di mondi, come lo sterminato Tolstoj, il bizzoso Gogol e il notturno Leskov.

In questi romanzieri, come in Manzoni, si sente il respiro del mondo, e il mondo non è un animale addomesticabile.

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Sound Track: Jean-Philippe Rameau, Le rappel des oiseaux -> play

Pedologi (sillabario della terra # 12)

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di Giacomo Sartori

La terra viene studiata dai pedologi, adepti che scavano buche per vedere come è fatta in superficie e anche in profondità, cercando insomma di capirla nella sua oscura interezza. La loro disciplina non è molto conosciuta, e ancora meno gode di prestigio, ma per loro è quasi un elemento di distinzione. Per carpire meglio i segreti della terra si infilano armi e bagagli nelle buche che fanno o fanno fare, annegando fino alle spalle o anche più, e adempiono i loro seriosi rilievi senza timore di sporcarsi, come fanno anche i bambini che giocano. In genere sono affabili e alla mano, e forse anche un po’ ingenui, quindi il paragone non è del tutto casuale. Il loro modo di procedere è del resto prevalentemente descrittivo, cosa che rimanda ai primi vagiti della scienza.

Seppelliti nelle loro buche i pedologi scrutano con zoomate di filatelici questo e quello, trovano conferme delle teorie della loro disciplina, misurano e riempiono schede. Transustanziano il colore della terra e la sua consistenza e tanti altri attributi in codici numerici, visto che al giorno d’oggi tutto deve essere metamorfosato in cifre da dare in pasto alle voraci pance dei computer. Alcune di queste determinazioni nei fatti non servono a niente, anche travestite in segni matematici restano troppo soggettive, ma per vecchia abitudine, che forse è anche ostinata pignoleria, loro le eseguono lo stesso. Per ultimo prelevano i campioni destinati al laboratorio, quasi preparando un’offerta propiziatrice. Si intuisce che sotto la navigata distanziazione scientifica amano toccare e odorare la terra, che hanno una sedimentata dimestichezza con lei, che forse non ha nulla di scientifico. Si direbbe che provino piacere, a stare lì dentro a sporcarsi.

Io stesso, sono anch’io un pedologo, quando sono in una buca perdo la cognizione del tempo e di me stesso, e mi lascio cullare dagli odori di umido e di funghi. Mi sforzo di coglierne il meglio possibile i vari dettagli della sezione terrosa che ho davanti, e questa tensione mi assorbe completamente. Forse proprio perché so bene che molti aspetti mi sfuggono, e che non posso capire tutto. E anzi so che quello che comprendo è molto limitato. Ma certo non si tratta di una pura concentrazione cerebrale con qualche spruzzatina filosofica, le sensazioni fisiche restano sempre presenti. Spesso chi mi sorprende così dedito mi domanda quale è il mio vero impiego, non possono pensare che quello sia un lavoro retribuito.

Quando rientrano nei loro uffici, alle pareti dei quali ci sono sempre scolorite fotografie o anche polverose sezioni di terra, i pedologi tirano le somme dei rilievi, perdendosi nei meandri delle loro arzigogolate classificazioni. Sono lingue simili a quelle degli uccelli, chiunque le orecchi arguisce che alla base c’è dell’entusiasmo e una fiducia nella vita, ma senza penetrarne anche un solo suolo. La tassonomia più in uso in Italia manco a dirlo è statunitense, una colonia resta una colonia, e contorce la bocca in ardite ginnastiche: Vitrixerandic Haplocryepts, Acrudoxic Thaptic Hapludands, e via dicendo. Loro però non sorridono, perché considerano l’inquadramento tassonomico una essenziale investitura scientifica, quasi un sacramento. Del resto non è solo colpa del loro puntiglio eccessivo, è la terra che è ostica, e che ha mille tipi e sottotipi, ciascuno con infiniti intergradi con quelli più vicini.

La loro precipua attività è però elaborare le carte pedologiche, dove macchie colorate segnalano la presenza dei vari tipi di terra nelle varie porzioni dei paesaggi. Di solito le chiazze sono molto frastagliate, fanno pensare a fiordi norvegesi, perché i suoli cambiano passando da qui a lì, rifuggendo la regolarità geometrica. Ogni carta ha poi un’aureola di scritte con nomi astrusi e simbolismi che nemmeno gli egittologi capiscono bene. Ora queste mappe si fanno e si guardano sugli schermi, ma la decifrazione per i non addettissimi ai lavori resta egualmente preclusa.

Le montagne in genere le lasciano in pace, seppure a malincuore, visto che ai loro occhi le terre più selvagge e più belle, e anche più importanti, sono lì. A nessuno dei loro riluttanti committenti interessa però sapere com’è la terra delle asperità prive di campi e case, senza la più remota possibilità di cavarci dei guadagni. I loro rapporti con chi tiene i cordoni della borsa non sono mai facili, in effetti: nell’epoca della velocità e dell’automazione fanno fatica a spiegare che i loro rilievi sono certosini e macchinosi, e ancora più faticano a farseli pagare in maniera dignitosa.

