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Jane Bennett: «la potenza delle cose»

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La casa editrice Timeo ha recentemente pubblicato in Italia un saggio fondamentale di Jane Bennett, Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose. «Quale metodo» si chiede Bennett nel libro «potrebbe essere adatto al compito di parlare della materia vibrante? Come descrivere le cose senza cancellarne l’indipendenza? Come riconoscere l’oscura ma onnipresente intensità dell’affetto impersonale?».

Ospito qui alcune pagine tratte dal secondo capitolo, L’agentività dei concatenamenti.

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L’espressione potenza delle cose presenta il vantaggio retorico di riportare alla mente quella percezione infantile che vede il mondo pieno di ogni sorta di esseri animati, alcuni umani, altri no, alcuni organici, altri no. Riporta l’attenzione su un’efficacia degli oggetti che eccede i significati, i progetti o gli scopi umani. La potenza delle cose è quindi un buon punto di partenza per pensare in un modo che vada oltre il dualismo vita-materia, il principio organizzativo dominante nell’esperienza adulta. Lo svantaggio dell’espressione, tuttavia, sta nel fatto che essa tende a sopravvalutare la cosalità – la stabilità immutabile – della materialità, mentre il mio obiettivo è teorizzare una materialità che sia tanto forza quanto entità, tanto energia quanto materia, tanto intensità quanto estensione. Qui il termine esterno può rivelarsi più appropriato. Le pietre di Spinoza, il Selvaggio assoluto, le Meadowlands percolanti, l’agile Odradek, la pratica del deodand, la mineralità in divenire, la non identità incommensurabile: nulla qui è oggetto passivo o entità stabile (sebbene non si tratti neppure di soggetti intenzionali).

Tutto rimanda invece a una vitale matericità. Un secondo svantaggio, correlato al primo, consiste nell’individualismo latente dell’espressione potenza delle cose, e con ciò intendo il fatto che la figura della «cosa» si presta a una concezione atomistica piuttosto che condivisa dell’agentività. Se è vero che anche il corpo più piccolo o più semplice può effettivamente esprimere uno slancio vitale, conatus o clinamen, un attante non agisce mai da solo. La sua efficacia e la sua agentività dipendono sempre dalla collaborazione, dalla cooperazione o dalle interferenze interattive di molti corpi e forze. Il concetto di agentività cambia molto una volta che le cose non umane cominciano a essere considerate più come attori che come costruzioni sociali, e una volta che l’umanità stessa inizia a essere intesa in quanto materialità vitale e non come entità autonoma. In questo capitolo cerco di sviluppare una teoria dell’agentività distributiva esaminando un evento della vita reale: un blackout elettrico che nel 2003 ha colpito cinquanta milioni di persone in Nord America. Prenderò in esame la rete elettrica interpretandola come un concatenamento di agenti. Come si comporta l’agentività dei concatenamenti rispetto alle tradizionali teorie dell’agentività, come quelle incentrate sulla volontà o l’intenzionalità umana, o sull’intersoggettività, o sulle strutture (umane) sociali, economiche o discorsive? E in che modo una comprensione dell’agentività intesa come coalizione di elementi umani e non umani altererebbe i concetti consolidati di responsabilità morale e politica? Due sono i concetti filosofici importanti per la mia risposta a questi interrogativi: i corpi «affettivi» di Spinoza e il concatenamento di Gilles Deleuze e Félix Guattari.» […].

CORPI AFFETTIVI

I corpi desideranti di Spinoza sono anche associativi, si potrebbe persino dire che siano corpi sociali, nella misura in cui ogni corpo, per sua stessa natura, è continuamente preso nel gioco degli affetti e delle affezioni con altri corpi. Deleuze ha spiegato questo nodo: la potenza di un corpo di affettare altri corpi comprende una «corrispondente e inseparabile» capacità di essere affetti: «La potenza di patire e la potenza di agire di una stessa essenza, di una stessa capacità di essere affetti, sono soggette a variazione in modo inversamente proporzionale. Entrambe costituiscono la capacità di essere affetti in proporzioni variabili». Il corpo desiderante e incline all’incontro di Spinoza nasce nella cornice di una prospettiva ontologica secondo cui tutte le cose sono «modi» di una «sostanza» comune. Qualsiasi specifica cosa – «una scarpa, una nave, un cavolo, un re» (per usare l’elenco di Martin Lin) o un guanto, un topo, un tappo e la narratrice umana della loro vitalità (per usare il mio elenco) – non è soggetto né oggetto, ma una «modalità» di ciò che Spinoza chiama Deus sive Natura.

Spinoza afferma inoltre che ogni modo è in sé un mosaico o un concatenamento di corpi più semplici o, per dirla con Deleuze, per Spinoza un modo esistente ha bisogno di moltissimi altri modi esistenti, ed è «composto da moltissime parti, parti che vengono da fuori». È interessante notare che anche per Lucrezio le cose paiono prendere corpo esattamente come in un mosaico: «Conviene aver suggellato e tenere ben saldo nella memoria anche questo principio: nulla c’è, fra le cose di natura visibile, che sia formato d’un solo genere di elementi, niente che non consista d’una mescolanza di semi». Lucrezio collega il livello di diversità interna al livello di potenza posseduto dalle cose: «E ogni cosa che in sé possiede più forze e proprietà, mostra di contenere più specie e varie forme di elementi». Come vedremo, Spinoza sostiene una posizione simile. Per Spinoza sono conativi sia i corpi semplici (che forse sarebbe meglio chiamare protocorpi) sia i modi complessi o mosaicizzati che formano. Nel primo caso, il conatus si esprime come una ostinazione o una tendenza inerziale a persistere; nel caso di un corpo o modo complesso, conatus si riferisce allo sforzo richiesto per mantenere in essere quel particolare rapporto tra «movimento e quiete» che si ottiene tra le sue parti, rapporto che definisce il modo per quello che è. Questo mantenersi in essere non è un processo di mera ripetizione del medesimo, perché comporta una continua invenzione: dal momento che ogni modo patisce le azioni su di sé di altri modi, azioni che sconvolgono i rapporti di movimento e quiete, per persistere ogni modo deve cercare nuovi incontri per compensare creativamente le alterazioni o gli affetti che esperisce. Essere un «modo», allora, significa formare alleanze ed entrare in concatenamenti: modificare ed essere modificato. Il processo di modificazione non risponde ai comandi di nessun modo: nessun modo è un agente in senso gerarchico. E il processo stesso non è privo di tensione, poiché ciascun modo gareggia con e contro gli affetti (mutevoli) di (un insieme mutevole di) altri modi, pur essendo soggetto all’elemento del caso o della contingenza intrinseca a qualsiasi incontro. La sostanza conativa si trasforma in corpi concatenati, vale a dire corpi complessi che a loro volta si co-aggregano allo scopo di accrescere la propria potenza. Spinoza ritiene, ad esempio, che per un corpo è preferibile affiliarsi a quanti più corpi possibile: «Quanto più il corpo è atto a essere affetto in molti modi, tanto più la mente è atta a pensare». L’idea chiave che voglio trarre dalla ricca e contestabile filosofia di Spinoza, per metterla all’opera nella cornice del materialismo vitale, è la seguente: i corpi accrescono in potenza all’interno di o in qualità di concatenamenti eterogenei.

Le conseguenze per il concetto di agentività riguardano l’effettività cui il termine si è tradizionalmente riferito e che ora viene distribuita in un campo ontologicamente eterogeneo, non più capacità localizzata solo nel corpo umano o in un collettivo prodotto (solo) da sforzi umani. Anche le frasi di questo libro sono emerse dall’agentività concatenata di molti ambiziosi macro e micro-attanti: dai «miei» ricordi, intenti, contrasti, batteri intestinali, dai miei occhiali e dalla mia glicemia, nonché dalla tastiera di plastica del computer, dal cinguettio degli uccelli dalla finestra aperta, dall’aria o dai particolati nella stanza, solo per citarne alcuni. All’opera qui sulla pagina c’è un aggregato di sonorità animale-vegetale-minerale con un particolare grado e una certa durata di potenza. All’opera qui c’è ciò che Deleuze e Guattari chiamano un concatenamento.

La caduta dei Lammatari

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[La caduta dei Lammatari è un romanzo inedito di Joe Zerbib, francese trapiantato a Napoli; è stato segnalato all’ultimo premio Calvino “per la narrazione frizzante e grottesca della caduta di un clan camorristico, in un tripudio di prostitute, teste mozzate e kitsch che ammicca con intelligenza alla sceneggiata napoletana”. Ne pubblico il primo capitolo. ot]

 

 

di Joe Zerbib

Erano forse in mille sul terrazzo di copertura: i Lammatari al gran completo, compresi dignitari e sgherri di numerose famiglie alleate.

Si celebrava il genetliaco del padrone. Gigino Teratornis, detto «il Condor», indiscusso sovrano del Rione Sanità, forse l’uomo più temuto di tutta Napoli. Avrebbe compiuto quarantasette anni a mezzanotte. Però da lontano il suo party sembrava un compleanno da seconda elementare. Contro il parere di tutti, aveva costellato il terrazzo di addobbi di cartapesta: stelle filanti, ghirlande e lanterne in tutte le sfumature dell’arcobaleno.

Una selezione musicale di cattivo gusto assordava gli ospiti. La maggior parte si stava radunando sull’ala nord del terrazzo, il più lontano possibile dal sound system. Lì, dovettero affrontare un’altra fonte di inquinamento sonoro. Una gang di gabbiani occupava il tetto del monastero contiguo. Le loro risate rimbombavano così forte da rendere penosa ogni conversazione. Un invitato, particolarmente sensibile al rumore, tirò fuori una pistola e si impegnò a risolvere il problema, non prima di aver avvitato il silenziatore.

Per coronare il tutto, numerosi Airbus A300 si libravano poco sopra le teste dei convitati come uccelli di paradiso nella canopia amazzonica. Su questo c’era poco da fare, a meno di sollecitare una potenza di fuoco maggiore (il Condor disponeva di vari tipi di lanciarazzi). Sembrava un po’ esagerato.

Il porto di Napoli brontolava in lontananza. Era appena arrivata una portacontainer da Tangeri, le cui mercanzie di ogni sorta sarebbero finite, per metà almeno, negli affari dei Lammatari.

Ci fu un tuono particolarmente forte che molti scambiarono per un inizio di temporale. Ma di temporali, non se ne parlava più. Dopo settimane di strenue intemperie, il sole splendeva di nuovo su tutto il golfo. Non ci fu un abitante, in quel radioso sei maggio, che non avesse lodato il cielo con un «assa fa’ ‘a Maronn» o simili invocazioni alla Santa Trinità.

A parere di tutti, questo immacolato cielo azzurro era di buon augurio per il Condor e la sua fiorente tribù.

Dopo i primi saluti di benvenuto, che durarono ben due ore, Gigino Teratornis decise di avviare la visita guidata degli appartamenti. Iniziò a vagare da un ospite all’altro, con il suo barboncino nano sotto l’ascella, nell’intento di raggruppare tutti verso la scala principale. Molti erano appena arrivati e volevano godersi un attimo la vista e il buffet.

Sull’ala est del terrazzo, tre calabresi incappucciati osservavano il sontuoso vulcano, che per la prima volta si offriva a loro da così vicino. Aspettavano un carico di esplosivi dall’ex-Jugoslavia in vista di un attentato a Torino. Gigino aveva fatto da tramite per l’affare e da allora li teneva in simpatia.

«Agiallu va duve truva granu!» disse loro Gigino con un pessimo accento calabrese. Il Condor era un grande amante di proverbi, ma raramente si preoccupava di capirne il senso.

Seduti ad un tavolo di PVC bianco, i coniugi Qingzhao sgusciavano arachidi. Primi importatori di selfie sticks d’Europa, i Lammatari facevano ottimi affari con loro. Oltre alle famose aste telescopiche, la coppia cinese importava tutta la paccottiglia da svendere sui marciapiedi del centro storico.

«Konishiwa!» esclamò Gigino passando accanto a loro. «A breve iniziamo la visita! Su!»

I Qingzhao non si offesero di essere scambiati per giapponesi. Sapevano che Gigino in quelle occasioni amava ingoiare pasticche e perdeva un po’ delle sue capacità cognitive. Aveva in effetti le pupille molto dilatate e la voce più acuta del solito.

Il boss passò poi in mezzo a due gruppi di africani che si scrutavano con ostilità. Da un lato i gambiani, che avevano conquistato il monopolio dello spaccio di piazza Bellini (con l’avallo del Condor), dall’altro i senegalesi, un po’ meno azzimati, che controllavano (sempre con l’avallo del Condor), il contrabbando di borsette griffate. Fra le due schiere c’era un’isola di bellezza adocchiata da tutti: una donna color cannella, seduta su una sedia, che aggiustava le sue trecce. Era Zuleica, la capoverdiana, che aveva già respinto vari tentativi di approdo.

Gli ucraini avevano preso in mano la situazione barbecue, assistiti da un florilegio di donne da marciapiede. Gigino aveva un debole per il fenotipo e l’indole di questi paesi post-sovietici. Non tanto per le ragazze, troppo bionde a parer suo, ma per i maschi che possedevano un certo sex appeal. Uno di loro faceva roteare un matusalemme di vodka in equilibrio sull’indice. Di tanto in tanto ne versava un po’ sulle salsicce.

«Ïak dila Valerian?» gli chiese il Condor.

«Douje dobre. A ou vas?» rispose lui.

«Tutto bene. Iniziamo la visita degli appartamenti. Mi metti una salsiccia da parte per Agostino?»

«Waf, waf!» fece il barboncino che Gigino teneva ancora sotto l’ascella.

Un filosofo francese, camicia bianca e capelli grigi, tallonava Gigino. Aveva palesemente qualcosa di urgente da dire al camorrista. Riuscì finalmente ad attirare la sua attenzione.

«Monsieur Teratornis?» disse il filosofo con la massima educazione.

«I don’t speak franswua. Sorry.»

E Gigino contornò il filosofo con una specie di roulette alla Zidane. Il Condor odiava i francesi e i pensatori.

Appartato in un angolo, un discendente dei Sanfelice guardava il vulcano, tamburellando con le dita sul parapetto. Aveva bisogno di un prestito di qualche milione per rimettere in sesto il suo hôtel particulier. Gigino evitò anche lui.

Un ex-calciatore slovacco aspettava il suo elicottero chiacchierando con il sindaco. Un vescovo, un questurino in borghese e un webmaster comunista commentavano la vista.

«Attenti tutti. La visita sta per iniziare!» gridò Gigino più volte.

Il boss attraversò numerosi gruppi, uno più variegato dell’altro, tanto che c’era da chiedersi come mai il suo clan avesse acquistato una sì ampia presa sulla società napoletana.

Sette videomaker e dodici fotografi erano stati ingaggiati per seguire tutta la festa. Era difficile per ognuno di loro non comparire sullo schermo di un collega. Si riunivano spesso al centro del terrazzo per riconsiderare il loro piazzamento. Avevano anche una postazione in un angolo dalla quale alimentavano in diretta i numerosi profili di Gigino Teratornis. Ne possedeva una cinquantina.

Il boss arrivò a pochi passi dalla moglie.

«Tesoro gioia, siamo pronti per la visita» disse lui.

La moglie stava narrando il suo ultimo soggiorno a Monte Carlo davanti a tre coetanee che annuivano di concerto ogni secondo. Maddalena Galasso, riconoscibile dalla sua leonina criniera, era di un’importante casata ischitana, strategica per gli affari dei Lammatari nel mediterraneo.

Prima di sposare Gigino Teratornis, Maddalena era stata la sua cognata, ovvero la moglie di suo fratello. Il Condor l’amava come amava la sua Ford Mustang: era soddisfatto di possederla, ma non la sapeva guidare. Il boss nutriva però un desiderio malsano quanto irrefrenabile per la figlia di Maddalena: Carmela, sua nipote, diciassettenne di letale fascino.

Oggi era l’unica che mancava. L’avrebbe voluta al suo fianco, o per lo meno a portata di mano. Ma questa palesemente boicottava la festa. Gigino si appoggiò al parapetto e iniziò a frugare l’orizzonte con due occhi strizzati. A qualche blocco da lì c’era l’appartamento di Carmela. E sul tetto di quello, un corpicino volteggiava. Sembrava un pezzo di tessuto intrappolato nel vento. Era lei. Carmela. Ancora lì, su quel terrazzo rosso non calpestabile, da sola, a ballare per i gabbiani…

Gigino provò a distinguere meglio il corpo della ragazza, che sembrava nuda. Troppo miope per vederla con gli occhi, il Condor la ricreava mentalmente. Immaginava le gocce di sudore che scivolavano sulla pelle plastilinosa della sua pancia. La schiena scolpita, la nuca dritta e forte, il suo mappamondo a paniere… tutta Carmela si offriva a lui, nuda, immobile e sedata, in una luce arancione.

«Un giorno farò fuori tua madre» disse Gigino tra sé e sé, «e per te non sarò più né zio, né patrigno.»

 

Al centro del mondo

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Gianni Biondillo fa tre domande ad Alessio Torino

Alessio Torino, Al centro del mondo, Mondadori, 2020, 264 pagine

 

Al centro del mondo che racconti nel tuo Al centro del mondo c’è la provincia, sempre meno intercettata dalla letteratura contemporanea: è una scelta estetica o anche politica?

Politica ed estetica, prese singolarmente, non bastano a fare un romanzo. Servono entrambe per costruire quella cosa singolare che è la realtà romanzesca. Il cappellino di Trump che Zio Vince porta mentre fa il miele nel suo borgo sperduto ci racconta esattamente questo, cioè che la cosiddetta provincia è un pezzo di mondo come tutti gli altri.

 

I tuoi personaggi sono “spostati”, eccentrici, disadattati. Quanto letterari e quanto davvero conosciuti nel quotidiano?

Che esista una tradizione letteraria, anche geograficamente vicina a me, è innegabile. Basti pensare a Tonino Guerra o a Paolo Volponi, tanto per fare due nomi. È una tipologia di personaggi che rimanda in un modo o nell’altro alla matrice del Don Chisciotte, quella dell’essere umano fuori asse rispetto al mondo. Allo stesso tempo, il piano del quotidiano è una fonte ugualmente importante. Le personalità non squadrate nel marmo mi hanno sempre attratto, e da personalità a personaggio il passo è breve.

 

Il Demonio, la Follia, la Morte, la Fertilità. Temi primordiali, atavici. Cos’è il sacro, raccontato oggi?

