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“Quando nulla avrà più importanza”, la fine mondo raccontata da Alessia Principe

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di Antonella Falco

Quando nulla avrà più importanza (edito da Zona 42, per la collana 42 Nodi a cura di Elena Giorgiana Mirabelli) è un romanzo breve, o, se preferite, un racconto lungo di genere distopico che ruota interamente intorno alla figura della sua protagonista, Caterina.

Quello di Caterina è un personaggio ricco di sfaccettature, caratterizzato da uno spessore psicologico tale da renderlo “tridimensionale”, una tridimensionalità da intendere, ovviamente, anche in senso temporale: Caterina, come qualsiasi personaggio che non sia una piatta e scialba ‘figurina’, ha un passato, un presente e un futuro.

Un passato nel quale è accaduto qualcosa di drammatico che l’ha profondamente segnata sia fisicamente (la donna reca sul proprio corpo un “segno” di quello che le è successo) che psicologicamente.

Un presente, problematico, di donna in fuga. Infatti, in un giorno apparentemente qualsiasi, Caterina decide di andarsene di casa, portando con sé la figlioletta Andrea, e di rifugiarsi nella dimora di campagna dove da bambina era solita passare le vacanze estive.

Un futuro, almeno prossimo, catastrofico. Anzi, letteralmente apocalittico. Giunta infatti sul ponte che divide in due la città, la strada le crolla davanti e solo per un caso fortuito la sua auto non precipita nel fiume sottostante. Ciò che si sta verificando non è un semplice terremoto ma un evento distruttivo dal quale non è possibile tornare indietro: quello è l’ultimo giorno del mondo e quei crolli sono solo l’inizio della Fine.

In poco più di cento pagine Alessia Principe – giornalista professionista, che ha lavorato a lungo nelle redazioni di diversi quotidiani calabresi, e che scrive prevalentemente di cultura e spettacolo – dà vita a una storia dall’intreccio magistralmente costruito, caratterizzato da una prosa lirica e ricca di immagini suggestive. Sono tanti i temi contenuti in questo piccolo libro e il rischio potrebbe essere quello di eccedere, ma così non è perché l’autrice dimostra una sapiente padronanza della scrittura, andatasi affinando di libro in libro: Quando nulla avrà più importanza è infatti la terza prova narrativa di Alessia Principe dopo Tre volte (BookaBook, 2016) e Stelle meccaniche (Moscabianca edizioni, 2023).

«Sta venendo giù il mondo, la vita, la montagna che è sempre stata lì e ora dice basta, è finita. La capisco, non si può essere sempre montagna, si può essere anche frana e andare in frantumi».

Quando nulla avrà più importanza racconta il crollo interiore di una donna inserendolo nel contesto di un’Apocalisse planetaria: il frantumarsi di un microcosmo personale nell’Armageddon generale che imperversa d’ognintorno.

Caterina è una donna complessa e complicata. È tormentata dalla paura, dall’insicurezza, dal senso di inadeguatezza, e in quanto tale stenta a trovare un proprio equilibrio, un suo posto nel mondo. Nel suo passato si celano nodi irrisolti: mancanze, assenze, abbandoni, come quello del padre che se ne va di casa quando lei era ancora una bambina. Grumi di dolore sedimentati e stratificati. Nella vita di Caterina c’è un fantasma, Klaus, che non si sa quanto sia ‘reale’ e quanto, invece, proiezione della sua mente tormentata. Sta di fatto che Klaus la perseguita – anche se sembra essere connaturato in lei – e, quasi fosse la personificazione di un atavico senso di colpa, la colpevolizza per ogni cosa che fa e che pensa. Così Caterina è una donna che si dibatte nella convinzione di non meritare di essere felice. Questo stato di cose si ripercuote sulla sua vita familiare, influisce sul suo essere moglie e madre. Sente di non riuscire ad amare la piccola Andrea nel modo giusto, o almeno in quello che le convenzioni sociali hanno stabilito essere il ‘modo giusto’. E anche il rapporto con il marito si incrina: Caterina è una donna che lascia per paura di essere lasciata.