Ogni pedologo/a sa bene che chi decide dei destini commerciali delle terre, o anche solo progetta gli impianti di irrigazione, non tiene conto delle sue mappe, perché non ci capisce niente, o più semplicemente non vuole perdere tempo. Del resto lui stesso/lei stessa pensa che esse non rappresentino tanto bene la realtà della terra, così complessa e inafferrabile, e vadano prese con le pinze. Lui stesso/lei stessa non ne è pienamente soddisfatto/a, questa è la più profonda verità, e ritiene quindi che chi le ignora o insomma le sottovaluta non ha poi tutti i torti. Alla base della loro carenza di autorevolezza c’è insomma qualcosa di torbido, assimilabile per certi aspetti a un complesso di colpa, alla consapevolezza di un peccato originale. È difficile riuscire a convincere, quando si hanno troppi dubbi.

Sanno di essere una specie in via di estinzione, il che non è incoraggiante per nessuno. Constatano che ormai sono ascoltati solo gli specialisti di certe branche più alla moda, che vedono un’unica faccia della terra, e non sanno nulla delle innumerevoli altre. Osservano questi azzimati esperti che sfoggiano i loro corredi di strumenti e gerghi, e sono un po’ gelosi che siano considerati molto più scientifici dei loro, molto più al passo dei tempi. Reputano, e non hanno tutti i torti, che solo loro hanno una visione d’insieme, e possono fondere assieme quello che scoprono i vari tecnoscienziati con i paraocchi. Si dicono che la terra è un ostico puzzle che nessuno sa assemblare, anche perché a differenza di un vero puzzle i pezzi si incastrano molto male, o non si incastrano affatto.

Tendono allora a essere un po’ lamentosi, sconfinando troppo spesso nei complessi di persecuzione, il che non li aiuta a trovare dei fondi. Accusano i tempi, senza rendersi conto che sono loro i primi a essere anacronistici. Nell’era dell’euforia per i sensori e per le macchine intelligenti loro continuano a cercare di capire come si capiva duecento anni fa, osservando e ragionando, annotando con la matita, stilando cataloghi e classificando. Certo, usano come tutti GPS e immagini satellitari e banche dati elettroniche, ma sono convinti che nessun marchingegno ci capisca meglio di loro, reputano che la loro esperienza lo provi in modo inconfutabile. Non sono cose facili da spiegare in questi tempi, se ne rendono conto essi stessi.

Chi maneggia le sorti dell’agricoltura e dei territori non ama però i distinguo e le spiegazioni arzigogolate. È avvezzo a ubbidire ai dettami perentori dell’economia, non apprezza le incertezze e le titubanze, le considera sofismi inutili. Ascolta di preferenza chi stando dietro a ampi schermi sforna cristalline mappe con pretese di precisione nanometrica. In quelle stanze con il brusio delle ventole dei computer la terra tutta sporca e disordinata non è mai entrata, e anche i pedologi vestiti in genere in maniera trasandata, o insomma con capi comodi da esploratori, non sono invitati. Lì si dà retta piuttosto alle equazioni e alle promesse magniloquenti di una branca che va di moda in quel momento, come l’intelligenza artificiale.

Versando lacrime di rabbia sulla parabola commerciale del mondo, i pedologi  si chiudono ancora di più nei loro borborigmi tassonomici. Proclamano che ormai si punta alla loro sparizione fisica, visto il poco lavoro che ricevono: nessun giovane sensato può seguire le loro tracce. E allora un giorno non ci sarà più nessuno in grado di capire la terra: i suoi nemici potranno ingaggiare contro di lei una battaglia finale. Si considerano martiri che stanno morendo nelle trincee per difendere palmo a palmo la terra. Il bello è che hanno perfettamente ragione, anche se naturalmente non sono eroi, ma semplici brontoloni che amano la terra.

Poi però è sufficiente che spunti la possibilità di andare a studiare le terre di una regione che non conoscono, e si ringalluzziscono. Subito tornano di buon umore, perché adorano calarsi nelle loro buche fresche e odorose di ife fungine, utilizzando i loro metodi descrittivi tanto deprecati. Spesso i veri moventi dei loro committenti non sono tanto limpidi, a volte è in gioco solo l’immagine pubblicitaria, ma loro sono solo ansiosi di sporcarsi di una terra esotica, spesso addirittura eccitati. Partono alla scoperta di vergini contrade ai loro occhi ammantate di fascino tellurico, e non pensano più alla loro estinzione ormai prossima. Come tutti gli ingenui si dicono che forse poi le cose miglioreranno.

Monnezza

1

di Monica Pace

I mezzi più moderni agganciano in automatico, ma qui in periferia non sono ancora arrivati. Così ogni volta scendo, attacco il cassonetto al sollevatore e aziono il telecomando, quindi lo guardo ribaltarsi in cima al camion senza vedere cosa contiene, poi risalgo tenendomi attaccata fuori, coi guanti che meno male che ce li ho. Nemmeno la differenziata – quella vera – s’è ancora vista nella mia zona. Prima raccoglievo anche i sacchetti che erano caduti fuori o che non c’entravano nel cassonetto finché il Rosso una volta mi ha detto: – La devi piantà di raccattare i sacchetti, basta! Perdiamo troppo tempo e non ci compete. Poi passa il camioncino, pare che non lo sai! – Io sono alta un metro e sessanta e il Rosso farà uno e novanta, e pure gli altri colleghi mi stavano addosso, s’era diffusa ‘sta voce che raccoglievo i sacchetti. E ci mancherebbe altro, ho smesso.

