Home Blog Pagina 3

La violenza potenziale. Figli vostri di Lorenzo Rossi

0

di Matteo Cristiano

Al tempo stesso, dare voce alla propria rabbia non può escludere il ricorso potenziale a mezzi violenti: arrabbiarsi per l’oppressione subita implica la rivendicazione della propria dignità. Una dignità che non consente più di accettare pacificamente quanto si è incassato fino a quel momento.

Franco Palazzi, Politica della rabbia

 

Poco prima della stampa, questo libro avrebbe dovuto portare il titolo di Topi bianchi. Si è optato, all’ultimo, per il titolo che leggete, Figli vostri. Titolo che credo sia effettivamente calzante, riuscito. L’inversione dell’aggettivo possessivo riesce a trasmettere un che di assertivo, perentorio. Io, dopo aver finito il libro, me lo immagino pronunciato a denti stretti alzando la voce. Come se fosse un’affermazione fendente, un rinfacciare una verità scomoda.

Anche topi bianchi aveva il suo perché, poteva essere altrettanto rappresentativo. Compare nel testo all’altezza di un quarto del libro circa, a pagina 58: Rita, un personaggio appena entrato in scena, racconta questa storia:

 

Rita allora ci racconta che quattro coppie di topi furono rinchiuse in questo paradiso senza pericoli, si moltiplicarono fino a superare i duemila esemplari ma alla fine si estinsero.

“Come è successo?” chiedo.

“I topi più anziani iniziarono a divorare i figli, ecco come è successo” con l’indice ben teso tocca il legno del tavolo. “Gerarchia” un colpo. “Prevaricazione” un altro colpo. “Cannibalismo” un altro ancora».

 

Gerarchia, prevaricazione, cannibalismo. Ma anche: destrutturazione dei ruoli, incapacità di redistribuire le funzioni sociali. Sono i risultati dei celebri esperimenti di John Bumpass Calhoun svolti tra gli anni ’60 e gli anni ’70 proprio su una colonia di topi. L’obiettivo dell’esperimento era comprendere i comportamenti della popolazione in un ambiente dove gli ostacoli alla sopravvivenza fossero pressoché azzerati (nessun predatore, impedimenti spaziali abbattuti, risorse primarie illimitate).

 

Many were unable to carry pregnancy to full term or to survive delivery of their litters if they did. An even greater number, after successfully giving birth, fell short in their maternal functions. Among the males the behavior disturbances ranged from sexual deviation to cannibalism and from frenetic overactivity to a pathological withdrawal from which individuals would emerge to eat, drink and move about only when other members of the community were asleep. The social organization of the animals showed equal disruption. Each of the experimental populations divided itself into several groups, in each of which the sex ratios were drastically modified.[1]

 

In alcuni momenti e spazi particolari della gabbia, la mortalità infantile raggiunse il 96%. Anche in una condizione di illimitatezza di risorse una forma sociale può collassare proprio sulla base dell’ordinamento prestabilito.

Figli vostri però è più calzante perché lo sento molto in risonanza con alcune frasi di Martina Micciché dal suo libro Femminismo di periferia (Sonda, 2024):

 

Ci danno un nome per potersi dimenticare di noi. Per renderci trasparenti. E noi siamo nelle strade, nelle piazze, nelle case, negli uffici, nelle fabbriche, nelle maglie del mondo sommerso, a ritagliarci uno spazio. A ricordare chi siamo. Che siamo qui. Tangibili, come l’asfalto della città.

 

Se nel caso del libro di Miccichè il nome di cui si discute è quello della periferia, credo che il nome con cui il centro di potere possa etichettare la storia di Figli vostri possa essere fallit*. Sì, questo romanzo inscena la vita di personaggi che potremmo definire falliti, tutti e tutte. Il primo fattore di rifrazione dell’atmosfera narrativa è il lessico: dalle prime pagine del libro si registrano forme verbali e aggettivi e immagini incentrate sul decadimento. Del corpo, del tempo, dello spirito, della vita, degli spazi. Attraverso il filtro del protagonista, significativamente chiamato Uno, il singolo, la videocamera della lettura ci proietta ambienti sporchi, grigi: «La vecchia testiera sbatte […] il primo piede che appoggio, muove una mattonella che balla. […] I segni di muffa nelle intercapedini dei muri non vanno via neanche strofinando con tutta la forza che ho. Tutto è vecchio e necessita di essere sostituito, l’intonaco del soffitto si scolla con il caldo e il frigo perde» (p. 18). L’ambientazione della storia non è specifica, non è una città localizzata, così come non sono specificate le coordinate temporali. In verità, questo è l’aspetto a mio avviso più limitato della storia: i cronotopi sono leggermente smagliati nonostante siano necessari per il tipo di narrazione. Ma il sacrificio degli appigli narrativi spaziotemporali è compensato dalla focalizzazione interna del narratore: è il mondo di Uno che deve essere rappresentato, perché Uno guarda il mondo con gli occhi del fallito, senza illusioni.

Conviene forse specificare un poco questa categoria: per come lo intendo, l* fallit* sono quegli individui che, secondo le logiche di crescita, di autoaffermazione, di self-made, non agiscono e non raggiungono gli obiettivi minimi di guadagno di capitale sociale (tutto in logica occidentale, chiaramente). Non è una persona che ci ha provato e non ce l’ha fatta, è una persona che è implicitamente impossibilitata a provarci. Non si scia a partire dal basso.

Uno ha perso il padre a undici anni, e anche il padre era questo fallito: «È morto per un tumore pleurico, causato da inquinanti, dopo svariato tempo trascorso in ospedale» (p. 229). Uno ha anche vissuto la morte di uno dei suoi migliori amici, Palmo, morto in un incidente d’auto a diciannove anni. Tutto scorre, ma senza misticismo filosofico: tutto scorre e ce lo si ritrova dietro le spalle senza avere la facoltà di trattenerlo, tutto scivola dalle mani e si dilegua. Ciò che rimane è il nulla, se non l’attesa dell’azione successiva, questo meccanicismo dell’esistenza insensata. Questa atmosfera ha una contestualizzazione, dei puntelli: Uno è laureato in filosofia, ha «letto Feuerbach e Nietzsche, Schopenhauer e Bergson» e pare che di questa filosofia sia rimasta solo la pars destruens, avendo spogliato ogni cosa del suo possibile significato. Ad appesantire ulteriormente il senso di inesorabile perdita e di nullità c’è anche una figura, la prima figura allucinatoria, che è quella di Cioran. Tra i pensatori del Novecento Cioran è sicuramente quello dal nichilismo più radicale e senza speranza, e come tale si presenta a Uno affiancandolo nella sua vita quotidiana, nel viaggio sull’autobus o a casa sua. Cioran è la voce della disperazione cosciente, del compiacimento del senso di morte: si presenta come una figura mefistotelica, accompagnata di solito da una sensazione olfattiva «di stantio, di spazi chiusi» (p. 22), un po’ come il Conoscente di Umberto Fiori, una figura diabolica che conosce l’interiorità del personaggio e ne sobilla l’afflizione, la disperazione: la frase che Cioran ripete a Uno nelle prime pagine è perché continui ad alzarti? Una volta che si svelano le quinte e i cinici meccanismi scenici vengono alla luce, vedendo «le persone che girano già assenti» (p.18), sapendo che «Ti ritrovi a fluttuare nel niente e non sai niente di prima e dopo» (p. 71), cosa spinge ad alzarsi dal letto, ad esistere?

È probabilmente questa la domanda centrale del libro, il quesito da cui poi si svolge la narrazione, una narrazione sospesa tra noir e poliziesco: Uno, che lavora in una redazione di un giornale locale, viene introdotto ad un gruppo pseudo terrorista da Franco, suo collega. Anche Franco, come tutta la banda, ha compreso l’insensatezza dei giorni che passano e delle esistenze rubate, ma sa che la disperazione non è una forma attiva di esistenza. Franco sa anche che per definire degli individui come falliti, c’è bisogno di un centro di potere che nomini, che detti le leggi: c’è quel 99% di popolazione mondiale che vive materialmente e virtualmente sottomessa a quell’1% che detiene il monopolio della ricchezza, e quindi della possibilità. Queste persone non possono fallire perché si sono trovate, involontariamente come tutt*, a vivere nelle condizioni della possibilità. Le loro scelte, i loro investimenti, i loro interessi sono quelli che definiscono la vita di tutte le altre persone del mondo, facendole fallire in partenza, definendo la loro umiliazione d’esistere. Nel primo capitolo, queste persone si trovano con le pistole puntate alle tempie, sopra una dose di GPL altamente esplosivo che metterà la parola fine alla loro condizione di privilegio. Il gruppo in cui Uno viene incluso, sempre per inerzia, ha questo obiettivo: «un’equa rottura dell’illusione, una distribuzione di dolore uguale per ognuno di noi» (p. 137). Il che può sembrare banale, infantile, perché la cultura italiana vive di rimozione delle forme politiche di violenza, per partito preso. Dobbiamo a Franco Palazzi, in Politica della rabbia, una nuova forma di problematizzazione di un sentimento di solito rimosso. Un sentimento che, nella popolazione di fallit*, è stato addomesticato proprio per rendere naturali (la giustificazione più neoliberale del mondo) le forme di subalternità, di subordinazione. Non voglio spoilerare troppo di un libro che si muove per svolte narrative, quello che posso dire con certezza però è che Figli vostri mi pare riesca a sussumere in sé molte delle sensazioni condivise da buona parte delle persone nate dalla fine degli anni ’80: i miti sono caduti, la speranza di un boom di benessere non sussiste perché l’unico benessere di cui necessitiamo è quello psicosociale, abbiamo perduto la capacità di aggrapparci alle narrazioni perché non ci possiamo mai navigare dentro con serenità, consapevolezza e fiducia. Viviamo nella costante sensazione che tutto stia crollando e debba essere costruito da zero, nuovamente. Siamo in tant* ad immaginarci l’esplosione di Wall Street, di Eni, della NATO, degli Stati come li conosciamo, bisognerebbe solo prenderne coscienza. E la creazione artistica, la letteratura (e non specificamente la poesia lirica, come pensava Adorno), è sempre sintomatica, riesce a rendere manifesta con la forza del significante una condizione nascosta. Mi viene in mente, a questo proposito, quello che racconta Kaoutar Harchi, scrittrice e sociologa francese, nella conversazione con Joseph Andras nel volume Littérature et révolution (Éditions Divergences, 2024), «[…] dans la cadre de ma formation sociologique, j’ai été formée dans cette croyance que les choses sont cachées» (p. 36-37), riportando subito la riflessione nell’alveo dell’analisi marxista dei fatti creativi in Lucien Goldmann e in Pierre Bourdieu. Questo, si badi, sempre per chi intende la letteratura come prodotto complesso di reti significanti legate al contesto, alla Storia, e non per chi vede il fatto letterario come essenza del genio creativo.

È un libro da rapportare, a mio parere, a tutta l’animazione dal basso che sta scuotendo Università e piazze italiane e non italiane: la condizione esistenziale di noi fallit* ha riconosciuto la miseria, la noia, l’insensatezza, la subordinazione, ma abbiamo anche scoperto che al contrario di quello che poteva pensare la Thatcher, c’è una soluzione, e la soluzione è lo smantellamento dello status quo, la sovversione dei rapporti di forza. Lo si vede dal Movimento tende in piazza, dalle mobilitazioni contro i CPR, dalle occupazioni abitative, dall’impegno che tutti i giorni ragazze e ragazzi macinano per visibilizzare un genocidio svolto sotto il vessillo della democrazia; la verità è che è l’1% ad essere fallito, il resto lotta per vivere un’esistenza degna. Concludo con dei versi a me cari di Jessy Simonini, poeta, studioso e attivista vicino alle posizioni espresse sopra:

 

Mi spinge avanti un amore preciso

per chi non ha armi contro il dolore

 

odio con tutta la forza che ho

per il male che a loro è stato inflitto

 

[…]

 

preferiamo scrivere

nuovi e lucidi versi di guerra

lancia in resta nella nebbia

scegliamo un altro campo di battaglia

 

per difendere il mondo qui giù

 

mossi dalla rabbia

innestata ovunque

e dall’amore immenso per tutti loro:

i disprezzati dal capitale il cuore

di ogni rivoluzione.[2]

 

[1] Calhoun, J. B. (1970), Population density and social pathology, «California Medicine», 113, (5), p. 54.

[2] Jessy Simonini, Campi di battaglia, Sensibili alle foglie, 2021, pp. 21-22.

Friburgo

1

Di Alberto Comparini

 

9.

cerchi le mie aderenze nel mondo distingui l’osteosintesi
dai tessuti fibrosi cicatriziali distesa sul letto percepisci
i confini sfiorati accetti i suoi effetti tocchi gli altri tagli
superficiali sulla scapola destra afferri un altro punto fermo
fuggivo da me stesso quando parlavo in inglese e tedesco
il dottore ti voleva chiamare sindrome dolorosa regionale
ero una distrofia simpatico riflessa poi cronica complessa
mi aveva diagnosticato la ricerca di questo campo di senso
siamo vestiti di carne e parole ricordi ne scrutavi le forme
sul divano abbiamo tracciato insieme un angolo convesso
non servono i due lati per misurarne l’ampiezza in gradi
la soluzione appartiene al prolungamento delle tue mani

 

9.1.

è libero questo posto se vuoi puoi sederti
lo spazio si è ristretto hai accelerato i tempi
verbali le pause i pronomi alla cena sociale
mi chiedi chi sono cosa sei diventato perché
ci siamo conosciuti con due anni di ritardo

 

9.2.

il tiepido imbarazzo del giorno dopo le parole
discrete impastate a fatica tra i riti del mattino
ciao come hai dormito ieri sera sono stata bene
grazie non sono più abituato a dormire da solo
scusa ora devo andare il mio tempo è ridotto

 

9.3.

si è fatto tardi come fai a saperlo l’orologio
è fermo al fuso orario di un’altra vita ti spiace
se misuro il raggio dei tuoi fianchi la cucina
chiude alle ventuno dobbiamo fare in fretta
Alberto posso accarezzare la tua cicatrice

 

9.4.

sul ciglio della strada i fumi salivano alti tra filtri
cavi lancette e ingranaggi filanti il piombo fuso
dei tuoi capelli scaldava di parole le nostre grate
come potevano ignorare il riflesso delle pupille
siamo soli i soccorsi non sarebbero mai arrivati

 

9.5.

quella domenica mattina era ancora inverno sulla banchina della stazione di Friburgo
faceva un freddo tipicamente svizzero tedesco dietro le porte automatiche di un treno
in partenza le nostre dita cercavano di esprimersi con una grammatica sfocata di gesti
privati magari solo il cane al guinzaglio avrà notato i calzini dispari l’attrito dei vestiti
sgualciti i corpi stanchi consumati dall’incertezza dei passi prima di salire sull’Intercity

 

9.6.

aderisci al letto come una sagoma di vetro la gamba traccia
un arco sgraziato attorno alle lenzuola non ci sono pieghe
vie di fuga i vicini hanno sentito tutto a chi importa sapere
dove hai nascosto le impronte del tuo soggiorno a Trento
il collo la spalla il braccio addormentati sotto il tuo peso

 

9.7.

dicembre la terza ondata il ritorno della malattia i primi controlli sono
a gennaio non penso di farcela per la sessione estiva ti va se ci vediamo
in piazza Maggiore le mascherine avevano funzionato sei positiva sono
negativo se vuoi possiamo passare il Natale a Bologna per la quarantena
ho ancora un po’ di pesto un libro di poesie una traduzione di Paul Celan

 

9.8.

una sera al K come in quel locale con vista sulla Sarina in macchina
ascoltavi i frammenti di ossa accumularsi nei riflessi dei bicchieri
i racconti avevano preso una forma liquida sopra i tuoi vestiti non
appartengono più al presente i referti le sentenze terminali per adesso
ci lasciano sospesi sulla linea dell’alta velocità tra Bologna e Trento

 

9.9.

dopo un viaggio in Spagna il 21 aprile del 1960
Frank O’Hara ha scritto Having a Coke with You
nel 2008 un utente americano ha caricato un video
su YouTube l’amore dura quasi due minuti si può
ripetere in loop basta una connessione a internet

 

 

______

Alberto Comparini vive a Trento, dove insegna Letterature comparate all’Università. Suoi testi sono usciti su Le parole e le coseGAMMM Nazione Indiana. Friburgo è la serie numero 9 di un progetto intitolato In una scala da uno a dieci, un’anteprima è già apparsa su “L’Ulisse”, XXV, 2, luglio-dicembre 2022.

 

Racconti del postmitologico

0

di Romano A. Fiocchi

Livio Santoro, Le favole nuove, Edicola Edizioni, 2024.

Alcuni ominidi (del passato? Del futuro? Di un mondo senza tempo?) fuggono attraverso un bosco. Una marcia forzata con sette giorni di vantaggio. Su chi? Non lo sappiamo. Passano le notti ora arrampicati sugli alberi, ora tra le rovine di un edificio con parte del tetto crollata e un’antica bifora. Finalmente appaiono le rotaie, corrono lunghissime su una massicciata silenziosa. Bisogna seguirle. Ma dove portano? Non sappiamo neppure questo. La fuga continua, dormono in case cantoniere abbandonate, accendono fuochi, mangiano tarassaco, crespigno e cardi mariani. Incomincia a piovere copiosamente. Attraversano un ponte e si cibano di gamberi di fiume. Gli alberi diradano, si alternano prati e macchie boschive, infine è la steppa. Niente più case cantoniere ma sporadiche capanne di lamiere e legno marcito. Le rotaie proseguono e loro continuano a seguirle, sempre con sette giorni di vantaggio. La sera ingannano la fame raccontandosi storie inventate, evitano così di attingere alle memorie del prima (che è poi il titolo del racconto). Durante la marcia rinvengono la carcassa di un caprone ricoperta di ferite profonde. Chi l’ha ucciso? Ennesima domanda senza risposta. Lo sventrano entusiasti e ne mangiano il fegato. Avvistano infine la cordigliera e abbandonano le rotaie. Si rifugiano nelle grotte, si nutrono di pipistrelli cuocendoli sulle braci, con il loro sangue tracciano disegni sulla roccia. Si raccontano nuove storie, e storie di voci che raccontano altre storie. Favole nuove? I sette giorni di vantaggio non contano più. Contano i sette giorni di racconti e di disegni sulla roccia, i sette giorni di banchetti, il ‘sette’ come numero in sé.

Ho qui sintetizzato la prima delle ventotto storie che compongono Le favole nuove di Livio Santoro. Terzo volumetto di una trilogia di racconti, preceduto da Piccole apocalissi (2020) e da Commedie del vespero e della notte (2022), tutti usciti per la collana “Lo stivale” di Edicola Edizioni. Mi sono soffermato sul primo racconto in quanto si tratta di un corposo incipit che anticipa tutta la magia e la visione poetica di queste favole. Certo, c’è poi l’eleganza del linguaggio di Santoro, che è la sua cifra, e che contribuisce a proiettare questi brevi e brevissimi racconti – che variano da un massimo di sette pagine a un minimo di mezza paginetta – in un tempo tra il mitologico e il postmitologico. Sono storie di un mondo leggendario inesistente, racconti coerenti e compatti, scolpiti a uno a uno con precisione orafa, incastonati di vocaboli preziosi che attestano l’amore e il rispetto di Santoro per la lingua e al tempo stesso la sua capacità di manipolarla. Di manipolare anche i nomi propri inventando appunto nuovi eroi e nuove divinità: la compassionevole Lèmina, i primordiali Brali e Arnali, progenitori rispettivamente degli umani e dei cavalli, l’immensa vestale Calonia Vanià, il pantagruelico Mellio, le aggraziate Pondili Trosti Mararandi, l’imperatrice Euelinga Tricei, il giudice Serina detto l’Efferato o il Sanguinario o l’Integerrimo o il Giusto, Glodana Mosselet, Imaiami. Poi creature sconosciute come gli atrorsi, i dendrocefali morati, l’equivoco sànvalo.

Alcune storie sono leggende straordinariamente belle e crudeli, come quella delle due sorelle regine (Ex solum) che con i propri eserciti si disputano il controllo del regno, sino all’esilio e alla loro morte per inedia sopra una zattera che diventerà un’isola. Oppure racconti raffinati giocati su sottili variazioni semantiche, come I giardini prensili di Babilonia, dove piante e fiori afferrano (in quanto prensili) e divorano ogni intruso ma non solo: sono loro stessi ad avere edificato le mura e a tenere in prigione la città. Oppure ancora racconti cupi e inquietanti che sembrano narrazioni pittoriche di Bosch, come quello del cerusico ciarlatano Nomidio che estrae la pietra della follia dal cranio del matto Stassio Plaggioni. O ancora visioni cosmiche (La sua parola) descritte da esseri misteriosi la cui origine risale a ere indefinite, e che solo nell’epilogo lasciano intendere la loro identità.

A volte i testi rasentano la poesia, si rarefanno quasi fossero una prosa ermetica (Il mio primo sogno), si trasformano in litanie che potrebbero essere cantate da antichi aedi (Madre dal vasto grembo), ma in ogni caso conservano l’eleganza e la precisione della lingua, spesso arricchita di latinismi rari: «rubro» in luogo di rosso, «igne» in luogo di fuoco, «scopulo» in luogo scoglio e così via, che non sono – si badi bene – sfoggio di erudizione bensì vocaboli funzionali alla narrazione, elementi portanti dell’atmosfera arcaica (o postmoderna) in cui Santoro colloca le storie. Che si risolvono tutte, così come nelle precedenti raccolte, in un finale inaspettato, illuminante o viceversa enigmatico, comunque arguto, come ad esempio le uniche parole pronunciate improvvisamente dalla bestia: «Mi disse per favore, Lèmina, non mi raccontare quelle vecchie, raccontami piuttosto le favole nuove».

C’è anche dell’ironia, strumento che Santoro utilizza proprio per sdrammatizzare certe immagini, come nel caso del comportamento marziale e ottuso delle milizie «in quanto appunto milizie», o per smorzare la malinconia che ispirerebbero personaggi come Mellio, rovinato dalle pessime buone intenzioni della gente che lo nutre in modo così smodato da fargli raggiungere le dimensioni di una montagna riconoscibile a distanza. Per cui – questa volta ironica – ecco la consueta imprevedibile battuta finale del racconto: «Lo vedi? Sì, è proprio quello lì. E lo vedi che la vetta anche adesso si muove? Esatto, Mellio sta masticando ancora».

Necrologio (nuovi autismi # 34)

3

di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È sempre un compito penoso ricordare chi se ne è appena andato. Diciamo la verità, quando muore qualcuno ci si dice che sarebbe potuto benissimo capitare a noi, o insomma che i prossimi della lista forse siamo noi, senza che lo subodoriamo. Si ha quel brivido lungo la schiena di quando un grosso vaso salpato da un decimo piano ci sfiora la tempia, soffiandoci sulla pelle un’arietta di gelida fatalità. Tanto più quando il defunto ci era prossima per età e abitudini, più che prossima, quasi una controfigura, e quindi lo scambio dei destini non appare poi così improbabile. E a ben vedere anche le considerazioni che si tirano fuori nei necrologi risentono di questa inconfortevole sensazione di prossimità della morte. Si arbora la mestizia, ma grattando bene sotto la tristezza affiora la strizza. Questa è la tipica frase sentenziosa che avrebbe potuto mettere lì lui, detto per inciso. Si parla di un’altra persona, uno che adesso è deceduto, ma si pensa a sé stessi, al panico di non lasciare nulla dietro, di non valere nemmeno un onesto necrologio su un quotidiano di provincia. La morte naturalmente spaventa, ma terrorizza ben di più la contabilità conclusiva che essa implica. Un po’ come l’uscita da un ristorante costosetto dove ci siamo abbuffati, avrebbe commentato lui, con la sua dizione sempre un po’ impastata.

Nel caso di Giacomo Sartori le acque sono ancora più melmose, chiunque abbia avuto modo di conoscerlo da vicino può confermarlo. Non è semplice scrivere il necrologio di una persona che tutti sanno essere stata molto spiacevole (avevo quasi la tentazione di usare il presente, quasi i suoi difetti si perpetuassero anche dopo il decesso). La realtà è che sotto il suo fare mellifluo e gentile, quasi sottomesso, era un gran rompicoglioni, un arrogante sputasentenze, nemmeno i salti mortali retorici più arrischiati potrebbe nasconderlo. Un inguaribile megalomane, direbbe qualcuno. Con questo non voglio censurare le sue qualità letterarie, intendiamoci. Ma in tutte le cose, anche nel cercare il buono, c’è una misura, vanno messi dei limiti.