Il disagio mentale, il senso di costante inadeguatezza di una donna che si confronta con un modello femminile di perfezione, imposto da una società che, per quanto sghemba e imperfetta essa stessa, non tollera passi falsi e non concede alle donne il diritto di mostrarsi fragili nell’ambito delle interazioni familiari, si innesta in uno scenario distopico da fine del mondo, in cui man mano che Caterina (costretta a un’estrema lotta per la sopravvivenza, tra saccheggi e crolli, episodi di violenza e di isteria collettiva), si inoltra nel suo viaggio di ritorno – perché ha capito che se il mondo sta finendo può solo tornare a quella casa dalla quale stava fuggendo – il tempo implode all’indietro, le ere si accartocciano a ritroso le une sulle altre in una successione di scene dalla cronologia più disparata, fra cui spicca quella di una donna che avanza dietro un carro sul quale sono ammassati esseri umani esanimi, recando in braccio una bimba ormai priva di vita. Una scena manzoniana, una delle pagine più note de I promessi sposi, probabilmente la più struggente: l’episodio della madre di Cecilia, altissimo momento di pietas in mezzo allo sfacelo abbrutente della peste.

Il finale del libro, onirico e bellissimo, conduce a una catarsi e, chissà, a una palingenesi. Perché anche quando il mondo crolla, la speranza, «ultima dea», non abbandona i mortali, e ogni fine non è che un nuovo inizio.

Alessia Principe, Quando nulla avrà più importanza, Zona 42 2023, pp.116, € 10,90