E così i vicini e la gente hanno cominciato a lamentarsi, perché il camioncino non passa quasi mai. Li sento in giro per il quartiere, perché la mia zona di lavoro è la stessa dove vivo. Raccogliamo anche davanti a casa mia, ma al Rosso non l’ho mai detto dove abito. Di solito iniziamo qualche strada più giù, dal vialone con gli alberi nel mezzo. All’alba ci stanno ancora le ultime puttane che battono, o che fanno colazione. Al loro bar non ci vado mai – anche se il Rosso insiste – ci sono troppe luci, e secondo me pure le stanze al piano di sopra. Prima c’è stato un momento che andavano le bionde, quelle dell’est che sembravano tutte bambine, adesso è un po’ che hanno solo i capelli neri, corvini; certe fanno perfino un po’ paura e di sicuro non sembrano bambine, invece alcune secondo me lo sono. La strada è sempre piena di ‘ste povere disgraziate quasi nude, con dei trampoli esagerati. Però loro un po’ ci schifano, io credo sia a causa della puzza del camion, avranno paura di rovinarsi gli affari. Sul marciapiede ci arrivano al tramonto, magari due per macchina. Le fanno scendere e le lasciano lì a fermare gli uomini. Poi le aspettano al bar; ci stanno sempre delle auto bellissime davanti al bar delle puttane.

Io la macchina non ce l’ho e per andare e tornare dal deposito del camion prendo l’autobus, quello che arriva fino alla metro. In inverno il pomeriggio, quando torno dopo il turno, ci salgono i ragazzini delle medie che escono dal doposcuola, e si mettono a scommettere se quella o quell’altra portano le mutande oppure no.

– Aho! e su quella non vale che scommetti! Je se vede er culo! – E giù, ridono, tutti rossi in viso che gli vorrei dare due pizze in faccia. Invece guardo fuori e faccio finta di non sentirli. Penso a quello che devo fare una volta a casa.

La mia casa è uno specchio, anche se sto in affitto; mi sono comprata il robottino che pulisce quando non ci sono, ci stavano gli sconti un mese fa. Anche io cerco di ripulirmi quando rientro: mi spoglio in ingresso, poi doccia e vestiti da casa, prima di entrare in cucina. Così la sera non esco quasi mai, un po’ è che sono troppo stanca e un po’ è che mi chiedo che esco a fare? I cinema nel quartiere non ci sono più e se vado verso il vialone c’è il rischio che mi scambiano per una di quelle. Allora guardo dalla finestra della cucina, verso la strada: sull’unico pino rimasto e che c’ho davanti casa adesso è pieno di pappagalli verdi che di giorno fanno degli strepiti proprio da documentario di quelli sulla natura, ma la sera si nascondono e stanno zitti sperando di non attirare qualche gabbiano, o i ratti che si arrampicano dappertutto.

La mattina dopo l’autobus è ancora mezzo vuoto quando salgo io, un po’ perché è una delle prime corse, un po’ perché si riempie via via dei lavoratori diretti alla metro. Prima di imboccare il vialone fa una discesina appartata, tra gli archi dell’acquedotto romano, e là di solito ci sta Desirèe. La conosco perché abita al portone accanto al mio. C’ha uno stacco di coscia che mi fa invidia, due gambe che sembra una modella e sarà alta un metro e ottanta. Ha la pelle liscia di un nero diluito dagli amori mischiati della sua terra d’origine. Quando esce di giorno e si siede nel baretto accanto ai nostri portoni, i vecchi lo fissano appoggiando il mento sulle mani e queste sui bastoni tra le gambe larghe con i pantaloni tesi sull’inguine e gli occhi accesi e piccoli che l’accusano di esistere, cercando un pretesto. Lei sa come non provocarli, ma se ne va in giro fiera per il quartiere, i braccialetti d’argento tintinnanti, e il pomo d’Adamo liscio. Porta i capelli lunghi ma non troppo, le labbra gonfie e rosse, quel giusto tocco di femminilità che ci vuole per lavorare meglio. Ogni tanto la guardo da lontano mentre rientra dal discount; parla al cellulare con quelle sue frasi rotonde e strascicate, e sembra felice. Quando lavora sta un po’ più vestita delle femmine vere, e ha un trucco fantastico! Dal bus la intravedo, anche se la stradina c’ha un paio di lampioni sempre bui, perché i clienti vogliono la loro privacy. Anche sul vialone in effetti ce ne sono più spenti che accesi, ma sulla discesa è più buio. Desirée si mette all’angolo tra le due strade perché deve pur attirare anche lei, ma secondo me quelle come lui sulla strada principale non ce li vogliono. Ognuno ha la sua zona.

Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta, i pappagalli dormono. Mentre aspetto l’alba per uscire e andare al lavoro respiro il profumo amaro tirandolo su dalla tazza del caffè. Qualche sera fa dopo aver staccato sono passata con l’autobus un po’ più tardi del solito, che c’avevo da andare in ospedale a trovare una collega che si è beccata una brutta epatite. Desirée stava già al suo posto, il culo appoggiato a una macchina parcheggiata, che se ero io il proprietario chissà quante gliene dicevo. Mi è venuto da ridere a pensare alla forma del culo di Desirée sulla macchina di un tizio qualsiasi: sono quasi due mesi che non piove e ci sta una polvere terribile dappertutto! Mentre pensavo a queste cose, e l’autobus era fermo con le porte aperte, è passato un ragazzo in bici, nero più del nero, a portare le pizze. Sì perché adesso sul vialone ci hanno fatto la ciclabile, che a tratti i ciclisti ci riescono a passare, dove non ci sono i sacchetti dell’immondizia o dove i papponi non ci parcheggiano. Anche gli spacciatori ci parcheggiano, ma quelli stanno più avanti lungo il vialone e di loro non so molto. Insomma lei era proprio all’angolo e il ragazzo si è fermato, nel buio ho visto i denti del sorriso, poi ha aperto il contenitore termico, di quelli gialli quadrati, da professionisti, e le ha allungato un supplì. Desirée lo ha addentato senza tanti complimenti e dopo un paio di morsi gli ha fatto boccuccia, così per scherzare. Il ragazzo si è rimesso a pedalare a tutta velocità che ancora si vedevano tutti i denti. Complici di un crimine. Mi è venuto proprio da ridere, mentre il bus è ripartito. Sembravano quasi amici, figurati!

Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta, i pappagalli dormono ancora. Ieri ci è capitata la sfortuna, quella brutta. Lo dice sempre il Rosso – Meglio che me sfregio ‘na mano, ma quello no -. Tra noi colleghi sempre solo accenni, racconti smozzicati per sentito dire. Eravamo di turno insieme io e il Rosso, e succedeva il solito tran-tran – Daje che sei lenta, c’ho appuntamento per il cappuccino e ce mancano ancora quindici pezzi-. Io muta, figurati, anche se gli ultimi due cassonetti me li ero fatti praticamente da sola. Il problema del Rosso è l’altezza. Da quell’altezza i suoi occhi non hanno potuto non vedere dentro al cassonetto a cui mancava la copertura. Si è appoggiato al camion e ha fatto cenno all’autista di spegnere.

Poi mi ha detto – Lévate da qua e chiama la polizia –

Istintivamente mi sono girata verso il cassonetto, e il Rosso rabbioso – T’ho detto d’annattene! – Poi ha vomitato tra le ruote del camion. I poliziotti hanno lasciato sempre le luci delle sirene accese, e io ho sperato che, se ci guardava, alla creatura era piaciuto, almeno un po’. Siamo dovuti restare lì fino a che il magistrato ha disposto la rimozione. Per quell’ora eravamo stati viziati da tutti i negozianti dei dintorni, incluso il cinese che ci ha dato due sedie di quelle pieghevoli, col cartellino del prezzo attaccato. Ci siamo seduti lungo il marciapiede e ci siamo guardati gli scarponi da lavoro a lungo, ciascuno i suoi. La polizia ha fatto un cordone attorno al gruppo di cassonetti per tenere fuori i curiosi. Noi eravamo dentro e le facce degli altri fuori. Il Rosso stava seduto tutto raggomitolato, le braccia chiuse sulla pancia, piegato un po’ in avanti; ogni tanto mi faceva due occhi che chiedevano bontà. Io mi sono guardata attorno per vedere di trovarne un po’ da condividere con lui, ma nelle facce che ci circondavano non ce ne stava. Allora gli ho toccato il braccio, e lui si è ritratto brusco e incattivito.

Finalmente ci hanno lasciato liberi e ce ne siamo tornati in silenzio al deposito senza finire il giro, tanto un giorno in più non conta, la monnezza che si è accumulata non va da nessuna parte.

Poi sono tornata a casa con il solito bus, ma più presto del normale. Le puttane dovevano ancora attaccare, i ragazzini erano ancora al doposcuola. Ho passato il pomeriggio al telefono a cercare amiche mie di tanto tempo fa, cugine lontane, conoscenze della spiaggia. Ho riso molto e fatto molte promesse per un prossimo cinema, la pizza, perfino la festa della donna – che forse qualcuna rimedierà gli spogliarellisti. La sera ho avuto voglia di farmi un bagno, ma c’ho solo il box-doccia, e allora ho pianto, ma il pianto quello a dirotto, mica poco. Mi sono sentita stupida e così ho cercato di dormire senza nemmeno accendere la televisione.

Sto appoggiata alla finestra della cucina, la luce spenta. La strada è ancora silenziosa, nemmeno disturbata dal lampione di fronte al mio portone, spento da mesi. Quello dopo, davanti a casa di Desirèe, però funziona e rischiara i dintorni come un amico ben disposto. Una macchina sfreccia veloce verso il GRA, prima del delirio quotidiano. Inzuppo due biscotti nel caffè, stamattina ho ancora tempo, non ho quasi dormito. Dal palazzo di fronte esce una donna veloce sui tacchi alti, attraversa verso il cassonetto più vicino piazzato davanti alle nostre case, proprio a metà tra i due ingressi di alluminio dorato. Si ferma con il sacco a mezz’aria, incerta se lanciarlo in cima al mucchio o abbandonarlo fuori, tra quelli accumulati per terra. Decide per il lancio, ben riuscito. Poi si gira di scatto per andare svelta verso l’auto scuotendo la testa. Il rumore dei tacchi è già arrabbiato sulla strada e il suo fiato condensa parole di odio che passano i vetri.