Un necrologio vale qualcosa se dice la verità, anche se forse non tutta la verità, lui sarebbe il primo a darmi ragione. Confesso allora che farei molto volentieri a meno di confezionare il suo. Devo essere franco, avrei preferito che fosse qualcun altro a decantare quell’incostante personaggio del quale volente o nolente ero un intimo (amico forse è dire troppo, visto il suo carattere). O meglio, se davvero voglio essere totalmente sincero, costi quel che costi, e come lui avrebbe appunto voluto (stavo per dire “vorrebbe”) che fossi, se insomma cerco di essere per una volta all’altezza delle sue smodate aspettative letterarie (un necrologio è pur sempre letteratura, su questo lui stesso avrebbe insistito), devo confessare che ho cercato in tutti i modi di sottrarmi. Il direttore del giornale locale però ha insistito, mi ha convocato nel suo spazioso ufficio per dirmi che nessuno può parlare di lui come posso farlo io, che lo frequentavo da sempre.

Ma dobbiamo per forza parlarne?, gli ho chiesto io, guardando nel fondo dei suoi occhi mai sazi della pedissequa ripetitività della provincia. Lui mi ha fissato senza sapere se scherzavo o meno, perché effettivamente ogni tanto sparo fuori delle battutacce di dubbio gusto, anche un po’ macabre. Scandendo le parole come si fa con i portatori di deficienza mi ha detto che era pur sempre uno dei pochi scrittori di origini locali che ha sempre pubblicato con editori nazionali, diversi suoi romanzi sono stati tradotti in altre lingue, alcuni hanno ricevuto dei premi internazionali. Certo ha vissuto quasi tutta la sua vita in una capitale straniera, e non è mai stato tenero con la nostra regione, facendosi beffe di tutto e di tutti, ma questo non vuol dire, è un po’ l’influenza austriaca, mi ha detto, strizzando le sopracciglia. La frase non era certo farina del suo sacco, perché lui la letteratura austriaca la conosce come io conosco le lingue uto-atzeche ma a questo ero abituato.

Io queste cose sono il primo a saperle, ma so anche che aveva qualche diffettuccio, ho ribattuto, mimando con le mani a pagoda un’alta montagna. Lui ha alzato gli occhi al cielo, perché con me alza spesso gli occhi al cielo, ormai è un riflesso condizionato. Pensa che abbia delle doti, ma che sia anch’io un grande rompicoglioni.Tutti gli uomini hanno difetti, ma quando si fa un necrologio li si dimentica, o insomma li si mette in sordina, magari citandone qualcuno sotto una veste comica, mi ha istruito.

Sono quindi uscito dal suo ufficio con vista sul parcheggio multipiano risultato della speculazione edilizia della quale non si può parlare, perché c’è di mezzo la curia, e la curia è la curia, anche nel duemilaventiquattro. Mi dicevo che tutte le frasi che mi venivano in mente non sono frasi che si dicono in un necrologio, che sarebbe stata dura. Cercherò di fare il mio meglio, ho finito per dirmi.

A casa però sono cominciati i problemi seri. Non mi veniva niente. Nemmeno una parola. Per la prima volta in vita mia avevo la sindrome della pagina bianca. Guardavo l’albero sotto il mio studio, e avrei voluto essere anch’io un tronco occupato solo a fare il tronco. Come mettere in avanti le sue qualità senza almeno dare un’idea degli imperituri difettacci che costituivano il suo marchio di fabbrica, come scindere le une dagli altri, inestricabilmente appiccicati? Come dire che scriveva delle belle cose senza specificare che a ben guardare era l’unica cosa che faceva bene, che era il solo e unico punto a suo favore? Come tacere che era un disastro in tutti i tipi di rapporti, che aveva sabotato via via tutte le sue relazioni famigliari e di amicizia e professionali e amorose, spesso e volentieri usando l’arma impudica della scrittura, ridicolizzando chi gli era più attaccato, rivelando indicibili dettagli intimi, sacrificando quello che è più prezioso, certo nella velleità di acchiappare lettori e sfornare un bestseller, cosa che non gli è mai riuscita, era il primo a saperlo? Come nascondere che l’unica cosa che gli premeva, l’unica per la quale aveva una morale, seppure svergognata, e una dignità, era scrivere, vale a dire saccheggiare le vite altrui? Come tacere il dubbio che fosse semplicemente un misantropo, un nuovo Pavese? Avevo accettato di buttare giù un pezzo che mai avrei potuto scrivere, un pezzo impossibile. Quando il mio vanto è quello di scrivere con brio e acume di qualsiasi cosa vogliono che scriva.

Il tempo passava, e la pagina del programma di scrittura rimaneva grigiognola. Grigiognolissima. Tanti pensieri, pensieri che non si potevano confessare, e nemmeno una riga scritta. L’albero cominciava a imbrunire, sembrava averne abbastanza di fare l’albero a mio uso e consumo. A un certo punto mi ha chiamato il caporedattore, con il suo solito tono un po’ seccato. Mi chiedeva se per cortesia potevo mandargli seduta stante il mio pezzo. Certo, ho risposto io.

Solo che questa volta non mi ero solo dimenticato di inviarlo, o anche avevo rimandato fino all’ultimo di scriverlo. Questa volta non potevo buttare giù una pagina in quattro e quattr’otto. Non perché non sapessi cosa dire, adesso, ma perché avevo troppe cose da dire. Troppe cose brutte. Tremende. Questa volta proprio non me la sentivo di scrivere quello che si aspettavano scrivessi. Poi quando l’albero ha acceso la lampada giallognola sul suo comodino mi sono lanciato, non potevo rimanere lì fino a mezzanotte. Farò quello che posso, mi sono detto. Ho scritto insomma quello che state leggendo.

Ecco, i caratteri che avevo a disposizione sono quasi finiti, e non ho detto poi molto del compianto (l’espressione che si usa in questi casi è questa) Giacomo Sartori. Un necrologio non può essere troppo lungo, anche la vita più avventurosa e rocambolesca – e non è il suo caso – viene a noia, se si tirano le cose troppo per le lunghe. La tensione cala, il pathos si annacqua, guastando perfino la commemorazione più struggente. Me li ha insegnati lui questi trucchi, o insomma mi ha insegnato a vederli più chiaramente di quanto non facessi prima. Per quanto riguarda la scrittura, e solo per questo, era implacabile anche con sé stesso. Questo non gli impediva peraltro di zigzagare nel balneario della letteratura nazionale come si rigirano gli elefanti nei negozi di bicchieri di cristallo, provocando crolli e cascate di rotture. E quindi a questo punto quello che è detto è detto, si avvicina l’istante del punto finale. La morte è anche proprio il cruento confronto con i limiti delle esistenze umane, con l’inettitudine delle parole nei confronti del mistero della vita.

Diciamo le cose come stanno, Giacomo Sartori non ci mancherà. Probabilmente quasi nessuno si accorgerà che non c’è più, nessuno si curerà della sua sofferenza di non avere avuto il riconoscimento che nel suo delirio altezzoso pensava di meritarsi. Un po’ mi dispiace, perché in fondo qualche qualità l’aveva, anche se forse dentro di lui – per quanto mi era dato vedere – tendeva a enfatizzarla un po’ troppo, e a nascondersi le pecche che tutti vedevano. Certo lui sarebbe molto contrariato, che non abbia tessuto i suoi elogi senza l’ombra di ombre o mezzitoni, come prevede il codice retorico dei necrologi. Così come certamente lo avrebbe indisposto essere presentato come un autore grandemente sottovalutato, un genio incompreso (avrebbe sparato a zero contro l’assenza del senso del ridicolo dei quotidiani di provincia), perché lui aveva sempre da ridire su tutto, ma questo aprirebbe un altro discorso ancora. Quel che è certo è che mi è impossibile non immaginarmi le sue reazioni, per assurdo che possa apparire. Qualche volta ho l’impressione di essere un suo clone, o anche un personaggio di sua invenzione, da tanto mi sento vicino. Ma forse il mio è solo timore di indispettirlo, visto che lo conoscevo bene, lui e la sua capacità di ferire. Non ho mai conosciuto nessuno che potesse essere così offensivo, così crudele, così violento, senza minimamente rendersi conto di esserlo. Pensando solo di dire la verità, un’utile verità. Forse ho solo paura dei suoi letali commenti. Certi riflessi sedimentati nel tempo, magari sarebbe meglio chiamarli traumi, sono duri a morire, sfidano anche la morte.

Ora è morto, almeno smetterà di criticare e di lamentarsi, dico a me stesso. I morti non possono prendersela, qualche vantaggio lo hanno anche loro, mi dico, senza riuscire a convincermi. Ma insomma anche i necrologi a un certo punto devono finire, come tutte le cose, e quindi rassegniamoci al fatto che anche questo finisca.

 

Questo racconto, dal titolo originario “Ricordando “Giacomo Sartori” è uscito sul numero 28 della rivista Fillide, dedicato alla parodia, con contributi di Domenico Scarpa, Paolo Albani, Gilda Policastro…:

L’immagine: Louis Soutter, “Le Héros”, 1942 (da Wikiart)

 

La Melanzana

1

di Silvano Panella

Immagine di Jack Drafahl da Pixabay

Uscii sul ponte di prua della nave, il mare agitato e spumoso. Credevo che nessuno dei passeggeri volesse scoprire la causa dei bicchieri caduti, che nessuno fosse disposto a farsi investire dalle folate di vento, che osasse seguirmi o precedermi di fuori. E invece no, la nostra epigrafista ammirava la superficie dell’acqua sporgendosi dalla battagliola bagnata e scivolosa.

«Anche lei è qui?», Margareta disse, anticipando la mia battuta oppure leggendola sul mio volto sorpreso.

Non risposi. Un dubbio mi stava assillando, un dubbio riguardante le contraddizioni del nostro mondo e le contraddizioni dei mondi narrati. Come poteva Margareta essere già a prua se fino a poco fa eravamo tutti dentro? C’ero io, c’era lei, c’era il professor Eleuterio con la sua barba accademica, il suo nome da elemento chimico e il suo sapere che, lo confesso, era poderoso, lo vedevo montare in colonne di strati grigi, fitte parole di conoscenza.

«Sta fingendo?», domandai a Margareta, felice di liberarmi dei miei pensieri e dei ricordi del giorno con questa breve frase pronunciata tra un tuono e l’altro.

Margareta si volse e mi guardò per un momento. Chissà in quale modo le apparii. Le nuvole scure e le gocce di mare nell’aria deformavano la visione delle cose e delle persone. A me Margareta sembrava più anziana ma non meno affascinante.

«Mi dica prima lei se sta fingendo di avere dei meriti riguardo la tempesta, il mare. Non meriti divini, intendo. Ha forse cambiato la rotta della nave di nascosto? Lei si crede l’unico vero uomo a bordo eppure si comporta come un bambino.»

Avrei voluto dirle che le sue erano belle parole ma stavo già preparando la mia prossima risposta dispettosa. Sì, sono uno sbruffone. Quando si sfugge più e più volte da un destino violento nel cuore della giungla è normale diventare degli sbruffoni.

«Vuole che faccia piovere? Non le bastano gli schizzi di mare nelle orecchie?», le domandai, e scoprii che Margareta era immune al fastidio degli schizzi d’acqua nelle orecchie. E al solletico. E all’umidità, al vento, ai sobbalzi.

«Sono stufa dei suoi racconti, dei suoi vanti di caccia.»

«Perché è con noi, allora? Sapeva già chi fossi.»

«Perché devo cercare quei maldestri vasi.»

Disse proprio maldestri vasi. Io avrei detto maledetti vasi. Forse intendeva che a causa della loro caduta si erano rotti e la loro rottura aveva ridotto una antica civiltà in frammenti. Se lo avessero saputo, all’epoca, che avremmo ricostruito la loro storia riappiccicando dei cocci, chissà cosa avrebbero architettato. Fossero stati spiritosi, magari…

«Cosa sta facendo? Sta cercando la sua preda immaginaria?»

«Come fa a sapere che sto pensando?», domandai senza badare al fatto che avrei potuto sembrare ridicolo e ovvio. Ero in piedi davanti all’epigrafista e subivo passivamente la burrasca, una strana burrasca senza pioggia. Un altro errore della natura o di un narratore frettoloso.

«Assorto, perso nel contemplare la sua vita, lo credo che si stupisce di incontrarmi qui. Anch’io sono coraggiosa.»

«Perché sta deridendo il nostro cacciatore? Sì, avrà metodi anacronistici, ma è abile in quello che fa», disse il professor Eleuterio, apparso tra l’oscurità e la luce di un fulmine, tra un sobbalzo di nave e uno spruzzo d’onda.

«Non ho bisogno del suo aiuto», dissi.

«Ecco un quesito per lei, professore: quest’uomo è un villano perché è un avventuriero, o fa il villano per fingere di essere un avventuriero, se non peggio per fingersi un uomo?»

«A dopo gli indovinelli. Volevo parlarvi della mia ultima scoperta. La melanzana. Come nacque la coltura della melanzana. Ma vorrei chiedervi di rientrare. Per questo sono qui.»

«Prima salva lui dalle mie insinuazioni, ora vuol salvare entrambi dal tifone. E con una melanzana, per giunta», Margareta disse al professore.

Credevo che i due fossero alleati. Evidentemente non basta appartenere alla stessa cerchia accademica. Chissà quali invidie, quali rancori. Ognuno seguiva uno specifico percorso di ricerca. Ognuno si fidava delle proprie convinzioni e mai e poi mai delle convinzioni degli altri. Forse perché in gioco c’è sempre una vita alla volta. Come nella giungla.

«Dovevo superare la palude. Ricordo. I versi gutturali delle pantere nascoste dietro le grandi foglie interrompevano le risate delle scimmiette, i boa costrittori strusciavano sui rami che costeggiavano le sabbie mobili, nugoli di insetti mi…»

«Lo sente, professore? È in piena reminiscenza, in piena mistura aneddotica.», Margareta disse, e sorrise.

Dalle guance della donna caddero gocce di mare che brillarono alla luce della lanterna d’emergenza. Eravamo zuppi, tutti e tre zuppi e appagati mentre nella mia testa si prefigurava un’alluvione di liane liquefatte. Il professore allargò le braccia e le batté sui fianchi dei suoi ampi e zuppi vestiti color crema. Schizzò dappertutto. Questo ci fece ridere. Il professore andò via scuotendo la testa. Era appesantito dall’età, dal cibo, dalla sedentarietà, dall’acqua di mare eppure, nonostante la scivolosità del ponte, ostentava un passo sicuro.

«Ecco la pioggia», Margareta disse alzando il palmo della mano per acchiappare il dono del cielo. «Crede che ce la faremo?»

«Non lo so. Le melanzane del professore farebbero comodo. Galleggiano. Per costruire una zattera, intendo.»

«Non sia esagerato come sempre. Ci sono i canotti. Sono migliori delle zattere improvvisate. E poi le melanzane del professore sono ipotetiche, non realtà.»

Osservai il mare. Era più freddo di noi eppure ribolliva. I fulmini all’orizzonte. Le tenebre. La nave proseguiva spedita. I marinai e il capitano erano abili. Li avrei voluti con me sul fiume Zambesi. Mi strinsi alla battagliola. Avrei voluto inveire contro le avversità ma Margareta avrebbe ridicolizzato il mio momento d’ira.

«Si vuole buttare di sotto?», domandai a Margareta, anticipando la battuta che presto avrebbe rivolto lei a me.

Margareta mi fissava con i suoi occhi semichiusi. Il mare, il vento, la pioggia dovevano darle fastidio ma fingeva indifferenza o forse sapeva resistere. Tutto pur di non mostrarsi fragile. Questo mi piaceva di lei.

«Non mi voglio buttare in mare. Sarebbe la morte e sarebbe stupido.»

«Bene, perché io non mi tufferei a salvarla. Infatti sarebbe stupido, sarebbe la morte per entrambi.»

Margareta si volse e tornò dentro. Ora che ero solo, inveii al mare e al cielo, sfidai gli elementi a farci affondare, fui beatamente sciocco. In verità avrei voluto continuare il viaggio, giungere al porto, cominciare l’esplorazione per ostentare le mie doti in un luogo inospitale. Ero molto esperto. Rientrai nella sala ristorante per bere il calvados offerto dal capitano e per vantarmi ancora delle mie storie con i passeggeri.

Silvano Panella è autore e editore. Fondatore della casa editrice Spedizioni, con la quale pubblica le raccolte di racconti “Il Cantiere Narrativo” (2018) e “Viaggi al Centro del Racconto” (2019), i romanzi “Le Spedizioni” (2020) e “I Cercatori” (2023). Ha scritto assieme a Massimiliano Governi il libro “L’Istrice” (2022). Ha curato la versione italiana di alcuni discorsi di capi nativi americani.

Non fare come Cesare Pavese

3

di Simone Redaelli

I. Il nonno mi fa promettere e poi crepa.

Promettimelo, dimmelo, devi dirmelo, forza, è l’unica, dico l’unica cosa che ti chiedo, dimmelo che non farai come lui, non fare assolutamente come lui, l’uomo è contagioso se letto in tenera età, e tu sei poco più che un bambino, l’uomo, l’uomo scrive stupende poesie (prendi, per esempio, ma non leggerle, promettimi di non leggerle, prendile ad esempio, ma non leggerle, hai capito, sei un bravo giovanotto, prendi ad esempio La terra e la morte) l’uomo scrive stupende poesie ma è anche meschino, e autocommiserante, l’uomo ride di se stesso e ne soffre e ne fa letteratura, e allora tu impara queste mie parole e stampatele bene in testa, devi promettermi che non farai come Cesare Pavese, e questo è tutto, è il mio testamento, è davvero tutto e io lo lascio a te, che ancora non sai cosa vuol dire amare, e amerai di certo come tutti gli altri poeti, come tutti gli altri romanzieri, e saggisti, ma mai, dico mai come lui, che ha scritto cose stupende, che ha scritto le più stupende cose sull’amore, che nulla sapeva sull’amore, che l’ha desiderato, che l’ha capito, che non l’ha vissuto, e te lo dico qui, in questo giardino che odora di uve, di nespole e di fichi, che pende sul Verbano, che brilla su Arona, te lo dico qui perché è il mio solo testamento, e tu sei il mio solo nipote, e questo è tutto, è davvero tutto, hai capito?

 

II. Anni miei di studio e di matto approfondimento letterario del concetto di amore (il che significa, letteralmente, imparare dai classici come un uomo descrive una donna, quale donna lo attrae e perché, esattamente che cosa sentono un ragazzo, un adulto e un vecchio mentre si innamorano, mentre amano, mentre perdono la donna amata, cosa significa disperarsi per amore, desiderare la fine, e poi ancora capire senza sentire, imparare senza provare, sapere nel profondo del cuore che amare non significa emozionarsi leggendo ciò che amore è e poi andare nel mondo, ma significa commuoversi esteticamente leggendo ciò che l’amore dovrebbe essere e poi leggere ancora, e fare di questa condotta una filosofia di vita, e di questa filosofia di vita una condotta, e restare nei libri, e non andare nel mondo.)

 

III. Rivoluzione (parlando e basta, ovviamente, con me stesso, ovvero leggendomi nella mente)

 Ho trovato la soluzione.

A cosa?

Ho risolto l’Amore.

Cioè?

Martin Amis.

E chi è?

L’inglese post-moderno che sa tutto sulle donne.

Che cosa sa sulle donne?

C’è questo auto-romanzo, La storia da dentro, nel quale Martin mischia stralci della sua biografia a finzione pura, intervallando momenti romanzati del suo vissuto a veri e propri consigli di scrittura.

Come ci aiuta?

Martin ci insegna come si fa a introdurre una persona reale, nella fattispecie una donna amata, in un romanzo, cioè come si trasforma un essere umano in un personaggio di finzione.

Okay, non ci aiuta. Noi abbiamo bisogno di trasformare un personaggio di finzione, nella fattispecie una donna amata, in una persona reale.

Esatto.

Sbagliato.

Okay, dobbiamo solo fare esattamente quello che Martin fa nel suo libro:

Adesso immagina per un istante che la stessa Phoebe sia immaginaria: ispirata alla vita solo molto vagamente, un personaggio inventato in un romanzo inventato. Mentre mi accingo a modellarla, come procederei?

 

IV. Tanto vale (come direbbe Martin Amis) cominciare dal primo appuntamento.

Era il 2016.

Simone incontrò Giulia, anzi no la stregò, anzi no le mandò in pezzi quella sua ordinaria vita, proprio sotto un ordinario cielo di un ordinario settembre.

A Milano, infatti, c’era il vento: il vento si agitò in un mulinello, il mulinello (sullo sfondo il campetto da basket di viale Argonne) turbinò in una colonna di foglie secche, brunastre, e Giulia, seduta sul muretto (di fronte a lei il campetto da basket di viale Argonne) non vedeva nulla perché assorta ma sentì un fruscio e tornò come alla realtà.

Guardavo Giulia che guardava il mulinello. Non assomigliava a nessuna donna che avessi mai letto.

Del tutto smarrito, Simone non ci capì nulla, allora aspettò. Aspettò che il mulinello cessasse: e poi Giulia, finalmente, si accorse di lui.

Simone invece le guardò i capelli per non fissarla negli occhi.

Bene: non vedevo in quei capelli nessun colore che avessi conosciuto leggendo. Non erano, per esempio, con le parole di Martin Amis:

 

“biondo rame […] recentemente e professionalmente pettinati.”

 

“Oh, penserai che sono matta” disse Giulia d’un tratto.

“Oh no, solo non riesco a credere che tu sia reale.”

“Beh, ti perdono se esci con me.”

“Lo fai spesso? Intendo: lo fai spesso di osservare mulinelli d’aria per poi chiedere cose così? Agli sconosciuti che hanno letto mille volte queste cose nei libri, intendo.”

A Milano c’era il vento, ho detto: il vento si alzò di nuovo, passeggiò sulla ghiaia e sulle polveri del parchetto di viale Argonne, si arrampicò sulle gambe di Giulia e provocò un fruscio: allora Simone abbassò lo sguardo sulla fonte del fruscio e vide svolazzare le pagine di un libro, il libro che Giulia teneva in grembo.

“No, non lo faccio spesso, ma sì, in effetti hai ragione, è esattamente quello che ha appena fatto Martin Amis con Phoebe Phelps nel 1976 da qualche parte nei pressi di Notting Hill Gate, a Londra”, rispose Giulia chiudendo il libro, “e allora ho pensato che se a due personaggi si assegnano delle parti, beh, essi dovrebbero comportarsi bene, non dovrebbero mai discostarsi dalla parte loro assegnata, per nessuna ragione al mondo. E se i due personaggi sono destinati a incontrarsi, a piacersi, ad amarsi e infine, per volontà di chi scrive, a essere felici almeno per una parte significativa della loro vita, allora forse gli esseri umani dovrebbero comportarsi come dei personaggi di finzione, dovrebbero cioè incontrarsi, piacersi e amarsi. Dovrebbero, in altre parole, essere felici.”

“Credo di amarti già… Ma come faccio a sapere che sei reale?”

“Beh, non è forse giunto il momento di leggere un po’ di Pavese?”

Il vento, ripetiamolo: una terza folata venne giù per via Gaspare Aselli, si infilò sotto i vestiti di Simone e lo fece rabbrividire, al punto che Simone fu costretto a stringersi le braccia al petto nel tentativo di farsi caldo e allora le sue mani ricordarono di aver stretto fra i palmi, fino a quel momento, un libro, un libro di poesie.