Figure della crisi

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di Vittorio Coletti

Il Politico lo sapeva di avere un cervello di destra e un cuo­re di sinistra.
Non sempre, si capisce. A volte succedeva anche il con­trario, ma in genere le cose dentro di lui stavano così. La ge­nerosità innata lo spingeva da una parte; la fredda razionalità dall’altra. Non ne era soddisfatto e cercava di tenerlo nascosto. La sua parte di sinistra chiedeva più giustizia sociale, denun­ciava l’insensibilità della classe dirigente per i nuovi e vecchi poveri, si batteva nella lotta alle diseguaglianze (anche se il plurale gli faceva storcere il naso), condivideva le accuse alla corruzione pubblica e le denunce delle Procure, auspicava più scuola, migliori redditi, generosa assistenza, pronta e ordina­ta accoglienza e integrazione degli stranieri. La sua parte di destra pensava che uno nella vita dovrebbe darsi da fare per migliorare la propria posizione e non limitarsi a lamentarse­ne; che avere dei migranti come vicini di casa era un disastro, specie se venivano da culture così lontane e diverse da non essere pronti a integrarsi nella nostra; che l’assistenza poteva facilmente diventare assistenzialismo; che le Procure esagera­vano con la caccia ai colletti bianchi e avrebbero fatto meglio a occuparsi dei delinquenti di strada e degli assassini; che la scuola doveva tornare a essere un luogo di istruzione impar­tita da professori che insegnano e non un parcheggio sociale sorvegliato da genitori in ridicola e perenne difesa dei figli che depositano.
Più precisamente si definiva, con un po’ di snobismo, un vecchio socialista con non nascoste simpatie per il vecchio li­beralismo risorgimentale, e dunque del tutto inattuale.
Sapeva che il consenso gli veniva da sinistra, da quanti si riconoscevano nei suoi discorsi più pubblici e impegnati. Ma non ignorava che la sua peculiarità a sinistra era data anche dalla sua capacità di ascolto delle esigenze e delle sensibilità di destra, o meglio: dall’attenzione agli umori di destra diffusi anche tra gli elettori di sinistra. Diceva, ad esempio, che al fondamentalismo islamico bisognava rispondere con gesti di riconciliazione e di integrazione, ma non nascondeva che al fanatismo in certi casi era inevitabile reagire con la forza. Criti­cava l’assenza di progetti (parola notoriamente cara a sinistra), di idee e visioni della società e del Paese; ma lo irritava la pe­tulante contrarietà o insoddisfazione della sua parte a qualsiasi tentativo di realizzarne uno. Era tanto infastidito dalla demo­crazia di quartiere dei cosiddetti comitati, sempre contrari a tutto, quanto preoccupato dalle democrature nazionalistiche e autoritarie dei nuovi leader di destra.
Si riteneva un antifascista militante, figlio della Resistenza di suo padre, ma non sopportava più la retorica dell’antifasci­smo che spingeva i suoi compagni a guardare solo indietro, verso la temuta rinascita del vecchio fascismo e a non vedere davanti a sé la nascita di uno nuovo, diverso e non meno pe­ricoloso e sotto altre vesti. Diceva di temere non tanto i grot­teschi nostalgici, manipolatori del passato, di cui rovesciavano subdolamente la storia, quanto i precursori nascosti di un nuo­vo fascismo, ancora una volta populista e cialtrone.
Quando una direttrice d’orchestra fu boicottata da un teatro francese in nome della sua supposta amicizia con la leader dell’estrema destra italiana, fu così anticonformista non solo da stigmatizzare l’improvvida censura dell’arte, che dovrebbe essere tenuta fuori dalla contesa politica, ma anche da augurarsi pubblicamente che tutti i sospetti neofascisti fossero dei bravi musicisti, perché ci si poteva almeno confrontare con loro sul piano della musica, che non è soltanto una delle creazioni umane più alte ma anche tirocinio raffinato per una civile educazione all’ascolto degli altri. E a chi polemizzò con lui da sinistra ricordò un episodio di molti anni prima, quando un militante del suo partito salì su un palco a Torino per impedire un concerto del maestro Luciano Berio dedicato alla pace nei giorni delle stragi di palestinesi a Sabra e Chatila, e accusò musicisti e organizzatori di connivenza con gli autori o i mandanti dell’enorme crimine. Il Politico aggiunse, per chi lo avesse dimenticato, che in seguito il militante contestatore di Berio divenne uno dei più noti, ascoltati e potenti uomini della destra, essendo passato con le armi e i bagagli del suo arrogante fondamentalismo alla corte del miliardario “sceso (sciaguratamente) in politica”, di cui fu uno dei più convinti cantori.
Il Politico era o si credeva orgogliosamente atipico nel suo campo. Coglieva la conciliazione tra le due anime che si fronteggiavano in lui in una più precisa definizione delle due forze opposte: la sua destra, diceva, era quella liberale, democratica, finita in Italia ai tempi della Prima Guerra mondiale e mai più rinata, sostituita da quella becera e violenta del Fascismo; la sua sinistra era quella azionista, socialdemocratica, coltivata però dentro un partito che si chiamava comunista anche se, fortunatamente, non lo era stato, ma era stato socialista, democratico e riformista. Due dimensioni della politica ora del tutto fuori commercio, sostituite da altre che avevano lo stesso nome, destra e sinistra, ma culture completamente diverse, stili e densità culturali incomparabili con quelle cui lui si ispirava e preoccupanti tratti comuni.
La confusione sotto il cielo della politica europea, non solo italiana, era grande, a suo giudizio. Destra e sinistra ora si opponevano duramente anche dove, come nel caso della direttrice d’orchestra, non era il caso; ora si scambiavano tranquillamente elettori, programmi e linguaggi. A scambiare continuamente le tradizionali parti dello scontro politico, del resto, era ormai, secondo lui, la gente stessa, disinformata su tutto ma decisa a pretendere cose e a manifestare esigenze opposte: le automobili o il riscaldamento o i condizionatori al massimo e la riduzione dell’inquinamento; la bulimia dei consumi e la critica della produzione; la pulizia pubblica e il disordine privato; la generosità sociale e la rivolta contro lo straniero se veniva accolto nei pressi di casa. Inutile dire che uno dei punti di maggior dissenso anche con sé stesso il Politico lo raggiungeva davanti alla tremenda questione dei migranti.