Il sacro che ho raccontato nel romanzo è sempre filtrato attraverso gli occhi di Damiano, un ragazzo che non ha alcun dubbio che la Madonna gli parli attraverso il volo delle api, che le foglie degli alberi si muovano per accarezzarlo o che le rondini sappiano ogni cosa di lui. Eppure, in questo suo estremismo, che potremmo anche definire folle, c’è qualcosa di assoluto che ha che fare con noi. Assomiglia a quel qualcosa di irriducibile che conserviamo in fondo ai cassetti della nostra razionalità, quel qualcosa che non imparerà mai ad accettare la vita, soprattutto per come va a finire.

 

Nuovo inizio

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di Gianluca D’Andrea

 

I – Lo spettacolo della fine

 

I.

Nella capsula, l’aria viziata
non era ancora stata incanalata
nel tubo di espulsione.
Guardavo in apprensione
eppure con distacco
l’acqua intoccabile dopo
che l’ultimo strato si era dissolto.
Fuori dalla piccola sfera
non avrei sopportato l’aria
se non per qualche ora.
Due o tre, secondo i dati acquisiti
alla console. L’acidità dell’atmosfera
era visibile all’orizzonte; la nebulosa
gialla copriva metà della visuale
e gradualmente la prospettiva
si restringeva, diminuiva l’opacità.

 

Un senso di spossatezza accompagnava
la curiosità di vedere ogni evento –
solo con la giusta attenzione
avrei avuto la possibilità
di ricostruire i particolari
nella memoria. Dal vivo,
per così dire, senza il filtro
dello schermo se avessi registrato.
Mi addormentai comunque. Al risveglio,
dopo qualche ora, rilevai
che l’evento era ancora in corso.
Mi feci ricadere sul letto rigido
posto dietro la console, come
in ogni capsula, e provai a ricordare
l’origine dei fatti.

 

 

VII.

«È spaventoso pensare che mio papà impugnasse gli elettrodi per la tortura con le stesse mani con cui mi accarezzava», racconta Analía, 34 anni, figlia di Eduardo Kalinec. Per tutti era Dottor K, uno dei più feroci aguzzini, condannato all’ergastolo nel 2010. «All’inizio non sapevo, poi non volevo vedere, alla fine ho aperto gli occhi», spiega Analía.

Oltre lo scandalo resta la notizia, le associazioni suscitate, i fantasmi del tempo, dell’Argentina il velo biancoceleste.

Non esiste altra storia se non quella dell’individuo e la quantità di informazioni incamerate.

Dottor K, mi fa pensare a mosche e scarafaggi, scarti, reietti, eppure lui ha nome e soprannome, e gli elettrizzati? I morti affogati e imbottiti di Pentothal (altro nome della morte buona e pietosa) e lanciati – pesi morti – e schiantati e disidentificati e sparpagliati e discomparsi e mancanti e anestetizzati, ecc.

Tutto gestibile ancora meglio dalla console, perché è accaduto e ho ancora un po’ di tempo per fare le mie ricerche, aspettare e guardare e leggere e informarmi e incamerare e quantificare e potenziarmi e lavorare su nuovi aggettivi, ecc.

È spaventoso pensare che il corpo svelato sia così puro e tenero e che abbia una chimica così complessa, un’emivita così prolungata… raddoppiata e dimezzata tendente al vegetale – forma di vita perfetta.

 

Alba celeste che non sorgerai più
come la videro gli scomparsi
o i calciatori e gli insetti,
alba che finisci in un tempo
che si rinnova in altri cicli,
alba naturaleinnaturale,
darwiniana e rituale,
alba che induci al canto involontario
ogni essere digitale
prima di comprendere e neutralizzare
anche la scomparsa.

 

 

XVII.

Nel racconto Dalla veranda (The Overloaded Man, 1962) Ballard – altro tizio in arrivo sempre prima e dopo il diluvio – presenta un protagonista, Faulkner, che sta «diventando matto a poco a poco».

La sua “follia” consisterebbe nella ricerca metodica di una fuoriuscita, realizzabile attraverso la scomparsa della percezione come in un’esperienza allucinogena («l’effetto era simile a quello della mescalina e di altri allucinogeni»), dal mondo.

Non è un caso che il protagonista di Ballard si chiami Faulkner, infatti, lo stesso sembra un Compson (Benjy) in fuga dal tempo “industriale” e dalla ripetitività delle forme.

Una fuga che avviene dal cunicolo della percezione ed è scomparsa, dissoluzione di un reale opprimente che non risparmia il soggetto («Potrei arrivare a uscire dal tempo»; «Non puoi chiudere gli occhi di fronte al mondo. La relazione soggetto-oggetto non è così antitetica come potrebbe far pensare il “Cogito ergo sum” di Cartesio. A ogni svalutazione che fai del mondo esterno, corrisponde una svalutazione di te stesso»).

Ma l’autodistruzione risiede nel rifiuto di un ordinamento. Così, il Faulkner di Ballard è un altro signor K della storia letteraria che – un po’ come il Torrance di Kubrik ma non di King – nella sua dissoluzione, portata a termine con gli strumenti stessi della tortura (irrazionalismo e destrutturazione), punisce un sistema oppressivo e uniformante – ad infinitum.

Lo dico dalla solitudine della mia capsula e dal sentire comune che ci vuole liberi di immaginare, finalmente, nella nostra solitudine.

P.S. La fine non sembra arrivare.

 

 

XXI.

Come non ritornare alla delizia delle immagini e fantasticare sulla loro necessità. Quelle visioni o gli incubi più ricchi di particolari sono percezioni reali. Come l’incubo della giostra e del piede ferrato, del corpo esploso nel fuoco e della fornace coi residui di carbone e con le persone in ginocchio stimolate negli orifizi, ecc.

La vertigine amplificata dai riflessi di un luna park in cui le montagne russe sono enormi e i binari serpeggiano dentro un apparato di specchi deformanti. Il dispositivo cresce su se stesso, così la luce plasma mostri in decomposizione nel gioco dei riflessi. D’altro canto, ogni incubo, anche questo, è un mostro sul petto che cova misteri e che non lascia superstiti, mai, ecc.

 

Dentro la capsula l’aria è asfissiante.

 

 

 

 

II – Nuovo inizio

 

I.

La sensazione di raggiungere una casa è fondante in ogni esistenza. Collegabile alla necessità di protezione che caratterizza l’infanzia, è la divisione distintiva tra dentro e fuori. Sentirsi dentro o fuori dalle situazioni, nel mondo o ai suoi margini, dipenderebbe dalle capacità di accoglienza o vicinanza di un rifugio, dalla distanza o vicinanza alla sicurezza. La casa è una dimensione tattile e anche olfattiva che si radica nella personalità e ne determina l’adattamento. Non parlo di un’appropriazione del sé attraverso la casa, ma di un riassetto germinante del vuoto d’esperienza che definisce l’infanzia.
Tornavo con gli occhi alla strada, affrettavo i passi per sentire da vicino l’interno. La soglia profumava di fughe, desiderio di accoglienza, di calore, di una nuova energia. Ero nella zona intima di un processo, di una curvatura che avvicinava a un centro come pura ipotesi.
Mi riconosco in questa ipotesi e attraverso la soglia.

 

*

Testi tratti da Gianluca D’Andrea, Nuovo inizio (L’arcolaio 2023), prefazione di Antonio Devicienti.

 

Materialismo (sillabario della terra # 19)

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di Giacomo Sartori

a Frederika Randall

Io vengo dal materialismo. Sono cresciuto in una regione ancora molto bigotta, ma in casa mia non esistevano santi o forze trascendenti, e men che meno divinità, c’era solo l’esistenza, che andava goduta fino in fondo, in particolare sfidando le montagne, bellissime e tanto varie, perché poi veniva la morte, che era la fine di tutto. Senza alcuna possibilità di sopravvivenza anche solo nel pensiero di altre persone, o sotto forma di lascito, di esempio. La morte era un nemico temibile e infausto del quale non si parlava. Restava quindi la ricerca delle sensazioni, fintantoché si era in vita, meglio se estreme. Fisiche, ma in seconda istanza anche artistiche, e in particolare letterarie. Quelle negative andavano invece relativizzate e tenute sotto controllo, senza mai lamentarsi. Erano i deboli e gli inetti, a lagnarsi sempre.

La mia scelta di studiare Agraria va letta in questo lignaggio ancorato nella materia, anche se qualcosa non quadrava più di tanto nelle coordinate familiari. Ancor meno allorché mi sono ritrovato a dedicarmi alla terra, sporcandomi le mani e i vestiti. Non era quello l’orizzonte di mio padre, alpinista che non aveva mai digerito la perdita dei motti altisonanti del fascismo e di mia madre strattonata tra i luccichii della mondanità, le gioie spartane della montagna e gli struggimenti dei romanzi. Era una materialità troppo priva di smalto e di afflati narcisistici, troppo terra terra. Troppo vicina a quella dei contadini piegati sulla zappa, con i quali avevo simpatizzato nell’infanzia, nel loro stupore, e della plebaglia senza ideali di grandezza, che ciascuno di loro a suo modo rifuggiva.

Nei primi anni di università mi sono tuffato nei mondi delle rocce e delle piante e dei meccanismi della vita, quella che chiamiamo natura. A ben vedere erano gli stessi esseri e elementi nei quali si erano imbattuti i miei sensi di bambino quando ci eravamo trasferiti in campagna, ma ricevano questa volta nomi meticolosi e mostravano i loro complessi meccanismi: questo nuovo incontro, che mi entusiasmava altrettanto di quello precedente, era cerebrale. Mi seducevano molto meno i metodi delle coltivazioni, che prendevano mano a mano il sopravvento nel corso universitario: li trovavo pedissequi e rigidi, quasi ogni complicazione fosse d’improvviso scomparsa. E anche uscito da lì lo studio della terra per me non è mai stato un lavoro, ma una passione nel contempo fisica e mentale, come tutti i grandi amori: una attrazione fatale. Se dicevo che lavoravo era solo per adeguarmi e farmi capire, senza creare sospetti o disagi. Occupandomi della terra dimenticavo la fatica di vivere, sfinendomi di dedizione mi riposavo.

La terra, che consideravo una sostanza nobile, restava però per me un oggetto materiale. Da frequentare, da studiare, da proteggere, appunto da amare, ma lontana dai miei questionamenti di fondo, dal mio essere più segreto. L’infinito lo cercavo nella letteratura. Leggevo romanzi e poesie per sete di rovelli abissali, legami nascosti e trascendenza. Su quella via sono andato poi più lontano, ho fatto dell’addomesticamento delle parole una pratica costante e necessaria. Ho scritto racconti e romanzi, pur estraneo alla piramide della cultura sono riuscito a farli adottare da rinomate case editrici. Avevo bisogno delle parole per ricostruire le macerie di me stesso, dando dignità alla mia esistenza, riscattando bassezze e sconfitte.

La poesia e i romanzi mi appagavano ma anche mi sfinivano. E non ho mai trovato pace nella sistematizzazione cerebrale. Nessuna teoria mi è mai sembrata assolutamente necessaria, e tanto meno le mie. Le parole mi servivano come esaltanti materiali di costruzione, come campi di battaglia, non come balsami lenitivi, o anche solo stampelle. E non mi sono mai sentito a casa, nemmeno per pochi istanti, nella narcisistica arena letteraria. La terra mi serviva a ritrovare un punto di appoggio e l’equilibrio, a risentirmi parte di qualcosa, pur nella marginalità più estrema delle mie collaborazioni precarie. Svolgeva il ruolo di contrappeso.

Annusando i suoi odori di muffe e di tempo e sistematizzando i suoi dati analitici ritrovavo la quiete. Dentro di me lo consideravo un modo come un altro per guadagnarmi da vivere, e mi rammaricavo del tempo enorme che mi prendeva, rubandolo alla scrittura: giornate di quattordici ore, settimane senza domeniche, mesi. Mi mentivo. Era lì che ritrovavo la grinta e il carburante che mi servivano per scrivere.

A un dato momento la mia esistenza è diventata troppo difficile, e questo andirivieni tra la letteratura e la terra non era più sufficiente a permettermi di andare avanti. Solo nell’assenza di pensiero, nell’eliminazione delle parole, ritrovavo la pace. Avevo bisogno di ritemprarmi ogni giorno nel silenzio. Ancora adesso non posso farne a meno. Dentro di me il silenzio si è affiancato alla terra e alle parole, mi ha permesso di riprendere l’annosa spola.

Le cose si sono chiarite solo di recente, dopo l’impazzimento collettivo della pandemia: le malattie a volte portano appianamenti e saggezza. La terra è uscita allo scoperto e ha invaso le mie pagine: non voleva più restare confinata. Non sopportavo più che la letteratura andasse avanti per la sua strada già tracciata, al meglio cogliendo le ansie di superficie, accompagnando di fatto la grande rimozione delle responsabilità nella catastrofe ambientale in atto. Mai come allora la maggior parte dei romanzi contemporanei mi apparivano anacronistici e inessenziali.

Mi pareva che la terra avesse bisogno di aiuto, che almeno per un po’ dovessi concentrare le mie forze lì, pazienza per il mio romanzo in fieri, al diavolo gli sforzi per essere presente sul claustrofobico palcoscenico delle lettere. Mi sembrava che dovessi impegnarmi a fare capire la sua importanza e a farla conoscere. Ho cominciato quindi a incontrarla con i bambini delle scuole, gli interlocutori che mi sembravano più promettenti, assieme l’abbiamo toccata, ascoltata e disegnata. Anche proprio grazie alla loro candida sagacia riflettevo meglio sulla sua essenza, scoprivo che non era solo quella che credevo, quella che per tanti anni avevo trasformato in cifre e carte colorate: non si limitava alla materialità, non aveva forse niente a che fare con questa.

A ben vedere con la sua anima al contempo minerale e organica e biologica la terra era la vita, con i suoi incessanti cambiamenti e i suoi segreti incomprensibili, le sue necessità che se ne fanno un baffo dei singoli individui e delle follie di grandezza nelle quali noi umani ci siamo barricati. Quella vita incommensurabile e ingovernabile, fluida e cangiante, percorsa da legami nascosti e corrispondenze sotterranee, che avevo per tanto tempo misconosciuto, con la zavorra della mia educazione, nella falsa credenza di abitare un altrove dove tutto aveva spiegazioni e conseguenze certe.

In realtà ero io che necessitavo il suo aiuto, non viceversa. Avevo bisogno di prendere atto della sua essenza enigmatica e dei suoi misteri per sbarazzarmi una volta per tutte del materialismo. Non era agli antipodi dell’assoluto e del silenzio che perseguivo, ne era anzi il paradigma, un ricettacolo privilegiato. Il prezioso vuoto che trovavo nella meditazione, era anche dentro di lei. In ogni caso non dovevo più tenerla lontana dai miei scritti, potevo finalmente mescolare le carte. Nei miei racconti s’è fatta avanti la puntigliosità della scienza, nei miei saggi s’è infiltrata la poesia.

Non c’è alcuna differenza tra scrivere una storia e andare in giro per i campi a fare rilievi con una trivella manuale, sono analoghe ricerche negli strati non visibili dell’esistenza, adesso posso prenderne atto. Non è quindi un caso che sia finito a occuparmi della terra. Non l’ho capito prima perché ero imbrigliato nella religione della materia che ho respirato fin dall’infanzia, e che opponeva la vita alla morte, l’uomo alla natura, gli esseri alle cose, e l’alto al basso, facendo dell’alto della superiorità umana, con il suo petulante raziocinio e i suoi principi, la guida da seguire. E invece nel basso della terra c’è l’alto, basta solo saperlo vedere, ci sono il silenzio e l’equivalenza di ogni tempo, che sono le verità ultime. Come nell’alto dei grandi testi letterari c’è prima di tutto il basso della materialità, questo lo sapevo già. Le polarità tra le quali ho fatto la spola per decenni erano solo apparentemente contrapposte, non c’è alcuna contraddizione, posso mettermi l’animo in pace.

 

 

Il Gesuita

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[Pubblichiamo un estratto del’l’ultimo romanzo di Franco Buffoni, Il Gesuita (FVE editore, 2023) da poco in libreria.]

di Franco Buffoni

L’indomani dormo più a lungo del previsto e zia Giulia esce senza svegliarmi. Quando mi accorgo che sono le dieci, non prendo neanche il caffè, mi vesto e corro ad agguantare l’autobus. La Piramide Cestia è impressionante, giro attorno e finalmente riconosco Klaus che mi aspetta. Corro, lo abbraccio e lo bacio, come se dovessi farmi perdonare qualche cosa. Forse il bacio vero dato ieri a Jason, o le prove di biancheria intima per farlo cadere…

All’interno del Cimitero degli Inglesi voglio subito cercare la tomba di Hendrik Christian Andersen, mentre racconto a Klaus tutto ciò che su di lui ho imparato ieri da Jason. Klaus si limita a osservare con una punta di ironia:

In queste cose Jason è ferratissimo.

Gli racconto del sogno che divenne per Andersen un’ossessione, la “gloriosa utopia” pacifista. E anche dell’innamoramento per lui da parte di Henry James. Mentre leggiamo insieme l’inscrizione sulla tomba dei fratelli Andersen, allungo il braccio attorno alla vita di Klaus. Faute de mieux: avrebbe dovuto farlo lui. “Our dream of a city for all nations, dedicated to the creative spirit of God in man, was our hope and prayer in life. Here the dreamers sleep”.

Klaus ricorda anche l’attacco di una splendida poesia di Shelley:

Lift not the painted veil which those who live call Life…

Non sollevare il velo dipinto: quelli che vivono lo chiamano vita, traduco lentamente.

E dietro stanno in agguato i destini gemelli della Paura e della Speranza, a tessere
le loro ombre sull’orrido mostruoso, conclude Klaus, scompigliandomi ulteriormente i capelli, che certamente non avevo ben pettinato.

Quando arriviamo a Keats col suo nome scritto sull’acqua, sono costretto a confessare che non ho ancora fatto colazione. Klaus si mette a ridere, usciamo fuori sulla piazza e ci sediamo nel sole a un tavolino rosso del bar della stazione Ostiense.

Cioccolata con panna e brioche alla crema per il signore, ordina, e per me un caffè.

Ridiamo.

Pneuma è il soffio col quale l’amante conduce a sé l’amato, quasi mi sorprendo a pronunciare.

Soprattutto se il soffio è alla crema – replica Klaus, con un lampo negli occhi che non gli ho mai visto – ma adesso ti pongo un’alternativa tra la Domus Aurea e i Santi Quattro Coronati con San Clemente.

Alla Domus Aurea sono già stato coi miei nella prima visita a Roma, quindi scelgo senz’altro la seconda opzione, che mi sembra bella consistente.