 

V. Oggi leggo Pavese e d’un tratto mi torna qualcosa alla memoria, e guardo a questo ricordo come a qualcosa di lontano, e nel ricordo sono sul lungolago di Arona, e l’acqua brilla e mi acceca, allora distolgo lo sguardo e lo butto verso l’alto, verso le colline, e come nel centro di una lente messa bene a fuoco c’è mio nonno, è in giardino, è seduto sul ceppo di un fico e sorride a mia nonna, lei è in piedi, lui ha un libro di poesie fra le mani e sorride, e io sento l’odore dell’uva che mi brucia la gola esattamente come quando leggo dell’amore nei libri e vivo una sorta di estasi contemplativa, ma nel ricordo succede anche qualcos’altro, cioè mi viene da lacrimare, non oso ancora dire sia un pianto perché non ho ancora smesso di capire senza sentire, ma ci sono vicino, non ho ancora smesso di capire senza sentire ma ci sono davvero vicino, e questo ricordo è un inizio, perché all’improvviso non ho più voglia di leggere nulla, e mi dimentico di come sono fatte le donne nei libri, e cosa cercano gli uomini nelle donne nei libri, e voglio solo leggere Cesare Pavese che è letto da mio nonno davanti a mia nonna, mentre lui le sorride, e allora all’improvviso esco da questo ricordo e davanti a me c’è Giulia che mi guarda, che mi guarda come si guarda qualcuno che sta piangendo, e finalmente sento di aver capito, perché in lei rivedo mia nonna, e in qualche modo sento che potremo andare a cena insieme, che potremo fare quello che fanno tutti gli altri, cioè piacerci ed amarci, con semplicità, ed essere felici, almeno per un po’, come ha detto lei, esattamente come ha detto lei, e questo, nonno, è il mio testamento, ed è tutto, è davvero tutto, ma penso che tu lo sappia già.

 

Da “Note di servizio per Franco Fortini”

3

di Luca Lenzini

I.

Modificazioni

«I moderati toscani…»: indicando con un cenno il Lungarno da Vespucci a Corsini e oltre, una volta che in auto passavamo insieme il Ponte alla Vittoria, Fortini disse così, quasi parlando tra sé, in un a parte della conversazione. Sulle facciate dei palazzi dell’aristocrazia fiorentina, coreografia così consueta e celebrata da non esser quasi più percepibile allo sguardo nella sua connotazione storica e di classe, si rifletteva la luce del pomeriggio; ma niente, mi pareva, era in comune tra quel paesaggio e chi mi stava accanto. Per quanto nato a Firenze e lì vissuto fin oltre i vent’anni, Fortini era per me (e non solo per me) milanese: organico ad un modo d’essere e ad un background sociale ed economico che nulla aveva a che spartire con la storia di quella che era anche la mia città natale. La distanza tra lui e quei «moderati», ceto proprietario e di governo, non poteva essere più grande, abissale persino, almeno quanto lo era la skyline di Milano rispetto alle dimore affacciate sull’Arno o alla Torre di Arnolfo. Non sapevo, allora, che Fortini era nato proprio sul Lungarno, ma sull’altro versante rispetto al Ponte Vecchio, e sul lato d’Oltrarno: al numero uno di Piazza Poggi, in una pensione di fronte alla Torre di San Niccolò. Piccola borghesia; anno il 1917, quello dell’Ottobre.

* * *

Il quartiere di San Niccolò è rievocato in una poesia di Poesia e errore intitolata (con citazione da Quadri di un’esposizione di Musorgskij) In lingua mortua, nella seconda strofa:

… io sono cresciuto ragazzo

nella città di Firenze

e il verde di San Miniato

non lo posso dimenticare,

l’ulivo delle mattine,

le rose amare, il lastrico lavato,

le vene dei cipressi sulla Mensola,

la luna sui sentieri, le colonne

beate e le lame turchine

di marzo sui tetti

e sopra le torri d’Oltrarno.

Quella città non la posso dimenticare

anche se so,

anche se so che non posso tornare.

E queste parole che dico

erano in bocca a mia madre

tra il Lungarno Serristori

e la chiesa di San Nicolò

dove la lapide dice

che l’acqua dell’Arno rubò

uomini, case, armenti, alberi e campi,

e dove s’era nascosto

in quegli antichi tempi,

nel danno e nella vergogna

Michelangelo Buonarroti…

Sono versi che recano la data del ’45 e probabilmente risalgono ad uno dei ritorni di Fortini a Firenze nell’immediato dopoguerra, ritorni di cui è traccia in una serie di articoli dell’epoca. Ai ricordi di giovinezza della prima parte subentra poi, nel testo, una memoria più lunga: il finale riporta alla caduta della Repubblica fiorentina e alla leggenda secondo cui Michelangelo si nascose, al ritorno dei Medici, nel campanile di San Niccolò; la lapide cinquecentesca lì posta, in latino, rinvia invece all’alluvione del 1557 (con reminiscenza dei versi del Lasca[1]). E certo a lui, che si era laureato in Storia dell’arte con Mario Salmi (dopo la laurea in Legge), erano ben presenti – lo attesta In lingua mortua, ma anche La città nemica in Foglio di via – i versi di Michelangelo riportati da Vasari nelle Vite, quelli in cui è la Notte a parlare[2]:

Grato mi è il sonno, e più l’esser di sasso

Mentre che il danno e la vergogna dura,

Non veder, non sentir mi è grata ventura:

Però non mi destar, deh parla basso.

Ma «so che non posso tornare»: Firenze, a quest’altezza della biografia di Fortini, è già il passato[3]. Il presente è Milano e questo è il luogo della speranza, del rinnovamento; tutto quello di cui Firenze, obbediente ad una secolare sceneggiatura che ne prescrive l’eternità, è ai suoi occhi la negazione. Anche la “ricostruzione”, a Firenze, gli sembrerà piuttosto una restaurazione. Tra il ’41 e il ’45 erano successe troppe cose, e troppo importanti: il richiamo alle armi, la guerra, l’Otto settembre, l’esilio in Svizzera e i campi di lavoro, l’esperienza della resistenza in Valdossola. Non fu la parentesi avventurosa della biografia di un qualsiasi chierico, bensì il periodo in cui Fortini diventa l’intellettuale e il poeta che si staglierà con nettezza, con una voce inconfondibile e fuori da ogni coro, sul fondale del secondo Novecento. In una intervista del 1960, riandando agli anni della guerra, osserva:

L’evento decisivo fu la scoperta, nelle caserme (a metà del 1941: avevo ventiquattr’anni) del soldato, cioè del contadino e del proletario, e dell’ufficiale, cioè del borghese come me, posti gli uni di fronte agli altri.

Quasi da solo, e cioè senza più rapporti con l’ambiente in cui ero cresciuto, giunsi fra il 1941 e il 1943 ad integrare, più che mutare, il mondo dei miei sentimenti e delle mie idee e a decidere di votarmi ad una trasformazione della nostra società, sia con l’azione pratica sia con la parola poetica o letteraria. Se nell’inverno 1941-1942, discutendo con Pietro Ingrao, ero ancora ben lontano dall’intendere il pensiero marxista, nella primavera del 1943 ero già, senza saperlo, al di là delle posizioni che sarebbero state della maggior parte dei miei amici e conoscenti, e cioè del Partito d’Azione. La sera stessa del 25 luglio 1943 annotavo che cominciava non solo una nuova vita ma la vita, almeno per me; e pochi giorni dopo, a Milano, la mia vera scelta era fatta. Sarei uscito dalla guerra con una persuasione che non mi avrebbe più lasciato: gli uomini possono essere modificati, strappati al sempre-uguale; questa modificazione è in rapporto alla modificazione del regime della proprietà; la società che ci circonda dev’essere rovesciata e trasformata, con ogni mezzo; la salvezza individuale è il più abietto dei privilegi[4].

L’incontro con «il volto della gente dei nostri paesi fino ad allora sconosciuto» (Sere in Valdossola[5]) e con la realtà del conflitto non fu esperienza solo individuale, ma di una generazione di intellettuali (anche tra loro molto diversi) che in quel giro di anni passarono, bruscamente, dalla giovinezza alla maturità. Rossana Rossanda parlando di sé e dei “suoi” del Novecento, «Calvino, Fortini, Pasolini», ha scritto che ognuno veniva dalla stessa percezione «di dover scegliere impreparati, attraversare una tragedia non prevista […] La prima generazione dell’antifascismo poco ci aveva parlato o potuto parlare[6]»; e parole non dissimili, su quel tratto di storia comune, ha usato le stesso Calvino[7]. In Fortini però quel passaggio, indelebile per tutti, assume una connotazione e un peso di particolare evidenza.

Il contadino e il proletario «di fronte» al borghese; la possibilità del cambiamento, di una cesura nel «sempre-uguale»; la scelta e il nuovo inizio; la trasformazione e il rifiuto di ogni «salvezza individuale»; lo sguardo dal basso alle vicende in atto. Il nucleo di convinzioni allora acquisite e la nuova prospettiva che si forma a partire da un punto di vista di parte, costituisce la base mai più revocata dell’esistenza e dell’attività intellettuale di Fortini, la bussola cogente e definitiva dell’uomo e dello scrittore. È perciò qui, in questo passaggio cruciale, che dobbiamo far centro, se vogliamo puntare il compasso all’interno di un’opera come la sua, tanto vasta quanto complessa e ramificata, per coglierne i lineamenti essenziali; così come è nel contesto della storia europea e della sua immane tragedia che si situano le coordinate morali e culturali da quell’opera presupposte: «Non esiste altra via da percorrere, alcun altro compito da adempiere fuor di quello che abbiamo imparato a distinguere nei vent’anni che vanno da Madrid a Stalingrado e da Treblinka a Budapest.» Così Consigli a pochi[8], nel ’59: dentro quelle coordinate, dunque, potevano innestarsi e dovevano rinnovarsi le impronte della cultura che aveva caratterizzato la giovinezza di Fortini. Se il concetto di «persuasione» gli veniva da Michelstaedter e quello di «scelta» da Kierkegaard, le letture giovanili  (Barth, Dostoevskij, Kafka, i «Salmi, Giobbe, Isaia, letti e riletti con terrore e rapimento[9]») potevano ora conferire alla decisiva (ma non ineluttabile) «trasformazione» additata da Marx un senso preciso e non astratto (anche in chiave esistenziale, nell’ordine del vissuto), da perseguire insieme ai compagni «liberi in fermo dolore» (Italia 1942), a fianco degli «uomini usciti di pianto in ragione» (Canzone, 1955). Nel passaggio da un generico antifascismo e da una giovinezza con venature estetizzanti, da un «cristianesimo tragico-eroico[10]» ad una cognizione dinamica e collettiva dell’idea di conflitto, quale è propria della società moderna, inseparabile dal progetto di emancipazione che ne segna la nascita, si delinea il profilo specifico del comunismo di Fortini e insieme il suo taglio radicale e insofferente delle ortodossie, resistente a ogni ideologia imposta “dall’alto”.

* * *

[1] Anton Francesco Grazzini detto ‘il Lasca’ dedicò una madrigalessa e un sonetto all’alluvione, vedi Anton Francesco Grazzini, Scritti scelti in prosa e in poesia, a cura di R. Fornaciari, Firenze 1911, pp. 235-237.  Dopo l’alluvione del 1966 Fortini accorse da Milano a dar una mano agli “angeli del fango”.

[2] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Torino, Einaudi, 1986, p. 903.

[3] Sugli anni fiorentini vedi L. Daino, Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Milano, Unicopli, 2013.

[4] DI, 31-2

[5] F. Fortini, Sere in Valdossola, Milano, Mondadori, 1963; n. ed. Venezia, Marsilio, 1985, p. 13.

[6] R. Rossanda, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, p. 209.

[7] Vedi I. Calvino, Autobiografia politica giovanile, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, t.II,  in particolare Un’infanzia sotto il fascismo, pp. 2733-2748.

[8] Il saggio è presente solo nella prima edizione di F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 33. In SE è ripresa la seconda edizione (ivi, 1969).

[9] F. Fortini, I cani del Sinai, Bari, De Donato, 1967 (n. ed. Einaudi, 1974; Quodlibet, 2002), poi in SE p. 415.

[10] F.Fortini, Leggere e scrivere, a cura di Paolo Jachia, Firenze, Marco Nardi, 1993, p. 36.

La prima parola

3

di Marco Marra

Immagine di Karen .t da Pixabay

La bambina spalanca gli occhi e singhiozza e pronuncia la sua prima parola. La nonna ode la prima parola della bambina e serra le labbra e le si avvicina. La nonna dice: Tu e io abbiamo un segreto. Dev’essere tua madre a udire la tua prima parola. La tua prima parola non può essere questa. La tua prima parola non dev’essere questa. Anzi questa parola non dovrai pronunciarla mai più. Anzi questa parola non l’hai mai pronunciata. Tutto ciò che riguarda questa parola è il nostro segreto. Poi la nonna abbraccia forte fortissimo troppo-forte la bambina e poi s’allontana e se ne va di là. Prende un mozzico di stracci e si mette a strofinare padelle e cucchiai e forchettoni e muove la bocca al ritmo di una nenia muta. Mentre fuori nella notte infuria la tempesta. Dalla stradicciola che s’inerpica tra le colline e che zigzaga nel bosco spunta fuori la madre. La madre varca la soglia e entra in casa e fugge alla notte e alla tempesta. Saluta sua madre, ch’ha i suoi stessi occhi seppur diversi, con un cenno del capo e le porge il sacco che portava in spalla. La nonna e la madre estraggono dal sacco verze e patate e cicorie e ravanelli e li immergono in una tinozza zeppa d’acquaccia. La nonna dice: Va’ a riposarti. La madre annuisce e si sfila il foulard che le copriva i capelli e va dalla bambina. Sta lì due o tre minuti che la notte e la tempesta sembrano star dentro e non più fuori e dopo ritorna dalla vecchia. La madre fissa la vecchia e la vecchia sta di spalle e non guarda sua figlia. La madre s’affianca alla vecchia e dice: T’aiuto a preparare la zuppa. La vecchia annuisce e poi dice: La bambina come sta? La madre dice: Dorme. Mangiano la zuppa e dopo rabberciano una seggiola e un trabiccolo e dopo se ne vanno e dormire. L’indomani la madre si sveglia prima della vecchia. S’alza e s’approssima alla bambina e la bacia sulla fronte e le dice parole d’amore e poi la solleva piano piano perché c’ha paura di svegliarla e l’avvolge piano piano in un panno che profuma di lavandula e cardosanto. La culla canticchiandole una canzone dolce-triste e dopo l’accomoda sulla branda. La vecchia dorme ancora quando la madre inizia a raccogliere qualche cianfrusaglia e il pane azzimo e la borraccia coll’acqua e s’infila tutto nella sacca. Nemmanco si cambia la veste che si copre i capelli col foulard e che s’intabarra nella mantella e che prende con sé la sacca e che prende in braccio la bambina e che se ne va via. Frattanto la vecchia s’è svegliata, riversa sul letto cogl’occhi spalancati, ma non dice nulla e non sa che fare e c’ha paura. E trema.

La stradicciola è un varco che si apre tra gl’alberi e che squarcia in due il bosco. Il bosco bisbiglia: suoni e parole che gli stranieri non possono capire. Ma la madre è madre e non è straniera alla natura e intende i bisbiglii del bosco. Prosegue a passo svelto, il fagotto tra le mani e la sacca dietro la schiena, fiancheggiando il ruscelletto e oltrepassando il crinale scosceso che strapiomba in una voragine tanto profonda che nemmanco fosse il precipizio da una montagna. A est il sentiero che conduce all’abitato e a ovest quello che percorre la madre. Il cielo è una coltre di nuvole color ferro che copre i campi che s’estendono a perdifiato di là dal bosco e dallo sterrato. La madre s’arresta quando il sole, ch’è invisibile o morente o tutt’e due, è allo zenit. Sosta in prossimità d’un monolite messo lì chissà quando da chissà chi e sorseggia un po’ d’acqua e ne offre alla bambina e mangia un po’ di azzimo e ne offre alla bambina. La bambina né beve né mangia. La madre dice: Almeno devi bere. E le schiude la boccuccia colla punta delle dita e le bagna le labbra. Quando sta per rimettersi in viaggio scorge in lontananza una figura. La figura è un’ombra e l’ombra pare avvicinarsi e più s’avvicina e meno diventa distinguibile tant’è che a un certo punto non sembra più un’ombra bensì tante ombre: uomini o demòni inseguitori o spettri. La madre dice alla bambina: Non preoccuparti. Ora andiamo via. Racimola ogni cosa e riprende il cammino voltandosi indietro ogni tanto e ogni tanto vede i demòni e ogni tanto non li vede più o perché spariti o perché mai esistiti. Le valli e i campi dilacerano le montagne e sbranano i boschi e non c’è traccia né di case né di strade. Di là dalla vetta più impervia c’è un nuvolone nero nerissimo e bulboso e pulsante che pare vaticinare fortunali o altre sciagure. La madre se ne trascina a largo, puntando a ovest e ancora a ovest. Lungo la strada, che strada non è, s’imbatte in una donna. La donna è seminuda e viene nella direzione opposta e zoppeggia e si tiene ritta chissà come. La madre dapprima teme possa essere uno dei demòni ma quand’è abbastanza vicina si ravvede e saluta la donna con un cenno del capo. La donna è una donna d’una bruttezza anomala e non dovuta a fattezze deformi o a chissà quale stortura bensì a una disarmonia malata e a una magrezza eccessiva e all’esiguità del collo e al lembo di pellaccia che ricopre spalle e scheletro e ai seni molli penzoloni senza nulla se non pellame stiaccio. La donna dapprima indugia e poi si ferma e dice: Cosa portate in quel fagotto? La madre fa un passo indietro, s’inarca in avanti e chiude i gomiti a scudo. La donna dice: È un figlio? La madre annuisce. La donna dice: Da dove vengo io i figli sono una zavorra. Li sfamiamo con paglia e corteccia perché non c’è nient’altro e perché devono imparare che non c’è nient’altro. Che il Signore se n’è andato senza mantenere la promessa. È asceso al cielo e non è più tornato. E a noi non resta che mangiare paglia e corteccia. La madre biascica: Devo andare. La donna dice: Porto zolfanelli e candele all’asceta. L’asceta vive in una grotta sul picco della montagna. Dicono che non mangi e che beva solo acqua piovana ma io non ci credo. Dicono che sia in grado di parlare alle stelle e che sappia curare ogni malanno con fregagioni e invocazioni. Potrebbe guarire vostro figlio. La madre dice: Mio figlio non dev’essere guarito. La donna scruta il fagotto e capisce e fa su e giù col capo e dice: Buon viaggio. La madre annuisce e riprende il cammino. Si volta una prima volta e vede solo la figura sbilenca della donna allontanarsi. Si volta una seconda volta e vede i demòni incedere verso la donna. Si volta una terza volta e vede i demòni aver oltrepassato la donna e tirar dritto verso lei e la sua bambina e pensa che i demòni sono lì proprio per lei e per la sua bambina. Il tragitto è silenzioso e alieno. Il vento è freddo. Il cielo è terso e triste e incupito. Incupito perché s’approssima il tramonto e di là dalle montagne inizia a nascere un’aureola cremisi che le poche nubi sembrano bubboni sanguigni. Un granaio abbandonato: la tramoggia e l’aratro divorati dalla ruggine, la vanga e la zappa e il piccone sotterrati dalla sabbia, le finestre e la porta spalancate e muffite a dare al frontale un’espressione da maschera tragica. Sul ventilabro mezzo crepato sta un gallinaccio dal piumaggio lordo di fango impiastricciato di loppa e semi. Il gallinaccio segue con sguardo idiota l’ansare della madre e intona un chicchirichì acutissimo e stridulo. La madre supera il granaio di un centinaio di metri poi s’arresta e osserva l’orizzonte e fa dietrofront. Arrivata in prossimità dell’ingresso del granaio raccoglie un bastone e lo lancia contro il gallinaccio e il gallinaccio zampetta e si lamenta e se ne fugge. La madre setaccia il granaio in lungo e in largo e quand’è sicura s’accomoda su un pagliericcio e si mette a carezzare la bambina. Beve e spilluzzica un po’ di azzimo e dopo si mette a cantare. Canta una ninnananna che le cantava sua madre e culla la bambina che sta tutt’imbacuccata nel panno e tra le sue braccia. Dopodiché s’addormenta. Si sveglia ch’è notte ancora. Aguzza le orecchie: silenzio. Si volta verso la bambina e tende le braccia verso di lei. La carezza e le bacia la fronte e la carezza ancora. Poi da lontanissimo il latrato di un segugio e ancora un’ombra che sferza la luce lunare e che la madre vede addentrarsi in là dal sottoporta. Prende la bambina e si nasconde dietro a un cumulo di grano. Nel granaio ora ci sono i demòni. I demòni annusano l’aria e seguono la traccia inesistente che solo i demòni inesistenti come loro sono in grado di seguire. La madre chiude gli occhi poi li riapre e guarda la bambina, ch’ha gli occhi chiusi, e mette una mano sopra gli occhi di lei e pure sopra i suoi. Quando i demòni vanno via è ormai giorno e quand’è giorno è ora di riprendere il viaggio. Madre e figlia sono avvolte nella foschia, l’una che stringe l’altra e che s’aggrappa al miracolo, e la foschia attanaglia e pregna ogni cosa: montagne e colline e boschi e pianure e campi e orizzonti sterminati. La madre procede a passo svelto per mezza giornata poi si ferma e sguaina lo zaino e controlla le provviste e non c’è più azzimo e non è rimasta acqua. Avanza ancora. E ancora. Poi dall’imprecisione del terreno emerge una traccia. La traccia si snoda per un’impervia salita e attraverso balze rocciose ripidissime. Alla madre sembra di vedere i demòni in agguato tra le rocce ma o per coraggio o per paura sceglie di non attendere. Inizia a pioggerellare. La pioggerella picchetta sulla pietra e nutre il terreno e inumidisce l’aria. La madre s’inginocchia in prossimità d’uno spuntone e tende il mento verso l’alto e apre la bocca e beve la pioggia. Con le labbra bagnate bagna le labbra della figlia e poi le sussurra: Bevi. Sopra di loro c’è una nuvola bianca bianchissima che pare congelata e che si staglia solitaria e ch’è un pinnacolo cupo sporto contro uno spazio sconfinato. La madre non indugia giacché pur non vedendoli sa che i demòni sono più vicini. Risale scale di massi che non sono scale ma solo massi ma che sembrano scale usurate e vecchissime e che s’addentrano nell’atmosfera caliginosa e che s’arrestano in prossimità d’una lingua di terra che dilacera dalla roccia sguarrata. La madre s’appiglia alle erbacce e ai ramoscelli secchi e pensa che forse quel sentiero non conduce da nessuna parte e ch’è meglio tornare indietro ma guardandosi indietro vede i demòni inseguitori incalliti e pensa che indietro non può tornare e tira dritto. Giunta all’apice scandaglia l’orizzonte freddo e incerto e nero e in rovina e spaventoso e terribile e deserto e sinistro e infestato. Contro l’orizzonte si staglia il crocefisso. Il crocefisso è conficcato nella terra e nella roccia e s’innalza verso il cielo e al cielo sembra appartenere. Il crocefisso è avvolto dalla foschia e dalla nebbia e da valle o da un altro di quei dirupi non può essere visto e forse non può essere visto nemmanco da vicino se non da chi è disposto a vederlo. La madre osserva il crocefisso e s’inginocchia e si segna e poi si rimette su. Ora la madre ha la sensazione che la bambina scalci e tossisca e pianga. Non la guarda. Sta lì per un po’ e muta parla al Signore e Gli pone domande e non riceve risposta. Continua a pioggerellare e la bambina pare agitarsi e la madre la nasconde sotto la sua mantella all’altezza del ventre caldo che l’ha nutrita. Quando il cielo si apre la madre percorre a ritroso il sentiero. Lungo il sentiero ci sono i demòni che dapprima non s’erano potuti avvicinare lì dove governa il Suo staffile ma che ora possono riprendere la loro persecuzione. Viaggiano a lungo. Giorni e giorni. Nessun incontro. Nessun segno. Giungono in prossimità di un abitato. In prossimità dell’abitato sta una strega che rassomiglia alla madre della madre. La strega è vestita di bianco manco fosse una santa ma c’ha l’espressione rivestita di corruzione e la voce aspra e rugginosa come se non la usasse mai. Dice: Li conosco quelli che t’inseguono. Sei alla loro mercé come l’ero anche io. Posso scacciarli via sai? Posso scacciarli via per te! La madre non risponde e cerca di proseguire ma la strega la ostacola e dice: Dove vai? Qual è la tua direzione? Poi vede il fagotto e aggiunge: Capisco. E lascia che la madre prosegua. A qualche decina di metri ci sono i demòni. I demòni compiono passo passo gli stessi passi compiuti dalla madre e arrivano innanzi alla strega. Il loro inseguimento finisce lì giacché più oltre ci sono i lupi e i lupi sono i veri demòni giacché persino i demòni c’hanno paura dei lupi. Il viaggio si prolunga per un tempo oltre il tempo. Ora la madre, in braccio sua figlia, attraversa un deserto di polvere. Le tremano le gambe e non ce la fa più e ha paura e si tormenta con domande e spera di svegliarsi come da un brutto sogno. Innalza lo sguardo al cielo e il cielo è un grumo di cataclismi e nefandezze e cancrene e crolla a pezzi a mo’ di vetro spaccato, e la terra è muffita e la roccia divorata dai funghi e i rami degli alberi si storcono e si ritorcono e s’esibiscono in ghirigori di rami morti. E d’improvviso piombano lupi. I lupi sono strappi di tenebra che slabbrano e deturpano e abbruttiscono ciò ch’è già deturpato e abbruttito. La madre nasconde la bambina sotto la mantella. I lupi s’avvicinano e si serrano a ranghi e s’avvicinano ancora. La madre li affronta come solo una madre può fare e battaglia e battaglia e infine soccombe. Prima di soccombere dice ai lupi: Lupi divorate me. E alla sua bambina: Ti voglio bene.