 

NdR: il testo che precede è tratto (pgg. 79-82) da “Figure della crisi”, di Vittorio Coletti, pubblicato recentemente (dicembre 2023) da Il Canneto Editore

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

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di Jamila Mascat

(Tim & Puma Mimi, Oh My Bike, 2019)

Nonna Anna avrebbe detto “sempre meglio che una disgrazia”. Lo ripeteva con nonchalance ogni volta che – e, spesso, per quel che mi sembra di poter ricordare – perdeva un documento, un portafoglio, una chiave di casa. Perfino dopo uno scippo che nel 1985 le era costato trecento o quattrocentomila lire. Da piccola non riuscivo a immaginare una disgrazia senza contemplare la fine del mondo, perché tutto il resto apparteneva alla categoria del sempre meglio. Crescendo, però, ho imparato che anche il dispiacere vuole la sua parte, discretamente e senza clamore. A volte le cose semplicemente dispiacciono. Come la settimana scorsa che mi hanno rubato la bicicletta. Ho reimparato ad andare in bicicletta a 42 anni, dopo 30 anni di astinenza, senza aver mai coltivato alcun feticismo delle due ruote, senza aver mai partecipato a una Critical Mass, senza aver mai nutrito un grammo di ammirazione per i ciclisti vestiti da ciclisti che affannati in fila indiana arrancano sulle strade provinciali la domenica mattina presto, i fanatici del vélib parigino, gli irriducibili che si lanciano nel traffico maleodorante di Roma con o senza casco, gli inossidabili impermeabili che sfidano la pioggia battente di Amsterdam. Al culmine dell’orrore i sellini: stretti, squadrati, appuntiti, rigidi, ridicoli anche se ergonomici, per cui ho sempre provato un’inspiegabile repulsione. Poi sotto la pioggia di Amsterdam, che non è sempre così battente come la credevo, ci sono finita anch’io e sono stata catapultata in un universo della mobilità fino ad allora sconosciuto, ad andamento lento ma non troppo, alternando omafietsen (le bici della nonna, che frenano retropedalando) e bakfietsen (le bici cargo su cui si caricano bambini, cani o oggetti di grandi dimensioni).

(Shadi Ghadirian, Qajar #6, 1998)

La scoperta della bicicletta è stata un’iniziazione alla settima dimensione dei trasporti terrestri. Perché la velocità e la visuale in bici non hanno nulla a che vedere con quello che offrono piedi, treni, auto, tram, bus, quad e motorini. Pedalare è panta rei. Un pezzo pubblicato sul San Francisco Chronicle il 25 gennaio del 1879 – San Francisco a fine Ottocento è l’avanguardia ciclistica degli Stati Uniti –  e intitolato “The Winged Heel” (Il tallone alato) rende omaggio a “l’euforia della bicicletta” celebrando “un’estasi di trionfo sull’inerzia, la gravitazione e gli altri pigri vincoli che ci trattengono”.  In bici, conclude, “You are traveling! Not being traveled!”

(San Francisco, 1870).

Così, l’euforia della bicicletta ha riattivato anche in me quel residuo di ostinazione infantile, a dispetto dell’età, che di fronte al non sapere rivendica ossessivamente il diritto di capire tutto, l’utile e l’inessenziale – Come si raddrizza un manubrio storto? Come si allacciano i catarifrangenti ai pantaloni? Come decorare a festa i raggi delle ruote, ma soprattutto perché? – fino ad essere risospinta alla domanda sulle origini – ma chi ha inventato la bicicletta? –  per rimbalzare sugli orrori estrattivi del caucciù.