Che cosa ricordi di quella visita?

Ricordo una scritta che la guida ci fece notare. “Sodomito”: stava sotto una volta della Domus Aurea accanto alla firma di Pinturicchio. Evidentemente il grande pittore aveva voluto lasciare traccia del suo passaggio e in seguito un collega invidioso aveva creduto di insultarlo aggiungendo quella parola. Di quel racconto ricordo soprattutto l’irritazione di mio padre.

Non ho difficoltà a immaginarla, conclude Klaus dirigendosi verso il primo taxi in attesa di fronte al bar.

Quella del Celio è per me la zona più affascinante di Roma. Qui sotto la basilica dei santi Giovanni e Paolo sono stati individuati i resti di un complesso residenziale romano, ancora in parte da portare alla luce, mentre laggiù, e ci possiamo arrivare a piedi, voglio proprio sorprenderti coi Santi Quattro Coronati.

Perché questo nome?

Siamo al tempo delle persecuzioni di Diocleziano. E vi è una doppia tradizione, la prima riferita a quattro scalpellini, martirizzati per la loro fede cristiana (uno si chiamava Claudio, come me); l’altra a quattro soldati romani, che per la stessa ragione vennero martirizzati lungo la via Appia. Ma osserva questo ingresso, così dimesso, e tieni presente che, prima dello spostamento in Vaticano, questo complesso era la sede pontificia.

Entriamo mentre le monache agostiniane stanno intonando un canto polifonico di estrema raffinatezza. Penso che in questo momento, se potesse vedermi, sarebbe contenta la zia suora carmelitana: sono in compagnia di un prete nell’antica basilica di papa Martino V. Un po’ meno se conoscesse i miei retropensieri e se vedesse che, seduti accanto sulla panca, la mia mano destra è entrata nella tasca sinistra del giaccone del prete intrecciando le dita alle sue. E il prete stringe forte quelle nocche fino a farmi male, ma io resisto e non tolgo la mano.

Raggiungiamo a piedi a San Clemente, e finalmente Klaus mi permette di offrirgli un’amatriciana al volo con un bicchiere di rosso al bancone del bar situato di fronte all’ingresso.

Siamo nella valletta che unisce il Celio all’Esquilino, nel cuore del rione Monti, e stai per vedere qualcosa di unico. Non perché altri edifici non presentino varie stratificazioni, ma perché qui, grazie alla conformazione del terreno, quattro fondamentali strati sono perfettamente conservati e facilmente leggibili. Vediamo se ci arrivi da solo a riconoscerli…

Questo dove entriamo non può che essere il più moderno.

Difatti è del dodicesimo secolo.

Moderno per Roma, intendo, dai non prendermi in giro…

Affatto, hai cominciato bene, scendiamo, continua.

Quest’altra non può che essere la basilica paleocristiana.

Bravissimo, e come vedi da quelle decorazioni, per esempio, la paleocristiana si era insediata all’interno delle mura di una dimora patrizia romana.

Fantastico!

E se scendiamo ancora troviamo altre costruzioni romane più antiche. Ma non è finita, osserva quell’anfratto giù in basso, che cosa noti?

Sembra un altare…

Culto mitraico, my dearest….

Abbraccio Klaus con grande trasporto, diviso tra il proseguimento del mio tentativo di seduzione e l’emozione che provo per quanto sto vedendo.

Siamo soli e non mollo la presa, avvicino le labbra alle sue, sento la sua mano scendere sotto il mio giubbotto, non l’ha mai fatto. Qualcun’altro sulle scale. Klaus mi allontana.

Torniamo a piedi verso il Colosseo, l’Arco di Costantino.

In pratica ci stiamo ricongiungendo alla passeggiata dell’altro giorno al Palatino, sorride Klaus accompagnandomi verso l’autobus.

L’appuntamento per domani è a Porta Maggiore, piazzale Labicano, alle undici, ci accoglierà Jason perché il suo team lavora proprio lì nella Basilica sotterranea di Porta Maggiore, 14-54 dopo Cristo.

Quanto a te, fai il bravo e torna subito dalla zia…

Non capisco perché mi debba fare una raccomandazione così stupida, vorrei baciarlo, ma mi allontana. Sento però di nuovo la mano tra i miei ricci.

Roberta Sireno: «dissolvere è una nuova pratica della carne»

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poesie inedite di Roberta Sireno

 

le arterie si raggrumano, le ossa dilatano

scivola l’incavo che inghiotte:

l’impero non è luce, ma fame, spettro

 

*

 

dissolvere è una nuova pratica della carne

dove non si è verticali e nemmeno orizzontali

c’è solo il corvo che sparisce

dietro la finestra

dietro il monte

e su per le croci rimane qualche

presagio

 

*

 

il bisogno subacqueo si chiude, il verbo

si atrofizza: assorbe larve e ramoscelli

di bava, l’alba si dirama incerta

è visione forse d’oltremare, punto

d’attrazione e poi nient’altro che

collasso, spostamenti su traiettorie di fuga:

i pesci scivolano sulla lingua liquefatta

 

*

 

allora si ritorna alle vertebre in flessione, alla notte

crepuscolare che piega l’angolo

ed estremizza l’allungamento infiammatorio:

il tendine si spezza ad ogni ricerca si sente

nella torsione gli organi, i visceri, le pelvi e la marea

sommergere: nel singhiozzo del mondo

nessuna parola è pronunciata

*

 

è il vuoto del tempo la staticità delle cose l’immobilità

del paesaggio: la ripetizione l’ossessione

delle sillabe e di ciò che non muta: il vuoto

del tempo che apre

il ciclo toglie il respiro schiaccia la mente schiaccia

il petto toglie il respiro toglie il moto – lei

mossa dal mare lei nel moto sordo

 

*

 

trovare una parola, renderla carne

carne che non è vetro ma

soffio di narici, uno srotolamento

dell’anca, una fessura

e poi il monte, la nebbia intorno a dire

gli interstizi in cui qualcosa

si nasconde – la tenda che è

vento che muove, una domanda

scavata nel buio della stanza

 

*

 

trasmette luce differente, acqua

buia di montagna, occhio

fossile nel tatto che riprende

nella vocale che s’articola e cede

all’impatto della visione: largo

campo di foglie e poi

solo vento

 

*

 

rimani come piccola

perla, segno –

che riaffiora, memoria

di me e te

in una zolla di neve

 

*

 

la marea ritorna a se stessa in un chiuso bozzolo dove non traspira aria

tra le coste si incastra l’epidermide, tra frana e frana le rocce

rovesciano trasportando tronchi, rami, sassi e uccelli

morti, le bisce sono spacciate sulla strada con il sangue

strizzato e si trova un collo mozzato di anatra. Lo scheletro è lunare –

si rimane con una finestra aperta, la bocca agitata i denti mordenti

in uno spasimo di fuoco si lancia il lenzuolo alla distesa

ancestrale aspettando il richiamo dei boschi ma –

la casa non si muove, sta ancora sul dirupo e sotto i cervi

in un forte bramito d’amore, tutt’intorno i vicini che dormono:

qualche volta una luce s’accende da lontano, qualcuno grida

tutto il resto è notte, notte profonda

 

 

Biografia

Roberta Sireno (Modena, 1987) laureata in Italianistica all’Università di Bologna, è autrice di Fabbriche di vetro (Raffaelli, 2011) e senza governo (Raffaelli, 2016). Riceve il primo premio al ‘Certamen’ (Centro di Poesia Contemporanea di Bologna, 2009) e il primo premio al concorso di poesia ‘Dentro che fuori piove’ (Università di Bologna, 2013). Suoi scritti sono su «Poetarum Silva», «blanc de ta nuque», «Golden blog», «La macchina sognante», «Poesia del nostro tempo», «Interno Poesia». Principali rassegne: RicercaBO (Bologna, 2012), Teatro Valdoca con Mariangela Gualtieri (Cesena, 2013-2023), Cabudanne de sos poetas (Seneghe, 2014), Poesia Festival (Modena, 2019). Nel 2018 è prima classificata al premio nazionale ‘Anna Osti’ di Costa di Rovigo, e nel 2019 è prima classificata al premio ‘Montano’ di Anterem Rivista di Ricerca Letteraria. È tra le curatrici della rassegna Una come lei. Incontri e pratiche di poesia (2018-2023, Biblioteca / Centro delle Donne di Bologna). È presente in varie antologie di poesia e prosa e nel manuale scolastico di letteratura italiana Se tu segui tua stella (Edizioni Scolastiche Mondadori). Alcuni suoi testi sonostati tradotti in arabo sul blog VersiMigratori. Dal 2011 si dedica alle pratiche yoga, ottenendo nel 2022 l’abilitazione all’insegnamento (YogaAlliance e CSEN h.760), e nel 2023 il titolo di Master universitario di I livello in Yoga Studies presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Tre testi da Tande, di Rosaria Lo Russo, e una nota

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di Renata Morresi

Leggo Tande e mi chiedo come accade. Come fa Lo Russo a raccontare senza racconto? A interrogare le dispotiche autorità del DNA e del caso, così ineluttabilmente alleate insieme, e a implicare – sin dall’inizio, “sulle note dell’inno nazionale” – mezzo secolo di costruzione (e crolli) della società italiana? A favoleggiare in fughe di lemmi che si autogenerano da una stessa scintilla sonica, eppure centrano il vulnus? A demistificare la poesia simbolista, romantica e post, come pure le maschere moderniste, idem le diversioni postmoderne, e rimanere immersa nella pletora di una poesia di mille anni? E niente meno che a sondare “la verità di questo mondo”, come diceva Bardamu, “la morte”. Segreti dell’incastro da maestra d’ascia, scatenamento dell’eccesso d’una ministra del sabba – dovrei saperlo, dopo quasi quattro decenni di scritture in cui Lo Russo convoca vaste molteplicità di soggetti, simboli, allusioni, registri, e per sfidarli tutti. Eppure, in Tande qualcosa di ulteriore accade se nel riandare a “mamma_memento_mori” e “bramebabbo”, indagando il nucleo urticante e sempre sfuggente dell’origine, di sé come della poesia, “la puntura al centro dell’occhio”, Lo Russo scova il modo per perlustrare un furore più vasto del conflitto primario personale. E mostra quei meccanismi psico-sociali perversi che, nell’illusione del completo controllo e dell’eterna perfettibilità, con la scusa di reprimere e ammansire, lasciano dilagare le pulsioni più violente. Esse si scatenano sugli inermi, su chi è fragile e instabile, e prima ancora sui bambini e le bambine, tutti loro doppiamente vittime: sia dell’accumulazione egoista, ossessiva, financo criminale, che produce rovina e soffoca ogni tenerezza, sia di un universo opaco, integerrimo solo a seguire il suo plumbeo arbitrio – “nessun divieto, nessuna legge, nessuno Stato, Nessuno”. Non consolazione ma modalità di resistenza sarà allora il “godere contro” dell’esuberanza linguistica in Tande: l’energia gergale e colta, la parodia grammaticale, i diminutivi e i soprannomi, i regionalismi e le criptocitazioni, il canone e il pop, le parti della frase usate al posto sbagliato e le onomatopee, fino al rastremarsi del verso che sulla pagina cola non l’espressione ma l’esplosione del sé, tutto contribuisce a far riemergere il “grumo” sepolto, a disseppellire risorse spirituali inaspettate. La parola “Tande” stessa, inventata e piena d’echi, acefala o contratta, che suona straniera, che si svela intima, è indefinibile e realissima. Designa un oggetto transizionale e lo è già in sé in quanto neologismo, come lallatio variata della bambina che non sa ancora parlare e come rappresentazione del non dicibile, di un dire che è stato superato. In questo spazio di negoziazione Lo Russo allestisce la scena famigliare, fatta di icone, incubi, visioni mistiche e grottesche, ironie dal feroce al commosso, memorie popolari, fascismi di ritorno, deliri notturni, possessioni del corpo. È una sinfonia in più movimenti, con temi e motivi ricorrenti, e sfidanti performance orali. Lungo questa via matris, tra l’ingoiamento e il rigurgito, prende forma un’orazione per cercare di accettare tutto il male, il miele e la lama – “la vostra lama di miele / m’incide la gola” – e trasformarlo in parola, autoscoperta, comprensione, anche per le struggenti figure passate “nell’Amore Enorme”. Da esso, già nato per eco, attraverso la materia sonora passa un appello: continuare a processare la sostanza del dissesto.

*

 

Porto a spasso il tuo modo di camminare

Io odio mia madre
Mia madre odia me
Un’ecatombe colombiana

La poesia è il vomito
per cui non mi sorregge la fronte
perciò odio la mia poesia

Io ti stimo, dice uno
Io mi uccido, fa l’altro.

 

 

Sospinte dal vocio della piazza, sopraggiungono
lungo la salita accosto al cimitero di Sant’Antonio
note dell’inno nazionale, come da un sogno di sepolti.
I tonfi delle grancasse, attutiti dal silenzio circostante,
una folata lieve, breve il suono si sfoglia dalle cime
dei cipressi, si arresta, recede, ritorna e riposerebbe nella coclea
se non provvedesse lesto a interdire ogni pace un sogghigno di disgusto
dietro la mascherina, che avrei potuto anche sollevare qui all’aperto
se non fosse che i fasci sono tornati solo da voi, da me ci sono
sempre stati. Soppesando con una spallata se meglio cremare e disperdere
i resti o tumulare e lasciare un segno di sé per qualche tempo ancora,
quando succederà, mi dico, spero solamente che la mente sia da tempo
immemore avvolta nella chiocciola muta del corpo come in un sudario.

 

 

Mamma_memento_mori, quante volte me ne sono andata,
lo sguardo fiero e terso, al tre per due dei tuoi panettoni, pagando
poi, a conti fatti, più del dovuto, da costola figlia, a un’idea provvista
di cuccagna? Mammapalazzo senza architettura, puro cemento armato,
grigio trionfo dei colori freddi, a chi debbo ricorrere per reclamarti?
Quale papagna mediti di scodellarmi nella cesta cranica dei giocattoli?
Profumi? Tue secrezioni? Balocchi? La bambola Luca col pisellino?
Vuoi che
Fare pipì? Fare popò? Lavarmi la chicca e il sedere? Questo che vuoi, vuoi
che mi lavi?                           Tu vuoi.
Tu non vuoi me.
Tande
Il Cicciobello che non posso tenere in braccio? La tua camicia di seta lacera
che non devo strusciarmi sulla bocca? Ecco, lacerazione, strappo, sbrego
e sotto sotto
il fondo apatico
di me a scaniconi
di me a ciondoloni
me, lo sfondo atipico
entro cui muovere i primi passi come del resto gli ultimi.
Tande
Volente o nolente te.

 

 

*

Tre testi estratti da Rosaria Lo Russo, Tande, Vydia 2023.

A Book of Days di Patti Smith

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©Patti Smith - p. 313

 

di Giorgio Sica

A proposito di: PATTI SMITH, A BOOK OF DAYS, BOMPIANI, 2023

Può essere strano immaginarsi su Instagram una delle poche icone sopravvissute a quegli anni irripetibili ed eccessivi in cui il Lower East Side di Manhattan era diventato il centro del mondo. Eppure poche settimane fa Patti Smith ha deciso di raccontare attraverso un delizioso album fotografico la sua esperienza sui social, iniziata nel 2018 su suggerimento della figlia Jesse che le aveva consigliato di aprire un suo profilo vero, per distinguerlo dai tanti falsi che circolavano in rete. Nel breve testo che introduce la raccolta, Patti racconta che, nonostante la ritrosia iniziale, si è presto sentita a suo agio su Instagram, potendo coniugare due delle sue maggiori passioni: la scrittura e la fotografia. E aggiunge che “sta a noi saper distinguere” nell’utilizzo dei social, ricordandoci che la mano che digita è “la mano [che] compone un messaggio, carezza i capelli di un bambino, tira indietro la freccia e la fa volare”.

Le trecentosessantasei frecce di Patti “che puntano al cuore comune delle cose” sono omaggi alle varie forme in cui si manifesta la bellezza; spesso sono vere e proprie elegie in cui rende omaggio con vecchie Polaroid d’epoca, il più delle volte scattate da lei, ai luoghi che ha amato e ai tanti amici e maestri scomparsi. Il suo “Libro dei giorni” diventa così un lunario in cui Patti celebra artisti più o meno maledetti, leader spirituali e santi laici, caffè e cimiteri parigini, e mitici luoghi della sua giovinezza, dalla libreria Shakespeare & Co. sulla rive gauche ai club del Lower East Side, tra cui il Wo Hop di Chinatown e il CBGB, sul cui palco si è fatta la storia dell’art rock.

©Patti Smith – p. 313

In queste vene di memoria scorrono le immagini dei suoi amici e sodali William Burroughs, Bob Dylan, Allen Ginsberg, Lou Reed, Joan Baez, Tom Verlaine e Michael Stipe; che si affiancano, senza soluzione di continuità, con i visi, le stanze, a volte le tombe, dei suoi maestri e delle sue fonti di ispirazione. E così, attraverso un delicato gioco di corrispondenze, Virginia Woolf figura accanto a Gérard de Nerval, Antonin Artaud a Werzer Herzog, Jackson Pollock a Gustave Doré e all’amatissimo Arthur Rimbaud, a cui Patti ritorna più volte, ricordando anche che il suo album Horses doveva essere pubblicato nel giorno del compleanno del poeta e che, per una coincidenza fortuita, verrà pubblicato invece nel giorno della sua morte.

 

E in più giorni torna il ricordo, corredato da didascalie commoventi, di Robert Mapplethorpe, l’amore della sua vita, di cui Patti conserva come amuleti i preziosi doni, tra cui Ariel, la raccolta di poesie dell’adorata Sylvia Plath.

“Robert era il mio amore”, p. 58 – ©Patti Smith

Ma alla memoria Smith alterna, con delicatezza e, spesso, con pudore, tenere, divertenti immagini di sé stessa, dei figli Jesse e Jackson, dei suoi gatti tra i suoi mille libri, e di minimi oggetti – penne, taccuini, occhiali, le onnipresenti tazze di caffè – che si susseguono come “preziosi talismani” che l’hanno accompagnata e che la proteggono ogni giorno: Patti li offre generosamente al lettore in un tentativo forse utopistico, sicuramente necessario, di mostrare che i social possano anche trasformarsi in un luogo di cura e di celebrazione.

“Where there were deserts/ I saw fountains”, cantava Patti in People Have the Power e, con questo Libro dei giorni, la rivoluzione gentile che ha sognato e predicato con i suoi versi e la sua musica sembra aver trovato un nuovo mezzo di espressione.