La vecchia sta sulla soglia della casa in mezzo al bosco. Le fronde degli alberi sono fitte da lasciar appena passare lo sterile bagliore crepuscolare. La vecchia ripensa alla prima parola della bambina e osserva il cielo da quei piccoli antri e comincia a chiamare per nome le stelle che fluttuano lì su. Ma le stelle tacciono e il cielo oltre le fronde non è che un abisso tremendo e incomprensibile. Ma ci sono le fronde degli alberi e l’abisso non può essere visto e la vecchia sogna che quel cielo possa essere una casa migliore.

Rêveries

2

Il workshop dell’idealista indiperdente

di

Mirco Salvadori

La sede della radio padovana è posizionata in un luogo assai pericoloso, per chi ha un’alta e viziosa compagna chiamata glicemia; vicino alla storica emittente indipendente si trova una delle migliori pasticcerie della città. Chi soffre di questa invisibile malattia si sente come il barone Leopold von Sacher (non a caso) Masoch: totalmente assoggettato ad una superiore e peccaminosa creatura che gli impone di ingoiare quanto di più dolce è esposto sul banco della prima colazione, abbinandolo al magistrale e pannoso cappuccino, una montagna di schiuma sulla quale spargere piccoli puntini zuccherosi di color bruno, giusto per mandare in orbita gli zuccheri godendo nel peccato.

Ma se la radio è libera ma libera veramente, come cantava un lontano fratello ora perduto, perché mai lui non poteva godersi qualche innocuo granellino di brown sugar adagiato sopra un morbidissimo letto di immacolata neve, accompagnando questo sublime piacere con un croccante croissant ripieno di gustosa marmellata il primo, e di maliarda Giacometta il secondo? Suvvia, al massimo un capogiro, qualche mancamento che si risolve con un buon sonno e l’ago della penna che il giorno dopo segna la medaglia al valore glicemico più alto mai raggiunto da un mese a questa parte, di molto superiore alla normalità di valori a cui mai si era adeguato.

Erano anni che non entrava in quel vicolo gremito di abitazioni per nulla in linea con l’idea che uno si fa della Milano del nordest, tutta grattacieli e traffico, negozi di lusso e migliaia di bar pronti a soddisfare il bisogno mai sopito di alcol e apericene. In questo luogo discosto, all’ombra dell’enorme costruzione ospedaliera che lui ben conosceva, si sviluppava un quartiere gremito di vie strette, case che il suo sguardo da abitante della Laguna leggeva come abitazioni di campagna. Ogni cosa poi, giaceva sotto l’imponente architettura di una basilica che tutti chiamavano del Santo. Aveva sentito dire che all’interno vi si custodiva la lingua di un uomo chiamato Antonio nato nel 1195 a Lisbona e considerato protettore dei viaggiatori, delle donne incinte e dei matrimoni, forse riparatori, aggiungeva con una malcelata dose ironica per nulla politicamente corretta. Ma tutto sommato questo era: un inconscio viaggiatore nel tempo munito di bagaglio a mano, una piccola borsa contenente depressione e ironia facili da mascherare ad ogni controllo doganale.

Si trovava lì grazie al piccolo impianto hi-fi della Pioneer e al primo disco che quel vecchio e da decenni rottamato giradischi aveva fatto girare: Cocker Happy era il titolo, uscito nel 1971. Un album ascoltato fino allo sfinimento, che avrebbe dato la stura ad un percorso capace di portarlo assai lontano da quelle note iniziali, sempre alla ricerca di suoni diversi e poco diffusi. Da quasi cinquant’anni navigava a vista immerso nella musica senza esserne pienamente consapevole, continuando a ricordare gli oltre trent’anni conducendo programmi nelle vecchie radio in FM, come dj durante l’invasione della Nuova Onda e lo tsunami elettronico dei primi ‘90 e da quasi quarant’anni sulle pagine di una storica rivista musicale specializzata in musica  indipendente, sempre avesse ancora un senso chiamarla tale. Un percorso di vita votato al lato nascosto del suono che tuttora continuava a fluire dai suoi auricolari, musica ai più ignota, per lo più sconosciuta e recondita elettroacustica il cui ascolto poteva appartenere solo a irriducibili idealisti indiperdenti.

Questi erano i motivi per cui ora lui si trovava lì.

Pochi passi nel vicolo il cui nome gli rimandava le atmosfere cupe di un racconto di Poe, ed eccolo attraversare la piccola entrata che l’avrebbe condotto a curare il suo primo workshop di giornalismo musicale.

Proprio non se la ricordava quella stretta e ripida scala in legno che portava al primo piano, sede della radio. Improvvisamente svoltava a gomito, spingendo lo scalatore in un nero baratro creato dall’improvvisa mancanza di luce. L’effetto del suono che ancora gli pulsava nei timpani attraverso gli auricolari lo destabilizzò ulteriormente. Perduto nell’imperiale intro di batteria che apre “Dreams Burn Down” degli immortali Ride, improvvisamente si ritrovò nel buio assoluto. Era come esser investiti da un   Mack Anthem  6 cilindri in linea con tecnologia turbocompound, 13 litri e fino a 505 cavalli e 230 chilogrammetri di coppia, avvolto nel frastuono della frenata che nulla può contro l’impatto devastante. Cadde disteso nel nulla, un dolore lancinante al ginocchio e un silenziosamente urlato ZIOBILLY!! che come sempre andava a sostituire la bestemmia che mai riusciva a farsi sfuggire di bocca, forse perché alla fin fine lui in D-o ci credeva.

Entrò zoppicando nella grande stanza, luogo di ritrovo, bar, sala riunioni e si trovò faccia a faccia con il N. 10 – 7 Maggio 1972 di Potere Operaio, rivista dell’omonimo movimento che ai tempi veniva definito extra-parlamentare; svettava appesa al muro di lato ad un altro cimelio degli anni ’70 che la sua memoria aveva relegato chissà in quale cassetto chiuso da decenni: Lotta Femminista numero unico in attesa di registrazione – Settembre 1973. Spense il suono che ancora teneva in circolo, doveva correre ai ripari, mollare i primi anni ’90 gettandosi con l’immaginazione, a capofitto nella musica di quel remoto e improvviso ricordo. Sebbene con qualche anno di differenza, mentalmente scelse Kashmir dei Led Zeppelin uscito nel 1975, perfetto per celebrare l’incontro con un vecchio amico/nemico che ben conosceva, visto che spesso si scontrava con lui, lungo i corridoi dell’istituto tecnico frequentato per inerzia e nella più assoluta ignavia di giovane decisamente pigro e assolutamente immaturo. FGCI VS POTOP! Se li ricordava quegli scambi feroci, gli sfottò, le assemblee antagoniste, i nuclei di lotta, il ciclostile della Federazione Giovanile Comunista, il palazzo sul Canal Grande che lo accoglieva, le continue riunioni, i contrasti ideologici tra fazioni perennemente immerse nelle sfumature rosse di un bosco autunnale. Gli scontri tra noi e gli altri, che quel bosco lo frequentavano come neri cani affamati di nero odio. Quanto ci stava bene quell’intro in salire suonato dal Page in stato di grazia, spinta dalla potenza infinita della batteria di Bonham: una colonna sonora di inestimabile valore poliritmico.

Vecchi ricordi raramente riesumati dal cassetto che li conteneva.

Dalla cucina, posizionata dietro al banco bar, apparve all’improvviso Rossela conosciuta come ‘la senza doppie’. Giunta dalla Campania con le doppie al posto giusto, le perse a contatto con il dialetto padovano che non tende a eliminarle ma proprio le cancella dal vocabolario.  Considerata e giustamente da tutti avvocato per la sua laurea in giurisprudenza, la specializzazione, un master e l’abilitazione d’avvocato, si definiva una delle ‘anziane’ della webzine, un’anzianità che lo intimoriva ma al contrario, visto che lui la surclassava in età con un peso di quasi quarant’anni di differenza, ma il divario temporale sarebbe stato il trend che sottotraccia e silenziosamente, avrebbe attraversato tutta la due giorni di workshop organizzato dai ragazzi di una webzine che ancora stavano nutrendo gli anni più prosperi della loro vita.

La sala si stava riempiendo di incaute anime ancora intonse, interessate a capire e imparare come scrivere e soprattutto come muoversi all’interno del panorama giornalistico dedicato alla musica indipendente. Il proposito sembrava accattivante ma non descriveva fino in fondo un mondo profondamente cambiato, governato da un’industria produttrice di materiale altamente tossico per un ascolto che non fosse rodato e reso immune dal tempo. Il workshop era una prova di resistenza nei confronti del tempo, pensava sorseggiando da un bicchierino di carta riciclata un tonificante caffè che più bollente di così non poteva essere. Non aveva esperienza di contatto con la gioventù, ma non intendeva essere colui che insegnava, voleva evitare che si instaurasse il classico rapporto educatore/studente. La sua idea di workshop era tutta racchiusa nella sconnessa fantasia che si sorreggeva in bilico sul ricordo delle lezioni tenute da alcuni professori delle superiori, quelli più fighi. Erano i prof che si presentavano come amici, con i quali uscivi a bere e mangiare, i prof che chiamavi per nome, ai quali davi del tu parlando di politica e rivoluzione. Era un’idea che si sviluppava tutta nella sua testa ed evitava di crollare miseramente nel nulla grazie alla sua piena volontà di apparire come realmente era: un tipo decisamente maturo  ma tranquillo, senza pretese di superiorità dettata dall’esperienza.

A dirla tutta? Stava sprofondando nella pura paranoia.

Attorno al tavolo regnava un silenzio imbarazzante capace di uccidere anche un grizzly ferocemente incazzato, incapace di centrare con le lunghe unghie e le zanne affilate, manco mezzo salmone mentre, assieme a migliaia di suoi simili, risale la corrente del fiume Naknek in Alaska. Quale migliore occasione allora, per partire con la domanda che tutti, ma proprio tutti, fanno in questi casi: che musica gira nei vostri ascolti? In verità era un quesito che gli serviva per comprendere il trend musicale con il quale si sarebbe dovuto confrontare e che mai avrebbe immaginato fosse così lontano da quanto lui, inesperto frequentatore del mondo giovanile, pensava.

Venne accolto da un diluvio di indie ognicosa: dal rock al cantautorato, dal prog all’hardcore, da Coca Puma agli ancora (buon per loro) vivi Verdena, passando per rare sfumature di jazz, indefinita musica elettronica e decisamente più presenti sfumature reggae. Ascoltando quell’elenco per lui sorprendente, si rese conto che ci si deve immergere nella reale, per conoscerlo. Ciò di cui si è convinti crolla, quando ci si trova faccia a faccia con chi ascolta Motta o La Rappresentante di Lista e lo fa con convinzione, traendone piacere. Nella realtà dell’ascolto il più disparato, si deve esser preparati ad accettare le molteplici tendenze che lo contraddistinguono, si deve accettare e rispettare il gusto dell’altro, non ci si può ergere a giudici guadagnando l’aureola di santo martire, vittima del malvagio infierire degli altrui molesti ascolti.

Allontanandosi con fare illuminato dalla sua propensione alla condanna, venne colto dalla volontà di conoscere e capire una generazione che pensava all’avanguardia in ogni settore artistico scoprendola ferma a schemi di ascolto classici, contaminati dalle malefiche infiltrazioni dei talent show e soprattutto, lontani anni luce da quanto erroneamente lui pensava fosse pratica di ascolto diffusa: quella del suono elettronico, per nulla conosciuto dagli universitari presenti e relegato all’ascolto dei più attempati. Una corrente musicale, quella elettronica prima ed elettroacustica di ricerca e derivazione ambient poi, a cui dall’inizio degli anni ‘90 lui continuava a dedicare anni di intenso ascolto e, a quanto pareva, inutile continua ricerca.

Immerso in questi pensieri, ricordò le parole scritte da Pier Vittorio Tondelli alla fine di un’epoca per molti aspetti unica, forse celebrata un po’ troppo sopra le righe e mai vista come in realtà era: una flebile copia di quanto successe fuori dai nostri confini. “Ci sono periodi buoni e altri meno buoni. Quello che è importante è saper trarre, anche dai cattivi momenti che si attraversano, uno stimolo nuovo, una elaborazione che permetta di superarli traendone un qualche insegnamento”. Cosa potevano saperne di nuovi stimoli questi ragazzi nati e cresciuti molto tempo dopo la scomparsa dello scrittore di Correggio e, in contemporanea, del movimento indipendente pronto al suicidio a fini commerciali? Loro erano nati con l’indelebile prefisso ‘indie’ appeso sulla porta del loro Spotify personale, vagavano in un deserto di suoni che raramente conteneva quella parola ormai desueta chiamata: ribellione. Ogni segno che la poteva rappresentare veniva intercettato e subito decodificato; trasmesso sugli schermi televisivi, sui palchi del primo maggio e su quelli dei festival dei fiori, sulle radio un tempo private e libere, sulle piattaforme di ascolto, lungo i mille canali nei quali loro, al pari del grizzly incazzato, tentano di pescare quel salmone che mai riusciranno ad afferrare perché già inscatolato a valle.

In verità io mi occupo di ciclismo, di questo in teoria scrivo per la nostra webzine. Tu non hai idea della difficoltà che si incontrano intervistando i ciclisti, quelli professionisti dico. Un mondo  a parte nel quale a loro è assolutamente vietato mostrare anche il minimo sentimento personale che vada oltre la gara, le prestazioni o i traguardi raggiunti.” Lui era Nicola, un altro ‘anziano’ tra i redattori della webzine; non che lo dicesse ma lo faceva capire non appena obbiettavi che avere quarant’anni non era certo la fine e lui guardandoti, controbatteva confrontandosi con il gruppo di ventenni raccolto attorno al tavolo. Nicola era un tipo di quelli che da subito ti piacciono: risposta arguta, facile e brillante uso dell’ironia, conoscenza della materia come tutti coloro che formavano la redazione della webzine, perché Nicola pedalava si, ma anche ascoltava parecchio e sembrava non avesse preclusioni di sorta. Era un attento ascoltatore con un vasto range di musicale, ascoltava per esempio Motta e conosceva bene le sue vicissitudini di coppia con, non ricordava più, quale attrice italiana.

Lungo la scala che portava alla sala concerti trasformata in aula per il workshop, realizzò che il tempo era il soggetto a cui più si riferiva, da quando era iniziata quella per lui strana, ansiosa ma piacevole avventura. Tutto era direttamente legato al tempo, quasi avesse sopra il capo un’invisibile clessidra che continuamente si capovolgeva, quasi a suggerirgli di muoversi, raggiungere l’obbiettivo, tentare una realizzazione di se stesso, prima del suo ennesimo ribaltamento.

Tra le mani aveva la scaletta della due giorni, un ineffabile elenco tecnico preparato dalla incomparabile Rossela senza doppie che da energica persona di legge aveva il ruolo fondamentale di PR, organizzatrice e conduttrice dell’evento. La playlist argomenti da trattare era indubbiamente ben pensata e organizzata in modo tale da non stancare i partecipanti al workshop mantenendo alta la loro attenzione. A lui aspettava l’apertura con una serie di punti cardine che ben introducevano la realtà del giornalismo musicale. In quella storica radio padovana, dove era sbarcato con una sorta di prudenza politica dovuta ad inconsistenti ricordi lontani, vigeva ancora un termine ovunque messo al bando a favore della diffusa personalizzazione che andava a stravolgere il lavoro stesso del giornalista, assunto a protagonista al posto del musicista e della sua opera. Il termine collettivo ancora largamente usato in quell’isola (forse) felice, contribuiva ad azzerare ogni caratterizzazione individuale a favore della musica. Questo il motivo per il quale, tra gli argomenti elencati spiccava un pregevole e inconsapevolmente incontaminato capitolo: gli esempi virtuosi di giornalismo musicale di qualità. Non esisteva riscontro di tale virtuosismo nella realtà da piccolo mondo antico del giornalismo musicale indipendente italiano, un mondo a parte nel quale ignorare l’altro era pratica istituzionalizzata. Mantenere con le unghie e i denti il posto guadagnato era l’imperativo che obbligava  ad ignorare o svalutare chi, nella paranoia montante che ormai regnava incontrastata, tentava di rubarlo.

Non gli interessava raccontare ai ragazzi quanto succedeva in quel cortile, uno spazio ristretto che ben rappresentava la critica musicale indipendente del Bel Paese, chiusa dentro confini del tutto invalicabili, se affrontati con quella mentalità. Cercare di esaltare la passione che già albergava nei loro ascolti, era ciò che si era prefissato. Di tempo ne avrebbero avuto, per scontrarsi con la triste realtà.

Virò sulla bibliografia utile, consigliando i lavori di Simon Reynolds, David Toop, Carl Wilson, Simon Frith, finanche il buon Lester Bangs, con l’eccezione rappresentata dall’italiano Valerio Mattioli e il suo Exmachina, un intenso saggio dedicato ad una corsa non ancora terminata, dai primi anni ‘90 fino ad un futuro che probabilmente non interessava i giovani aspiranti giornalisti, visto che trattava materia elettronica, poco diffusa nei loro ascolti.

Il secondo giorno di workshop lo vide intento a fare dei confronti con quei ragazzi che man mano imparava a conoscere, raffrontandoli con la realtà della sua gioventù, carica di sbandierato impegno politico prima e trasgressione poi. Nel comportamento di questi ragazzi regnava il low profile, nessuno si vantava di nulla, erano talmente naturali da apparire disarmanti. Parlando con loro, scoprivi che erano volontari in associazioni che operavano in quartieri a rischio, operavano in centri di accoglienza, lavoravano part-time per poter pagare l’affitto della stanza. Erano coscienti che il futuro non sarebbe stato accogliente e la musica era una delle sostanze irrinunciabili per poter affrontare questo viaggio per nulla semplice.

Nei momenti di pausa si godeva i loro discorsi, ne rubava le espressioni, si sentiva un esploratore immerso nella realtà aliena di un’età che non gli apparteneva. Li seguiva mentre descrivevano la musica che riempiva i loro file: basso, batteria, chitarra e il cuore che correva loro dietro. Questo era quanto, mentre il tempo – sempre lui – continuava a capovolgere quella clessidra.

Il workshop si era concluso. Mentre stavano allestendo per il dj set di fine corso intensivo, si sdraiò sulla poltrona del salottino adiacente al bar e iniziò a valutare il suo operato. Cosa era riuscito a trasmettere a quei ragazzi, cosa era riuscito ad aggiungere alla loro passione? Il dubbio era la sua scimmia da sempre, accovacciato sulle sue spalle, continuamente gli sussurrava che non era abbastanza, doveva esporsi di più, mollando gli indugi e lasciandosi andare. Valutò con calma la cosa e giunse alla conclusione che quanto aveva inconsciamente accumulato dentro di sé in anni di scrittura dedicata al suono, in questi due giorni era in parte riuscito a trasmetterlo a quei ragazzi. Poteva riassumerlo in poche parole: conoscenza, competenza, modestia, rispetto, sincerità, sensibilità, immaginazione, forza d’animo e passione che sempre doveva giungere dal profondo. Sentiva l’esigenza di lasciare delle chiavi per poter loro permettere di avvicinarsi alla porta della scrittura: certo un’incrollabile passione, ma anche la ricerca di un proprio stile espressivo, attraverso le parole che evocano, le emozioni che parlano, i fili invisibili che collegano terre lontane, parole e suoni. Ognuno doveva trovare la propria chiave e sapere che era la sua, ed era unica, riconoscibile e riconosciuta.

Lo chiamarono per il discorso di saluto: Vi devo ringraziare ragazzi, sono stati due giorni di immersione in una realtà che a pensarla ora, per me era aliena. Vi ringrazio per lo scambio che siamo riusciti a costruire, per ciò che sono riuscito a comprendere e spero anche voi abbiate compreso da quanto detto e raccontato. Il mio grazie anche alla crew della webzine, gente coraggiosa e determinata, anche se ancora indie come gran parte di voi, maledetti. Vi abbraccio! Ringraziò tutti quei ragazzi che lo avevano seguito nella due giorni immersiva, lo sentì come un moto d’animo impossibile da trattenere, anche se doveva colorarlo con l’ironia, arma insostituibile e un po’ ruffiana che era parte imprescindibile del suo malandato arsenale comunicativo.

Uscendo dalla sede di quella vecchia radio libera si sentiva più leggero, quasi fosse riuscito dopo molto tempo a correlarsi con qualcuno che realmente aveva le sue stesse intenzioni: un alieno tra  incontaminati alieni. Il suo destino forse era questo.

Mi sporgo sul lato premiato dall’ascolto, lo faccio con un insospettabile rispetto, riverisco e mi commuovo ancora e da sempre, mi commuovo ben cosciente che non potrò mai allontanarmi da questo porto che ricovera il mio malconcio natante, lo salvaguarda dalle terribili tempeste del mare aperto, lo culla e lo protegge vibrando di basse frequenze e lenti sogni che si avvicendano come piccole onde, le une sulle altre. Mi sporgo sul lato premiato dell’ascolto mentre la pioggia cade fitta e leggerissima evitando alle lacrime di farsi scorgere sul viso che il tempo ha reso vittima della lotta impari contro il ricordo di ciò che non torna.

 Era sorprendente come la sua memoria, definitivamente andata in pezzi, ricordasse per filo e per segno quanto aveva scritto la sera prima, immerso nella recensione del nuovo lavoro in uscita di Alva Noto. Sorrise mentre la ragazza dietro al banco di una delle migliori pasticcerie della città, ricambiando il sorriso, gli porgeva il croissant da due giorni agognato. Tradire era cosa che faceva sovente anche con se stesso,  ma farlo con la Giacometta era un’esperienza impossibile da descrivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Branchi di cani

1

di Laura Mancini

Non so quando fu che iniziai a pensare ai branchi di cani. Branchi, di, cani, sarei tentata di scandire per ricordare come singoli elementi possano compattarsi in un simbolo monolitico e depositarsi nella mente fino a produrre calcare e ruggine, fino al totale squagliamento in un immondo pantano. L’idea era prima assente e poi costante, mi svegliava di notte con dettagli sino ad allora trascurati e caricava di nuove energie visive durante i rituali di preparazione alla giornata che incombeva al di fuori della porta; infine percorreva con me le strade trafficate e rabbiose della città mentre accompagnavo le donne da casa alla stazione e dall’aeroporto a casa a bordo del mio taxi rosa senza licenza che mi esponeva al linciaggio della mafia turistica. Forse l’immagine dei branchi di cani venne a me per sostituire quella del linciaggio – un’alternativa più surreale ma per questo suprema al genere di brutta fine cui l’esperimento di auto-reddito mi esponeva, una fantasia di violenza incontestabile, impossibilitata a un co-protagonismo con altre morti. Erano i cani e i cani soltanto a potermi finire. Ciò che vedevo era semplice da decifrare: un compatto gruppo di cani bavosi deciso a uccidermi poiché l’istinto gli ordinava di farlo. E contro l’istinto non c’è molto da obiettare, valutavo con un convincimento che non avevo mai provato di fronte a nulla. La mia unica scelta fino all’inizio dell’ossessione era stata quella di lasciarmi ossessionare. Che cosa studiare, con chi dividere le spese di un appartamento, dove andare in vacanza erano questioni che non avevano mai raggiunto un’evidenza alla quale reagire secondo un preciso e implicito schema – A più B uguale C, C meno B uguale A eccetera. Nel sogno a occhi chiusi o aperti i cani si manifestavano all’improvviso cogliendomi alla sprovvista come l’organismo giudicante che non mi avrebbe fatto transitare e soprattutto che non mi avrebbe lasciata vivere ponendo fine a ogni problema.