Allora esco. Mi guardo attorno sperando di non esser vista. Mentre le mani si scaldano nei guanti, raccolgo i sacchi abbandonati per terra e li spingo a forza nel cassonetto, poi inizio a spazzare sotto il marciapiede, raccatto un po’ di monnezza sparsa e la infilo nello stesso cassonetto. Tre portoni più in là c’è ancora un po’ di spazio e ci vado a mettere altri sacchi, finché il nostro tratto di strada è ripulito. Inizio a spazzare il marciapiede tra i due portoni, raccogliendo frammenti di plastica, pezzi di carta con la pubblicità, aghi di pino secchi. Un’auto si ferma proprio lì e scarica Desirèe che ha finalmente staccato. Io fisso le setole della scopa, poi ci guardiamo. Desirèe è bellissima in penombra, rivestita di lamé argentato, giubbino rosso fuoco di finto coniglio, e ciglia lunghissime. Mi fa boccuccia con le labbra cariche e carnose, poi mi soffia con la mano un bacio a occhi socchiusi e rientra a casa.

Foto di StockSnap da Pixabay

Cosa stiamo facendo

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Testo e foto di Paola Ivaldi

“La quotidiana frequentazione del vuoto è lasciarsi istruire dal vuoto”
Chandra Livia Candiani

Un caro amico, in gioventù campione e poi istruttore di paracadutismo, mi raccontò, molti anni fa, che a incutere paura è il secondo lancio, ben più del primo, perché, disse sorridendo: la seconda volta sai che cosa ti aspetta.

Il mio secondo ritiro di meditazione di Mettā e Satipatthana Vipassanā ha fatto riaffiorare il lontano ricordo di quella battuta, cogliendone il vero senso soltanto ora, a distanza di parecchi lustri, dal momento che per tornare al Pian dei Ciliegi ho impiegato, in effetti, una porzione considerevole di tempo: due anni.

E quando, nei mesi precedenti alla partenza, venivo talvolta assalita da dubbi e incertezze, dicevo a me stessa che sì, dai, in fondo, dal 2021 a oggi sono stata una principiante diligente: ho cercato di dimorare il più possibile nel respiro, ho imparato a meditare seduta sulle panchine e nella camminata lenta, solcando piazze e percorrendo viali, avanti e indietro; ho meditato a casa, anche se appena venti minuti, lo so, pochini, però quasi tutti i giorni, puntuale, alle 18:30, rispondendo all’invito lanciato da Chandra Livia Candiani dalle pagine di Questo immenso non sapere, quando richiama la comunità diffusa dei meditanti a prendere posizione a quell’ora precisa, per condividere idealmente la pratica ciascuno per proprio conto, in un angolo appartato di mondo: “un appuntamento d’amore”, dice lei, per me una preziosa tana, quella manciata di minuti sullo Zafu.

A luglio inoltrato di quest’anno, dunque, rieccomi al Sangha dove ritrovo in un lungo abbraccio Luisa, l’insegnante; riscopro, inoltre, fin dai primi passi sulla ghiaia, lasciata l’automobile al parcheggio, il parcheggio alle spalle, quel tempo scandito solo dai suoni sublimi di natura, l’incessante frinire di cicale e grilli, richiami di uccelli in un gaio fraseggio noto ad essi soltanto. Ritrovo me stessa, mi sento a casa, felice di essere risalita al Pian dei Ciliegi per il mio secondo lancio nel vuoto. 

Tutto rallenta, questo lo ricordavo, sfiorando l’immobilità e da subito impone un reset molto forte, che può disorientare: le ore si dilatano a dismisura e, se rimani, devi accettare di rinunciare a contare i minuti, a spezzettare e misurare il tempo. Tu puoi solo stare nel presente, nel suo continuo fluire, come un surfista provetto mantieni l’equilibro cavalcando l’onda, l’incantevole istante che continuamente stai vivendo. Questo anche risulta impegnativo perché la tentazione è sempre la stessa: rammentare il passato, immaginare il futuro, nostalgie e rimpianti, ansie e aspettative. Arabeschi mentali simili a ragnatele, da spazzare via: tossine, trappole. Stai in quello che fai: stai meditando? Medita. Stai mangiando? Mangia. Stai camminando? Cammina. Stai guardando un albero, il cielo, una farfalla? Bene: guarda albero, cielo, farfalla.

A una delle pareti della sala mensa è appeso un quadro che incornicia una domanda: Cosa sto facendo? Non me la ricordavo, la grande calligrafia stampata, e ogni volta che lo sguardo si posa sull’interrogativo mi pare di trarne una lezione, tentando di darmi una sola risposta. Il pensiero per un attimo fugge via, lontano da lì, alle tante persone che incrocio per le strade di città: gente che sfreccia in bicicletta mentre, AirPods alle orecchie, intrattiene conversazioni telefoniche concitate, una mano al manubrio l’altra che fruga in borsa… ma-cosa-state-facendo?