La nostalgia che avremo di noi – Anna Voltaggio, Neri Pozza

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Ulisse 

estratto dalla raccolta di racconti

La nostalgia che avremo di noi, Anna Voltaggio, Neri Pozza, 2023

Non so quanto tempo sia trascorso, il viaggio è lento ed è lungo ma non ho fretta, mi piace questa immobilità forzata sul sedile del passeggero, mi abbandono a pensieri senza peso come se non sapessi dove stiamo andando, per me non stiamo andando da nessuna parte. La durata del viaggio non corrisponde alla sua naturale lunghezza, è un tempo scollato da quello umano, dalle sue misure.

Mio fratello sta guidando, per fortuna è rimasto un tipo silenzioso a meno che non si parli di novità tecnologiche, ha le mani grandi da operaio, il respiro pesante di chi fuma troppo, lo sento concentrato su quello che stiamo andando a fare.

Questa autostrada sembra diretta ai confini del mondo. Ai confini del mondo c’è sempre Clara, la sua intera assenza nella mia vita.

Fuori dal finestrino i campi di grano si distendono nella pianura, c’è uno spaventapasseri lacerato dagli uccelli affamati, corvi e passeri e fagiani scesi in picchiata pieni di ferocia. Lo spaventapasseri è sconfitto, piegato, il cappello di paglia sfilacciata è caduto. Il becco di un corvo gli ha bucato un occhio e il petto all’altezza del cuore.

Claudio guida senza badare a me, ha messo un disco di Bob Dylan che ha trovato nel cruscotto, sapeva che non avrei avuto niente in contrario dato che il disco è mio, lui non ha mai ascoltato Bob Dylan. «Puoi dormire se vuoi» ha detto, ma è come se dormissi già, non ho bisogno di altro. Mi appago di questo non dover fare niente, dell’essere trasportato senza interesse.

Fino a ieri mattina ero nella pensione dei preti salesiani dove vivo da sei mesi, non ho idea di come mi abbia rintracciato, facevo colazione al tavolo della mensa con la tovaglia cerata tempestata di mandarini, masticavo un biscotto secco di quelli che mettono a disposizione insieme alle merendine confezionate e al caffè, sfogliavo la Gazzetta dello Sport senza un velo di malinconia e si è avvicinato un giovane imberbe con i pantaloncini sportivi e la maglietta troppo grande e troppo bianca, mi ha detto che mio fratello era al telefono, che era urgente.

Dopo un breve dialogo ha chiesto se avevo una macchina.

«È senza assicurazione» ho detto.
«La pago io, domani dobbiamo partire».

Non sentivo mio fratello da quattro anni, è molto credente come nostra madre, di quelli che si fanno il segno della croce prima di mangiare e cose del genere.

L’ultima volta che ci siamo visti vivevo a Venezia, è piombato con un volo del mattino per vedere come stavo, stavo bene, abbiamo parlato di novità tecnologiche in un bar affacciato sul canale, di Elon Musk e dei microchip sugli esseri umani, i miei malesseri andavano e venivano, non so come gli arrivava la voce, o se ero io stesso a chiamarlo nei momenti di cui perdo la memoria. La mia vita è piena di buchi, di zone d’ombra.

Quel giorno stavo bene, vivevo nel presente, forse ero anche contento di vederlo, avevo una camicia di lino fresco che si riempiva di vento e gli occhiali da sole tondi che mi aveva regalato una donna.

Il viso di mio fratello prendeva piano piano il colore limaccioso del canale, abbiamo ordinato due Ceres che bevevamo dalla bottiglia.

«Come sta la mamma?» gli ho chiesto.
«Sta bene, dovresti andare a trovarla».
E poi ha preso a parlarmi del valore di un nuovo modello di cellulare che mi aveva mostrato.
«Il marchio sconosciuto lo tiene sottocosto» diceva, «ma si tratta di un oggetto straordinario. Al momento è l’unico che ha tutte le caratteristiche che mi servono, anche se ho dovuto sbloccare il boot loader per due-tre applicazioni essenziali al mio lavoro. Mi segui? E insomma si perdono i drm per la fotocamera e la qualità si abbassa».
«Sí, ti seguo».
«Ma d’altronde non è che io faccia tutte queste foto. Ci pensa Lori quando andiamo in vacanza o alle feste dei bambini, comunque, voglio dire, a qualcosa devi sempre rinunciare».

«Sí, è chiaro, a qualcosa devi rinunciare» ho ripetuto. Ma io non avevo rinunciato a niente, pensai, semplicemente perché non avevo scelto.

Siamo rimasti in silenzio a finire la birra circondati dai turisti, ogni tanto mi guardava con la coda dell’occhio e non riusciva a vedere altro che un povero cristo, un naufrago alla deriva dall’aria soddisfatta.

Io a quel tempo avevo smesso di voler dimostrare il contrario e lo lasciavo fare, sentivo il mio sorriso fermo e mite sorvolare il canale, allontanarsi dai pensieri funesti di mio fratello.

Il suo volo partiva in serata. Non ci siamo detti frasi di circostanza, solo «Stammi bene» e quando, qualche ora dopo, ho visto il suo aereo risalire l’aria ho pensato intensamente a mio fratello come a una cavia da laboratorio destinata a morire dopo l’esperimento.

In autostrada tutto è cosí placido da far pensare che possa succedere qualcosa da un momento all’al- tro, viaggiamo a una velocità costante di centoventi chilometri all’ora, sento il respiro di mio fratello che invade l’abitacolo e mi concentro sul rumore bianco del motore che mi rasserena.

L’estate è tornata ad assediare i paesaggi, si vedono colonne di fumo denso in lontananza, il fuoco avanza e brucia campi di sterpaglie, scende dalla collina e arriva quasi al ciglio della strada, non ci sono i pompieri, non arrivano Canadair. Sembra che stia per piovere ma non piove mai e i campi inaridiscono e le pecore non hanno cibo.

La strada è dritta, spero che non finisca mai, le nu- vole sono strette una sull’altra senza respiro, si spingono per prendere spazio e si compattano come la notte in cui ho visto Clara.

Prima ancora di vederla ho sentito il ritmo dei suoi tacchi sull’asfalto salato, avevo cominciato a seguirli senza rendermene conto, la mia traiettoria ha deviato naturalmente nella sua, come il topo ho seguito il pifferaio.

[Continua…]


Anna Voltaggio è nata a Palermo. Vive a Roma e lavora come ufficio stampa specializzato nel settore culturale. La nostalgia che avremo di noi è il suo esordio letterario.

Poesia + malattia = una nota su La distinzione di Gilda Policastro

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di Luca Rizzatello

Un nome che può essere Salim

Stacco tutto e me ne vado:
è grosso, una stampella per parte
L’altro non sa scrivere il nome
Somalo? Etiopia. E te pareva,
quante possibilità ciàvevo, su un mijjone
Promiscuità, è questo a definirci
nell’anticamera del reparto dove il sonno ci intuba:
staccati gli aghi coi sveglieremo tutti sani o più malati
a digiuno
e niente acqua dalla mezzanotte
Mettiamo un po’ di musica così ce passa,
s’infila i guanti per Salim, lui non sa scriverlo
ma lei lo ha imparato col tu democratico
degli ospedali
Scrollo le poesie del poeta operaio
dice rinchiudi un porco nel reparto
noi aspettiamo in fila dopo il girotondo
del rispondi alle domande
(allergie, farmaci, malattie importanti)
poi spostati tu da quella parte
(a fissargli l’ago, senza i guanti)
Siamo in quattro, guardiamo un po’ in aria
un po’ ci sorridiamo mentre Salim non ha capito
che deve togliersi la giacca
Glielo mimo pensando al cianciare brutto
di ogni Facebook sui cosiddetti #migranti
(categoria che vorrebbe smarcarsi)
Siamo fermi in questo spazio che ci contiene
insieme al tempo che a dispetto della musica non passa
Saremo fuori, prima o dopo, saremo a casa
Salim forse resta, l’infermiera ha detto il nome
del suo male che non ha capito lui solo,
finalmente senza giacca

Quella che hai appena letto è la terza poesia del libro La distinzione, di Gilda Policastro, edito nel gennaio di quest’anno da Giulio Perrone Editore. Fa parte della seconda sezione, Sala d’attesa, che segue la sezione di apertura, Antefatto. Antefatto e Sala d’attesa, in questa posizione e in questo ordine, ci possono dare l’idea, tanto per cominciare, che un libro di poesie non debba per forza essere una raccolta di singoli. Insomma: che un libro di poesie possa, anzi dovrebbe, essere anzitutto un libro, tout court. Siamo fermi in questo spazio che ci contiene / insieme al tempo che a dispetto della musica non passa mi sembra, insieme a Salim forse resta, l’infermiera ha detto il nome / del suo male che non ha capito lui solo, una sintesi formidabile degli elementi che sostanziano la sezione e, più estesamente, il libro: il tempo trascorso (proprio e altrui, per quello che questa distinzione può significare), lo spazio forzatamente condiviso, le relazioni (di nuovo proprie e altrui eccetera) che si innescano all’interno di questo contenitore spazio/tempo. Franz Kafka ha scritto che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo, al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perché appunto hai formulato questa domanda (Tagebücher 1910 – 1923).

Salim non capisce le cose che ci aspettiamo dovrebbe capire, ma il tema di quanto sia sufficiente capire per dire di avere capito non si risolve nel suo caso individuale, pur emblematico, di #migrante, e ritorna in tutta la sezione, su più livelli. Ritorna come ricostruzione filogenetica (e in forma di anafora, sono morta, in “Perché mi accorgo che morire, adesso, non mi serve”), come presa di coscienza (Ti vogliono ignorante / infastidisci se sai le cose, in L’autunno di gerd, poesia in cui una soluzione proposta è quella di presentarsi alla visita già googlat*), come reazione al cupio dissolvi (Alternativa tra giù e le fiamme / rincorsa e oplà / imparare a stare al mondo, in Così poi forse divento brava), come percorso a ostacoli ricorsivo (Ma lei ha guardato un’eclisse? / Ho anche parlato alla luna / ma no, non era questa, mentre ripete la domanda / e chiosa: anche nell’infanzia, in Poesia sugli occhiali).

Per arrivare a una prima conclusione, riporto un’analisi che fa Ivo Quaranta nel libro Malati fuori luogo: non tener conto della distinzione tra disease (l’interpretazione biomedica della malattia come patologia) e illness (il significato attribuito dai pazienti alla propria esperienza di malattia) potrebbe pregiudicare il costituirsi di un’alleanza tra medico e paziente sul fronte dell’adesione al regime terapeutico. Ignorare il significato che i pazienti attribuiscono alle proprie esperienze di malattia significa ignorare anche in che modo verranno da questi interpretate le indicazioni fornite loro durante l’incontro medico (Katon, Kleinman, 1981; Kleinman, 1982). […] Se aggiungiamo a queste considerazioni le problematiche che possono essere generate dalle differenze culturali, ci rendiamo immediatamente conto di quanto possa essere determinante tenere in debita considerazione le concezioni attraverso cui le persone elaborano il significato delle proprie esperienze di malattia: il processo di traduzione di segni di disagio in sintomi di malattia è, infatti, un processo mediato culturalmente (Young, 1982). (Ivo Quaranta, Il contributo dell’antropologia medica per una medicina interculturale, in Malati fuori luogo, Raffaello Cortina Editore, 2012).

La terza sezione, Dispositivi, si apre con una poesia intitolata Cut-up, un catalogo dei modi di morire, dove-come-quando, che mi commuove e mi diverte profondamente, proprio come Resumé di Dorothy Parker (Razors pain you; /   Rivers are damp; / Acids stain you; / And drugs cause cramp. / Guns aren’t lawful; / Nooses give; / Gas smells awful; / You might as well live.). I dispositivi in questione sono da intendersi in alcune poesie come la cosa di cui si scrive (es. Workout, o Scrolling), in altre come quella con cui si scrive (es. SwiftKey, o GP(T)-3), per poi dirsi, a bocce ferme, che probabilmente sono sempre e contemporaneamente sia l’una che l’altra.

In questa sezione emerge quello che a mio parere è il nodo fondamentale del libro, che per ora definirei come il rapporto tra scrittura e malattia. Ma si tratta di “scrittura e illness” o di “scrittura e disease”?

Come si legge nelle note dell’Autrice, GP(T)-3 è l’esito dell’esperimento di scrittura automatica condotto dalla rete open AI Playground. Di fatto sono tre poesie in una, trattandosi delle risposte (in versi) a questi tre comandi, via via più dettagliati:

“Scrivi una poesia sulla malattia, gli ospedali, la morte”

“Scrivi una poesia ironica su ospedali, malattia, morte”

“Scrivi una poesia ironica sulla malattia, l’ospedale, la morte adatta a un pubblico adulto. Stile: contemporaneo”

Il risultato è sconfortante, e in quanto tale è stato riportato sulla pagina; tuttavia, per onestà intellettuale, devo ammettere che non sono le poesie peggiori, umani compresi, che io abbia letto. La poesia successiva, Poesia ASMR, prevede una serie di abiure che intendono determinare,per esclusione, un posizionamento all’interno della mappa (che non dovrebbe essere il territorio, ma si sa come va a finire) di chi pubblica/legge in pubblico le poesie. BZD expertise, Pandemonio e Notepad, dedicate rispettivamente alle benzodiazepine, al covid e al carcere, sono un antipasto, con tutte le differenze del caso di cui scriverò a tempo debito, della sezione Inattualissime. Come tenere insieme tutto questo? Mi viene in aiuto Roberto Bolaño, che in Letteratura + malattia = malattia (contenuto ne Il gaucho insopportabile, Adelphi, 2017, traduzione di Ilide Carmignani) scrive che uno dei test, forse il più semplice, mi impressionò molto. Bisognava tenere per qualche secondo le mani davanti a sé, con le dita tese verso l’alto, il palmo rivolto verso di lei mentre io guardavo il dorso. Le chiesi che accidenti voleva dire questo test. La sua risposta fu che, a uno stadio avanzato della malattia, non sarei più stato in grado di tenere le dita in quella posizione. Si sarebbero, inevitabilmente, piegate verso di lei. Credo di aver detto: Dio mio. Forse risi. Sta di fatto che da allora questo test me lo faccio tutti i giorni, ovunque mi trovi. Mi metto le mani davanti agli occhi, con il dorso verso di me, e osservo per alcuni secondi le nocche, le unghie, le rughe che si formano su ogni falange. Il giorno in cui le dita non riusciranno più a stare dritte non so bene cosa farò, ma so cosa non farò. Mallarmé ha scritto che un tiro di dadi non abolirà mai il caso. Eppure è necessario tirare i dadi ogni giorno, così com’è necessario fare ogni giorno la prova delle dita tese.

La quarta sezione, Gite ospedaliere, comincia con Uno tira l’altro, che a sua volta comincia così:

Tu è la persona che accompagna Io quella che si sottopone a controlli/accertamenti con o senza prescrizione (con vuol dire serietà), tu in quel caso è la persona che crede di dover tirare su il morale e proprio per tutta quella serietà che annette alla pratica sforzarsi di trovare battute frasi divertenti o carine, e poi va al cup, la persona tu, mentre io diretta in stanza per esame accertamento e ricevere diagnosi

Ci troviamo nel luogo della diagnosi, dove sfuma la dicotomia malato/sano, tanto in riferimento alla condizione di Io, quanto a quello del nucleo Io-Tu. Ne Il re pallido, David Foster Wallace ha scritto che quello che ora si chiamava stress prima si chiamava tensione o pressione. Pressione ora era più una cosa che si esercitava su qualcuno, come l’insistenza dei piazzisti (What was now called stress used to be called tension or pressure. Pressure was now more like something you put on someone else, as in high-pressure salesmen.) (David Foster Wallace, Il Re pallido. Un romanzo incompiuto, Einaudi, 2011, traduzione di Giovanna Granato).

Il testo successivo, dal più che esplicativo titolo Disfagia, mantiene la misura del reportage sui generis e sposta il fuoco dalla dialettica Io-Tu a un Lei (che sta per il personale ospedaliero, variamente inteso) monologante e provvisto di una ironia che si potrebbe definire funzionale al contesto, probabilmente più nelle intenzioni che negli esiti. È il passaggio dal luogo della diagnosi a quello della degenza. La sezione si chiude con Casting, una raccolta di consigli ricevuti in merito alla scelta di farmaci da prendere e di specialisti da cui farsi seguire. Leggendo questo testo la mia impressione è che ogni consiglio, al di là dell’utilità finale, sia mosso dal bisogno di esprimere una competenza, a maggior ragione se avvalorata dall’esperienza diretta, e quindi obliquamente un controllo, o una conferma del proprio status. È realistico pensare che anche chi offre i consigli abbia a sua volta fatto dei casting chiedendo dei consigli, rendendo di fatto impossibile l’individuazione dell’urcasting. Citerò di nuovo Ivo Quaranta: un oggetto incorporava, quindi, un insieme di rappresentazioni, relazioni, dinamiche locali e regionali, storie di contatti con altri sistemi culturali: costituiva, in altre parole, un sostrato materiale delle locali concezioni del potere. Queste relazioni sedimentate costituivano il valore attribuito a una stoffa, alla polvere di camwood, a una pentola, a particolari decorazioni o a determinati materiali ecc. Al di là della ragione economica, quindi, è l’origine aliena a donare ai beni scambiati il loro valore, e attraverso la loro acquisizione individui e comunità potevano mettere in scena la propria influenza politica e, dunque, il proprio potere magico. Il valore di questi oggetti risiedeva nel loro essere espressioni di potere, dimostrazione visibile della capacità di contenere e incorporare un mondo alieno e potenzialmente ostile, asservendolo ai propri scopi (Rowlands 1987, p. 61). Nel produrre, nell’acquisire o nell’ostentare oggetti esotici si metteva in scena il proprio potere, la propria capacità di accesso e controllo dello stesso (Ivo Quaranta, Corpo, potere e malattia. Antropologia e AIDS nei Grassfield del Camerun, Meltemi editore, 2006).