Per scrivere questo memoir flash ho ripercorso in ordine cronologico le occorrenze del personaggio “branco di cani” nella mia quasi quarantennale vicenda e non so se il risultato sia quanti o qualitativamente rilevante, alla rilettura non sembra che i singoli episodi abbiano avuto un significato dirimente, nessuno di essi pare aver segnato un prima e un dopo, nessuno di quei branchi ha spartito le acque della mia in fondo lineare esperienza. Eppure la sola ripetizione epifanica, per ragioni misteriose e dunque degne di riguardo, mi pare acquisire un peso ogni giorno più tangibile. Un peso e un ringhio che mi porto dentro in ogni attività, dalla più squallida e corriva – avviare la lavatrice, parcheggiare la macchina, bollire le zucchine, depilarmi le ascelle, pagare le bollette – alla più intensa e complessa – non saprei citarne alcuna.

La prima volta in cui mi imbattei in un branco di cani avevo otto anni e mi trovavo a Bracciano, nella sontuosa e decadente villa di un’amica dei miei genitori. La residenza era composta da due piani di stanze su stanze e un immenso giardino con campi da tennis, piscina vuota e pista di atterraggio per elicotteri e jet privati. L’amica dei miei l’aveva acquistata a un prezzo stracciato da un attore americano che doveva aver coltivato il pallino di quella precisa zona lacustre durante il breve periodo in cui aveva avuto successo e un budget illimitato per dare sfogo alle sue in fondo scontate megalomanie hollywoodiane. Tra i segnali di rovina della casa c’era un branco di cani semi-randagi che si aggirava per il giardino – ettari ed ettari di parco, a loro completa disposizione. Poiché i miei genitori mi avevano avuto a un’età in cui negli anni Ottanta non era molto comune mettere al mondo bambini i figli dei loro amici nella maggior parte dei casi non erano miei coetanei ma già adolescenti e si sottraevano ai raduni dei nostri andandosene a spasso con i compagni di scuola, in viaggio, in gita, o in motorino chissà dove. Per la noia quel giorno mi misi a fare scherzi telefonici digitando numeri a caso da una delle camere da letto arredate con moquette, specchi, abat-jour e tolette. Poi vidi i cani dalla finestra, li corteggiai con lo sguardo seguendo il loro compatto moto verso una parte avvallata del giardino. Li raggiunsi all’istante, mi sedetti all’ombra di un albero che nella mia ricostruzione fiabesca è un ciliegio e lì cantai per un tempo pressoché infinito canzoni inventate di sana pianta sullo stile di Che sarà sarà. I cani si adagiarono sul prato intorno a me in un cerchio quasi perfetto e stettero immobili a sentirmi cantare. Ad ascoltarmi ammaliati, nella mia percezione degli eventi. Il randagio di taglia grande che si era sdraiato più vicino a me aveva sulla fronte una specie di sassolino lucido e liscio che toccai tante volte e che crescendo anni dopo valutai essere stata una zecca.

Il branco di cani che vidi a Palermo quando andai a trovare una mia compagna di università mi fece paura. Avevo conosciuto quest’amica di nome Virginia a un corso di storia contemporanea dal programma seducente – rivoluzione culturale, civil rights movement, Woodstock, Sessantotto, femminismo. Era tenuto da uno storico famoso e anziano che ipnotizzava la classe con un eloquio forbito e un ritmo retorico perfettamente equilibrato, scevro da qualsiasi isteria post-ideologica. Il parterre di Roma Tre era meno alternativo di quanto avessi sperato nel corso dell’estate precedente all’immatricolazione sognando gruppi di antintellettuali da sottoscala e collettivi politici internazionali. Trascorso un paio di mesi dall’inizio delle lezioni mi aggiravo sola per i corridoi cercando un nascondiglio dove mangiare il panino avvolto nella stagnola. Dunque quando avevo preso posto vicino a Virginia ero stata mossa da una certa speranza di socializzazione, basata su indizi estetici: esibiva uno spesso cerchio d’argento sul labbro inferiore – che lei chiamava “il gioiello” – e una specie di divisa collegiale nera a metà tra il redskin e il mod. Io ero reduce dalla fase rave e apprezzavo tutte le sottoculture di quello che consideravo un comune lato della barricata.

Al termine dell’anno accademico Virginia mi disse che sarebbe tornata a vivere a Palermo, si era trovata male a Roma, non aveva stretto amicizie – ero una rara eccezione, insufficiente a farle da tessuto sociale –, aveva discusso con la padrona di casa tanto aspramente da doversi rivolgere in modo poco punk ai carabinieri – che io chiamavo “le guardie” – e non le piaceva il cibo – la vostra frutta non sa di niente, diceva sprezzante. A Palermo, dove la raggiunsi ad agosto per consegnarmi al sentimento di inadeguatezza e anomalia assoluta nell’ambito del suo omogeneo giro di rocker coperti di tatuaggi old school, quello dei branchi di cani era un problema. Il suo migliore amico, vedendomi impietrita da una comitiva canina ruminante nell’immondizia, mi spiegò di aver trascorso le ultime ore di una notte brava a tentare di rientrare a casa senza riuscirvi per colpa dell’assedio dei cani che gli correvano incontro ringhiando al suo minimo tentativo di avvicinamento al portone del palazzo. Aveva dormito in macchina. Ero sbalordita, e lo fui ancora di più quando ritrovai il tema, o meglio il personaggio, o meglio il nemico, nel romanzo Il tempo materiale di Giorgio Vasta, segno che non avevo rielaborato il ricordo fino alla deformazione, ma che i branchi di cani all’inizio del secondo millennio infestavano Palermo.

Qualche anno dopo, ai tempi del lavoro creativo che non mi permetteva di progettare le ferie fino alla data dell’improvvisata partenza, il mio compagno e io trascorremmo una ventina di giorni di luglio e agosto in giro per il Sud Italia. Il nostro obiettivo era riabilitare l’immaginario del Sud, esplorarne le bellezze recondite, e ci ritenevamo tanto più soddisfatti quanto meno frequentata era l’area in cui ci riusciva di bazzicare, tappa dopo tappa. L’esito più alto del binomio ammirazione-emarginazione di quella vacanza fu Isola di Capo Rizzuto, in Calabria, dove pernottammo in un campeggio di fricchettoni adulti dediti ad attività come lo yoga kundalini al tramonto, i bagni nell’argilla rossa di cui la spiaggia in cui il campeggio collinare precipitava era ricca e la musica reggae che risuonava da mattina a notte fonda per tutta l’area delle piazzole, e del bar, e del parcheggio. Il campeggio era gestito da un collettivo bolognese, mentre il personale dedicato alla manutenzione e alle pulizie era calabrese e questo generava un’atmosfera coloniale scioccante che ci indispose e intrigò al tempo stesso. Non ci mischiammo né con gli uni né con gli altri, né con la popolazione villeggiante di cui snobbavamo le attività, tanto che una ragazza una sera mentre ero in fila per pagare la pizza mi chiese stai bene? per la sola espressione che mi deformava il volto.

Un tardo pomeriggio, per fuggire ai bassi dei subwoofer e alle nenie rastafariane andammo a correre nella campagna che circondava il campeggio, era sconfinata, selvaggia, arruffata e il miglior scenario possibile per un branco, di, cani. Al solo scorgere le nostre figure – una alta e sottile, l’altra minuta e luccicante – il maremmano capo, o così lo intesi sul momento, dalla sommità di un cucuzzolo ululò come ci si aspetta che faccia un lupo mannaro. Al suo richiamo seguì la repentina comparsa di una decina di simili che prese a venirci dietro nervosamente. Non correre, mi ordinò il mio compagno mentre entrambi correvamo, e proprio quando i cani erano a un palmo dai nostri glutei nervosi una macchina sopraggiunse sgommando con la portiera spalancata per offrirci un passaggio. Appena volati a bordo del sedile posteriore ci trovammo faccia a faccia con un pitbull che abbaiò forte ma era buono, spiegarono i proprietari, aggiungendo che quella dei branchi di cani era una vera piaga della zona. Loro campeggiavano nel villaggio accanto al nostro campeggio – un luogo per famiglie in cui faticavo a collocare la coppia di punkabbestia con pitbull che ci aveva salvato – e non uscivano se non in macchina.

E infine i cani di ieri. Guidavo lungo la Flaminia considerando con rabbia quanto odiassi le macchine, lo smog, la dittatura del motore, il modo assurdo in cui si accetta di vivere per mancanza di inventiva o stanchezza di ribellione. Da quando ho abbandonato il taxi rosa non utilizzo mai l’automobile e nelle rare occasioni in cui lo faccio mi agito, suono il clacson, pigio a scatto l’acceleratore, inchiodo e sbuffo tendendo la mascella e i muscoli della schiena. Guido con arroganza esponendo me stessa e chi è a tiro a inutili rischi. Dunque ieri mentre i pini e le loro radici ritorte sotto l’asfalto bitorzoluto scorrevano al mio fianco e contro le ruote della povera Yaris ho acceso la radio e sono piombata all’istante nel pieno del palinsesto di Radio Onda Rossa che a Roma Nord di norma prende male, ma ieri trasmetteva alla perfezione. Wow, ho pensato dimenticando le macchine e le radici, che fortuna. La trasmissione in cui mi ero imbattuta oltre a proporre una sofisticatissima selezione di musica industrial che Shazam non riconosceva trattava un tema affascinante: urbanistica siberiana. La giovane studiosa che dialogava entusiasticamente con il presentatore descriveva nel dettaglio il pregio artistico della metro di Mosca, le caratteristiche che rendono unica la sua architettura, il sistema circolare delle fermate. E poi, come un dono inatteso, ecco i cani: nella metro di Mosca ogni mattina branchi di cani vagabondi salgono a bordo di un vagone, cambiano linea al momento opportuno e infine scendono alla stazione del mercato, dove trascorrono la giornata girovagando alla ricerca di cibo. Quando il mercato chiude lo stesso branco riprende la metro, cambia nuovamente linea e torna al punto di partenza, nel luogo in cui ha sede la propria casa collettiva di strada, in una precisa zona della città. Un branco di cani randagi pendolari, capaci di prendere i mezzi di trasporto, uniti nel pellegrinaggio quotidiano. È un caso unico al mondo, studiato da zoologi e veterinari con chip e satelliti, che dimostra un comportamento animale in nulla inferiore a quello umano. Non ce la faccio, questo è troppo, ho detto ad alta voce accostando per fare benzina o gas – la spia rossa del serbatoio non spiegava quale dei due mancasse né mi era chiaro come insufflare il secondo nel veicolo senza farlo esplodere.

Sulla piazzola della stazione di servizio, nell’attesa che qualcuno apparisse per aiutarmi come ho sempre sperato e non è mai accaduto, ho visto comporsi la sequenza, ripetersi la visione, i branchi seguiti agli altri branchi, gli anni del bilico e quelli del disincanto, i cani alle calcagna di un nutrimento qualsiasi, gli studi inservibili all’autodifesa. Ho suonato il clacson che emette il suono ridicolo di una trombetta ridicolizzando ogni richiesta di attenzione pensando di nuovo a loro, imbattibili e determinati, pronti a sbarrarmi la strada in giardino, per strada, in campagna, su questa squallida piazzola che fa da terreno a un mancato incontro, da conferma a un colpevole spaesamento. Se solo arrivasse qualcuno, ho sussurrato al cemento mentre il ringhio montava, ancora e ancora.

Sea Paradise di Eleonora Lombardo – Sellerio Editore

1
copertina sellerio

Estratto dal nuovo romanzo di Eleonora Lombardo

 

La partenza

 

«Odio puzzare» mi aveva detto anni fa. «Se mi sopravvivi, promettimi che metterai un sacchetto di rosa canina nell’urna».

La avevo assecondata, come sempre. Impossibile dire no ad Amanda.

Adesso stringo forte un sacchetto di rosa canina nella tasca del cappotto, mentre offro il braccio alla mia amica svampita, infanciullita all’improvviso recuperando gli squarci di tenerezza che mi ha raramente mostrato nel corso della nostra lunga amicizia. Mi sta accanto come un animaletto da compagnia, fiducioso e scodinzolante, abbellito da nastri e nastrini.

Sono certa che userò il sacchetto per profumare la biancheria. Ma non si sa mai. Scaramanzia e liturgia diventano un tutt’uno in certe circostanze.

Una molletta dorata con un piccolo pavone dalle piume blu e verdi le tiene libera la fronte dalla frangetta che è da sempre il suo tratto distintivo, le dà vivacità anche adesso che è bianca con i riflessi gialli, color pipì fosforescente.

«È quella la nave?» mi chiede guardando la maestosità della Sea Paradise One ancorata alla banchina, sfarzosa, tirata a lucido, con il tappeto rosso srotolato davanti a noi come un avamposto di mondanità per invogliarci verso una gigantesca promessa.

«Sì, è quella» le dico, con orgoglio. «È come te la aspettavi?».

Alza le spalle, non sembra interessata. «Fanno la pizza? » chiede carica di speranza.

«Non solo la pizza, tutto quello che desideri. Avremo un cameriere personale. Gli potremo chiedere qualunque cosa. Qualunque cosa ci passi per la testa, anche la carne e il pesce».

«E la brioche?».

«Anche la brioche».

«I ricci con il pane?».

«Anche i ricci con il pane».

«E la brioche ripiena di ricci?» mi incalza.

Ridiamo.

«Quella la dobbiamo chiedere appena siamo entrate. Li mettiamo subito alla prova».

«E se non ce l’hanno, scendiamo subito».

«Subito, subito».

Si può scherzare con lei, il presente è luminoso e vivace come lo è sempre stato. Vive per questi scambi di battute e per soddisfare bisogni e piaceri. Vive ricordando solo la parte migliore della vita, convinta di avere ancora la bellezza e il fascino dei trent’anni. Vive in modo innocuo in un presente smemorato. Abbottonandomi il cappotto fino al collo, proteggendomi dagli schiaffetti della brezza marina, guardo la città oltre i cancelli che delimitano l’area portuale e sono fiera della mia decisione e di essere sul punto di prendere il largo insieme a lei.

Mi guardo le mani nodose, segnate da macchie che si sono fatte sempre più larghe. Non porto più anelli. Mi alleno ad alleggerirmi. Mi impegno a essere presente come Amanda.

Cominciamo ad avanzare ordinatamente sul tappeto rosso. I passeggeri sono per la maggior parte venuti da soli, composti e concentrati. Ma ci sono eccezioni come noi.

Vedo più donne che uomini, come sempre. Come in ogni circostanza.

Qualcuno chiacchiera, altri sono letteralmente ammutoliti, intenti nella contemplazione con stupore estatico.

Mi rivolgo ad Amanda sussurrando per non attirare l’attenzione e scoraggiare la signora davanti e quella dietro dall’intromettersi nella nostra intimità di borotalco. Non voglio fare amicizia, non voglio parlare con nessuno.

Sono con Amanda. Questo viaggio è mio e suo.

Cento metri prima della passerella di ingresso, sono schierati esseri meravigliosi dall’aspetto solido, vestiti con una tuta simile a una seconda pelle, ma luminosa.

Sorridono. Scherzano. Sembrano di un’altra specie rispetto a noi. Sono più eretti, più saldi, più fisiologici.

Sembrano il ritratto ideale della specie umana, quasi dèi, senza età e senza corruzione. Sono impeccabili e risplendono di diversi colori.

Sono nati nell’Efficientamento, non si portano sulla pelle l’impronta del vecchio mondo che su di noi è come un velo di fuliggine.

Come deve essere bello essere nati e cresciuti così, perfetti. In sintonia con il mondo, plasmati di bellezza ed efficienza. Loro sono davvero gli Impeccabili.

Mentre li guardo con lo stesso interesse che mi suscita l’inviolabilità di uno strumento che non so usare, ammirazione e un pizzico di disprezzo, la fila, che fin qui ha proceduto regolarmente, senza intoppi, quasi solenne, neanche avessimo fatto delle prove o seguito una coreografia, si inceppa.

Uno dei passeggeri, un uomo molto alto che vedo solo di spalle, con un impermeabile marrone fino ai piedi e una lunga coda di capelli bianchi poggiata sulle spalle, si sta intrattenendo con un’Impeccabile. Ridono, come se non importasse a nessuno della fila ferma. Nessuno infatti protesta.

Nessuno ha fretta, è come se il senso del tempo avesse già smesso di perseguitarci. L’uomo ha un certo vigore, un’eleganza naturale, fino a quando mi accorgo che indossa dei sandali che gli lasciano i talloni scoperti. Un pezzo di carne levigata e rosea che esibisce con candida sfrontataggine.

Lo chiamerò Achille. Lo osservo mentre mette una mano nell’impermeabile, fruga platealmente nella tasca e ne tira fuori un mazzo di fiori di stoffa. L’Impeccabile prende i fiori, sorride molto, con stupore e lusinga. Achille le porge della carta e una penna, invitandola a scriverci qualcosa. Carta e penna, da dove li avrà tirati fuori? E quanta carta deve possedere per disfarsene così facilmente?

L’Impeccabile stringe la penna goffamente in mano, come se non sapesse cosa farci. Alla fine, abbozza qualcosa.

Achille si rimette fiero il foglietto nella tasca interna dell’impermeabile. Quando si ricompone, prima di riprendere il cammino, si gira. Sembra essersi accorto dell’attenzione che ho prestato alla scena.

Abbasso gli occhi.

È un attimo.

È istinto.

La fila riprende. Amanda è stanca, mi dice che vuole sedersi. Le ripropongo il gioco della brioche e dei ricci.

Placidamente, come un mollusco primordiale, si lascia trasportare da me come dalla corrente, senza preoccuparsi di dove andrà a finire.

«Se non ci fanno contente: abbandoniamo la nave» dice muovendo le braccia per slanciarsi all’azione.

«Esatto: sbarcateci subito» le faccio eco, cercando lo stesso slancio nella voce.

«Anche in alto mare».

 

PROTOCOLLO SEA PARADISE

 

#1 SENSIBILITÀ MOTIVAZIONALE

 

Se avete scelto di aderire al Protocollo Sea Paradise è perché avete già compiuto il settantesimo anno di età.

Lo avete fatto di vostra spontanea volontà e senza aver subito pressioni, né da un ente governativo né da individui. Siete consapevoli che si tratta di una scelta definitiva, sebbene Sea Paradise si riservi la possibilità di farvi viaggiare a bordo di una delle sue navi da un minimo di 1 a un massimo di 10 volte.

Se avete scelto Sea Paradise è perché credete nella Società e nel Bene Comune come obiettivo massimo dell’individuo sulla Terra. Siete consapevoli che le riserve energetiche del pianeta non sono infinite e che l’essere umano ha come missione quella di preservare il pianeta prima ancora che se stesso e garantire la prosecuzione della specie.

Se avete scelto Sea Paradise è perché amate il prossimo.

Il prossimo vi è caro e avete liberamente scelto di dare agli altri le stesse possibilità che hanno consentito a voi di vivere una vita lunga e soprattutto libera. Una vita in salute, ricca di attività soddisfacenti e in una società coesa e solidale.

Se avete scelto Sea Paradise è perché credete nel futuro e pensate che sia vostra precisa responsabilità assicurarlo alle prossime generazioni.

Se avete scelto Sea Paradise è perché ricordate e amate i piaceri del vecchio mondo: il lusso, il divertimento, il teatro, il cinema, i balli latino-americani, lo yoga, la meditazione, il buon cibo, il cibo sano e il cibo spazzatura, amate il vino, lo sport, l’aria aperta, i tramonti e le albe, amate il brivido del gioco, dell’azzardo, del rischio, amate il sesso e i suoi piaceri, amate coccolarvi nel più grande centro benessere galleggiante mai esistito e volete assolutamente abbandonarvi a tutto questo, affidandovi alle mani esperte della più grande squadra di professionisti del paradiso che abbia mai solcato i mari. Dovete solo desiderare e ordinare abbandonati alla corrente.

 

© Eleonora Lombardo, 2024 – Sellerio editore. Tutti i diritti riservati.

 


Eleonora Lombardo è laureata in greco antico e ha conseguito il master in Teoria e tecnica della narrazione presso la Scuola Holden di Torino. Ha lavorato come autrice in Rai e per il teatro. Giornalista, scrive di cultura e tiene corsi di scrittura creativa. Ha pubblicato vari racconti e il romanzo La disobbedienza sentimentale (2019).

Massimo Palma: «c’è un figlio di figli / di figli di schiavi»

1

 

La conta di Massima Palma è il nuovo titolo dei Cervi Volanti, la collana di scritture poetiche che curo insieme a Giuditta Chiaraluce all’interno del progetto Edizioni Volatili.

«Libri come laboratori, primi confronti, materie pensanti, montaggi e scavi attraverso la carta; libri senza profitto, in tiratura limitata, consegnati interamente agli autori e alle autrici, che ne gestiscono liberamente il transito (esoeditoria); libri evidenti nella loro invisibilità, indirizzati a chi saprà ospitarne l’implicita consegna; libri col solo intento di essere vigilie per una geografia del dopo-diluvio.»

Pubblico qui alcune pagine in anteprima. Le partiture visive sono di Giuditta Chiaraluce.