Oppure considero me stessa, inguaiata nella mia forzata casalinghitudine del fine settimana, quando alle prese con detergenti, aspirapolvere e mocio, non faccio altro che sbuffare, accorgendomi che mi pesa sempre di più questo surplus di lavoro non retribuito, allora mi arrabbio perché non ho aiuti – prima li avevo, accidenti! – quindi scattano le ruminazioni di livore, poi le ansie sul “come farò”, poi rispondo al telefono e mentre avvio uno scambio sbrigativo, cellulare serrato tra spalla e orecchio, porto a termine la pulizia del lavandino infilando l’angolo della spugnetta nel troppopieno… macosa-sto-facendo?

Chiedersi semplicemente cosa stiamo facendo, in questo nostro tempo declinante fatto di fretta e furia, ci porta davanti allo specchio, impietosamente rivelandoci a noi stessi, con le date di scadenza ormai superate da un pezzo di quelli che fino a non molto tempo addietro parevano, a molti di noi, ancora obiettivi perseguibili e auspicabili, l’efficienza del multitasking, illusioni anacronistiche di vanitose performance. Ho letto un articolo, di recente, sulle pagine online di una testata nazionale, che celebrava la sperimentazione di arti supplementari da potere indossare, come una giacca, che “in un futuro non troppo lontano ci consentiranno di compiere sempre più azioni contemporaneamente”: fare-sempre-più-cose. Wow. Wow?

Eppure, mediamente, siamo inquieti, ansiosi e lamentosi, insoddisfatti, frustrati e stanchi, nonostante ci si incaponisca a convincersi del contrario: wow-nonostante. Uno sgradevole senso di oppressione s’alza come marea che non sai se vedrai riabbassarsi; sempre più spesso, poi, la voglia di staccare tutto. Altro che pin, puk, token. L’impulso di un gesto simbolico che grida una sola parola: basta. Questo, a grandi linee, lo scenario attuale per quella che inizia ad assumere la consistenza di una massa crescente di esseri umani.

Allora, il solo modo di uscire dalle nostre gabbie mentali, stando in mezzo ai boschi dei Colli Piacentini, è sempre solo quello: m e d i t a r e, concentrando la propria attenzione sul ventre, quel movimento della pancia che respirando, immancabilmente, va su e poi torna giù. 

Su e giù e su e giù… Non c’è altro, qui, ma non è affatto poco. Poi, talvolta squarci, lampi di consapevolezze: sospendere giudizi e sentenze, accogliere il dubbio e gli stupefacenti germogli che in esso dimorano; imprese quasi titaniche, in un’epoca come questa di spinte polarizzazioni e profonde spaccature. Tuttavia, sempre più spesso, ho come l’impressione che occorra liberarsi dalle innumerevoli tagliole dualistiche: bello/brutto, mi piace/non mi piace, buono/cattivo, giusto/sbagliato, amico/nemico, sinistra/destra, pro/anti, eccetera/eccetera. Di questo passo, altrimenti, saremo perdenti e perduti: una volta frantumato, il popolo è vencido.

Torniamo al Sangha. Le giornate iniziano sempre con la campana delle cinque e la meditazione camminata, poi quella seduta, poi c’è colazione e avanti fino a sera – con le sole pause del pranzo delle 12 e dello spuntino delle 17 – si alternano continuamente le pratiche di meditazione sedute e camminate, sempre della durata di un’ora. Una “full immersion”, non c’è che dire, ma è proprio lì l’arcano: solo attraverso un percorso intensivo si riesce a trarre l’adeguato insegnamento, un carico di semi e fiammelle da portarsi a casa, per provare, a nostra volta, a continuare a praticare nel tentativo seppur goffo di farne qualcosa, di tutto quell’intenso lavorìo. A volte penso: non sarebbe stupendo se ognuno di noi, risucchiato nella propria quotidianità, riuscisse a “fare Sangha”? In famiglia, sul lavoro, nel vicinato, nelle cerchie amicali, disseminare tutto l’ardore pazientemente distillato al Pian dei Ciliegi?

I precetti da osservare sono naturalmente gli stessi di due anni fa: il rispetto del Nobile Silenzio, la disattivazione di tutti i device, lo svolgimento di piccoli incarichi da parte di ognuno di noi a favore della collettività; a me assegnano il riempimento delle caraffe ai tavoli della sala mensa: ogni giorno controllo tre o quattro volte, in brevi pause che mi ritaglio durante le meditazioni camminate, e ogni volta effettuo rabbocchi di cinque o sei litri. Mi piace molto il mio compito, parendomi un gesto simbolico, consentire ai miei compagni di placare la sete trovando sempre la brocca piena.Cosa sto facendo? Verso l’acqua.

A differenza del 2021, decido di spegnere il cellulare e di non riaccenderlo fino alla partenza, mai mai mai, nemmeno per controllare i messaggi, niente. Black out. E nonostante io sia già un soggetto in deciso allontanamento dal proprio smartphone, che nel tempo extra lavorativo spesso lascio a casa o in modalità aereo, devo ammettere che mi sorprendo nello scoprirmi un po’ perduta, preda di un sottile stato di disagio da quasi astinenza.