La strage e la memoria

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di Giorgio Mascitelli

In un lungo articolo apparso alcuni giorni fa su The Guardian lo storico della shoah Raz Segal ha parlato di uso della memoria dell’Olocausto come arma da parte dei dirigenti politici israeliani in occasione della nuova guerra di Gaza. Fin da subito si sono avute dichiarazioni che tendevano a paragonare i massacri del 7 ottobre (un crimine contro l’umanità, che va perseguito come tale, ma che non autorizza a compierne altri per rappresaglia) con lo sterminio nei lager e che definivano la reazione militare israeliana una forma di una lotta al nazismo. Secondo Segal il fine di queste dichiarazioni è da un lato cancellare il contesto di tipo neocoloniale in un cui sono maturati quegli atroci eventi, senza prendere in considerazione il quale non è possibile immaginare un futuro differente, dall’altro eliminare qualsiasi freno inibitore nella reazione perché il richiamo al nazismo è il richiamo al puro male contro il quale ogni mezzo va bene. Non a caso i dirigenti israeliani hanno alternato a queste dichiarazioni sulla lotta al nazismo tutta una serie di lugubri uscite sul fatto che stanno combattendo contro animali da trattare come tali, che ogni cosa a Gaza vada rasa al suolo  e altre ancora di simile tenore per giustificare gli eccidi che stanno avvenendo in queste ore. Sebbene Hamas sia sicuramente un’organizzazione antisemita e integralista, non è possibile dal punto di vista storico paragonare la situazione attuale degli israeliani, unica potenza nucleare della regione dotata di un esercito tecnologicamente all’avanguardia, con quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, inermi civili in un territorio controllato da una potenza ostile.

D’altronde, come nota Segal e come era capitato anche a me di notare alcuni anni fa su nazioneindiana ( qui), il riferimento al nazismo e a Hitler per definire l’avversario è un elemento essenziale del discorso di guerra ed è stato usato via via per Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi fino all’Ucraina dove entrambe le parti si richiamano alla lotta contro il nazismo. Ed è un elemento essenziale in senso retorico perché indica la totale necessità della guerra e la sua inevitabilità, perché contro Hitler redivivo non c’è pacifismo che tenga o dubbio di sorta. Eppure la diffusione di un simile argomento, che è naturalmente una banalizzazione della Shoah e in generale della storia, non sarebbe nemmeno pensabile senza che ci fosse stato un cambiamento profondo, anche se lento e carsico nel nostro rapporto con la memoria di quegli eventi rispetto ai tempi in cui solo testimoni del livello di Primo Levi o storici specialisti o leader politici antifascisti erano autorizzati a prendere la parola su questi temi, quando questi avvenimenti erano naturalmente sentiti come un monito fondante per la società del futuro.

Talvolta mi è capitato di chiedermi cosa direbbe un Adorno redivivo della grande massa di opere narrative, cinematografiche e teatrali volte alla divulgazione della Shoah che circola sempre di più. Immagino che il filosofo che si pose radicalmente la domanda se fosse possibile continuare a scrivere dopo Auschwitz, resterebbe alquanto inorridito, date le sue posizioni elitarie, ma forse anche Gunther Anders, che pure riconobbe a suo tempo il ruolo positivo di una serie televisiva di intrattenimento come Olocausto nel porre i tedeschi di fronte alle loro responsabilità storiche, avrebbe qualche perplessità.

E’ possibile che naturalmente questo sforzo abbia reso più difficile quelle forme di negazionismo implicito o di riduzionismo che indubbiamente allignavano nell’Europa dei primi trenta o quaranta anni dopo il 1945, ma non posso negare il mio disagio l’ultima volta che sono stato a Cracovia, l’estate precedente al Covid, vedendo nelle agenzie turistiche reclamizzata la gita ad Auschwitz come ad Amsterdam si fa con il giro dei canali in barca o a Napoli con quello a Pompei o alle isole. Questa turisticizzazione della percezione della Shoah non può portare nulla di buono sul piano politico e culturale, perché di fatto comporta una sua banalizzazione. Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpito a Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, accanto alla possibilità di visitare sinagoghe e altri luoghi legati alla storia ebraica della città si aveva anche quella di visitare i posti dove era stato girato Schindler’s list in una mescolanza pericolosa di realtà storica e sua riproduzione finzionale. Credo che chi abbia messo in relazione questa offerta culturale così abbondante, e non sempre rigorosa, con forme di anestetizzazione delle coscienze che finiscono con il favorire il discorso dell’estrema destra abbia più di una ragione. E non c’è dubbio che la demonizzazione dell’avversario tramite il ricorso al nazismo finisca con il favorire questo tipo di dinamica banalizzante, oltre a giustificare talvolta azioni di guerra che sono a loro volta crimini.

Ora negli attacchi del 7 ottobre è abbastanza evidente che Hamas ha fatto una sorta di scommessa politica sanguinaria, crudele e cinica e allo stesso tempo disperata: attaccare con crudeltà Israele, scommettendo che la risposta del governo Nethanyau sarebbe stata ancora più efferata, così da cancellare, perlomeno fuori dall’Occidente, il ricordo del fatto precedente di fronte a un numero di vittime civile notevolmente più alto tra i palestinesi. Questo tipo di scommessa si basa sul fatto che la parte occidentale non ha più il monopolio delle immagini e delle informazioni, grazie alla presenza di Al Jazeera, non a caso più volte criticata dal governo israeliano. Questo ragionamento ha una sua efficacia, se perfino un commentatore come Paolo Mieli, decisamente vicino al mondo israeliano e occidentale, ha dovuto ammettere sul Corriere della sera che “Il prolungato attacco a Gaza, accompagnato da immagini quotidiane di vecchi, donne e bambini che mostrano i loro lutti, non è «compensato» dalla notizia che è stato colpito questo o quel dirigente di Hamas.” Ciò su cui ha scommesso Hamas, finora con ragione, è quello di uno spettacolo planetario in cui una popolazione perlopiù civile viene massacrata, in una misura esponenzialmente superiore alle vittime israeliane, da una potenza che dichiara di agire in continuità con la lotta contro il nazismo nel nome della democrazia. Immaginiamoci l’effetto che farà non solo su popolazioni non occidentali ignare della storia europea, ma anche a quella parte maggioritaria della popolazione occidentale digiuna di storia e completamente depoliticizzata. Immaginiamo per esempio che tipo di ricezione possa avere la scelta dell’ambasciatore israeliano all’ONU di intervenire indossando la stella gialla, che i nazisti davano agli ebrei nei lager, nelle stesse ore in cui il suo paese sta bombardando senza sosta una zona densamente popolata senza possibilità di sfollamento per la popolazione. Nella migliore delle ipotesi essa diventa un simbolo vuoto, un significante senza significato, in quella peggiore il segno di un vittimismo sanguinario.

Eppure noi abbiamo bisogno di quei simboli, non solo per contrastare i rischi crescenti di antisemitismo, ma perché essi rappresentano l’insegnamento politico della seconda guerra mondiale, la certezza della civiltà che vince sulla barbarie. Il loro svuotamento contribuisce ad alimentare un processo di cancellazione dell’eredità politica della seconda guerra mondiale e del suo ruolo nella formazione di una nuova coscienza civile, che ci lascerà disarmati in tante circostanze.

 

Freud, la Coca-Cola e gli antidepressivi

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È da poco disponibile una nuova edizione del saggio di Laurent de Sutter Narcocapitalismo. Vita e psicopolitica nell’era dell’anestesia, pubblicato da Ombre Corte.

Ospito qui alcune pagine in anteprima.

 

5.Una pagina pubblicitaria

 Nel 1863, […] un farmacista còrso con sede a Parigi, Angelo Mariani, lanciava sul mercato un prodotto inedito[1]. Questo si presentava come un “vino tonico”, e consisteva nell’infusione di foglie di coca in un vino di Bordeaux – infusione che liberava gli alcaloidi contenuti nella foglia, tra cui, ovviamente, lo “stimolante” quale era la cocaina[2]. Se Mariani non fu il primo a commercializzare una tale bevanda, fu tuttavia un pioniere nell’uso dello strumento che ne assicurò il successo, rendendo il “vino Mariani” una delle bevande più famose ed elogiate della fine del xix secolo. L’epoca brulicava di ciarlatani che proponevano al pubblico prodotti più o meno adulterati attraverso le “réclame” che apparivano sui giornali, bisognava perciò inventare un metodo pubblicitario che si distinguesse da quello dei suoi concorrenti. Mariani fece in modo che le più grandi celebrità del tempo, tra cui diversi pontefici e capi di Stato, ricevessero in dono delle casse del suo vino, nella speranza di ottenere un complimento in cambio, che avrebbe poi utilizzato nel promuovere il suo prodotto. La strategia funzionò così bene che poté raccogliere le dichiarazioni dei suoi illustri patrocinatori in album illustrati dai più grandi artisti del suo tempo, e poi creare una serie di prodotti derivati e di eventi che assicuravano che non si smettesse di parlare del suo vino[3]. Come il successo di Merck, anche quello di Mariani attirò subito numerosi competitori – ma la qualità incontestabile del prodotto, unita all’irresistibile tecnica di marketing del còrso, impedì che diventassero dei concorrenti temibili. La progressiva adozione di leggi per combattere il consumo di alcol negli Stati Uniti, uno dei più importanti mercati per i produttori di “vino tonico”, non aiutò; lo stesso Mariani finì col risentirne – anche se la sua bevanda alla coca continuò a vendersi fino al 1920[4]. Alcuni, tuttavia, riuscirono a eludere i divieti di cui furono vittime Mariani e i suoi concorrenti; il più importante era un certo John Pemberton, produttore di un French Wine Coca, ad Atlanta, che finì per sostituire uno sciroppo al vino e a commercializzare la sua bevanda con il nome di Coca-Cola[5].

 

  1. The Coke Side of Life

 Come il vino Mariani, la Coca-Cola introdotta da Pemberton nel maggio 1886 conteneva l’equivalente di una decina di grammi di cocaina per litro e si supponeva avesse le stesse proprietà stimolanti e toniche di quello – era semplicemente priva d’alcol[6]. Invece di venderla come un medicinale, il farmacista decise di farne una “bevanda rinfrescante” che si poteva acquistare nei negozi di alimentari; il successo non arrivò, e Pemberton vendette la sua invenzione, prima di morire a causa della sua dipendenza dalla morfina[7]. Se il prodotto conobbe in seguito la fama che sappiamo, fu grazie al genio commerciale di Asa Candler, l’uomo d’affari che acquistò da Pemberton il nome e la formula della “Coca-Cola”, e stabilì la forma della bottiglia, divenuta un’icona, nel 1915. Nel frattempo, nel 1903, la Coca-Cola si era sbarazzata della cocaina che conteneva, anche se l’infusione di foglie di coca continuava – e continua, grazie a una eccezione fatta su misura, che compare nell’articolo 27 della Convenzione unica sugli stupefacenti delle Nazioni unite (1961) – a far parte della sua formula. Questa eccezione, che autorizzava The Coca-Cola Company a importare dalla Bolivia delle foglie di coca per uso proprio, godette del concorso di Harry J. Anslinger, una delle personalità più ambigue della storia della guerra alla droga condotta dagli Stati Uniti[8]. Primo capo dell’Ufficio federale dei narcotici, non smise di dare delle droghe, in particolare della marijuana, la peggiore immagine che ne sia mai stata data, ricorrendo a tal fine alle tecniche di disinformazione più spudorate – con il sostegno dei titoli dei giornali di William Randolph Hearst e del gruppo Dupont di Nemours. Scandali montati di sana pianta, associazione del consumo di droghe con le popolazioni “pericolose” (cioè non bianche) ecc., facevano parte dell’arsenale al quale Anslinger attingeva per giustificare il suo lavoro, e chiedere più fondi per il suo dipartimento. Anche se i suoi metodi avrebbero finito per interrompere la sua carriera, il presidente Kennedy lo nominò comunque, prima del suo pensionamento, rappresentante degli Stati Uniti alla Commissione delle Nazioni Unite sui narcotici[9]. Non era il minore dei paradossi che l’uomo della guerra alle droghe fosse anche quello con cui una delle più grandi industrie che traeva profitto dalla coltivazione della coca ha potuto continuare a fornirsi di materia prima – escludendo qualsiasi concorrenza. Eppure, a pensarci bene, questo paradosso era del tutto logico: si trattava di una dipendenza come un’altra.

 

  1. Introduzione alla farmacologia economica

 Dalla Merck alla Coca-Cola, passando per Mariani e i suoi imitatori, la cocaina ebbe, all’inizio dello sviluppo del capitalismo industriale, un ruolo simile a quello che avrebbe dovuto avere sui suoi consumatori: il ruolo del più potente degli stimolanti. Fu grazie a questa droga (e ad alcune altre della stessa famiglia) che la moderna industria farmaceutica potè iniziare a svilupparsi e che il mercato della lotta contro la nevrastenia divenne un’impresa così redditizia che fece scomparire i piccoli giocatori quali erano i vecchi imbonitori. Era evidente che un tale sviluppo non poteva avvenire senza che imbarazzanti zone d’ombra ne accompagnassero il movimento – e, in effatti, la cocaina si incrocia sempre là dove il capitalismo moderno è più soggetto a sospetti di corruzione, vale a dire nelle sue relazioni con i poteri pubblici. Che si tratti della funzione svolta dalle sostanze narcotiche durante la Seconda guerra mondiale (e, in generale, in tutta la storia delle guerre del xx secolo) o del modo in cui queste sostanze si sono nascoste, sotto altri nomi, nella farmacopea in tempo di pace, il lato oscuro della modernità è impensabile senza di esse. Il progressivo confinamento della cocaina ai margini della legalità non ha cambiato nulla: ancora oggi l’economia del mondo si regge sulla circolazione del denaro prodotto dalla estrazione, dalla trasformazione e dal commercio dell’alcaloide. Al momento della crisi dei subprime, nel 2007, fu anche il frutto del traffico di cocaina che permise alle banche, messe in difficoltà dalle loro stesse martingale, di sopravvivere, il tempo che gli Stati mettessero mano al portafoglio per toglierle dai guai. Per alcuni mesi, mentre gli investitori tradizionali ritiravano i loro soldi dalle banche, solo i trafficanti di droga continuarono a iniettare liquidità nel sistema – di cui essi avevano bisogno per dare a quest’ultime un aspetto legale[10]. Così come la cocaina aveva reso possibile il capitalismo industriale, ad essa era affidato il compito di salvarlo da se stesso, dopo essersi ubriacato della sua stessa potenza, dopo la svolta della finanziarizzazione – nata, da un altro paradosso, nello stesso periodo della War on Drugs. Ciò non poteva che ricordare gli argomenti di vendita avanzati da Merck quando la compagnia di Darmstadt cercò di persuadere i medici europei che la cocaina aveva principalmente lo scopo di trattare la dipendenza dalla morfina – cosa che, da un certo punto di vista, non era falso[11]. In ogni caso, si trattava di aspettarsi da un veleno che diventasse il suo stesso rimedio.

 

  1. All’alba sorgerò

 Le conclusioni delle ricerche di Freud erano inequivocabili: la cocaina era una sostanza il cui effetto principale era di rendere possibile un’attività che non lo era senza di essa – realizzando una sorta di allontanamento da ciò che lo impediva. In altre parole, la cocaina era un operatore di efficacia: quando un individuo soffriva di difficoltà associate a uno stato depressivo, o a disturbi fisici, la sostanza permetteva di sconfiggere questa sofferenza. Era in questo senso che poteva essere detta “stimolante” (o, come nel caso del vino Mariani, “tonica”): spingeva all’azione – rendendola possibile rimuovendo tutto ciò che resisteva alla stimolazione. Per “resistenza” bisognava intendere tutto ciò che era associato al freno che la materia può sempre porre – o meglio: il freno che la materia, per sua stessa natura e densità, non può impedirsi di costituire, come il corpo e i suoi organi. Grazie alla cocaina, il luogo dell’azione si spostava dal corpo motore alla pura volontà, all’esercizio delle facoltà mentali distaccate da ogni contingenza diversa da quella della propria potenza, come se fosse possibile che la materia non ne fosse nient’altro che la serva. Quando Freud sosteneva che la cocaina consentiva di ricreare l’“eccitazione” dove questa sembrava essere svanita, probabilmente intendeva dire che il prodotto che ordinava a prezzo d’oro alla Merck lo liberava da tutto ciò che gli impediva di agire – cioè da se stesso. La cosa più importante, tuttavia, non era il fenomeno di ablazione che osservava, ma il fatto che questo conduceva a una mobilitazione; la cocaina rendeva mobili, attivi, efficaci; consentiva di svolgere i compiti più difficili e urgenti senza il minimo sforzo. Insomma, la cocaina era il carburante del cervello – era ciò che permetteva al cervello di essere se stesso, quando il resto di sé (vale dire il corpo) era ignorato, in modo che esso potesse dedicarsi senza riserve al godimento del proprio funzionamento. Freud non arrivava a dire che l’assunzione di cocaina lo rendeva più intelligente o più chiaroveggente; non aveva ancora raggiunto lo stadio megalomaniaco del cocainomane – ma c’era tuttavia un po’ di questo nei suoi scritti sull’argomento. In realtà, era piuttosto nell’intimità della corrispondenza che intratteneva con la sua fidanzata, Martha, che dava libero sfogo alla descrizione lirica di ciò che la cocaina gli faceva fare durante le cene mondane – ma i suoi articoli scientifici non erano meno elogiativi[12].

 

  1. Della stessa materia dei sogni

 Che la cocaina costituisse un principio di efficacia soggettiva, e che questo principio assumesse la forma di una sorta di astrazione rispetto alla materia e al suo carattere di vincolo, era la principale lezione che si poteva trarre dai testi che Freud aveva dedicato alla sostanza. Ma i suoi rapporti con la Merck, così come il modo in cui la compagnia poteva servire da metonimia del funzionamento del capitalismo industriale, avrebbero già dovuto far sospettare che probabilmente c’era qualcosa di più. Ciò di cui si parlava, con la cocaina, era di una sorta di logica del distacco – una sorta di processo di dematerializzazione generale, che toccava tutte le dimensioni della realtà, tanto che si trattasse di quelle di un soggetto come di quelle di un universo sociale. La cocaina era il principio di efficacia di un mondo diventato fluttuante – mondo in cui più nulla contava, se non il libero dispiegamento delle potenze permesse dall’oblio di tutto ciò che poteva reprimerle, in qualunque campo. Del resto, questo è ciò che la storia del commercio della cocaina finisce per rivelare: non c’era alcun limite o regola che potesse opporvisi – oppure, se c’era, si poteva fare altrettanto bene come se non esistesse, dal momento che nessuno aveva un senso. Quando Richard Nixon lanciò la sua War on Drugs, in una conferenza stampa nel giugno 1971, sapeva benissimo che sarebbe stata una guerra senza speranza, poiché ogni nuovo tentativo di contenere il commercio della cocaina lo avrebbe visto sfuggirgli ancora di più[13]. Del resto, forse questo era il suo scopo: fare in modo che fosse attuato una sorta di movimento di lotta astratto, la cui esistenza e consistenza fosse solo puro flusso o pura forza – puro gesto di decisione senza alcuna relazione con la realtà che doveva combattere. Sintomaticamente, fu sempre nel 1971 che Nixon decise di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, decidendo così sia la fine degli accordi di Bretton-Woods, che avevano più o meno stabilizzato l’economia mondiale, sia quella di ogni rapporto della moneta americana con il suo standard di riferimento[14]. Improvvisamente, il sistema economico mondiale si trovò immerso in una specie di plastica follia, il cui primo effetto fu il dispiegamento della finanza, gigantesca macchina per produrre denaro che non ha altro riferimento che il proprio valore. Così come la guerra alla droga ebbe come unica conseguenza l’evaporazione di ciò che restava di materialità nel commercio della cocaina, la fine degli accordi di Bretton-Woods sancì l’ingresso del capitalismo nell’era della sua dematerializzazione.