 

***

 

aritmetica

 

attaccato alla ruota di una macchina alle propaggini del lockdown quello durissimo

alle venti del venti di maggio duemilaventi è morto a minneapolis

un uomo nero soffocato dal ginocchio

di una forza dell’ordine che era un uomo bianco e che l’ha fatto

davanti a testimoni e videocamere accese per molti minuti

 

sul delitto perpetrato dal corpo di polizia di nome derek chauvin

abbiamo libri articoli approfondimenti e soprattutto

abbiamo da subito i video che non l’hanno evitato

un ginocchio tenuto a lungo su un collo lo spezza anche se ripreso

e questo è successo

 

prima del fatto però sono accadute cose che rendono l’omicidio

ovvio ma lo fanno anche lunghissimo

è ovvio ed è lunghissimo un omicidio in capo

non a una persona sola ma all’accumulo di ere diverse

ere che rendono una terra quella che è cioè divisa da una linea di colore

che fanno la legge divisa allo stesso modo

 

basta pensare ai secoli

agli anni di una vita

o alle lunghe settimane trascorse

prima

da george floyd

 

 

 

ii

 

tra quelli che fuori tremano c’è un figlio di figli

di figli di schiavi che ha perso il lavoro

è uscito di casa

le sue dita sanno di dovere fumare per forza

che inspirare serve a restare tranquillo perciò               l’aria

è un bene primario

 

uscito dalla macchina nella luce di fuori

sconta occhi lucidi

come ogni giorno come

ogni volta che assume pasticche

a dire al tempo che è vuoto

che in ogni casa un vuoto poi appare

 

viii

 

per ventiquattro minuti

è ancora cittadino

e all’inizio della conta la voce chiede

che non sparino. L’agente

uno dei sei accorsi alla chiamata gli guarda

fisso le pupille

dilata io non sparo fino all’eco

che ci arriva anche anni dopo

 

ma non basta che non spari

per sottostare

a lingue bianche è opportuno

dare ogni conato e vita propria

 

xiii

 

dall’altro lato a quell’uomo la terra

da sotto spinge la nuca nel gozzo

e lo tinge di bianco                 nessuno lo vede

ma la terra si innesta e cresce

nera questa terra che è tua che è fatta per te

 

la testa interrata che canta

di potere prendere         fiato

e maledice

 

Su I pruriti del giovane Letale

0

di Marco Berisso

Come ricorda in una succinta nota conclusiva lo stesso Gentiluomo, la genesi di I pruriti del giovane Letale è ampiamente trentennale, visto che una prima parte, corrispondente a quasi tutto il primo capitolo, venne pubblicata sulla rivista «Altri Luoghi» in quattro puntate, dal numero 8 dell’aprile-giugno 1992 al numero 11, l’ultimo, del gennaio-marzo 1993 in una apposita sezione intitolata Appendice (la rivista articolava il materiale pubblicato sotto alcune parole-chiave). Alla scrittura del romanzo (che allora si suddivideva in due capitoli, In città e In viaggio) appariva aver collaborato alla stesura un fantasmatico Enea Ortis. Chiusosi «Altri Luoghi», il romanzo traslocherà dopo poco su un’altra rivista genovese, «Il Babau»: ne usciranno due puntate che corrisponderanno esattamente, ironia della sorte, al medesimo tratto del testo già edito, dopo di che se ne perderanno le tracce sino a questa edizione uscita all’altezza del quarto di secolo successivo. A dispetto dell’evidente filiazione suggerita dal titolo (e, nell’originaria confezione, come s’è visto, anche dal cognome del coautore fantasma), il modello di riferimento di Gentiluomo non è quella particolare declinazione del romanzo sentimentale che è stato il Werther (semmai, in parte, ma parodicamente, l’ibridazione politica di quel modello, l’Ortis, appunto) ma quello del genere agiografico (e del resto un suggerimento in questo senso, se proprio ce ne fosse bisogno, viene dai nuovi titoli dati ai due capitoli, entrambi prelevati dalla preghiera dell’agonia). Modello parodiabile per eccellenza, come si sa, e infatti oggetto qui di massiccia parodia. Il romanzo narra le vicende di Aldo Letale, rampollo di buona famiglia (ma in realtà i due genitori, Baldo Letale e la moglie ‒ questa senza nome e senza volto, visto che si presenta sempre con una pentola calata sulla faccia ‒ sono evidentemente due disadattati) e perciò destinato a ricoprire ruoli di altissima responsabilità in una società a metà strada tra teocrazia e tecnocrazia, in cui si pratica il cannibalismo come processo di ottimizzazione delle risorse e la carneficina (i «Gioviali Intrattenimenti», come vengono definiti) come swiftiano espediente per contrastare la disoccupazione e, nello stesso tempo, fornire un motivo di svago circense. A raccontare l’ascesa, la caduta e la definitiva santificazione di Letale è il compagno di banco e amico di infanzia, Paolo Palese, fetido (in senso stretto) appartenente agli strati più bassi di quella stessa società, costretto a narrare le vicende di Aldo e a registrarne i demenziali detti memorabili («Se scaglio un sasso, posso cagliare un asso, ma dato che si caglia solo il latte, lo scagliar è lasso») da una sorta di commissione di inchiesta formata da politici e religiosi (tra cui una ipersessuata suora incartapecorita, suor Pia Napastilla). La trasformazione di Letale in santo e quella di Palese in suo agiografo (che per quest’ultimo è anche letteralmente trasfigurazione, visto che subisce una plastica facciale che lo rende bellissimo) è in realtà all’origine della loro rovina, dal momento in cui vengono coinvolti in una rivolta popolare contro quel governo tecno-teocratico che li aveva sfruttati come strumento di propaganda. Come da regola del genere, Letale affronta quindi il suo martirio cristologico («Letale rimane in piedi e apre le braccia come un cristo in croce, con la testa piena di immondizie…») mentre Palese, fuggito in esilio come tutti gli altri protagonisti, inizia la stesura della vita di Aldo, con il romanzo che si chiude, ciclicamente, sul suo incipit. A questo punto si innesta un secondo racconto, Al maturo Palese gli prude, ovvero la biografia di Paolo Palese scritta da suo figlio Aldo, in cui lo schema agiografico si impreziosisce addirittura di raccordi narrativi neotestamentari («In quel tempo Arzilla si era distinta nell’aver dato assistenza alla suora superiora Pia Napastilla…») e che si conclude con l’assedio della casa in cui si rifugiano i due Palese, padre e figlio, e la loro cugina Arzilla Sevizzi, assaliti dalla stampa dopo aver ucciso il bieco premier Marcello Trappola, origine in realtà di tutti i mali sin dai tempi di scuola. L’accumulo parodico, e parodico al quadrato come si è visto, si ribalta alla fine, come per sua naturale destinazione, in una lingua ipertrofica, simile a tratti a quella a cui sono abituati i lettori del Gentiluomo poeta ma destinata qui a distribuirsi più sull’asse della sintassi che su quello delle invenzioni e concatenzioni verbali e retoriche (che pure non mancano, né le une né le altre, ma che appaiono massicciamente impiegate solo nel caso degli interventi di Armòdio Mannaia, sorta di idiota del villaggio che si esprime appunto tramite una improbabile mescidazione di italiano antico, semilatino, dialettalismi, accostamenti fonetici improbabili ecc.). Una lingua che, per certi aspetti, va a compensare la sostanziale afasia demente che colpisce ripetutamente i veri protagonisti, non a caso propensi a esprimersi prevalentemente attraverso flatulenze, rutti, conati e via dicendo, in una sorta di quasi totale identificazione tra espettorazione ed espressione (emotiva ma non solo). Non nuovo alle distopie parodiche (territorio già attraversato con Lo smaltimento, uscito ormai quasi quindici anni fa), questa volta Gentiluomo ce ne offre quindi un saggio in chiave esemplare: in tempi di ritorno prepotente del sacro e del santo, di profluvi di maiuscole (la Nazione, la Famiglia) e di simpatici mascalzoni e mascalzone pronti e pronte a suggerirci decaloghi e catechismi, l’attraversamento di questo resoconto in merito alla demenza persistente insita nella fede (si aggiunga la maiuscola, se il lettore lo desidera) può non solo procurare svago ma anche non pochi motivi di utilità.

 

Una lettura di “La pantera” di Davide Brullo

0

di Vincenzo Gambardella

“La nostra natura è la rincorsa”. Leggo uno degli ultimi versi del libro, la poesia che chiude il romanzo di Davide Brullo, “La pantera” (Industria e Letteratura editore, 2024); e corro anch’io in avanti, verso l’origine, diventando una freccia che spicca nella direzione, che sembra andare diretta, scoccata da un arco fantastico, arco della velocità e dell’urgenza, nonché del destino che si compie…

Una selva di uomini mi ostacola, una folla di uomini in forma di alberi, una folla che è un bosco, che mi costringe a sbaragliare il campo, a sterzare su me stesso, a fare slalom, a sgomitare, ad abbassarmi per bisogno, a fronteggiare, a lasciarmi strappare i vestiti e la carne da dosso… “Non mi avrete” grido e risalgo, risalgo, perché adesso la folla (o il bosco), è diventata una corrente liquida, agitata, e trovo sempre più frasi che tremano nel buio… Per un attimo resistono, fin quando possono, non solo rispetto alla mia velocità, alla velocità che ha preso a svilupparsi dal mio corpo, ormai sagomato a siluro, o proiettile che non uccide, uomo diventato proiettile di fuoco, fuoco che brucia ma non distrugge, in quanto esperienza, ricchezza personale e dell’intero umano, in fase di chiedere conferma sulla propria essenza…

E in una fosforescenza incredibile leggo per un attimo su uno schermo luminoso, grande, dominante, sebbene effimero nella sua realtà di cosa visionaria, realizzata in sogno, incarnata di questo, leggo nel prosieguo de “La pantera” le ultime pagine: “Anche un seguace di Cristo deve espiare, di vita in vita, fino al giudizio, e chissà che forma avrà la carne, risorta”… Non mi accontento, anzi, la lettura mi rende euforico, alimenta la velocità che sono diventato, un puro moto che non trova più freno… Perché sto al testo, senza svelare né trama, né personaggi, ma dedicato alla parola; filologia immaginaria, inventata dal mio procedere per totale piacere di dire, fedeltà al dire di questo libro più che magnifico, più che trionfante, più che drammatico, più che felice… Ma come può essere?, mi chiedo, com’è possibile?, vista la natura tragica di quanto viene detto?… Eppure non è per questo che risalgo il romanzo fino all’origine?, fino all’inizio? Del resto la citazione che ho appena tratto dal libro, è completa; nel frammento c’è tutto, ogni frammento ha in sé il potere di racchiudere tutto, ma che dico!, di spalancare tutto dell’umano mondo…

Visione umanistica dunque, che trascende, reale che si fa cosmo, ogni frase (l’abbiamo detto!) porta impressa questa stimmate, di dire il mondo, la sua tragedia in atto, in antitesi con la letteratura attuale che è mancanza di tragico, mancanza che più si adatta al sistema del dire odierno e più si contrasta col dire, si trova fuori, si mette fuori dal dire, per ipocrisia, per ragioni personali, di successo, di clan a cui fare riferimento, da ottenere a costo di… Ma ecco che cosa avviene, se siete lettori, leggete: “Tra poco sarebbero apparse le ossa del costato, belle, vertiginose, come una cattedrale, l’abside dove tutto ciò che si confessa ritorna. Amava le bestie, la loro assolutezza – e amava le creazioni dell’uomo, anonime”…

Vi dico che in questa citazione tutto si staglia, che nel corso della mia risalita all’incontrario di questo romanzo, tra folla e boschi immaginari, io mi avvicino sempre più a un senso catartico, ultimo, o più che catartico, immenso nel punto più piccolo del cosmo della scrittura (ovvero, letteratura), così piccolo da costringere a sgranare il particolare nel grande disegno, che allude alle costole del Cristo, sporgenti per fame, per sofferenza.
Incredibile!, già il termine vertiginoso scuote, ché pare di vederle quelle ossa, rivelate, lì, davanti a noi, nella descrizione precisa dell’autore… Dunque siamo confermati, io stesso mi sento confermato nella mia rincorsa a capofitto nel libro, per cercare dove inizia, da cosa è iniziata tutta questa bellezza… “Secondo altri, è un peccato non sfruttare ciò che Dio ha offerto all’uomo: ciò che ferisce è l’ambasciata del perdono”… E all’improvviso vedo due uomini che escono a tentoni da una trincea, armati, sono due soldati che affrontano il nemico, sbucano fuori in un attimo, nemmeno il tempo di capire di quale esercito fanno parte, e… ma certo!, appartengono al libro, in effetti sono il ricalcato a bulino delle due figure protagoniste del romanzo, Charles e Edward Detmold, gemelli anche loro, come questi due soldati, che io immagino identici nel loro coraggio disinteressato, volitivi, maniera sublime di essere.

Illustratori del secolo scorso, disegnatori di animali, e in particolare di pantere, diciamo che sono stati estratti dal libro, e da me, in questo frangente, che tendo a sovrapporre, a fantasticare, per dire meglio il vero; e sono uomini che hanno combattuto, si vede!, ma questi hanno qualcosa di nuovo nel dire, o di sempre, perché nella corsa che intraprendono ognuno cita all’altro una frase del libro di cui stiamo parlando, che è diventato libro del mondo, libro senza riserve critiche, libro del dire umano… Così, uno dice all’altro, nell’affanno della corsa e della paura intrecciate insieme: “A chi si innamorava di lui chiedeva perdono…”. Lo dice sotto una miriade di pallottole fischianti ad altezza d’uomo; “… dicendo di essere nulla, un disadattato, un incapace”, continua l’altro a memoria, perché hanno mandato a mente il romanzo intero che li rappresenta, e ai due serve, si dimostra utile compagnia, nella selva fatta non più di uomini, non più di bosco, no, stavolta di proiettili impazziti, vaganti nell’aria…

“In realtà, era l’innocente che per difetto, per vigore di bianco segnala, degli altri, la mancanza, l’ingiustizia, la pochezza…”, e a questa citazione, interrotta di uno dei due, l’altro, nella ressa degli spari, dei trancianti che arrivano a fiotti, completa: “… Più si sottraeva più questa sfinita sensazione di pochezza aumentava”.

Non arresi, non esausti per quanto gli sta intorno, minacciati fino all’ultimo respiro, entrambi gridano di traverso a chi gli corre vicino, cercando di dire tutto con quel poco di fiato che esce a strappi dal petto: “Tutti gli uomini che avevano conosciuto finivano per contrarre una tragedia…”. E il gemello continua: “Ogni suo gesto sembrava l’ultimo…”. Ma la risposta, o continuazione del testo, non si fa aspettare, pur nel pieno della battaglia: “Si ama nel pieno di un duello… “. Perfetto, dico io, che assisto a questa visione pieno di speranza, per l’agonia della vita che piomba dritta nello sforzo della speranza. “Perché?” mi dice uno che arranca dietro di me e mi incalza, fino ad affiancarsi, e poi a superarmi, e più si allontana più ho la sensazione che posso raggiungerlo con le mie parole, che sono le parole del libro, ovvero quelle adottate per vivere ancora dai due soldati gemelli, universali, che vanno all’attacco…

La velocità di questa corsa non toglie niente alla verità, anzi l’accentua, la rinvigorisce mentre dice, mentre sente il fiato morire dentro, eppure affidato alla carne, che non è poco. “Siamo orfani di una tragedia!” grido io, stavolta è la mia voce che solca l’aria sul campo di guerra, in mezzo al frastuono folle delle detonazioni e ai fischi dei proiettili che sfasciano l’aria. “Ridillo!” mi sento invocare da qualcuno alle spalle. “Siamo orfani di una tragedia!” ripeto a perdifiato… Una cascata di colpi mi arriva dall’alto, senza colpirmi, sono anch’io adesso nella battaglia e non mi pare vero. “Cosa vuoi dire?” mi sento chiedere. “Non lo so” rispondo a stento. “Come? – dice la voce -, urla, urla, non ti sento!”. “C’è un centro granitico, tragico, nelle nostre vite, nelle vite delle nostre nazioni, negli uomini del mondo, credimi amico, ed è come sbarrato, negato al suo interno, crocifisso… Gli orfani si riconoscono al volo, eppure non siamo tutti orfani?, persino orfani di una tragedia, quindi della sua catarsi?”. E aggiungo, gridando: “Ricordati di me Signore, perché lei non si ricorda più di me”. “Lei chi?”, sento chiedermi. “La forma di coscienza divisa, che fa un tratto di strada e smette, non ce la fa, e abbandona… Ti dico che sono perso!”. “Non lo sei!” insiste a dire la voce che sfugge via vorticosamente, avvitandosi nello spazio, attraversato a una velocità impensabile.

“Tra meraviglia e morte la differenza è inconsistente…”. Ritorna di nuovo il dialogo tra i due soldati gemelli all’attacco. E uno tuona, sgolandosi: “… è incongruo che il bello sia incarnato in qualcosa di tanto fragile, da rendere effimero il sole”. Si avverte lo stile dei Salmi, vibrante dappertutto, che tocca ogni cosa rendendola alta, cantabile, un canto che ha per sua natura quella di non affievolirsi mai… “I frammenti dell’icona hanno il valore di un’ostia, sono salvifici”, continua uno dei combattenti, prendendo la mira e sparando, subendo poi il contraccolpo che viene dall’arma, strattonandolo. Ma ecco arrivare la risposta: “… capire che ogni relazione adombra l’addio, che ammirare morire è più affascinante che legarsi alla vita, gettarsi in un bacio”. Ora è chiaro, con questo passo detto è chiaro: l’idea non è di trasmettere un sentimento (ammesso che trasmettere sia la parola adatta), ma di un pensiero in azione. Brullo è scrittore tragico (l’unico scrittore tragico vivente in Italia, visto che Pasolini non c’è più), là dove manca il tragico, là dove il Paese, il nostro Paese, rifiuta, per temperamento e per abitudine, uno spirito predisposto alla catarsi; Paese, infatti, che non si sa cos’ha sempre da ridere, ma oppone chiusura, e convincimento che meglio è girare pagina, in modo che non si arrivi mai alla verità, a una considerazione effettiva di ciò che è veramente legittimo…

“Tu non sei la copia ma la congiura, il tentennamento, il rimedio – eppure noi cerchiamo l’irrimediabile”, dice, citando il libro, non a caso, uno dei due soldati gemelli, che continua a mirare e sparare. Ed ecco arrivare la risposta, sempre precisa, ineludibile dell’autore: “E’ proprio questo che ci inchioda alla vita: dare piacere ai morti”. Gli fa eco un altro passo: “Dobbiamo credere che esista qualcosa di inesorabile, estraneo alla vendetta”. Nel dirlo, uno dei due soldati s’impantana e cade, la faccia diviene una maschera di fango e suo fratello gli si mette davanti per proteggerlo, per consentirgli di rialzarsi; scaricando la sua munizione grida: “Per troppo tempo, abbiamo agito, ossessionati dall’agire – ora è tempo di attendere, di scrivere ciò che non faremo mai”.

Ci rincorre il bene, e il bene è un enigma, che comunque, tra fuga e rinascita, mette a fuoco la seconda. Fuoco che non distrugge, bensì è il compiersi di un’esperienza fruttuosa… “Amare significa togliersi il fiato” si legge ne “La pantera” di Davide Brullo. E non è quello che stanno compiendo adesso i due fratelli soldati?, incatramati di fantasia e di lettura, aperti al campo di sangue che hanno davanti, nostro agone infinito che si estende dal Novecento a oggi…

Afflitti, piombati nei loro rifugi, che non sono altro che fango e ancora fango anche per l’uomo qualunque che racconta, che vive di quello che ha; i due uomini si slacciano le cinghie, si sistemano come possono, finalmente riconciliati, finalmente raccolti, consapevoli di tutto il tragico che esiste nel mondo, pieni di una speranza irredimibile, prossima all’origine del romanzo che essi si sono mandati a memoria, e proprio per questo ne sono parte, proprio per questo. “Amava tenere a lungo il corpo di Cristo sulla lingua”, dice uno all’altro, nella notte. Si sentono solo le loro parole.

I confini del corpo

0

di Valeria Micale

A worthy woman all her life, what’s more
She’d had five husbands, all at the church door,
Apart from other company in youth;
No need just now to speak of that, forsooth.
And she had thrice been to Jerusalem,
Seen many strange rivers and passed over them;
She’d been to Rome and also to Boulogne,
St James of Compostella and Cologne,
And she was skilled in wandering by the way.
She had gap-teeth, set widely truth to say.

Geoffrey Chaucer, The Canterbury Tales
1386 A.D.

Aldo ha una fessura tra i denti davanti. Quel millimetro che separa gli incisivi superiori mi attrae più dei suoi muscoli, più del suo sguardo. È una crepa nella sua esibita virilità; lo rende, ai miei occhi, meno pericoloso. Smorza l’abbondanza di peli che gli ricoprono il petto e le spalle, l’atteggiamento da macho, la voce cavernosa come i corpi del pene. Frappone una distanza tra me e tutto quello che di sublime potrebbe accadere attraverso il suo corpo. È una porta di accesso alla sua intimità, a una parte di sé che inconsapevolmente mi consegna. Dietro quell’imperfezione intravedo brutti voti a scuola, una madre accudente, un rimprovero, un padre distante.
diastèma s. m. [dal gr. διάστημα «intervallo, distanza»] (pl. -i). – 1. In medicina, spazio talora esistente fra un dente e l’altro. 2. In biologia, termine non più in uso per indicare la struttura citoplasmatica che corrisponde al piano equatoriale di divisione della cellula. 3. In geologia, interruzione, di brevissima durata, di una sedimentazione.

Il diastema ha reso inconfondibili celebrità quali Lauren Hutton, Madonna e Vanessa Paradis, regalando loro quel sorriso da bambine perverse che le rende così sensuali. Il fascino di questa imperfezione, che solo persone poco accorte cercano di eliminare con interventi ortodontici, risale al Medio Evo, se non addirittura all’antica Grecia. Nel suo celebre poema Canterbury Tales, Geoffrey Chaucer attribuisce alla donna di Bath, esempio ante-litteram di empowerment femminile, questa caratteristica (She had gap-teeth, set widely), considerata dalla fisiognomica ‘segno di lussuria e licenziosità femminile’ e, in alcuni casi, associata al diavolo. I francesi, bontà loro, definiscono tale imperfezione ‘dents du porte-bonheur’, considerando fortunata la persona che la possiede. Nel documentario “Gap-toothed women”, uscito nel 1987, il regista statunitense Les Blank intervista donne con il diastema appartenenti a tutti i ceti sociali. Alcune di esse raccontano di come abbiano vissuto con vergogna il loro difetto e siano state derise a causa di esso, ma, una volta raggiunta l’età adulta, abbiano acquisito consapevolezza del potere seduttivo da esso esercitato e maggiore sicurezza in sé stesse. Peccato che Blank abbia intervistato solo donne. Nessuno ha mai celebrato il diastema di una bocca maschile. Per molti, non per me, sono soltanto le fessure di un corpo femminile a condurci in luoghi irresistibilmente misteriosi nei quali sperimentare la voluttà.

La mia bocca è affollata di denti. L’arcata dentaria è insufficiente a contenerli tutti, dunque i poveretti si contendono il poco spazio a disposizione, che è il motivo per cui ho un canino sporgente. Tendo istintivamente a nasconderlo. La mia ruga naso-labiale sinistra è molto più marcata della destra, indizio di un sorriso asimmetrico (la vergogna scava solchi senza che ce ne accorgiamo). Il mio canino, come un soldato di prima linea, ha attirato su di sé i colpi del nemico – le ingiurie dei batteri, dell’ossigeno – e si è ingiallito prima del tempo, lasciando ai vicini il privilegio del candore. Niente varchi nella mia bocca, nessun diabolico invito alla penetrazione, solo spazio mancante, denti accavallati come parole pronunciate troppo in fretta, dal senso incomprensibile, barriera d’osso e smalto che protegge dalle intrusioni. A che prezzo?

Ogni barriera del corpo ne mantiene l’integrità, impedendo la perdita di sostanza vitale. Anche le cicatrici servono a questo scopo. Paolo ha una cicatrice su un gluteo, un piccolo avvallamento di tre o quattro centimetri causato, verosimilmente, da un’iniezione suppurata o da un gioco d’infanzia finito male, non gliel’ho mai chiesto. Svelarne l’origine non ha alcuna importanza; al contrario, ne sminuirebbe il fascino. Come il diastema, è un segno di fragilità, tanto più intrigante quanto più celato agli sguardi. Esserne a conoscenza – insieme ai familiari, suppongo, e a quante mi hanno preceduta, non ha importanza – mi dà potere, nella stessa misura in cui un segreto altrui può essere usato a proprio vantaggio. Ogni relazione d’amore è, di fatto, una relazione di potere. Mentre facciamo l’amore, le mie dita scorrono sulla sua natica, cercandone la soluzione di continuità. Quando la trovo, le sue spinte si fanno più forti e dopo poco vengo. L’attrazione che mi lega a lui ha a che fare con la rottura del perfetto, la fallacia del bello, la divergenza. È quella, più del sesso, a darmi piacere.

cicatrice s. f. [dal lat. cicatrix -icis]. – 1. Tessuto di guarigione delle soluzioni di continuo e delle perdite di sostanza di tessuti sia animali sia vegetali; più comunem., segno che rimane sulla pelle nel luogo di una ferita rimarginata: una c. gli tagliava il sopracciglio; far c., rimarginarsi, di una ferita, piaga, ecc. C. ornamentale, forma di tatuaggio (detta anche scarificazione) ottenuta incidendo profondamente la pelle e ritardando ad arte la rimarginazione, praticata da alcune popolazioni primitive. 2. fig. Segno lasciato nell’animo da un’esperienza dolorosa: di ogni dolore rimane una c.; il ricordo di quel triste episodio stava attenuandosi, ma egli ne portava ancora la c. dentro di sé.

Alain, il mio supervisore, ha una cicatrice sulla guancia. Lo sfregio è tanto più erotico in quanto deturpa un volto altrimenti perfetto. È forse questo il recondito obiettivo dei vandali che sfregiano le opere d’arte nei musei, renderne più evidente la bellezza? Si potrebbe, anche, pensare a una cicatrice – particolarmente nel caso in cui essa sfregia un volto – come a un repoussoir, quell’artificio visivo consistente in un elemento laterale inserito in primo piano dall’artista, con lo scopo di introdurci alla profondità di un’immagine; qualcosa che, nel respingere, attrae, risucchiandoci senza che possiamo opporre resistenza. Questa è la sensazione che provo ogni volta che Alain mi rivolge la parola, una specie di vertigine che mi istupidisce. Mi crede ritardata e mi ha umiliata più volte davanti a tutti, senza mai lasciarsi sfiorare dal sospetto che la fissità del mio sguardo sia dovuta all’estasi.
Ho sempre desiderato avere una cicatrice. Invidiavo i piccoli segni bluastri che la mia compagna di banco aveva sulla fronte, microscopiche particelle di pigmento rimaste intrappolate sotto la pelle in conseguenza di un incidente in moto. Quella mattina aveva saltato la scuola per andarsene sulla spiaggia ad amoreggiare col suo ragazzo e un’auto li aveva speronati mentre tornavano in città. Erano i segni del suo essere sessualmente attiva, che le invidiavo: una lettera scarlatta di cui anch’io avrei voluto marchiarmi. È da allora che associo il sesso alle cicatrici.
tatuaggi da asfalto. – In seguito a incidenti d’auto o in bicicletta o a ferite sportive particelle di catrame e/o sostanze pigmentate rimangono intrappolate nella cute. Per il pigmento residuo, quindi per tutti i tatuaggi così detti da asfalto o da trauma, come per i tatuaggi ornamentali o cosmetici, la rimozione è possibile tramite sistema laser Q-Switched.