Come nel caso di tante invenzioni, perfezionate nel corso dei secoli, anche la bicicletta è il frutto di un general intellect che si è dispiegato lungo circa un secolo per arrivare a produrre un dispositivo su due ruote che somiglia alle bici che conosciamo. In questa staffetta di eureka si susseguono il velocipede (o draisina), ideato nel 1817 dall’aristocratico tedesco Karl Drais, la Treadle bycicle (1839) a pedali, ma senza catena, costruita dal fabbro scozzese Kirkpatrick Macmillan, la Michaudine di Pierre e Ernest Michaud (1869) che sposta i pedali in avanti, sulla ruota anteriore, quest’ultima in crescita esponenziale fino ad arrivare al Grand bi che sfoggia 150 cm di diametro (1870). E ancora la prima bici con catena (1880), fabbricata dal londinese Harry Lawson, e infine la Hirondelle (1900) – la bici dei poliziotti francesi il cui nome deriva proprio dall’aspetto dei ciclisti che indossavano un mantello nero e si aggiravano con ali di rondine –  la cui sagoma già ricorda da vicino la silhouette di una bicicletta dei nostri giorni. Senza addentrarsi nei meandri delle catene, degli ingranaggi e dei freni, di cui l’evoluzione meccanica rimane per me incomprensibile, non si può parlare di bici senza inciampare nel mistero delle ruote e dei materiali di fabbricazione di questi cerchi magici, e poi la fattura, la consistenza, la resistenza, la resilienza. E come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario sugli imperi coloniali.

È soltanto alla fine del 1800 che la gomma diventa un ingrediente fondamentale per la costruzione delle biciclette, mentre fino ad allora circolavano soltanto ruote rigide e non ammortizzate, di legno e metallo Nel 1888 sembra che il chirurgo veterinario scozzese John Boyd Dunlop, osservando il figlio pedalare con fatica in sella ad un triciclo su un pavimento accidentato, si sia posto il problema di come fare per ridurre i contraccolpi. Allora avvolge le ruote con strisce di gomma incollate e gonfiate con una pompa meccanica creando la prima rudimentale camera d’aria della storia. Nasce così il pneumatico, e nasce nel 1890 la Dunlop Rubber che brevetta e commercializza con successo le ruote di gomma. Édouard Michelin l’anno successivo perfeziona l’invenzione di Dunlop e costruisce il pneumatico smontabile, facile e rapido da riparare, con cui Charles Terront nel 1891 vince la corsa ciclistica Paris-Brest-Paris. Inizia così l’età dell’oro della bicicletta che realizza il sogno di libertà di chi non può permettersi le carrozze (né le neonate automobili) e delle donne della buona società.

Nel 1895 si contano 7 milioni di biciclette in tutto il mondo. Dunlop, Michelin, Good Year, Continental, Pirelli fanno impennare la domanda di caucciù per fabbricare pneumatici di gomma. La gomma non è una novità assoluta, già intorno alla metà dell’Ottocento viene utilizzata nelle ferrovie o nell’industria militare per produrre scarpe, stivali, protezioni per baionette, teli, borracce, bottoni, e anche protesi ricostruttive. Soltanto l’invenzione del pneumatico e il boom del ciclismo, però, inaugurano la corsa al caucciù. La gomma sintetica fa la sua comparsa solo dopo la prima guerra mondiale; fino ad allora viene ricavata dal lattice prodotto dagli alberi della gomma (l’Hevea bresiliensis o siringueira) in Amazzonia e dalle viti selvatiche (Landolphia) del Congo. La giungla congolese e la foresta amazzonica (e solo successivamente le piantagioni del Sud-est asiatico) saranno per un quarto di secolo circa i luoghi di estrazione del caucciù per excellence. Così, mentre l’Europa e l’America del Nord si godono la libertà delle due ruote, sotto l’Equatore milioni di individui vengono condannati dalla gomma ai lavori forzati.

In The Thief at the End of the World: Rubber, Power, and the Seeds of Empire (2008), lo storico Joe Jackson racconta che la popolazione dello Stato Libero del Congo, in realtà proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II dal 1885 (Conferenza di Berlino) fino al 1908, passò da 25 milioni a 10 milioni, sacrificando 15 milioni di morti sull’altare del caucciù. Un simile destino toccò in sorte alle popolazioni indigene del Putumayo tra il Perù e la Colombia. Leopoldo II non mise mai i piedi in Congo, amministrando a distanza i proventi del caucciù prodotti dalla Anglo-Belgian India Rubber Company, rifondata con capitale unicamente belga nel 1898 come ABIR Congo Company. A vegliare sui dannati del caucciù furono predisposte le milizie della Force Publique, truppe di mercenari, volontari ed ex ufficiali degli eserciti europei (belgi, italiani, danesi, svedesi, norvegesi) amanti dell’avventura, del sangue e delle punizioni corporali.