 

  1. Zero, zero, zero

 Nella terrificante inchiesta sui meccanismi mafiosi dell’economia della cocaina, che pubblicò nel 2013, Roberto Saviano propose un’ipotesi ancora più radicale – secondo la quale quella che poteva sembrare essere solo una coincidenza era in realtà una natura comune[15]. Il ruolo svolto dal commercio del coke nella storia dello sviluppo industriale, e poi il modello che ha costituito la sostanza nella svolta verso la finanziarizzazione, avrebbero dovuto far sospettare che con il capitalismo si trattava di qualcos’altro della semplice amoralità. Piuttosto che come un sistema che accompagna (e anche, in larga misura, sostenuto da) la polvere che tanto affascinava Freud, il capitalismo deve essere considerato come interamente innervato da essa – poiché costituisce la sua energia, la sua sostanza, il suo scopo e il suo modello. Non solo la finanza internazionale è inseparabile dal commercio della droga, ma tutto si svolge come se fossero la stessa cosa – come se fosse impossibile distinguere le due cose, come già testimoniavano le manovre di Nixon. C’è solo capitalismo della cocaina – così come c’è cocaina solo in quanto richiede un sistema economico adeguato alla sua volatilità, alla sua illegalità, alla sua assunzione e alla sua immaterialità, cioè un sistema nervoso astratto diventato perfetta eccitazione. Ogni capitalismo è, necessariamente, un narcocapitalismo – un capitalismo in tutto e per tutto narcotico, la cui particolare eccitabilità non è che il rovescio maniacale della depressione, che non cessa di originare, pur presentandosi come suo rimedio. In realtà, non si tratta di un rimedio, ma solo di un oblio – di quella rimozione della sensazione degli organi sottolineata da Freud, e che finisce per trovare la sua forma ideale nell’anestesia praticata ogni giorno sui milioni di consumatori di antidepressivi. Del resto, non è certo un caso che la maggior parte degli antidepressivi disponibili sul mercato condividano con la cocaina molto più della loro natura di prodotto sintetico e dell’effetto anestetico derivante dal loro consumo. A rileggere Freud, quello che ci si aspettava dalla cocaina era proprio quello che gli abitanti stressati delle rovine del capitalismo globalizzato sperano di ricavare dalle pillole che inghiottono tutto il giorno: non sentire nulla – soprattutto il loro stomaco. Il narcocapitalismo è il capitalismo della narcosi, il sonno forzato nel quale gli anestesisti immergono i loro pazienti per liberarli da tutto ciò che impedisce loro di essere efficienti nell’ordine del presente – cioè di lavorare, lavorare, e lavorare ancora.

[1]             Aymon de Lestrange, Angelo Mariani. 1838-1914. Le vin de coca et la naissance de la publicité moderne, Intervalles, Paris 2016, p. 29 ss.

[2]             Ivi, p. 30.

[3]             Ivi, p. 70 ss.

[4]             Ivi, p. 138 ss.

[5]             Cfr. Mark Pendergast, For God, Country & Coca-Cola. The Definitive History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes it, Basic Books, New York 2013, p. 20 ss. Per un resoconto più polemico, si veda William Reymond, Coca-Cola. L’enquête interdite, Flammarion, Paris 2006, p. 44 ss., che aggiunge tuttavia qualche elemento inedito al racconto di riferimento di Pendergast.

[6]             Pendergast, For God, Country & Coca-Cola, cit., p. 53 ss.

[7]             Ivi, p. 43.

[8]             Su Anslinger, leggere John C. McWilliams, The Protectors. Anslinger and the Federal Bureau of Narcotics (1930-1962), University of Delaware Press, Newark 1990.

[9]             Ivi, p. xx.

[10]           Questa almeno era la tesi del difensore di Antonio Maria Costa, Direttore dell’ufficio delle Nazioni unite sulle droghe e la criminalità, in una intervista pubblicata il 13 dicembre 2009 da “The Observer”. Cfr. Rajeev Sival, Drug Money Saved Banks in Global Crisis, Claims UN Advisor, in “The Guardian”, 13 dicembre 2009. A oggi, le prove di cui Costa pretendeva di essere in possesso non sono ancora state rese pubbliche. Si veda Joras Ferwarda, The Effects of Money Laundering, in Brigitte Unger e Daan van der Linde (a cura di), Research Handbook on Money Laundering, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton 2013, p. 40.

[11]           Cfr. H. Richard Friman, Germany and the Transformations of Cocaine, cit., p. 90.

[12]               Freud, Sulla cocaina, cit., p. 109 ss.

[13]           Cfr. Johann Hari, Chasing the Scream. The First and Last Days of the War on Drugs, Bloomsbury, London 2016. Sulle conseguenze della War on Drugs nelle Ande, cfr. Frédéric Faux, Coca! Une enquête dans les Andes, Actes Sud, Arles 2015.

[14]           Sulla storia e l’importanza della fine del sistema di Bretton-Woods, cfr. Yanis Varoufakis, I deboli sono destinati a soffrire? L’Europa, l’austerità e la minaccia alla stabilità globale, trad. it. di L. Matteoli, La nave di Teseo, Milano 2016; Peter Sloterdijk, Aprés nous le déluge. Les Temps modernes comme expérience antigénéalogique, trad. fr. di O. Mannoni, Payot, Paris 2016, p. 178 ss.

[15]           Roberto Saviano, ZeroZeroZero, Feltrinelli, Milano 2013.

Intrecci di vite e di opere

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di Pasquale Vitagliano

“Ne sono rimasto molto addolorato ma penso che i suoi ultimi cinque anni o sei anni siano stati molto felici”. Questo dice James Joyce alla Weaver quando viene a sapere della morte di Italo Svevo. Rendere felice un amico: questo è il senso del sostegno che mai gli fece mancare. È anche la firma di un rapporto umano e letterario intricato e generativo. La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale è il racconto di questa relazione. Enrico Terrinoni ricostruisce l’inedita amicizia tra questi due “mostri” della Letteratura del Novecento. Joyce, in fuga dall’oppressione politica e culturale che a Dublino non gli permette di vivere, insegna inglese a Trieste. Svevo inizia a frequentarlo come allievo. Lo sosterrà economicamente, ricevendo in cambio un sincero sostegno al suo talento letterario.

L’intreccio delle loro vite e delle loro opere, che si scambiano, apprezzandole reciprocamente, costruisce una rara connessione, quasi un entanglement quantistico, tra biografie, tratti letterari, luoghi e coincidenze numeriche. Per esempio, l’ironia è un passaggio cruciale nell’incontro delle loro arti. “Riguardo all’Ulisse”, scrive Terrinoni, “possiamo esser certi che sarà proprio l’ironia l’architrave dell’Ulisse”. Ed ha ragione Brian Moloney, che fa risalire questo carattere proprio a Svevo, al suo modo di comportarsi e di scrivere. Un altro punto di contatto è la città: Trieste e Dublino, con le loro aree misteriose in cui la “distanza tra il corpo l’anima si dissolveva, e le contraddizioni tra la vita diurna e quella notturna si ricomponevano in un’unica esistenza fluida, nascosta e sognante”.

Ha ragione la moglie di Svevo, Livia, quando afferma che attraverso la conoscenza della sua vita si può penetrare maggiormente il suo mistero d’artista. Nessuna interpretazione dell’opera di questi due giganti può prescindere da una ricerca dentro la loro esistenza privata. Né sarà mai possibile inoltrarsi fino a svelare il segreto più intimo e riposto che costituisce il nesso profondo tra finzione e realtà, rappresentazione e vita vissuta. Anche perché “nel farsi vita narrata, una vita di sublima e si modifica”. Ci vengono svelati insieme due tra gli scrittori più autobiografici di sempre, autori non di narrative ma di “narravite”, come scrive Terrinoni, l’una la cartina di tornasole dell’altra.

Attraverso la narrazione di questi eventi, resoconti, impressioni, incroci, e simultaneità, questo libro ci accompagna dentro il mistero stesso della letteratura che germoglia oscuramente dentro le esistenze umane. Le vite e le opere di Joyce e di Svevo di riflettono le une nelle altre rimandandoci all’infinito il riflesso sorprendente di due esperienze uniche. Come lettori, per un verso, partecipiamo ad un’intensa e autentica storia d’amicizia “tra due geni di grande cuore”, la cui natura continua a mantenere per noi una natura segreta. Per altro verso, proviamo la sensazione di aver raggiunto il limite estremo delle possibilità conosciute fino ad allora. Ma superate queste colonne d’Ercole scopriamo che il mondo non è finito. Anzi, siamo approdati alla Modernità.

 

Mots-clés__Sonno

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Bill Viola, "The Sleepers", 1992 (https://macm.org/en/collections/oeuvre/the-sleepers/)

 

Sonno
di Ornella Tajani

Philip Glass, Les enfants terribles (The Somnambulist) -> play

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Bill Viola, “The Sleepers”, 1992 (https://macm.org/en/collections/oeuvre/the-sleepers/)

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Da: Sándor Márai, Il sangue di san Gennaro, a cura di Antonio Donato Sciacovelli, Adelphi, 2012 (edizione digitale).

A mezzogiorno, a metà maggio, una sorta di fatalità alberga nella luce del sole che si libra tinta d’oro e d’azzurro. Il mare è immobile, di un blu profondo. A Napoli, in questo momento, centinaia di migliaia di persone stanno dormendo, a metà maggio, intorno alle due di pomeriggio. Dormono tutti vestiti nei bassi, sull’unico letto, dormono con le bocche spalancate e sembrano colti da svenimento. Dormono in riva al mare, sulla passeggiata di Posillipo, sul ciglio delle recinzioni di pietra, e nel sonno mantengono incomprensibilmente l’equilibrio, senza precipitare già dalle recinzioni, verso l’abisso. Dormono nel bel mezzo dei marciapiedi, e i passanti scavalcano con indifferenza i dormienti. In qualsiasi altro luogo un uomo che giaccia privo di sensi al centro del marciapiedi, in pieno giorno, sarebbe considerato la vittima di un incidente. Ma non a Napoli, dove è solo un uomo che dorme. Il sonno si impadronisce di loro come un impellente bisogno fisico, alla stregua della fame, della sete o della passione carnale. All’improvviso si addormentano, subito, senza che nella loro vita vi sia soluzione di continuità tra la veglia e il sonno.

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[Dopo quasi cinque anni, con questo mot-clé la rubrica cessa di avere una cadenza mensile fissa; d’ora in avanti i nuovi contributi saranno pubblicati occasionalmente, sempre nella prima domenica del mese. Grazie a tutte/i coloro che hanno partecipato fin qui: è stato interessante vedere come, da un gioco di associazioni semplice in apparenza, siano spesso stati costruiti imprevedibili percorsi di senso. Tutti i mots-clés pubblicati sono accessibili cliccando sul tag qui sotto: enjoy. ornellatajani]

Marcel ritrovato, di Giuliano Gramigna

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[Per Il ramo e la foglia edizioni è stato appena riedito Marcel ritrovato, terzo romanzo di Giuliano Gramigna, con una nota critica di Ezio Sinigaglia. Ne pubblico un estratto. ot]

 

di Giuliano Gramigna

La scala cominciava dietro una porta a vetri rossi e blu piombati, fatta o rifatta da poco, di legno lucido e grasso; al primo piano, un corridoio con due e due porte ai lati, una specie di moquette abbastanza strappacchiata; al secondo, stesso corridoio a quattro porte, con numerini di biacca dipinti sopra a mano. Arrivava da qualche parte il gorgoglio di uno sciacquone, la musica di una radio o giradischi e una voce che ci mugolava sopra distrattamente. L’otto era in fondo al corridoio sulla sinistra. Una porta si aprì, venne fuori un giovanotto alto, grosso, dai capelli tè chiaro tagliati cortissimi fin quasi alla cotenna, che aveva addosso soltanto una maglietta bianca da base-ball attraversata sul petto da un «Giants» bello rosso. La maglietta arrivava all’ombelico, lasciando scoperti fianchi e gambe muscolosi da sportivo e un sesso enorme e pigro, dai riflessi madreperlacei. Il giovanotto mi guardò un momento mentre richiudeva dietro di sé la porta senza affrettarsi: aveva occhi verdi, del tutto tranquilli, imperturbabili; poi, ancora senza fretta, camminò attraverso il corridoio, portando via quel suo trofeo verso un’altra porta che fronteggiava diagonalmente quella da cui era uscito, aperse dolcemente, scomparve. Il sole che veniva dalla finestruccia in fondo al corridoio aveva non so che polverizzazione azzurrognola, forse per il riverbero delle facciate di pietra e dei tetti d’ardesia del cortile. Camminando (non so perché) in punta dei piedi andai alla porta numero otto, girai la maniglia: non era chiusa a chiave. La stanza era quadrata, non molto grande, con pochi mobili d’acero, chintz a fioroni alquanto sudicio inchiodato dentro cornici pure di acero dietro il divano-letto e il lavabo, chissà con che intenzione, ormai perenta, di ricercatezza. Sul solito sgabellino a X c’era una valigia, un’altra in cima all’armadio. Non le riconoscevo certo, come non avrei saputo identificare vestiti e biancheria che contenevano, ma il cartellino alla maniglia portava il nome di Marcello Galimberti e dentro una delle valige, proprio in cima alla pila d’abiti, una cartella piena di carte, ancora con il suo nome e l’intestazione a stampa della sua fabbrica. Curiosai un poco: sulla mensola del lavabo il flacone appena cominciato di lozione Yardley, il sacchettino di tela grezza Rose-Manchester ma non la bottiglia; non trovai rasoio e il resto. Sul tavolo, una Dunhill di un bel colore bruno rossiccio, che annusai: per quel che me ne intendevo, ci aveva fumato Capstan. Guardai anche nel cestino della carta straccia, vergognandomi un po’ di questa mossa da cattivo segugio: non c’era nulla, del resto. Non so che cosa mi aspettassi dal sopralluogo, salvo la conferma che proprio lì Marcello aveva abitato per un paio di settimane, dopo aver lasciato il Georges cinq: il cercatore di tracce aveva finito, per ora. Mi voltai per uscire e c’era una ragazza dentro il rettangolo che la porta semiaperta ritagliava sulla luminosità diversa del corridoio. Aveva un’aria di solidità-stolidità, mi chiesi oziosamente come avrei fatto a spostarla per passare se lei non si fosse tirata spontaneamente da parte. Intanto lei stava piantata lì, con dei pantalonacci scuri e un maglione largo e informe color antracite che parevano una divisa messa su con noncuranza o dispetto; teneva la mano sinistra davanti alla bocca, gesto che avevo giudicato teatrale, di sorpresa o terrore: ma arrivato più vicino mi accorsi che stava semplicemente masticando le pellicine intorno al bordo dell’unghia del pollice, con grande concentrazione e di tanto in tanto con uno scatto secco dei denti[1]. Dietro quella mezza maschera il viso era in qualche modo immacolato, fatto con poche linee molto pure, intense e nello stesso tempo distratte; due rughette verticali fra i sopraccigli riprendevano la scanalatura accentuata del labbro superiore. La guardavo in faccia come attraverso una lente d’ingrandimento. Pensai di domandarle addirittura se conosceva l’occupante di quella stanza, se sapeva dove trovarlo; ma in quale lingua parlarle? italiano, francese, inglese eccetera erano certo inadeguati non meno del sarmata o del medo per comunicare con lei: forse occorreva trovare l’equivalente di quel mordicchiare pellicine, un gesto o un semplice suono organico. Difatti adesso la ragazza muoveva gli occhi con familiarità paziente intorno alla camera, inglobandovi ma senza arresto né meraviglia anche me che mi ero fermato a due passi di distanza; poi fece un suono che posso trascrivere pressappoco come: “ghe”, emesso più con le interiora che con le corde vocali, girò su se stessa adagio e scomparve dal riquadro della porta. Mi chiusi l’uscio alle spalle, scesi e trovai la donna dietro il banco apparentemente nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata; le dissi che se voleva poteva mandare le valige dello scomparso al mio albergo; non aspettai che desse segno di consenso o dissenso e lasciai il Râtelier.