Le cicatrici da taglio cesareo, così come quelle da episiotomia, sono, com’è ovvio, conseguenza di una precedente attività sessuale. Non rimane, invece, cicatrice della deflorazione, anche se un tempo ho creduto di sì. Pensavo che le donne sverginate portassero ben visibile sul corpo il segno della loro impurità. Era una credenza derivante da discorsi origliati da bambina, quando avevo sentito le zie biasimare la sciagurata figlia della sarta, che si era concessa al fidanzato per poi esserne abbandonata. Non la vorrà più nessuno, avevano sentenziato, ora che porta i segni di quello che ha fatto. Cercavo di immaginare quali fossero questi segni, riconoscibili ma non evidenti a tutti. Confidai le mie perplessità alla mia amica Adele. Lei architettò un piano ingegnoso: avrebbe approfittato dell’aiuto che la madre obesa le chiedeva per indossare il costume da bagno, in modo da scrutarne a distanza ravvicinata il corpo nudo. Eravamo convinte che i famigerati segni si dovessero trovare nelle vicinanze dell’organo sessuale, verosimilmente sul pube. Il solo pensiero della nudità di una donna adulta che conoscevo bene mi turbava: mia madre non si era mai mostrata a me, né avrei voluto che lo facesse. Adele tornò delusa, aveva scrutato ogni centimetro della pelle di sua madre ma non aveva visto nulla. Forse è nascosto tra i peli, disse. Per me fu un sollievo sapere che nessuna traccia della deflorazione era stata ritrovata.
Superata l’età dei giochi spericolati e quella dei parti mancati, nel quinto decennio di una vita nella quale nessun ago da sutura ha perforato la mia pelle, ho deciso che mi procurerò una cicatrice. Dovrà essere visibile senza suscitare ribrezzo, attirare l’attenzione, evocare circostanze avventurose o fantasie innominabili. Me la immagino lineare, sottile, con punti trasversali equidistanti: un manufatto di grande perizia. Non ho cistifellee da togliere né protesi da inserire, niente che possa giustificare un intervento chirurgico; sarà una piccola pallina dura sul polpaccio, che non mi procura alcun fastidio, il pretesto per ottenere il trofeo a cui ambisco. Pianifico il rito iniziatico come ho pianificato la mia deflorazione, affidandomi a una mano esperta che sappia fare un lavoro pulito. Il bisturi affonderà dentro la mia carne come un pene. Non sentirò dolore né piacere.
Un nugolo di camici verdi si affolla intorno al tavolo operatorio sul quale sono stesa. Chiacchierano e ridono, ignorandomi. Io sono vigile, vorrei che mi parlassero, ma non si parla a una gamba, così come non si parla a una vagina, si fa quel che si deve fare e basta. Dura in tutto una quarantina di minuti. Mi rivesto per andarmene. Prima di uscire mi ferma il chirurgo. Dermatofibroma, dice, un tumoretto benigno, comunque faremo l’esame istologico, è la prassi, ci vediamo tra una settimana per togliere i punti, le abbiamo fatto una sutura perfetta. Nell’accomiatarsi mi sorride, rivelando un bellissimo diastema.

Ogni società pensa il corpo a modo suo e cerca di renderlo conforme all’idea che vi prevale. Tutto avviene come se il corpo, fin dalla nascita, non fosse considerato mai perfetto e, dunque, come se fosse sempre necessario un intervento umano al fine di renderlo “conforme”. […] La “cosmetica permanente” del corpo comprende operazioni quali i tatuaggi, le scarificazioni, le cicatrizzazioni, i marchi a fuoco, le deformazioni (dei tessuti molli o ossei), la limatura e l’estrazione dei denti, le ablazioni, le forature, la circoncisione, l’escissione (o clitoridectomia) e l’infibulazione (Mauss, 1967). […] Le ferite causate da questo tipo di cosmetica possono essere viste come delle “soglie”, luoghi di uscita di sostanze (sangue, carne) e luoghi di entrata di una materia esterna. Dal punto di vista simbolico esse permettono dunque di studiare un tipo particolare di interazione tra il corpo e il mondo esterno. La pelle assume allora una dimensione di limite, di frontiera tra il corpo individuale e la società e la ferita diventa la soglia, il luogo di comunicazione tra i due.

Calderoli L., Cicatrici significative. Un approccio antropologico alle tecniche di modifica permanente del corpo, in: Nicola Pasini (a cura di), Mutilazioni genitali femminili: riflessioni teoriche e pratiche: Il caso della regione Lombardia, Milano, Regione Lombardia-Fondazione ISMU, 2007.
Mauss M., Manuel d’ethnographie, Payot, Paris, 1967.

La parola alle armi è uguale all’arma della parola?

9

di Giorgio Mascitelli

In un articolo apparso sul New Yorker, nel quale prende le distanze dall’attuale movimento di occupazione delle università in solidarietà con Gaza, la scrittrice Zadie Smith ha svolto la tesi che “nel conflitto israelopalestinese le parole e la retorica sono e sono sempre state armi di distruzione di massa”. L’unica prospettiva realista, secondo l’autrice anglocaraibica, è il cessate il fuoco subito per salvare più vite umane possibili perché il discorso politico fatalmente tende a cadere in slogan, prese di posizione ideologiche, espressioni retoricamente obbligate che chiama con la parola shibboleth, ossia quelle parole particolarmente difficili da pronunciare per ragioni fonetiche da chi non appartiene al gruppo linguistico che le usa abitualmente e che pertanto diventano simboli di appartenenza a quel gruppo, insomma qualcosa di simile a quelli che in linguistica si chiamano ideologemi. Nel finale dell’articolo rivendica che la sua prospettiva è puramente umanitaria e si dichiara indifferente a tutti gli epiteti con cui rischia di essere chiamata con un’elencazione che vagamente ricorda il finale di Imagine.

Ora io penso che la tesi di Zadie Smith abbia alcune implicazioni politiche forse sgradite alla stessa scrittrice, ma assolutamente inevitabili da un punto di vista logico. La prima è che se le parole sono un’arma di distruzione di massa, significa che c’è una sostanziale continuità tra chi parla e chi bombarda, magari non con lo stesso livello di responsabilità, con un evidente alleggerimento della posizione morale e politica di chi bombarda. La seconda è che se le armi devono tacere, ne segue che anche le parole devono tacere, perlomeno tutte quelle parole che svolgono un ruolo di critica radicale, incendiano gli animi e generalizzano indebitamente delle accuse politiche. Ora, siccome è normale che durante delle proteste molti dicano cose sconsiderate, in questa prospettiva qualcuno potrebbe pensare che lo sgombero di un’università occupata e magari il licenziamento o la sospensione di qualche docente esagitato sia una forma di tutela della pace. Non so se Zadie Smith la pensi così, forse no, ma certo questa è la conseguenza di questo tipo di equiparazione.

L’aspetto paradossale delle sue tesi è che l’obiettivo da lei stessa dichiarato fondamentale del cessate il fuoco è raggiungibile solo con un’ondata di proteste che, come scrivevo sopra, sono sempre caratterizzate da quell’eccesso verbale che sarebbe l’equivalente di armi di distruzione di massa. Infatti tutto il bombardamento di Gaza si basa sul fatto che Israele gode della protezione statunitense qualunque tipo di violazione delle norme internazionali commetta e l’unico modo per incrinare questa protezione è quella di mettere in difficoltà politica l’amministrazione Biden. Naturalmente ciascuno è libero di credere che un movimento di lettori del New Yorker attento a calibrare attentamente le parole, soppesando le responsabilità, distinguendo, separando una legittima critica da un pregiudizio manifesto, senza intralciare la normale attività didattica e di ricerca metterebbe altrettanto in difficoltà l’amministrazione Biden, però non può rimproverare a uno scettico come me di credere che la cosa sia altamente improbabile. L’unico cosa che si può pretendere dallo scettico è di non mettere in dubbio la buona fede di questo ragionamento e mi guardo bene dal farlo.

Tra gli shibboleth che Zadie Smith cita vi sono da un lato ‘terrorista’ e dall’altro ‘sionista’ e ‘colonialista’ sono quelle parole con cui le due ali estremiste degli schieramenti etichettano le intere rispettive popolazioni incatenandole a identità immutabili. Purtroppo credo che lo shibboleth non stia nella parola in sé ma nella sua intenzione d’uso. Anche parole più rispettabili come ‘democrazia’ possono tranquillamente svolgere una funzione del genere: prendiamo per esempio questa dichiarazione del ministro dell’economia israeliano Nir Barkut, rilasciata in un’intervista al Corriere della sera il 9 maggio scorso, “Non possiamo contare su una democrazia palestinese. Con gli arabi questo sistema non funziona. C’è democrazia a Dubai o in Arabia? Da loro funzionano le tribù. Quindi perché non pensare a un futuro di comunità palestinesi”, naturalmente sotto controllo militare israeliano. Qui si vede come la parola ‘democrazia’ viene usata come discrimine per dividere coloro hanno diritto a un certo tipico di trattamento da coloro che ne sono indegni, legittimando nel contempo pratiche tipiche del colonialismo sudafricano e statunitense che democratiche non sono. La parola ‘democrazia’ diventa qui un meccanismo di giudizio razziale ed etnico, che distingue essere superiori dagli inferiori, e non un sistema politico storicamente dato, costruito per tentativi e mutevole nel tempo. Al contrario definire ‘colonialista’ un tale tipo di discorso è semplicemente un giudizio asetticamente tecnico che mette in luce le radici storiche e il collante ideologico di tale affermazione. E’ la guerra che fa lo shibboleth e non viceversa.

L’errore di prospettiva in cui incorre Zadie Smith è verosimilmente spiegabile con alcuni impostazioni culturali di fondo. Da un lato possiamo indicare l’ideale comunicativo del politicamente corretto che tende a considerare perfetta la comunicazione dalla quale nessuno si senta ferito, ma tale comunicazione finisce con il tendere all’anodino, quasi al grado zero del messaggio, per essere all’altezza del modello morale proposto; dall’altro l’idea di ascendenza liberale che l’origine della violenza nella storia, o quanto meno la sua causa più frequente, è nel fanatismo, nel quale solitamente la parola precede l’azione, particolarmente temuto perché respinge l’uomo nella superstizione e quasi nella ferinità della sua natura animale, trascurando la concezione di origine machiavellica che vede al contrario la violenza come espressione della razionalità strumentale del potere; senza dimenticare lo choc culturale (e il conseguente tentativo di ripristinare un ordine simbolico) di chi ha pensato di vivere con la globalizzazione nell’era più civile della storia e si trova di fronte all’orrore del massacro che proviene da parte di chi era dalla parte giusta della storia (perché si potrà dare tutta la responsabilità politica Nethanyau, ma il governo che sta agendo a Gaza è un governo di unità nazionale) e non da quella superata, per usare l’espressione con cui Obama redarguì Putin all’alba della guerra ucraina.

Le parole non sono mai un’arma di distruzione di massa, nemmeno le parole di coloro che hanno il potere sono armi in quanto tali, ma sono sempre dei sintomi di una decisione politica, con l’eccezione degli ordini, che però a loro volta sono dei performativi ossia parole che agiscono, atti linguistici a tutti gli effetti. Confondere la parola anche violenta con la violenza effettiva può essere il sintomo di una pericolosa confusione del mondo reale con quello mediatico, nel quale scompaiono tutte le differenze in un’unica notte spettacolare.

All’alba dei tempi, nel primo libro dell’Iliade, quando nel campo acheo scoppia la contesa tra Agamennone e Achille per Briseide, la dea Atena scende a fianco dell’eroe, che ha già posto la mano sull’elsa della spada per scagliarsi contro il capo supremo dei Greci, e gli dice di sfogare la sua rabbia con qualsiasi insulto, ma di non trascendere alla violenza. La distinzione è chiara ed è alla base della nostra civiltà, equiparare chi occupa un’università e protesta con chi bombarda significa ignorare l’avvertimento di Atena.

 

 

L’inarrestabile estrazione nelle Apuane

0

di Nunzio Festa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo che segue è tratto dal saggio narrativo (illustrato) “Ai piedi del mondo, Lunigiana e Basilicata sulle corde degli Appennini”, di Nunzio Festa, pubblicato recentemente da Tarka Editore (Mulazzo), nella collana “Appenninica” (NdR)

Ogni transito per me è uguale ad ascendere ai Ponti di Vara, stando in bilico fra la vecchia ferrovia di Carrara e le sfilate dei camion che trasportano il marmo su gomma, la materia tolta alla montagna, come se ancora ci fosse il processo della lizzatura dei decenni dei buoi dati al futuro dall’arte pittorica di Lorenzo Viani; i buoi e gli uomini facevano scendere le grandi lastre marmifere in città, con la fune e il sacrificio, gli sforzi tutti umani e il pericolo che ha portati incidenti e litri di vino versati sul filo del fiume Carrione. Quella lettura del presente, poi, che è diventata patrimonio di artiste e artisti che a Carrara hanno ancora il coraggio di vivere la realtà, portando con costanza, attenzione e dedizione una critica assistita da impegno civico e risultato artistico in prove di opere di questi tempi: che mai si permetterà di rinunciare alla contestazione del sistema avanzato dell’economia moderna; una regola, e una procedura, qui tradotta nella forma di un processo di scavo continuo nelle Apuane, con questa inarrestabile, almeno al momento, opera di estrazione spropositata del marmo sangue dei monti passato nel circuito oggi anche allargato dai magnati arabi della finanza. In punti precisi, si dovrebbe andare a rivedere, dove sul territorio rimangono spesso i segni concreti e tangibili della lavorazione industriale, ovvero l’inquinamento delle acque e questi fianchi rotti delle scorticate Apuane. Ricorderemo per sempre i giovani scultori carraresi del laboratorio Officina d’Arte Ponte di Ferro, le ragazze e i ragazzi che operano, creando arte, di fianco al torrente Carrione che scorre filando lungo i vecchi palazzi del centro. “A Carrara nessuno prende in considerazione, né si è mai sognato di valutare i reali problemi di sicurezza delle nostre montagne. Della loro stabilità, delle ‘tecchie’ troppo alte con sopra alle sommità di pareti verticali pesi soverchianti, smisurati, pericolosi. Delle escavazioni in galleria nel ventre della montagna: troppe!… Nelle quali e altrove si cava e si porta via marmo buono. Ma si lascia lì quello fratturato, stracolmo di ‘peli’ o difetti. La montagna da millenni è sorretta dal marmo sano, non certo da quello ammalato. In tanti sostengono di conoscere i problemi delle cave. Forse sì ma non le cave, che andando avanti così senza valutare lo stato di salute della montagna-madre, si chiuderanno da sole. Cesseranno di esistere”, ha recentemente affermato Renzo Gemignani, che per mezzo secolo è stato guida alpina, e attualmente ricopre il ruolo di responsabile del Servizio di Soccorso Toscano, ed è un alpinista internazionale. “Non è che io odi le cave e i cavatori, tutt’altro, vengo da generazione di cavatori – spiega poi Renzo Gemignani, in un’intervista rilasciata alla Gazzetta di Massa e Carrara – ammiro estasiato una cava di marmo ‘coltivata’ a regola d’arte, ma m’intristisco e m’incazzo a vedere tanti troppi oltraggi che certi uomini compiono da secoli in danno alle bellezze della natura; come a quella del nostro meraviglioso mondo di marmo. Perché non mantenere ordine e pulizia della montagna da base a vetta, di strade e viadotti, di luoghi circostanti un tempo ameni ora lerci e stracolmi di terre e terricci, di polveri insalubri, di arbusti, sterpi, fogliame e arboscelli vari. E le vecchie cave abbandonate, antiche e moderne ferite nei fianchi dei nostri monti. Alcune risalenti al basso medioevo, altre al periodo rinascimentale, certune addirittura a quello Romano antico.” Che poi ricorrerà a ricordare “i piani inclinati per le lizzature [come non rivedere qui i quadri del nostro Viani, – per esempio quelli ospitati alla GaMC, la Galleria Comunale di Arte Moderna e Contemporanea di Viareggio, N.d.A.] costruiti con sassi di marmo a mano dai cavatori, smantellati e tramutati in CaCo3 (carbonato di calcio) da multinazionali e consimili, che hanno mal-agito nei confronti dei sacri simboli della civiltà e fatica di lavoro degli uomini, come le antiche lizze, abbandonate su alcune creste montane, i vecchi motocarri senza fanali, perché dovevano operare alle cave solo di giorno. E tanti altri beni che la gente non ha mai saputo valutare, forse perché essa stessa è stata svalutata. Le fantastiche incisioni rupestri del Canova, Repetti, Giambologna e Michelangelo. E anche quelle di villani e pastori Apuani, nelle casupole di sassi annerite dalle intemperie.

 

 

 

Operette mortali

1

di Laura Liberale

L’Europa è un clero morente

— E quindi, questo sogno?

— Cammino all’indietro in un corridoio tortuoso dalle pareti damascate, pressata da chi ho davanti, anche se dovrei dire dietro, visto come procedo. Arriviamo tutti nella stanza dell’esposizione: i tre vecchi prelati sono nei loro letti di morte, le lenzuola ricamate perfettamente tirate fin sotto il mento, gli occhi chiusi. Respirano ancora. Dietro le loro teste ci sono tre lettini, con le lenzuola altrettanto candide e ricamate, e dentro tre bambini, tutti svegli e terrorizzati. Sono piccoli ma di un’età indefinibile, e devono morire coi prelati, è stato deciso così. Muovono le teste, i corpicini bloccati dalle lenzuola, come dalle fasce di un sudario. L’officiante mi mostra un’ostia. È avvelenata, dice, così faremo morire i bambini contemporaneamente. Fine.

— Finisce così?

— Sì. Tu come lo interpreteresti?

— Mmh. È l’Europa.

— Cosa è l’Europa?

— I prelati sono l’Europa. Vegliarda moribonda che si trascina dietro nella morte i bambini. Li ammanta coi suoi paramenti – la sua legge – e li ammazza. In terra, in mare, ne abbiamo fin troppi esempi. Quand’è che hai visto l’immagine dei tre bimbi migranti annegati, tenuti in braccio come in un cerchio sacro e vestiti di rosso, il colore del sacrificio? L’altro ieri, tre giorni fa? Cammini all’indietro perché sei spinta dalla folla, ma tu non ci vuoi andare in quella stanza, guardi al passato, sai che tutto si ripete sempre… Hai fatto un sogno allegorico, non c’è dubbio.

— Dici?

Sindrome di Cotard

La madre fa yoga con noi da sei anni. L’idea naturalmente è stata della nostra insegnante, solo lei ha le competenze per una cosa del genere; questo rito, tra l’altro, l’ha appreso da un guru proprio un anno fa, durante il suo ultimo viaggio in India. Il Nataraja in bronzo che abbiamo al centro è stata la prima statua consacrata. Renditi conto quant’era disperata, quella donna. L’unico figlio con una malattia rarissima che glielo ammazza quand’è ancora vivo. Perché è questo che fa, la sindrome. Ti convinci di essere già morto, che la tua morte è già avvenuta, non senti nulla, nessuna emozione, diventi come un sasso, ti prosciughi. Ce l’ha detto lei: suo figlio credeva di essere vuoto, una specie di carcassa senza organi. Le aveva fatto riempire la casa di deodoranti per ambienti, per coprire il suo odore di cadavere. Farmaci e psicoterapia non erano serviti a niente. Lei ha cominciato a temere anche per sé stessa e il marito quando lui s’è messo a dire che erano già morti anche loro, soltanto non lo sapevano ancora. Così a L. è venuta quest’idea, tentare non avrebbe potuto peggiorare la situazione, al limite migliorarla o addirittura risolverla. La madre l’ha preparato, quel tanto che poteva essere preparato uno come lui, nelle sue condizioni. Gli ha raccontato dei templi indù, di come il prana pratistha infonda la vita in un idolo fatto di pietra, di argilla, di cartapesta o di metallo. Prana è il soffio, la vita. La murti diventa davvero dio, o meglio, il dio s’installa nella murti. La statua, l’immagine non è più inerte, inanimata, ma viva. Lui l’avrà ascoltata in quel suo stato di apatica sonnolenza, forse sentendo solo un brusio lontano, che ormai non lo riguardava più. Chissà. Fatto sta che alla fine la madre l’ha portato al centro, un giorno in cui non c’era lezione. L. ha approntato tutto: i fiori, la frutta, l’acqua, il latte, il ghi, gli incensi. L’ha fatto stendere a occhi chiusi sulla pedana rialzata su cui ci fa lezione, e ha celebrato il rito. Gli ha toccato ripetutamente le diverse parti del corpo, pronunciando i bija mantra per vivificarle, cospargendole poi dei doni rituali. È durato quasi un’ora. Alla fine gli ha sollevato le palpebre, come in una seconda nascita. E lui? La prima cosa che ha detto — e sua madre e L. gli hanno creduto, sua madre con le lacrime agli occhi — è stata che era come se il suo corpo fosse un palloncino: qualcosa lo stava riempiendo piano piano, a cominciare dal ventre, le mani e i piedi gli formicolavano, come se il sangue avesse ripreso a circolare. Poi aveva chiesto di riposarsi un po’ e che, intanto, L. gli raccontasse, come già aveva fatto sua madre in passato, della Durga puja di Calcutta a cui entrambe, insieme al gruppo di yoga, avevano presenziato quattro anni prima. La madre a questo punto piangeva senza freni, mentre L. si era messa a parlare con il tono basso e cantilenante che usa nella pratica per farci rilassare. Dopo un’altra ora circa, la madre se lo era riportato a casa. Me la immagino: trattenere adesso tutta la commozione e la speranza in un silenzio densissimo per il timore di turbare in qualche modo il presente, delicata come il soffio che immaginava stesse gonfiando di rinnovata vita sua figlio. Figlio che la notte stessa, ancora con la ghirlanda di fiori al collo, esce di casa ed entra nell’acqua del canale per annegarsi.

Come l’idolo di Durga consegnato al fiume sacro al termine della puja. Ma senza la sconfitta dei demoni.

Ri-nascite

La scrofa non può muoversi, non ha mai potuto muoversi davvero; a fatica riesce a sollevarsi, per poco, poi ricade sopra i suoi stessi escrementi. Non li può vedere, ma sente gli altri tutt’intorno a lei, irraggiungibili, eppure la loro sofferenza, la loro apatia, la loro smania la pressano da ogni parte nello spazio esiguo della gabbia di gestazione. Ha smesso da tempo di mordere le sbarre, ha compreso che le sbarre non si spezzano né si spezzeranno mai coi suoi morsi. Ha atteso che le piaghe sul muso guarissero, ha imparato quel che c’era da imparare. Ma c’è un altro dolore su cui lei non ha alcun potere, è il dolore che viene sempre con la paura, il dolore che viene con la femmina umana. La femmina umana non viene mai soltanto col corpo; porta con sé le cose del dolore: la lama con cui velocissima la incide, il bastone con cui la colpisce ripetutamente sulla schiena, e sempre quell’odore di rabbia e di piacere. Oggi, invece, la femmina umana viene col fuoco, mostra i denti mentre le brucia i capezzoli con la fiamma, poi la picchia così forte da ammazzarla.