Alice Seeley Harris, missionaria inglese in Congo considerata come l’iniziatrice di una delle prime campagne internazionali per i diritti umani, raccoglierà centinaia di foto con la sua Kodak, documentando per la prima volta gli orrori delle mutilazioni inflitte quotidianamente alla popolazione congolese per sostenere il ritmo della produzione della gomma. All’inizio del 1906, Alice Harris e suo marito John viaggiano negli Stati Uniti proiettando in 49 città, con il supporto delle lanterne magiche in voga all’epoca, le immagini scattate da lei. Alcuni di questi scatti, quello stesso anno, saranno pubblicati dal quotidiano New York American durante una settimana.

Nel King’s Leopold Soliloquy (1905) Mark Twain aveva indirettamente reso omaggio alla fotografia militante di Harris per bocca del re Leopoldo che, nel corso di un’oscena apologia di se stesso, agita lo spauracchio dei missionari  – “They travel and travel, they spy and spy!”-  e della macchina fotografica – “Then that trivial little Kodak, that a child can carry in its pocket, gets up, never uttering a word, and knocks them dumb”.

Nsala, di Wala, nel distretto di Nsongo a sud di Kinshasa, fissa la mano e il piede di sua figlia Boali, amputati. 14 maggio 1904 (Alice Seeley Harris).

 

Gli Appesi

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di Nicole Trevisan

Quello nuovo si china per passare dalla porta come se per tutta la vita fosse passato attraverso spazi troppo stretti e per abitudine innescasse una contrazione di spalla e braccio, ritirando la testa in una gobba. È un ragazzo, un altro nato al primo gennaio in un paese che non sappiamo pronunciare. Non ce lo presentano e lui s’inchina senza considerarci. Non soffre il gemito delle vertebre. Avrà ventuno, ventidue anni. Più dei diciotto dichiarati – l’unica certezza.
Sulla sua faccia domina un annoiato strabismo e l’irritazione di scoprire la sua futura compagnia è macchiata di fame; chissà quando è stata l’ultima volta che ha avuto un pasto decente. Forse è malato di cirrosi o di qualcosa al fegato, allo stomaco. Molto giovane, troppo giovane per ritrovarsi al Due Palazzi, per rannicchiarsi tra noi, in questo cerchio di muti che lo fissa. Controlla i polsi, le sbucciature come morsi, è la prima volta che gli slacciano le manette.
Allude alla guardia che lo spinge all’interno con un’accusa tutta storta e fatta di ciglia, non apre bocca. Poi valuta le possibilità di fuga, cercandola alle sue spalle: tutti ci cascano, vittime di una speranza ridicola.
Quando lo lasciano con noi, in piedi, sostiene una guerra di posizione: quale branda, quale angolo, chi starà di più sul cesso. Per salutare, sfila una mano e la mostra al fianco, ossuta ed estesa. Un disarmo inutile, che dura minuti di gorgoglii dalle nostre gole, non lo conosciamo, non lo vogliamo, siamo troppi e non c’è aria. Terzo letto, il più in alto, gli diciamo. Lui non ci sente. Si siede, gratta uno spazio contro il muro. Con le dita compone un ponte sotto il mento e da lassù valuta in silenzio i tempi morti che vorrebbe restassero morti. Costruisce l’attesa di chi parlerà ancora, senza fretta: chi sei, da dove vieni, come mai. Ha mani colpevoli di cui non si vergogna, quello lo mette in chiaro. E sfondando le nocche con la faccia, guarda fuori; corre oltre la feritoia, tra le sbarre, fino alle cime oblique dei tetti, e sfida l’eternità celeste che ci sorveglia.