Finii la mattinata in boulevard Raspail alla libreria Gallimard che mi piaceva perché dalla vetrina pioveva dentro il verdolino chiazzato di sole dei tigli e dei lillà, poi dopo il pranzo tornai all’albergo per scrivere a Roberta una prima relazione delle mie ricerche. Dirle tutto? ma che cosa era poi tutto, finalmente? fatti pochini, semmai il contorno delle ipotesi, delle interpretazioni, ma avevo il diritto di metterlo in carta? ma Roberta non aveva il diritto di sapere? ma io stesso nei suoi confronti il dovere di essere franco, di riferire oggettivamente non soltanto i fatti, anche quelle deduzioni che sembrava inevitabile ricavarne, a costo del mio sentimento di amicizia e lealtà verso Marcello? et patati et patata. Tutto gonfio di questa bella parte, accennai alla spedizione al Georges cinq, all’incontro con i brasiliani «certamente conoscenze occasionate dalle necessità professionali, però non direi proprio quel tipo di persone che ci si aspetterebbe di trovare con Marcello o che dovrebbero piacere a Marcello» («almeno come lo conosco io» aggiungevo parenteticamente); poi al passaggio di Marcello dall’albergo alla stanza del Râtelier «un posto che tu ed io potremmo perfino trovare divertente per un’oretta ma non abitarci senza disagio» e alla successiva scomparsa. «Io credo di poterti tranquillizzare senz’altro da un punto di vista materiale. Voglio dire che, sebbene non sappia ancora dove sia adesso, sono persuaso che non gli è capitato nulla di male cioè che sta bene e tornerà presto a farsi vivo. Qualche idea improvvisa, qualche curiosità, metti il fascino di certo ambiente (sebbene il nostro Marcello non si sia mai lasciato incantare; ma chi può dire cosa succede a un bel momento? non parlo di demone meridiano, farebbe ridere per Marcello, non fosse altro per l’età, troppo giovane; comunque) magari basta a spiegare questa scomparsa temporanea.» Aggiunsi, con molti altri incisi e parentesi, che avrei continuato a darmi da fare ma che non era proprio il caso di allarmarsi. A buon conto non ritenevo si dovesse mettere di mezzo la polizia. «Perché creare uno scandalo che non c’è?» Sorrisi fra me tirando fuori questo fleur-de-lys di una cautela borghese ormai superata: figuriamoci se adesso gli spiace uscire su quotidiani e settimanali, anche se non proprio per i balletti verdi; biffai la frase e scrissi: «Del resto, una volta che si è convinti, come lo sono io, che Marcello non corre fisicamente nessun pericolo, una certa cautela nelle mosse sembra ragionevole. Nessuno può dire di conoscere davvero un altro: neppure tu, cara Roberta, se vuoi essere sincera, puoi giurare di sapere tutto di Marcello. Viviamo spesso in uno stato di semiconfusione, di semignoranza accanto alle persone alle quali vogliamo bene e proprio la vicinanza impedisce di vedere. Anche in questo caso, la precipitazione potrebbe avere effetti spiacevoli e imbarazzanti non solo per Marcello ma anche per te e per tutti noi che gli siamo affezionati». Aggiunsi che naturalmente non pensavo affatto che un cambiamento di luogo, certi incontri occasionali potessero trasformare un uomo («non Marcello») e che in ogni caso escludevo una indegnità d’ordine morale (espressione alquanto oscura); ma per ora la cara Roberta doveva aver fiducia negli amici come me «che non cambiano i loro affetti». Ci misi un’ora a scriverla e avrei potuto continuare per un altro paio. Appena l’ebbi finita andai a imbucarla alla Gare de Lyon, perché partisse subito[2].

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[1] Donde sarà mai scappata fuori questa siluette così malritagliata, goffa e soprattutto detta dagli altri? L’autore ammette che nessuna delle parole del ritrattino gli appartiene e che l’intero pezzo gli dà, non meno che al lettore, la sensazione di un dettato buttato giù di malavoglia, trasentendo e trascrivendo male per la fretta e la noia, le frasi suggerite. Il guaio è che dietro le parole prese in prestito non si sa bene da chi non c’è nulla ossia il vuoto dell’imbecillità che dà, dopo una mezzoretta, la pillola di sonnifero o quello assai più penoso, fatto tutto di grattamenti senza fondo, della memoria incapace di ritrovare un nome, una data, una citazione. Dunque un bell’esempio di nevrosi espressiva, in cui alla totale incapacità si accompagna la totale e frenetica urgenza di esprimersi. L’a. crede di poter paragonare il disagio che ne viene a quei dolori di denti freddi, subdoli, vagamente vergognosi per i quali non si sa indicare al dentista la localizzazione; oppure allo string-process vulgo sindrome della corda di violino, che stira in tutto il corpo i nervi dell’ossessivo coatto quando la sera prima di andare a letto controlla per la ventesima volta che il gas sia spento, e che può culminare tanto nel collasso fisico quanto nell’ascesi mistica.

[2] Abbozzo di una variante non utilizzata: sensazione di sazietà un po’ repugnante alla fine, come per il “troppo dolce” (?). Bruno soddisfatto scende la scala dell’albergo cantarellando con la lettera chiusa in mano eccetera…; poi di colpo si vede in una vetrina – volto compiaciuto di diavolo meschino (trovare di meglio) – e ha disgusto di sé.

Tu, muori

2

di Ilaria Parlanti

Tu, muori

24 operazioni chirurgiche. 3 vertebre toraciche malformate. 2 coste e mezzo mancanti. 24 cicatrici sulla schiena. 1 polmone ipoespanso e non funzionante. 42° Cobb di curvatura toracica. 2 ganci uncinati alle lamine vertebrali. 46° Cobb di curvatura lombare. 30% scarso di capacità vitale respiratoria. 1 barra di Harrington. 1 ciste siringomielica nel midollo. 2 arti con disfunzioni neurologiche. 38 chilogrammi di peso. 1 lesione midollare. 156 centimetri di altezza. 1.18 litri di aria a espansione forzata polmonare.

Anni: 26.

Mutazione del gene DLL3

La disostosi spondilocostale autosomica recessiva (ARSD) o sindrome di Jarcho Levin è una malattia rara dovuta alla mutazione del gene DLL3.

(Sito ufficiale Orphanet)

Non posso avere ricordi della nascita e dello spazio perinatale che ho occupato nel mondo. So soltanto le storie che mi hanno tramandato le donne di famiglia. Mio padre ancora oggi non mi dice niente, a riguardo: si è sempre mostrato scosso.

Era un venerdì di aprile del 1997, faceva freddo. Che la mia situazione fosse grave si percepì subito dall’insufficienza dei decibel del mio pianto e dalla postura innaturale che aveva assunto la mia colonna: la spalla destra incurvata fino a toccare le ossa dell’anca. Eppure nelle trentadue settimane di gestazione non si erano registrate anomalie, solo un certo presagio di tragedia scuoteva le notti di mia madre.

“Morirà in tre giorni” dissero i medici una volta che fui ripulita dai liquidi della placenta e attaccata ai tubi dell’incubatrice.

Mi concessero settantadue ore per vedere il mondo, ingabbiata in un ospedale. Poteva accadere – la mia morte – per un semplice arresto circolatorio, per l’elisione dell’esofago o per soffocamento. Stava a me decidere.

Di quei giorni non so altro, se non cose che ho scoperto poi, origliando. Pochi si erano arrischiati a venirmi a trovare. Qualcuno aveva detto che ero un piccolo mostro. “È senza collo” fece notare un altro, soffocando un sorriso. La sterilità dell’ambiente, la stanchezza della rianimazione neonatale, le procedure di sicurezza igienica avevano fatto il resto.

La turbolenza della nascita ha istigato terremoti emotivi anche negli anni formativi.

“Non ride mai di gusto” mi disse il chirurgo agli inizi della nostra conoscenza, presso l’Hôpital Saint Vincent de Paul allora a Parigi.

Gli devo dare il merito di aver detto una verità. Sono così seria e contrita; ironica solo quando avverto l’irrefrenabile impulso di screditarmi. Molto dipende da quel giorno di aprile, quando mi tolsero dall’abbraccio materno e mi comandarono, occhi negli occhi: “Tu, muori”.

Distrattore costale

Il distrattore spino-costale è un sistema utilizzabile in presenza di limitazioni della crescita del polmone e scoliosi grave e progressiva. Il sistema è stato messo a punto specificatamente per i bambini molto piccoli.

(Sito dell’Istituto Ortopedico Rizzoli)

Ho subito bullismo in tutte le sue forme. Eppure non sentivo la solitudine della malattia. Negli ospedali osservavo con meticolosità le malattie degli altri bambini e comprendevo che noi – i bambini malati – non eravamo soli, ma un gruppo ristretto di persone sfortunate. Quello era l’unico gruppo cui appartenevo.

Ero in quarta elementare. Raggiunsi i compagni con il mio grembiule nero svolazzante, i capelli legati in una coda alta e il bustino che rendeva ogni movimento più meccanico e artificioso. Proposi una variante del gioco. Nessuno mi rispose, anzi nessuno alzò nemmeno la testa per guardarmi. Pensai non mi avessero sentito e ripetei la proposta con un tono più alto. Niente.

Soltanto una bambina, alle mie grida di protesta e supplica, si alzò dal cerchio e mi venne incontro.

“Non vogliamo la tua malattia. Tu ci fai solo pietà”.

Eccola la parola: pietà.

La odiai, nel modo immediato e assoluto che è virtù degli infanti. E per metonimia, estesi la sua malignità a tutti i bambini, passati e futuri.

Credo che sia nata così la mia incapacità di legarmi, la mia totale mancanza di interesse a creare un punto di contatto con loro. Li odiavo – li odio – tutti, i bambini: indistintamente.

Davvero ci si avvicina a me solo per pietà? Le mie relazioni sociali, affettive e sessuali saranno solo di questo tipo? Sarò l’amica disabile o l’amante disabile o quella con cui si scopa perché non la scoperebbe nessun altro?

Harrington modificato

L’asta Harrington è un sistema strumentale di acciaio inossidabile utilizzato in bambini e più spesso in adolescenti per il bloccaggio della colonna vertebrale, ovvero l’intervento di artodesi.

(www.ior.it)

Mi ricordo che al suono di quella parola – mi fece schifo sul momento, un ribrezzo come poche volte ho provato nella vita – scostai subito lo sguardo in direzione di mio padre.

Non solo provai una grande rabbia nei confronti del dottore, ma anche un certo moto di fastidio per aver accostato al mio comportamento di liceale ubbidiente e inattaccabile un’azione tanto crudele – per la me di allora – come l’atto sessuale completo. E che mio padre sentisse, sapesse che a diciassette anni io non avevo mai fatto sesso, che non avevo nemmeno un briciolo di esperienza. E che si parlasse apertamente non della possibilità che io ne facessi in futuro – i malati e i disabili il sesso non lo consumano, pensavo all’epoca – ma della certezza premeditata che sarebbe accaduto.

Mi sarei voluta alzare in piedi con tutta la mia fragile bassa statura e gridare che io il sangue delle mestruazioni lo avevo sempre voluto – sempre sempre sempre! – e che l’avevo ottenuto a quindici anni e tre mesi con la sorpresa di tutti, anche del chirurgo. Avevo dimostrato che non era vero che sarei rimasta una bambina per tutta la mia vita, il mio corpo aveva risposto alle radiazioni di quegli anni con un grumo rosso scuro che mi era colato tra le gambe durante l’operazione del giugno 2012.

Ma accoppiarsi avrebbe significato la rottura dell’imene. E quello mi era necessario: serviva a non mescolare il mio dolore a quello del mondo.

Quando finì il trattamento chirurgico la pneumologa mi disse: “Puoi tornare in Italia pensando al futuro. Se le cose rimanessero così a livello respiratorio, sarebbe difficile sostenere una gravidanza, ma non impossibile. Se le cose peggiorassero, come la patologia comanda, allora è il caso di rivalutare”.

Io risposi solo: “Non voglio figli”.

Codice Orphanet: 2311

Orphanet gestisce la nomenclatura delle malattie rare di Orphanet, strumento essenziale per migliorare la visibilità delle malattie rare nei sistemi informatizzati della sanità e della ricerca: a ciascuna malattia in Orphanet viene attribuito un identificativo univoco e stabile, il ORPHAcode.

(www.orpha.net)

La mia maturità sessuale ha avuto inizio in ritardo, come molte delle tappe della mia vita: avevo ventidue anni.

A un certo punto mollai tutto: la mia ambizione, le mie amicizie, la scrittura, la lettura, tutto ciò che mi aveva sempre dato gioia, soltanto per ricercare quel fine ultimo ed estremo, che come tutti agognavo non senza una certa ignoranza: il sesso.

Mi legai a un amico della mia compagnia, al quale piacevo da un po’. Che cosa pensai, io, in quel momento, di lui? Che fosse un pazzo masochista, che avesse scelto me per punirsi. Lui mi diceva tante cose, io non gli credevo minimamente: che mi amava, che lui ascoltava il cuore e non la mente. Io il cuore non lo ascoltai mai. Mi dissi che sarei stata una vigliacca se mi fossi persa questa opportunità di normalità e, ingoiando i sentimenti, quell’urlo interno che mi consigliava di aspettare – romanticamente: di innamorarmi –, mi buttai.

Detti il mio primo bacio con una tachicardia che sentì anche lui, ma a me interessava altro. L’atto sessuale completo.

Di quella prima volta ricordo soltanto il dolore. E la macchia su un lenzuolo che andai subito a gettare nella discarica in fondo alla strada.

Durante avevo solo un pensiero fisso, una preghiera a quell’Altissimo nell’atto del peccato estremo: fa’ che sia come per gli altri, fa’ che la disabilità non si noti. Mi aspettavo che da un momento all’altro qualcosa ci impedisse di andare fino in fondo. Il mio corpo storpiato, la mia colonna curva, i miei polmoni fatiscenti. Non ci fu nessun impedimento. In venti minuti avevo perso la verginità e quello che ricordo fu il mio tetro mutismo.

Ci pensò lui a ricordarmi quanto fossi diversa.

“Pensavo tu non potessi” mi disse, steso accanto a me a letto, a casa mia.

Ho avuto relazioni con uomini che mi piacevano, con ragazzi che credevo giusti per altre qualità.

L’amore non l’ho mai sentito, ma sul sesso ho vissuto esperienze di libertà che mi sono conquistata passo passo, almeno sul piano fisico. Su quello mentale, causa il mio disturbo ossessivo compulsivo, è stato un massacro.

Ho sempre avuto il timore di rimanere incinta, pur prendendo la pillola e facendo usare il preservativo. Ho rispettato la posologia del medicinale: con una sveglia interiorizzata da miti e paure reali, ho contato i minuti che passano tra la sua assunzione e una possibile scarica diarroica o episodio di vomito, ho smesso di prendere gli antibiotici più adatti ai batteri che mi colpivano per sostituirli con quelli che non avessero interazioni, ho avuto quattro o cinque blister di scorta intatti nella vetrinetta della mia camera, ho tartassato ginecologi dei presidi ospedalieri nelle notti festive per chiedere se corressi il rischio o meno dopo un rapporto con preservativo bucato: “Ma se prende la pillola, è coperta!” mi dicevano. Contattavo un altro ospedale della zona, tanto per essere sicura.

Ero e sono terrorizzata dalla medesima cosa ma per ragioni diverse: non voglio rimanere incinta.

Prima ragione: pensavo in assoluto di non volere figli. Seconda ragione: se fossi rimasta incinta, con tutte le contraddizioni e il buon senso del caso, quel figlio probabilmente lo avrei tenuto.

Ed è questo pensiero – o meglio, sentimento – che non mi spiego.

Ho ricercato la normalità in un’esperienza – l’atto sessuale – che sebbene sia un evento sempre uguale a sé stesso nella sua meccanica, reca in sé un lato empirico difforme per fisicità, emotività, psicologia, oltre che per fattori sociali, culturali e ambientali.

Mi scopro così: schiava dei miei istinti biologici.

Utero retroverso

La retroversione dell’utero è una anomalia di posizione dell’organo che si presenta deviato all’indietro anziché inclinato in avanti.

(fondazioneveronesi.it)

Ultimamente sogno spesso di essere madre. Non c’è niente di razionale, in queste mie fantasie, me ne rendo conto. Immagino il momento felice, tenendo per mano il mio compagno – che non ho –, mentre annuncio alla mia famiglia di aspettare una bambina. Non è mai un maschio. Nei miei sogni aspetto una bambina.

Le ecografie le eseguo con ansia: “La bambina ha la sindrome? È malata?” I medici mi dicono di stare tranquilla, che sta bene ed è una portatrice sana.

Poi, il giorno stabilito del parto, ciò che era un sogno condiviso, diventa la mia personale tragedia.

Ovviamente, non posso creare un dipinto che non sia mio, quindi ben venga lo spazio per la tecnologia medica. Ecco allora apparire la cannula dell’ossigeno che mi pizzica il naso, imporsi un’immobilità assoluta dal secondo mese – questi sono i momenti in cui mia madre mi coccola e si trasferisce da me per aiutarmi – e un’induzione del parto all’ottavo mese, senza epidurale perché la curva scoliotica non lo permetterebbe. So affrontarlo, il dolore: questo mi dico.

Non l’ho stabilito io che la storia è un ciclo continuo di corsi e ricorsi; che io, e mia madre prima di me, e così mia nonna, facciamo parte di un progetto più ampio, un cerchio infinito di tempo che trascende la morte.

Forse, per la mia malformazione genetica che già aveva marchiato i miei avi, dovrei parlare di una figura meno perfetta: un’ellisse, magari.

Infine ho la certezza attesa.

La bambina ha la sindrome di Jarcho Levin, una forma tutta diversa dalla mia, che oltre alla colonna vertebrale, al costato e ai polmoni, ha neutralizzato l’apparato urogenitale. E poi, somma della somma, i livelli di ossigeno che mi hanno somministrato per tutta la gestazione sono stati troppo bassi e così lei ha subito un’anossia con relative conseguenze per le capacità cognitive.

Di chi è la colpa, madre? Di chi l’ha voluta, madre!

Dei miei polmoni, del mio utero inospitale, dei miei tentativi impossibili di far nascere una vita da una vita che avrebbe dovuto andarsene dopo solo tre giorni.

Da quel momento iniziano i test, le risposte sommesse, i dubbi, le paure, e io mi danno perché nonostante conoscessi la mia condizione ho voluto cedere all’egoismo.

La bambina non muore precocemente, rappresenta la mia punizione: il ricordo costante che sono stata io a chiamarla a me, a crearla, per i miei desideri di strega cattiva.

Il sogno va anche oltre. Io, che conosco la patologia, so già di dover portare mia figlia all’estero e quanti soldi servono.

Lei non mi può dire la locazione del dolore, non muove un passo e mi costringe a costruire una casa adeguata alle ruote della sua sedia a rotelle. Io resto impigliata ai doveri di genitore. Dopo ciò a cui l’ho condannata, mi amerà ugualmente come si amano le madri o mi odierà come si odiano i nemici?

Non ho nemmeno il tempo di formulare una risposta, perché intanto la malattia è tornata a tormentarmi.

La lascio alle cure del padre – c’è ancora un padre? – sono libera di sparire – una sparizione precocemente annunciata, diranno –, ma mai libera dai miei peccati e dalla paura di lasciarla sola su questo mondo che è un luogo cattivo.

Sono stata dalla ginecologa per un’ecografia al seno, come ogni anno. Mi sono stesa sul lettino, ho tolto maglietta e reggiseno, mi sono sdraiata, ho sentito il gel freddissimo e poi l’ecografo sotto l’ascella. Non ho osservato il monitor, non ho guardato la dottoressa.

L’esame è durato un quarto d’ora, a dire tanto, e il medico – Martina, leggo sulla targhetta – mi ha assicurato che non ho noduli sospetti. Poi ha fatto una pausa, ha puntato gli occhi sul mio viso contratto ed è esplosa in una risata gioiosa.

“Il seno ha un sacco di ghiandole mammarie, prevedo un fiume di latte per i tuoi figli!”

Non ho risposto. Mi ha mostrato come fare l’autopalpazione di routine e sono uscita veloce dalla stanza.