Metto a fuoco che la connessione alla Rete sta diventando un cordone ombelicale di ritorno, che il potere che questi aggeggi si sono presi su di noi, sui nostri modi di gestire i rapporti interpersonali, è molto più radicato e insidioso di quanto non si riesca a immaginare stando a bagnomaria nella quotidiana ordinarietà. 

Ma la scoperta davvero illuminante avviene al terzo giorno, nell’istante in cui capisco che al Pian dei Ciliegi io non sono in una bolla, come mi pareva d’essere desolatamente piombata al mio arrivo. No davvero: è l’esatto contrario! Al Sangha io mi trovo al di fuori della bolla dove tutti noi trasciniamo le nostre esistenze iperconnesse, l’abnorme bolla da cui provengo e da cui verrò nuovamente fagocitata nel giro di qualche giorno.

Anzi, di più: il Pian dei Ciliegi potrebbe giungere ad assomigliare a una sorta di enclave. In ogni caso, questo è certo, rappresenta una meta importante, che può consentire il recupero di sé stessi e l’acquisizione di nuove sorprendenti chiavi di lettura del reale. Immersa nel bosco, avverti che la tua essenza viene benevolmente accolta, non è minacciata, mai oltraggiata né mortificata. Assumi costantemente una postura eretta, non ti ingobbisci sullo smartphone, aggrappandotici col grugno o sorrisi sornioni. Schiena dritta, sguardo in avanti a perdersi nelle cento sfumature di verde del fitto fogliame, fino a spingersi in lontananza ad accarezzare i sinuosi profili collinari. 

Nella bacheca all’ingresso del centro è affisso il codice di comportamento; tra le altre cose, si legge: “Ci piace sottolineare il valore del ritiro in quanto dimensione difficilmente accessibile nella società moderna”. In effetti, mi domando se sia ancora possibile trascorrere intere giornate in compagnia di altri esseri umani (in questo caso ventiquattro adulti dai venti ai settant’anni), in possesso delle proprie facoltà mentali e liberi, ossia non in stato di detenzione carceraria, che risultino tutti contemporaneamente e costantemente sprovvisti di cellulare alla mano. Non mi viene in mente altro contesto se non quello, appunto, di un ritiro presso un Sangha.

Alla sera, unica eccezione, il Nobile Silenzio viene interrotto per formulare gli auspici di Mettā, l’amorevole gentilezza. Essi vengono indirizzati, sotto forma di canto in lingua pāli, prima a noi stessi e poi, a mano a mano, agli altri meditanti, al vicinato, ai nostri cari e via così fino a rivolgere questi pensieri di benevolenza a tutti gli esseri viventi, spargendoli in ogni direzione, non solo verso Est e verso Ovest, verso Nord e verso Sud, ma anche: Sud-Est, Nord-Ovest, Nord-Est, Sud-Ovest. Gli auspici: essere al sicuro e lontano dai pericoli, essere in pace e in buona salute, avere cura di sé stessi ed essere felici. Tuttavia essi sono, appunto, auspici: non ci si azzarda a considerarli alla stregua di diritti. A nessuno spetta niente, sia ben chiaro, se non la facoltà di coltivare aspirazioni che siano compatibili con gli altri viventi e con la Terra.

La Mettā è potente – ripenso alla scritta all’ingresso del SERMIG, l’Arsenale della Pace di Torino: La bontà è disarmante– e mi induce a considerare il bisogno estremo che abbiamo di ritrovare proprio quella cosa lì: il senso del bene comune, e poi sì, anche le vie di mezzo, i punti cardinali intermedi, la molteplicità, a sanare le diatribe, ricucire gli strappi, ricomporci, nei modi e nei toni, poi nel linguaggio: tanto fintamente inclusivo negli intenti proclamati, quanto sempre più pronto a degenerare per un nonnulla in risse verbali, sciatte e aggressive.

Dio mio, come sarà difficile bonificare la nostra martoriata società… quanto lavoro ci aspetta. Ma cos’altro potremmo fare per evitare il peggio se non provare a immaginarla e poi però, una buona volta, a riprometterci anche di imboccarla, quella nuova straordinaria rotta che in tanti, da tanto, vagheggiamo? Quand’anche non giungessi nemmeno a scorgere l’approdo (temo che sarà così) avverto sempre più impellente il dovere di adoperarmi affinché vi possano arrivare altri, altri riescano almeno a salpare, umani che non conosco, ma che sono fratelli e sorelle d’anima a cui augurare vite migliori delle nostre: vite più sobrie, emancipate e solidali ma-non-tanto-per-dire.

Rivendicare la felicità individuale alimenta una visione narcisistica e sterilmente onanistica dell’esistenza, non porta in nessun luogo, condannando al buio asfittico dei vicoli ciechi. Il vero balzo in avanti avverrà se e quando riusciremo a edificare una nuova idea di felicità, collettiva, diffusa, condivisa, ma soprattutto affrancata dai consumi: una felicità fatta di noi e da noi soltanto, a mani nude e libere.