Ha lacerato l’utero!, così grida il dottore. Chi ha lacerato? Le loro manovre? La pinza con cui le hanno rotto le acque? È sangue quello che perde? Fermate l’emorragia, Sacche di O positivo, Muoversi! E di colpo si muove tutto, tutto vortica, tutto è in affanno, tutto ha perso il centro, si frammenta, si disperde, deflagra dalle sue gambe spalancate, un dolore diverso le ha azzannato il ventre, lacerato!, e la bambina, non è mai stata quieta dentro di lei, tutti quei mesi stesa a letto, non è servito a niente, e ora, chi ha lacerato?, il sangue esce ma il sangue sta anche entrando, ce la faranno, lei ce la farà se solo l’aiutano, ma la bambina non è mai stata quieta, chi ha lacerato?, lei lo sa, la bambina ha lacerato, con la testa e le mani, l’ha strappata da dentro, non è mai stata quieta.

Che cosa fruttifica?, si chiede la bambina nel suo primo respiro.

Che cosa fruttifica?, si chiede la donna nel suo ultimo respiro.

Le sbarre hanno ceduto al mio morso, pensa la bambina.

Portavo le cose del dolore, pensa la donna.

Cedimento

Comincerò dai miei piedi scalzi appoggiati, un giorno qualsiasi, sul cruscotto (pessima abitudine, ma sorvoliamo). È estate e quindi sono nudi. Li guardo e scopro che si sono trasformati, devono averlo fatto molto in fretta, ma c’è da dire che non li ho davanti agli occhi così spesso come le mani. Ovviamente si è trattato di una cosa lenta, di un processo, eppure l’esito, il dato nudo, il dato scalzo è questo: i piedi sul cruscotto sono diversi: sono l’irrefutabile altro da cui comincia questo mio scritto.

La pelle dei miei piedi è stata sopraffatta da un frastaglio di pieghe, di rughe (è corretto dire rughe per i piedi?). I miei piedi sono improvvisamente vecchi, ed è palese che il temporaneo è escluso dalla cosa, che la faccenda è irreversibile. Quando è accaduta l’irruzione della vecchiezza? La solita questione delle origini. Ma abbiamo già acclarato che è stato un processo, dunque la domanda è fuori luogo, emotivamente sensata ma fuori luogo.
I piedi, ben oltre le scontate mani, sono lì ad attestare qualcosa di me, qualcosa che è uscito dall’orizzonte dell’invisibilità e di cui ora devo prendere atto.

Ma se adesso ti scrivo di questo è per dirti quel che è seguito alla rivelazione pedestre.

Lui ed io siamo da soli per un po’ di giorni. Un’occasione d’intimità e di recuperi. Ma non è più così semplice abbandonare la consuetudine della programmazione a vantaggio dello slancio estemporaneo, nemmeno quando lo si potrebbe fare. Allo slancio i miei piedi dicono ormai di no. Non molto tempo fa giravano per casa nudi, com’era nudo tutto il resto, e sapevano ancora dire di sì. Quindi? Stasera lui ed io programmiamo vagamente, ci promettiamo vagamente un tempo d’intimità fisica (e così facendo rinunciamo al potenziale slancio dell’adesso), procrastiniamo, ci rassicuriamo a vicenda sul futuribile. E quando sarebbe quasi arrivato il momento, purtroppo è già avvenuta la manipolazione lustrale del mio corpo: ho fatto una doccia, e la doccia non ha portato niente di buono.
Fino a non molto tempo fa, attraversavo nuda, con un pensiero leggero e di svagata gaiezza, il fascio di luce che poteva mostrarmi a chi mi abita di fronte. Ora invece mi appiattisco contro i bordi delle cose, tendo a uscire dall’orizzonte della visibilità. Il mio corpo è diventato qualcosa da nascondere.

Lui mi aspetta in camera da letto. Io entro, mi sdraio e gli dico di colpo parole di disastro. Non le ho pensate, nel senso che non ho pensato anticipatamente di dirle. Le ha pensate il corpo e ora me le dispone come un plotone.

Partono dal particolare per arrivare all’universale. Dicono che il mio corpo sta cedendo, e lo fa sempre più in fretta; che il mio seno si è afflosciato, che la mia faccia avvizzisce (la mia faccia sa come dire di sì agli slanci inesausti dell’avvizzimento). E come si fa ad accoppiarsi così?
Non comincia a essere grottesco? Le parole fanno persino una citazione pop: Marina Ripa di Meana, che in un’intervista dice che alla sua età il sesso, il sesso tra corpi vecchi, sarebbe impensabile, qualcosa di insopportabile, in primis esteticamente. Cito M.R.D.M., è un fatto, accade. Poi mi escono di bocca pseudotruismi tremendi, il male della banalità (inorridisco solo al pensiero di scriverli). M.R.D.M., però, parlava dei settanta, degli ottant’anni, quindi le parole hanno il buon senso di rettificare: Non che propriamente ci riguardi ora. Ma il corpo sta già cercando qualcosa con cui coprirsi, quindi: siamo così vicini al grottesco? Siamo già usciti dall’orizzonte della liceità estetica? Il silenzio che segue è l’invalicabile; concede solo alla sua mano di afferrare un volantino della Lidl dal pavimento.

Si doveva recuperare; c’era, in effetti, anche qualcosa da festeggiare. Vado a dormire sul divano, che è un altro bordo.

Pensare che sarebbe stato sufficiente riconfermare al corpo la sua presenza nell’orizzonte della desiderabilità è sbagliato, credimi. Ti sto parlando del tempo.

Scritture versipelli ed esistenze parallele: le Bistorte lune di Mariano Bàino

1

di Daniele Ventre

Sin dal titolo, la raccolta di “raccontini” di Mariano Bàino, Di bistorte lune (Galaad edizioni 2023) mostra un’aura evocativa caratteristica, e suggerisce allusiva l’idea della dimensione lunare, parantropica, di trasformazioni e mutazioni fisiche al limite dell’ibridismo e della natura versipelle.
Tramite questo peculiare sistema di immagini e archetipi, si annuncia così al lettore, a più livelli, quella che non esiteremmo a tutta prima a definire una scrittura “mannara”, o se si vuole una diegesi trickster, osmosi e transizione fra identità, confini, limiti, membrane separative di ambiti esistenziali; a livello espressivo, sul piano stilistico, per l’imponenza di fenomeni di plurilinguismo dispiegati pur nello spazio narrativo della maniera diegetica breve; a livello esistenziale, della rappresentazione dei corpi, o del dipanarsi dell’esistenza dei personaggi, per come in ciascuno di questi quattro racconti il corpo è mescolato, disfatto, a volte maciullato o scomposto in una sorta di sparagmós; a livello dei segmenti narrativi interni al racconto, per come si attuano rovesciamenti di ruolo e rapide transizioni, così che il lettore ne viene costantemente spiazzato. Trama di fondo dominante di questa disseminazione del personaggio è il flusso di coscienza, che a tale disintegrazione dell’io si presta.
La prima tappa della tetralogia, Chess-boxing, attiva questo processo di ibridazione e transizionalità, agendo “verticalmente” sul diaframma che separa, nel gioco e nell’agonismo, la dimensione intellettuale e mentale degli scacchi e del pugilato, che sono mescolati in un’unica forma di ascesi atletica, in cui, come suggerisce nella post-fazione Chiara Portesine, l’impegno fisico della boxe è momento di pausa dallo sport più violento e sfibrante, gli scacchi, consolidata allegoria dell’esistenza come match a tempo giocato con la morte. Ma sin dal principio di questa prima tappa, l’io in flusso narrativo avverte il lettore di una presa di distanza dagli scacchi e di un avvicinamento al go, alla dama cinese, né manca di rimarcare la differenza fra i due giochi. Gli scacchi, simulazione di un esercito su un campo di battaglia, mirano alla distruzione dell’avversario, senza lasciargli più vie d’uscita; il go implica una strategia di tipo più omeostatico, così che il giocatore, per vincere, deve seguire in un certo senso la norma del vivi e lascia vivere. Stesso passaggio ideale si compie, nella mente del protagonista, con il passaggio dal pugilato (una lotta fisica e violenta) al kendo, un’arte marziale in cui il rapporto fra vittoria interiore e vittoria sull’avversario è molto più trasparente che in altre forme di lotta. Il chess-boxing del protagonista (parola composta che evoca il più aggressivo e diretto kick-boxing/krav-maga) si trasforma così, passo dopo passo, con trasizione “orizzontale”, in go-kendo, una sorta di concezione della struggle for life come equilbrio, non senza però che il lettore avverta, alla fine, un’aura di fallimento dell’ambizioso progetto esistenziale: troppe le tare che minano il protagonista, stigmatizzato come “narciso-fallico” dalla sua controparte femminile, la fidanzata mezza olandese Maria Hubertina Mannaerts, con cui non riesce a superare l’Einblick della metafora scacchistica: i due sono come l’alfiere campobianco e l’alfiere camponero dei due colori opposti, deformazione espressionistica occidentale e parodia dissacrante di uno yin e di uno yang non mescolati e complementari, ma in mutua esclusione reciproca. Il rapporto di incomunicabilità con il femminile si fa qui specchio dell’ultimo match dell’io narrante, ancora pur sempre a scacchi-boxe, confronto che sul piano della boxe si conclude in uno stallo letifero, a sua volta inversione deforme e parodica del vivi e lascia vivere proiettato sulla scacchiera del go.
Tale incomunicabilità è la cifra dominante del secondo dramma della tetralogia, Con un certo ritmo, il cui titolo è estrapolato, non a caso, da un luogo ben preciso del raccontino: “in Inghilterra condannando ai lavori forzati, una volta, appendevano il condannato sopra una ruota, ruota che girava con l’acqua, e il condannato per non rompersi le gambe doveva muoverle con un certo ritmo…” I due personaggi che nel secondo raccontino campeggiano, sono in effetti, come nel precedente, due alfieri di campo opposto, destinati a non incontrarsi; ciò non tanto per l’opposizione fra il moralismo del protagonista, che parte come operaio saldatore a Breda (e ricorda una versione razionale e meglio centrata del “cocciamatte” Bonfiglio Liborio del romanzo di Remo Rapino) e il presunto “liberalismo radical chic” dell’amico professore (così Chiara Portesine nella postfazione), o per una presunta dialettica fra lavoro e potere. In questo caso la chiave di lettura della scrittura mannara, e della narrazione trickster, ci permette di sondare un livello interpretativo un po’ più profondo. Si assiste, nel secondo dei raccontini, al confronto fra un intellettuale adattabile e moralmente aperto (non banalmente elastico), tipico docente, da prima precario, appartenente a un cognitariato bohémien, e un personaggio multiforme per forza, il lavoratore, prima metalmeccanico a Milano, poi impiegato nel restauro della galleria Vittoria a Napoli, lavoro in cui è felice, perché invisibile, ammantato d’ombra notturna nell’ombra ipogea, dati orari e luoghi di impiego, infine improbabile (e un po’ morboso) fattorino di urine di anziane donne nell’ambito di uno studio sull’infertilità femminile, prima di avviarsi verso l’ennesimo mestiere di tappezziere per navi da crociera. L’aspetto della contrapposizione sociale fra l’operaio e il professore è abbastanza ovvio, ma non è la chiave di volta del racconto; la dialettica fra i due è presente, ma non sfocia mai nello scontro diretto, che è sempre eluso, il che non è un dettaglio secondario. Di questa opposizione è in effetti disseminata la micro-vicenda: l’inclinazione canora embrionale (“quasi fischiettavo”) è nascosta dall’operaio, per evitare i commenti stranianti dell’amico; allo stesso modo, fra i due scoppia un “quasi litigio” in merito al romanzo storico di cui sopra. Per il professore, artista, quasi etereo, ma fumoso, sbadato, “scombinato”, mal vestito nella sua trascuratezza, il lavoro dipendente è di fatto il corrispettivo moderno della schiavitù; è facile dedurre, dalla giustapposizione delle situazioni, che il quasi-litigio sul tema del lavoro forzato comminato dai magistrati dell’impero britannico, nasce da un’analoga comparazione fra prestazione coatta di carattere penale e mansioni lavorative. Ciò che conta è però il processo esistenziale per cui i due personaggi avranno opposta deriva: statico il lavoratore, l’operaio dai mille mestieri, pur nel suo continuo peregrinare e mutaformare, che non riesce tuttavia a fargli superare i limiti del giudizio ordinario, borghesissimo, su Esilda, la prostituta possibile moglie, in merito alla quale, a detta del professore, “ogni granchio ha la sua luna”; fluido e adattabile l’intellettuale, che infine si stabilizza (“professore di ruolo al nord”: potere percepito, non reale, non realmente opposto sul piano dialettico), cioè precipita nel suo status destinale, ma in virtù della sua estrema mobilità (apertura, non elasticità di convenienza) anche morale (sarà lui a sposare Esilda, in un happy end paradosso); per l’operaio, il rapporto con il femminile si ridurrà, nell’ennesimo mestiere transitorio di fattorino urinario, allo strano interloquire con le anziane donne, corrispettivo plurale opposto e archetipico di Esilda. Nell’ambito dell’archetipo “mannaro” o multiforme, il rapporto con il femminile è essenziale a definire l’essenza del pàredro; nella sua interiore auto-plasmabilità, l’intellettuale amico del protagonista va letteralmente verso la vita, ovvero verso una versione afrodisia del femminile (Esilda: la Fanciulla, eros pandemio -da ierodula pafia); l’io narrante come tale si muove fra complicità con i carabinieri e femminile para-tombale (le vecchiette preda prossima della comare secca, della morte, accabadora cosmica). In questa trama di archetipi, sono, per imprevedibile e beffardo contro-rovesciamento dialettico, mero epifenomeno congruo al tempo storico, tanto attuale l’auto-consegna del lavoratore precario alla complicità con apparati di controllo e gestione (carabinieri, aziende: strumenti del vero potere, di cui lo schiavo introietta e fa propri i meccanismi e gli ingranaggi come co-attore coatto -immagine delle masse che cedono a destra, strame da Bestia popolar-populista), quanto la spontanea fluttazione dell’intellettuale verso un connubio atipico a margine della professione del più largo appannaggio di sicurezza e tempo libero (secondo l’erronea percezione comune). I due personaggi sono, di fatto, due mezzi Ulissi: l’uno destinato all’esito felice di una partenza senza ritorno verso una Penelope impropria, compagna mercenaria di un numero imprecisato di proci, come da implicita tradizione secondaria del mito, l’altro votato all’esito grigio di un ritorno-non ritorno e a una pluralità di antiche e sterili consorti-non consorti, come da impreveduto riflusso tennysoniano.
La seconda diade di raccontini, Large White e Una lettera segreta, andrà letta in base alle coordinate stabilite dai primi due e in virtù dell’estremizzazione dei connotati diegetici profondi che vi si riscontravano: in sintesi, opposizione senza conflitto risolutivo, collassata in funzioni di onda esistenziali mutuamente escluse, parantropia, ibridismo, contaminazione e mutazione compiuta, positiva, e incompiuta, negativa, forclusione del femminile o sua accettazione integrale.
Il dialetto lombardo gergale di Large white e la cerebrale lingua aberrante dell’epistola impossibile di Lucia Joyce a Sabina Spielrein (fatta di parole macedonia, pseudoanglizzazioni terminali come “magary”, latinismi formulari come da ora-pro-nobis erotico-salutatorio: “vale”) sono le due facce complementari di questa seconda faccia della medaglia iper-dimensionale dei quattro bistorti raccontini.
La voce narrante di Large white esordisce con orgoglio vantando la purezza genetica dei suoi maiali: “I noster sono large white, la razza bianca che ha mandaa giò tante razze locali”. Inevitabilmente, il gioco evocativo del linguaggio qui attivato richiama il tema colonial-razzista tradizionale del fardello dell’uomo bianco; certo, si parla di maiali, ma la memoria ritrova all’istante, nel calderone reticolare dei referenti extra-testo, l’identificazione uomo-maiale degli apologhi orwelliani, ma anche le poco lusinghiere analogie fra suini e umani rinvenute dalla genetica. Diamo quindi per assodato l’ibridismo parantropico uomo-suino come dissacrante fondo di partenza del racconto, e incassiamo il dato evidente di come la prima nota di Large white sia effettivamente evocazione del sinistro passato dell’homo Europaeus, ora ridotto a obeso grufolatore tra i rimasugli della violenza. Che la creatura fantastica del porcus humanarius costituisca un tratto archetipico di fondo ben evidente lo mostra anche il dato di fatto che i due personaggi ricordati dalla voce narrante, Aquilio Uffreduzzi e Falconetta Papini (nomi da italietta del ventennio, a ben vedere, entrambi rapaci -aquila e falco- entrambi incrociati con formazioni neodannunziane, il secondo addirittura evocativo di una certa Claretta, ma con tanto di cognome da scrittore primo-novecentesco di aura lacerbiana, e sui nomi quasi-parlanti di Bàino -che laissent sortir des confuses paroles-, si tratti di un poliziotto Ingravoglia o di un avvocato Chiaffredo Buffaldieci Guastella, ci sarebbero da versare ancor più fiumi di inchiostro), di fatto assumono comportamenti che li avvicinano ai maiali: l’uno è un lavorante e dorme nella porcilaia, ma accanto a una scrofa che non è proprio di pura razza Large white (e verrà allontanato) l’altra, “sciora” romanziera interessata ai maiali, di cui vuol fare narrativa, e che prendendo in giro il personaggio narrante comincia a imitare il verso degli animali. Entrambi si uniscono, di fatto, ai porci, perché “hanno paura del freddo”: l’allusione al connubio zoorastico, in cui infine Falconetta troverà una morte atroce, costituisce l’evento culminante della ferocia “mannara” annidata nei raccontini. In questo racconto incentrato su di una specie mutante umano-porcina, super-razza bianca, obesa e degenere, sottilmente razzista, tutta lumbard, non si può non riconoscere una certa implosione antropologica e politica specifica di quest’ultimo ventennio. Fra i connotati di questo ventennio non manca nemmeno l’incidentale e derisoria allusoria alla volgarità e alla depauperazione culturale, ben rappresentata dalla battuta indiretta del padre ignorante del protagonista narratore, nel momento in cui va a dormire fra le improbabili braccia di una Moira-Orfei = Morfeo -e si potrebbe dire molto, non fosse il timore della sur-interpretazione, anche sulle sotto-allusioni implicite in questo nome circense reso ancora una volta parlante, rivelatore, “Deriva-destinale-assegnata figlia di Cantore-incantatore”, entrambi associati con il dio morfinico del sonno. L’imbestiamento e la trasformazione in grufolame da porci, degno delle operazioni magiche di una Circe, non conosce redenzione magica: nel caso specifico, il femminile stavola non domina, ma pur esso è imbestiato: Falconetta, è oggetto di un lurido rituale porcino cannibale di sparagmòs a ruoli invertiti; la controparte archetipica, il candidato mutaforma, non sfugge all’imbestiamento, ma è contaminato dall’inclinazione suina che aveva già colpito Aquilio, così che in definitiva quello di Large White è un altro Ulisse incompiuto.
L’ultimo raccontino, una lettera segreta che si immagina scritta, o anche solo prefigurata, nel delirio, da Lucia Joyce, figlia ballerina folle dell’autore dell’Ulysses, e ipotetica amante di Samuel Beckett, allontanatasi dalla danza e poi fatta internare dal padre, a Sabina Spielrein, madre della psicanalisi in Russia e vittima sia del totalitarismo stalinista (che giustiziò i suoi fratelli con futili pretesti), sia del totalitarismo nazista (che la massacrò insieme alle figlie). Sul piano della creazione linguistica, è il racconto più complesso: si è ipotizzato che i deliri di Lucia abbiano ispirato lo stile allucinato di Finnegans Wake, e una traccia del libro più sperimentale e complesso di James Joyce qui si ritrova in parte, intrecciata con la ripetizione di un vale da saluto mortuario antico, che è né più né meno che il corrispettivo dello yes ripetuto di una ben nota sezione del monologo di Molly Bloom. L’anno immaginario di questa lettera è il 1934: Lucia Joyce ha da quattro anni manifestato i sintomi dell’implosione mentale; entro tre anni da questa data, il marito di Sabina Spielrein morirà di infarto, la sua famiglia sterminata dalla polizia staliniana; entro otto anni la stessa Spielrein sarà trucidata dai nazisti. L’immaginario amplesso lesbico che le unisce a distanza è rappresentazione figurale, sotto la specie del contatto fisico profondo, della loro intima consonanza di vittime. L’unica dimensione puramente umana è qui incarcerata nella follia ed è rappresentata come proiezione onirica di una conoscenza impossibile, che si tratti di illusione scenica di storia alternativa, ucronica, o di semplice costruzione immaginativa e allucinatoria. Di fatto l’ultimo raccontino è in impropria responsione rovesciata col primo, in cui l’incontro fra i personaggi è impossibile come la sovrapposizione delle traiettorie di due alfieri di campo opposto sulla scacchiera. Qui l’incontro è ideale, intimo, ma materialmente irreale e impraticabile. Nell’ottica della scrittura mannara, qui la narrazione è intrisa di umanità pura: l’ibridazione e l’ircocervo, la multiforme natura, sono proiettate sul linguaggio, sistema di pedine atopiche sulla scacchiera della schermaglia amorosa. Se multiformità si deve qui riconoscere, la si rinviene nell’occasionale androginia del travisamento di Lucia (da Charlot) in una sorta di gioco di ruolo: dimensione tipica di un trickster collocato al limite delle distinzioni.
Se traiamo le somme della complessa equazione dei raccontini, ci troviamo di fronte a una responsione chiastica: apre la raccolta un racconto a dominanza maschile, in cui il trickster scacchista-pugilatore è a cavallo dei confini verticali fra mente e corpo e orizzontali fra occidente e oriente -e in tale racconto il rapporto col femminile è uno yin e yang incompiuto; la chiude un racconto al femminile in cui il rapporto col maschile è rappresentato dall’assente forza coattiva paterna che ha internato la protagonista, ma allo stesso tempo è fagocitato nell’androginia di quest’ultima, trickster inconscia. In mezzo le narrazioni multiformi e mannare (il clou negativo essendo rappresentato da Large White), in cui dominano Ulissi parziali e mancati. Il sistema tetralogico è poi, sul piano stilistico, strutturato in un dittico, in cui il grado (quasi-)zero del plurilinguismo è in Con un certo ritmo, opposto nettamente a Large White, che ha il timbro linguistico identitario più forte, a coprire la realtà più deteriorata. Le torsioni esistenziali che in questa tetralogia si rappresentano, non sono tanto sviluppate nel dipanarsi di un’unica dramatis persona in quattro maschere: piuttosto rappresentano il declinarsi in quattro situazioni complementari (uno yin e yang deforme, stavolta) di un sistema di archetipi strutturato, in cui le maschere affioranti sono molteplici e intrinsecamente dissociate, nel tentativo di tenere insieme pezzi di esistenza e di natura incompatibili: incapaci come sono di muoversi a cavallo dei mondi, i personaggi ne sono lacerati o mutilati o menomati.
Quel che se ne ricava è un paesaggio umano in cui l’ironia gentile dei nomi quasi-parlanti ed espressionistici, dei composti macedonia, delle parole deformate, del dialetto estremo, tipici di Mariano Bàino, fa da coibentazione e vetro di sicurezza per il lettore costretto a maneggiare il decadimento radioattivo dell’esistenza. Una sorta di versione affabile e quotidiana dell’occhio olimpico di classica memoria, che mostra la realtà delle cose nella sua crudezza barocca, senza consolazioni ed esorcismi epidermici, guarendo come può la ferita che è prezzo di ogni equanime e onesta presa di coscienza dell’uomo sulla storia e sul mondo.

 

Madre di chi si gratta la crosta

3

 

versi per Giovanna Marini,

per chi ancora gratta sulla crosta delle cose,

e continua a cantarla

 

Nella veglia, le Badesse hanno canti per la Madre Creatora. Vaste litanie. E a noi, fatti come i giunchi, parti sciancate del ventre, tramandano una vecchia orazione:

«Madre degli appesi. Madre dal fora al dentro. Madre dal dentro al fora. Dicci, Madre, il menarca che scuce, che rompe la cuccia del glande. Insegnaci il framezzo. Gli impacchi di rovescio.  Il finitamente incompiuto. Tu che porti. Che porti travaglio. Madre. Tu ci scroci l’occhio buono. Ci sterpi dal pozzo che stagna. E non rinserri e non rintoppi. Madre sentinella dell’ocra. Madre di chi si gratta la crosta. Madre.»

 

Danza dello scioglimento. Per Giovanna Marini. Valle Cascia.

Associazione Congerie, 2021