Le sue parole mi sono entrate in testa. Cosa significa tutto ciò? È questo il momento?

Ci ho pensato a lungo, ho dibattuto con tutti e su tutto.

La sola verità è che io sono malata. Ho la sindrome di Jarcho Levin, una patologia genetica recessiva con un tasso di mortalità del 99% nel primo anno di vita. Non si fa ricerca perché i casi sono pochi. Non si sa niente riguardo al futuro che mi aspetta.

*fotografia di Mariasole Ariot

Da “Paraiso”

6

di Laura Giuliberti

“La poesia è questo. All’improvviso, vedere qualcosa.”
L. Zukofsky

“questa nuova apertura d’un luogo”
A.-M. Albiach (Etat)

Aria (sillabario della terra # 18)

1

di Giacomo Sartori

Noi inconsciamente pensiamo che nella terra ci siano soli i morti e le marcescenze e le rovine dei passati polverosi, pensiamo che nella terra si soffochi. E invece la sua pancia è un colabrodo di pori, canalicoli e cavità: un sistema di aerazione più o meno efficiente che ossigena il formicolare di attività e di vita. Le radici respirano, i lombrichi e gli insetti respirano, i batteri respirano, tutto il pigia pigia di organismi presenti ha bisogno d’aria. Deve farlo vivere, per lei è primordiale.

Non bisogna quindi immaginarsi uno zoccolo di roccia, ma piuttosto qualcosa come i ridondanti corridoi di un centro commerciale, con i loro saliscendi e curve e meandri non sempre comprensibili, il loro utilitario o forse anche in parte capriccioso portare da qualche parte. Nessuno soffoca, nei corridoi di un centro commerciale, nessuno sta in apnea. Certo poi magari la sera del sabato l’aria risulta bella pesante, richiamando quella di un cinema pienissimo, un cinema con strati sovrapposti di poltrone fino al soffitto, se tutti respirano e ci danno dentro, e se l’umidità trasuda dalle pareti, nessuno però stramazza.

Quando camminiamo sulla terra camminiamo sull’aria, o insomma su una gruviera costituita per una metà d’aria, è per quello che i nostri piedi tendono a sprofondare. Se non affondano è perché ci sono tante radichette che rinforzano e sostengono la terra, un po’ come succede con i materassi a molle, e perché le particelle di questa sono riunite in grumi ben costituiti e ben solidi. Non è un caso che su un prato si ha l’impressione di calpestare un soffice tappeto, e vengono tante belle idee riposanti. La terra buona è un materasso fresco e ben areato, che si presta ai sogni più incoraggianti.

I problemi nascono quando i trattori passano e ripassano sulla terra senza difese, nuda come Dio non l’ha fatta. I trattori e gli altri marchingegni meccanici sono sempre più pesanti, e la strizzano, fanno collassare i suoi preziosi grumi, occludendo i pori e le cavità. Sotto il peso degli pneumatici il suolo da spugna si trasforma in muro impenetrabile, senza più un briciolo di aria. È per quello che poi ha bisogno di essere arato e sbriciolato, la terra dei boschi non ha nessun bisogno di essere smossa dall’uomo. Con le arature e le scarificature riappaiono fessure e crepe, l’assembramento di organismi tira il fiato. Non sono più belle e solide cavità, l’ospitale intrico di grotte e cunicoli, sono frammenti taglienti, come palazzi squassati da un terremoto, dove l’aria non può irradiarsi dappertutto. Ma insomma è sempre meglio che niente.

È un rimedio solo apparente, perché ai primi nuovi passaggi si è daccapo. E anzi la terra è adesso fiaccata, si difende peggio: si compatta ancora di più, diventa ancora più dura e impenetrabile. Adesso sì che assomiglia al cemento armato. E non parliamo di cosa succede in superficie quando piove: non potendo penetrare in profondità l’acqua provoca ruscellamenti che si portano via tutto. Gli addetti dei campi, che non sono più contadini, e non capiscono più la lingua della terra, la rompono e la spezzettano allora ancora e ancora con i loro potenti mezzi, sempre più potenti, senza accorgersi che così facendo bruciano la poca sostanza organica che resta, che è la colla che tiene assieme i grumi, e che nutre tutti gli organismi. Vanno avanti così, come portando le bombole di ossigeno a un malato terminale. Bombole che subito finiscono, mentre l’aria non arriva.

La terra non vuole essere lacerata dall’acciaio inossidabile, ambirebbe a essere lasciata in pace, a potersi affidare ai lombrichi e agli altri esserini che la abitano e la lavorano, dei quali sa che si può fidare. Già attaccati dai pesticidi, loro sono però sempre meno pimpanti, sempre più in difficoltà, sempre meno abbondanti, e lei si sente sempre più esausta. Non ha proprio la forza per resistere al peso di quei pneumatici duri e pesantissimi.

In Inghilterra si è trovata una soluzione palliativa, che negli ultimi decenni si è diffusa molto negli Stati Uniti e ancor più massicciamente in Sud America (meno in Europa). Invece di lavorare i suoli li si innaffia generosamente di erbicidi, in modo che malerbe e i resti delle colture precedenti secchino. Il che permette di seminare direttamente in mezzo ai seccumi, senza lavorazioni, o con leggerissime rastrellature.

Agricoltura di conservazione, viene chiamata. Negli ultimi tempi viene decantata a destra e a manca, presentandola non sempre in buonissima fede come una panacea ecologica, e questo crea molte confusioni. Davvero per molti aspetti ha permesso di arginare le devastazioni dell’erosione e il flagello delle perdite di sostanza organica, paradigmatiche dell’agricoltura industriale, lasciando una terra ariosa, è un suo risultato importantissimo. Non si può però in nessun modo assimilarla alle pratiche agroecologiche: i diserbanti e i composti che si formano dalla loro degradazione sterminano gli organismi del suolo e avvelenano l’ambiente, è poco onesto negare o minimizzare il problema. Certo, l’aria nella terra è fondamentale, ma ci vuole anche che sia buona.

(la fotografia: Santerre (Somme, Piccardia), terreni preparati per la semina delle patate, maggio 2020)

Un ritratto di Renato Barilli

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di Leonardo Canella

1.

Ti dico che è così. Impattante. Qualcosa di impattante. La fiocina che arriva ed è già arrivata. Entra e arpiona. Fra il lancio della fiocina e la carne arpionata un attimo. Forse neppure un attimo. È il tempo di uno scatto mentale.

2.

Renato Barilli è questo scatto mentale. È suo, è lui. Trovi in lui questo scatto mentale dagli anni Cinquanta. Barilli ce l’ha da subito. Un nucleo di energia forte fortissimo. È vita che fiocina fuori col tempo di uno scatto mentale. L’avversario è placcato da vicino: ‘Dimostrami che non ho ragione’ gli dice di continuo. L’avversario è fiocinato. Sempre. Negli anni gli ho visto fare uscire sangue da chi avesse fatto fede in un qualche metodo analitico. Che è spesso come dire noia, morte.

3.

Luciano Anceschi ha percepito per primo questo scatto mentale. 1956, il Verri, 21 anni (Barilli è del 1935). Subito la rubrica di arte. Ma anche prima. E prima Francesco Arcangeli è a Los Alamos (l’ho letto da qualche parte…). Ho sentito brillare su di me/dentro di me la prima bomba atomica. Lo dice a Renato. È il tempo dell’Informale, del risveglio delle avanguardie storiche. C’è una bomba di energia dentro di noi.

4.

E tu la bomba non la vedi, la senti addosso con tutti i sensi, testa inclusa. Il tempo di uno scatto mentale. Sentire con tutti i sensi testa inclusa è la lezione numero uno di Renato. Vivi!! sembra dirti di continuo. Guardati attorno! Senti!! Me lo dice di continuo anche quando mangiamo insieme, in silenzio.

5.

Lezioni, conferenze, interventi, libri dicono altro: equilibrio, metodo, ragionamento. Tu dici calcolo, precisione, freddezza. Ma se leggi e ascolti bene, vedi due ruote che macinano asfalto e staccano il gruppo. C’é una fortissima componente creativa in Barilli (a volte terribilmente belle le sue similitudini, anche quando sanno di strappo sulla pelle). Se glielo chiedi, ti dice infatti di estati in solitaria sulle strade della Romagna. Barilli è stato ciclista.

6.

Poi c’é il Gruppo 63. In rete trovi una foto tutti belli insieme, pure cravattosi e pettinati. Sanguineti Balestrini Porta Guglielmi… (cercala quella foto). Sono tanti e aggressivi. Barilli è sulla destra. Mi piace molto quella foto. Sei dentro un gruppo e catturi tutti con lo sguardo. Se ti metti di lato lo puoi fare. E quelli tutti insieme nella foto sono la neoavanguardia italiana, una scarica potente di vita. La mia generazione ha ancora addosso quella scarica. Quando sento che sto morendo dentro, mi metto sulla pelle gli elettrodi del Gruppo 63. Non so se mi sento meglio, ma sono più vivo. E me lo ricordo: la prima volta che ho sentito sulla pelle gli elettrodi del Gruppo 63 è stato nel 1990, a lezione. Barilli ci diceva che arte in greco si dice techne. Era novembre.

7.

Ecco. Barilli è uno che ti dà scariche addosso. Uno che ti fiocina. Magari ti fa anche male. È lo scatto mentale di cui ti ho detto sopra. Scatta e fiocina. È un cacciatore dietro il cespuglio a caccia del nuovo, Barilli. E il nuovo ce l’hanno più spesso in mano i giovani. A RicercaBO, il laboratorio di ricerca sulle nuove scritture, Barilli è così ancora a caccia del nuovo (lì sono spuntati un giorno Giovenale, Inglese, Canella, Zaffarano…).

8.

Adesso ti dico una cosa. Ci sono autori con un sacco di energia dentro, lo sai. Bombe di energia. E fuori non vedi niente, o solo qualcosa. Tanta normalità, ma una normalità che a tratti si inceppa. Leopardi era uno che si inceppava. Mica abile come gli altri lui nella vita. Si inceppava, troppa energia dentro. Talvolta Renato lo dice di sé. Non usa il verbo inceppare ma il sostantivo inetto. Chi lo conosce da vicino può capire. Io ti consiglio di leggere i suoi testi, da poco è uscito Poetiche ed estetiche in Italia. Da Dante al postmoderno (Manni 2023). E’ anche un autoritratto.

9.

Chiudo con Giovannino Pascoli. Io sono maniaco di Giovannino Pascoli. Poemi conviviali, poemi latini. Ecco, secondo me anche Barilli è un maniaco di Giovannino Pascoli. È qualcosa di indefinibile, di impalpabile che quasi non puoi capire. Quando lo leggi senti che Giovannino è più bravo. Cinque di mattina caffè cucina e Pascoli sono parte del mio stile di vita. E secondo me anche per Barilli cinque di mattina caffè cucina e Pascoli sono parte del suo stile di vita. E so di non sbagliare.

Fine

Sepsi

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di Francesca Gentile

 

Cinque sei sette otto. Chi l’ha detto che bisogna cominciare a contare dal numero uno? I ballerini iniziano dal cinque. Cinque sei sette otto. E uno e due e tre e quattro. Otto passi, avanti e indietro per questa stanza. Nessun armadio, né sedia, né tavolo. Hanno paura che ci riprovi ancora. Certo che ci riproverò. L’ho già fatto.

Oppure potrei iniziare con milleuno, milledue, milletre, millequattro. Se arrivo a milledieci sono sicura che sono trascorsi esattamente dieci secondi. Tre notti sono passate. Vedo farsi buio dalla piccola finestra in alto. Ora il cielo è grigio scuro: cozza con il biancore della stanza. Ma almeno dà un po’ di colore. Ecco, perfetto! Adesso s’è messo pure a tuonare. Forse tra poco la Madonna piangerà: mi diceva sempre così, mia madre, quando pioveva.

“Grazie Maria”, dico a voce alta.

“Chi è Maria?”

“La Madonna.”

“Vede la Madonna?”

Rido sguaiatamente.

“No… è che sta per piov… Lasci stare.”

“No, no, mi dica. Sono qui apposta”, mi incita.

Scuoto la testa e torno a camminare. A contare. A fare le giravolte. Poi un plié. Lo guardo torvo. Non mi sta simpatico. Però è un bell’uomo. Se non fosse per Bruno…

“Ora le faccio un arabesque”. Mi metto sulle punte dei piedi e mando una gamba all’indietro, sto per sollevare le braccia, ma perdo l’equilibrio. Riesco a non precipitare a terra. Ci riprovo: niente da fare.

“È brava!”

“Non ho rispettato la sequenza”.

“Da quanti anni studia danza?”

È chiaro: mi prende per il culo. Decido di ignorarlo e mi stendo sul pavimento. Porto su le braccia a altezza occhi e fisso i polsi legati. È per questo: sono sbilanciata. Restiamo in silenzio a lungo. Non misuro la durata del nostro mutismo. Non mi va più di enumerare cifre.

“Va bene, allora a domani” dice ed esce dalla stanza immacolata.

Mi precipito sul battente blindato e inizio a menare colpi con i pugni.

“Resti”, piagnucolo. “Non mi lasci”.

Non mi ascolta. Sento i suoi passi allontanarsi. Mi mordo la lingua. Sento dolore e sapore ferroso in bocca. Umetto le labbra con la saliva intrisa del mio stesso sangue e prendo a baciare la porta. Stampo piccole impronte rosse. Non so perché lo faccio. Forse Bruno lo sa. Come vorrei che fossi qui, Bruno. E che foste qui tutti. Vi implorerei di farmi capire. Vi tempesterei di perché. Come: perché pensate che sia un’arrivista? Perché credete che io non possa essere la nuova Carla Fracci? Ah, lo so cosa pensate: che non ho la grazia della Fracci nemmeno per cagare. E tu, Bruno, come fai a difenderle? So per certo che è così. So per certo come la pensate tutti: sono diventata un segugio: ho rizzato le orecchie e aguzzato la vista. Sono diventata così affamata non di quello che mostrate, falso come Giuda, ma di quello che non dite, della verità che pensate e che mi è così chiara come la luce del Sole. Visionaria. Me l’hai detto tu, Bruno: “sei visionaria. T’immagini cose che non ho mai detto o fatto”. Come se non sapessi che vuoi lasciarmi. Ma tu non vai da nessuna parte mio caro Bruno. E poi perché sei così lontano da me? A vivere, ridere, mangiare, dormire, masturbarti senza di me. A stare bene senza che quel bene sia io a procurartelo. Non lo sopporto. Non devi fare queste cose senza di me. Se non posso farti bene allora vorrei che soffrissi per mano mia. Vedi, Bruno, a cosa mi riduci? Cosa sono in grado di pensare?

Mi incanto a fissare l’ultima immagine delle mie labbra: è solo un contorno: pare una piccola voragine o una delle figure di Rorschach. Poi di nuovo mi ricordo di piagnucolare, di fare pietà a chiunque ci sia dietro questa porta. Lo so che ci siete.

Visionaria. Sembra una malattia tipo la legionaria. Ha tutta l’aria di essere un’infezione, un baco che penetra nella testa e si moltiplica sotto forma di congetture che finiscono per diventare opportuniste. Patogene. Causando danni grossi. Irreversibili.

Se gli altri davvero non mi sopportassero. Se provassero invidia, gelosia nei miei confronti. Se davvero mi detestassero e facessero di tutto per evitarmi, per mettermi i bastoni tra le ruote… Se tutto questo fosse vero – e sarebbe terrificante – cosa potrei fare? C’è una sola cosa che potrei fare: convincervi che vi sbagliate. Che sono una brava amica. La compagna perfetta della vostra vita – a partire dalla tua, Bruno, perché non mi credi? –. Un’ottima collega nonché una meravigliosa étoile.

Potrei convincervi. Devo convincervi che sono simpatica e che mi amate. Dovete amarmi. Voi siete la mia forza e io sono così stanca di tutto questo tramare. Sono stanca di stare qui da giorni – quanti erano?! Trenta o solo tre? –. Sono stanca di pensare. Di attribuire un potere quasi regale, di riverenza e sottomissione agli altri. A tutti voi. Chi cazzo siete? Solo persone che entrate e ve ne andate dalla mia vita. Interscambiabili. Sì, Bruno, anche tu: oggi ci sei, domani no e allora – che tu sia maledetto! –, me ne troverò un altro!

Mi appoggio al muro e strofino la schiena. Prude. In un punto imprecisato che non riesco a beccare. Strofino ancora di più, il calore si diffonde fino alle gambe. Forse sto prendendo fuoco. Non mi fermo. Mi piace pensare di essere un bastoncino di legno che s’incendia. Saprei che questa volta ci sono riuscita. Che ce l’ho fatta. Il calore e il dolore ora sono acuti, ma continuo finché sento il tessuto del camice impregnarsi di un liquido. Forse sto sanguinando. E brucia tutto.

Mi trascino a letto e prendo a fissare il soffitto. Il dolore mi tiene viva e lucida. Sì, sono ben cosciente di quanto questa specie di malattia si stia trasformando in una vera e propria sepsi: so che se non smetto di impiegare il mio tempo, le mie energie, in fantasie che io stessa creo, finirò male. Devo smetterla di architettare storie in cui una strega malvagia se ne sta in agguato e attende paziente di farmi la pelle. Non posso davvero credere che le persone che conosco – e anche quelle che non conosco – vogliano fottermi. Questo significa avere manie di protagonismo. Essere una specie di dio onnipotente alla mercé del suo popolo. Questo significa non avere alcuna fiducia nell’altro. E cercare di ottenere l’amore, l’approvazione, dagli stessi di cui non mi fido nemmeno per sbaglio, non è sano.

Di nuovo mi mordo la lingua e di nuovo prendo a sanguinare. Questa volta bagno l’indice e mi acquatto sul pavimento. Scrivo: devo poter morire. Morire è sbiadito, quasi illeggibile.

Sì, ora ho capito perché questa stanza è tutta un candore: è così che mi immagino la morte: bianca, placida. Una via lattea contaminata da linee rosse. Incerte come la mia mano e sicure come i miei pensieri. Ora so. Gratto il pavimento con i polpastrelli. Di nuovo tutto brucia, tutto s’incendia. Ora so: il mio sangue è diventato l’inchiostro di questa pagina intonsa che mi accoglie. Mi aspetta. Lasciatemi morire, scrivo ancora. Morire, scrivo più sotto. Morire, urlo. E continuo a grattare. Strofinare. Mordere. Rosso e bianco. Cinque sei sette otto.

Un fulmine lacera le nubi nere. Poi un tuono. E la Madonna prende a singhiozzare.