Nel tempo che mi resta prima di partire per fare ritorno alla bolla abnorme, riesco sempre più nitidamente a contemplare, con somma gratitudine e indulgenza, il mio quieto respirare, accorgendomi del ventre, lo stupefacente moto ondoso pelagico di una pancia di cinquantasette anni: finché dura, pura meraviglia che mi fa sentire minuscolo impermanente mare calmo. 

Mots-clés__Undateable

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Undateable
di Letizia Imola

Gigliola Cinquetti, Non ho l’età -> play

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Da: Marcel Proust, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, trad. di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori 2014, p. 2056.

«D’altronde, che noi occupiamo un posto in continua crescita nel Tempo, tutti lo sentono, e questa universalità non poteva non rallegrarmi poiché era la verità, la verità sospettata da ciascuno, che io dovevo sforzarmi di chiarire. Non solo tutti sentono che occupiamo un posto nel Tempo, ma questo posto anche i più semplici sono in grado di misurarlo approssimativamente così come misurerebbero quello che occupiamo nello spazio, dal momento che anche una persona non particolarmente perspicace, vedendo due uomini che non conosce, tutti e due con i baffi neri o tutti e due rasati, dice che sono due uomini l’uno d’una ventina, l’altro d’una quarantina d’anni. Spesso ci si sbaglia, certo, in questa valutazione, ma il fatto stesso che si ritenga di poterla fare significa che si concepisce l’età come qualcosa di misurabile.»

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave. Poiché l’agosto è lento, questo mese il post esce nella seconda domenica.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Balla balla ballerino

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di Pasquale Vitagliano

L’11 settembre più drammatico per un’intera generazione, che sognava un mondo libero e giusto, è stato nel 1973, l’anno del colpo di stato in Cile. Non quello del crollo delle Torri Gemelle nel 2001. Quanti “11 settembre” ha conosciuto l’Italia dalla bomba di Piazza Fontana nel 1969 a Milano all’esplosione nella stazione di Bologna il 2 agosto del 1980? Basta soffermarsi a pensarci un istante per cogliere l’anomalia storica del nostro paese. Paolo Morando con la sua ricostruzione della Strage di Bologna – Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito (Feltrinelli, 2023) va oltre e più a fondo. Ormai si fa fatica a ricordare, ci sollecita, che prima del 1980 le bombe esplodevano ancora numerose, anche se non facevano morti, “in giornate punteggiate dalle azioni che il terrorismo di sinistra dispiegava in tutto Italia”. Non tutti, tuttavia, furono assopiti dalle prime onde di riflusso. Un magistrato, Mario Amato, cui il libro è dedicato, si rese conto che la “guerra” non era ancora terminata. Senza di lui (ucciso dai Nar il 23 giugno 1980), oggi non conosceremmo mandanti ed esecutori dell’attentato terroristico più grave nella storia italiana.
La parte più intensa del libro di Morando, però, s’incentra su quello che viene definito il “perdono tradito”. Sì, Francesca Mambro poté uscire prima dal carcere grazie alla lettera di perdono di Anna Di Vittorio e Gian Carlo Calidori (nell’esplosione aveva perso un amico). Ciò non impedì a lei e a Valerio Fioravanti di accodarsi alla comoda tesi innocentista che sosteneva la responsabilità di Mauro Di Vittorio (vicino a Lotta Continua e fratello di Anna), vittima della bomba che trasportava. In verità, sono poi arrivate altre inchieste e altre sentenze di ergastolo. Quella a carico di Gilberto Cavallini, dei Nar come Mambro e Fioravanti, e quella a carico di Paolo Bellini, dell’area di Avanguardia Nazionale. Mentre la prima smonta per sempre la narrazione dell’azione di un gruppo di esalatati ideologizzati; l’altra accerta i mandanti nella P2 e l’esistenza di un’operazione a lungo studiata e preparata nei dettagli, con imprevedibili coperture da parte di pezzi infedeli dello Stato. Morando, infine, ricorda l’infondatezza della “pista palestinese”, già raccontata nell’ottobre del 2012 da un’inchiesta de Il Manifesto, e fino alla richiesta di archiviazione dell’indagine presentata e ottenuta nel 2014 dalla Procura della Repubblica di Bologna.
Rivivono i veleni di una stagione che ancora non vuole concludersi: la quarta di copertina scrive una facile profezia. Ancora quest’anno, sempre in occasione delle celebrazioni,  il portavoce della Regione Lazio, Marcello de Angelis, rilancia la tesi innocentista. “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Le sentenze, invece, hanno parlato.
Con l’autore di questo libro importante condividiamo molti ricordi. Lo ringrazio per avermi ricordato che Lucio Dalla dedicò alle vittime di Bologna la canzone Balla balla ballerino. Ferma con quelle tue mani il treno Palermo-Francoforte/ Per la mia commozione c’è un ragazzo al finestrino/ Gli occhi verdi che sembrano di vetro/ Corri e ferma quel treno/ fallo tornare indietro. Non è sentimentalismo se alla constatazione che Mauro Di Vittorio sia stato ucciso molte, vorrei lasciare la suggestione che il treno poi si sia potuto fermare. E tutti i passeggeri scesero sani e salvi.