Qualcuno lo avvisa anche in francese, rimani in gruppo. È l’ora d’aria e deambula su giunture calcificate, ha pennellate di blu lungo le braccia e fa come se annuisse alla spianata del cortile. Non a noi. Ci passa accanto, lo guardiamo muoversi, fendere il vento che ci separa; capace che se nasceva qua gli facevano fare qualche sport, la corsa o il salto, pallacanestro o nuoto; adesso è tardi, ha un corpo che non si plasma più, sembra che scricchioli, da quella struttura cadente ci aspettiamo il fragore della caduta e la polvere dietro ai calcagni delle guardie che lo raccoglieranno per trascinarlo in infermeria. Non ha detto una parola, non l’abbiamo visto dormire. Oltre la finestra scorre l’orbita del sole, pensando di doverne sopportare sette, dieci al massimo. La conta lo illude del controllo sulla sua condanna. Sono due giorni che finge di non esistere.
Smette di camminare e ancora scruta il quadrante del cielo mappando una direzione. Se ne sta dritto, piantato a terra, racchiuso tra noi che giriamo in tondo, traffichiamo, gli parliamo addosso e lui si ostina a cercare qualcosa che sia fermo, che resista all’incertezza del tempo che dovrà passare qui.
Quanto, quanto. Le nostre voci sono un canto, ci raccontiamo poco, ci respiriamo addosso la noia: questo posto si disegna a sbarre, in pochi hanno tracciato un filo teso posandoci sopra le anime, sospese nell’incertezza della caduta o della fine, claudicando verso la cima opposta. Ogni passo dura un giorno, un mese o un anno, scritto su carta firmata e vidimata. Talvolta si ricomincia. Tempo di attesa, silenzio, meritata prigionia. Il filo trema se ci chiediamo troppo forte quanto, quanto, e la testa non ci regge, il fiato si accorcia in gola, le vene si gonfiano nei polsi. Smettiamo di dormire, preghiamo che ci portino fuori, di parlare con uno psicologo che non capiamo, un avvocato che ancora meno, un familiare o un amico, che ci facciano piantare chiodi sulle pareti di un asilo, sbucciare patate per studenti collegiali, imballare pasti pronti. Qualunque cosa pur di staccarci da questo cerchio che ci costringe a vedere la nostra faccia in quella dei compagni.
Sulla branda, il ragazzo non ci è mai salito. Sulla tazza del water sbriga la faccenda in un paio di minuti, arrotolando i pantaloni sulle cosce, arroccandosi tra i gomiti, consapevole di essere vulnerabile: le leggende qualcuno deve avergliele raccontate, fuori; ora scopre che sono vere. Non si fida a rimanere col culo scoperto ma non vuole farsela sotto, su quello ha ceduto.
Ridiamo di lui che ci ignora, ci odia, ci fa arrabbiare. Vogliamo che sieda con noi, che sia al sicuro. Trascorre il tempo in cella sul pavimento, a ogni ora della notte e del giorno lo troviamo a occhi aperti. Tre giorni e nessuna parola. Quando mangia, gli cerchiamo la lingua tra i denti. È al suo posto, sembra anche intera. Mastica poco, non lascia nulla. Non ha capito che non può essere il primo ad alzarsi: glielo diciamo piano, più forte, con una mano al petto. Disobbedisce e cerca la finestra, il vetro è bianco, le nuvole ci spingono all’interno.
Non è uno di quelli che vogliono lasciarsi morire, rimanere sveglio è il suo modo di aspettare. Allora, amico, quanto? Glielo chiedo io, mi avvicino e gli tocco una spalla, l’osso mi spinge sul palmo e mi pare sia pietra, nera e lucida di sudore.
Al quinto giorno, il muro lascia una linea di polvere lungo la sua spina dorsale: il ragazzo scivola giù e non se ne accorge: dorme, è svenuto, deceduto? Dietro la sua fronte il tempo si accorcia e noi lo svegliamo a schiaffi e nessuno viene a fermarci. Lo facciamo per lui. Dietro le palpebre, gli occhi sono biglie rigide e infiammate, glieli apriamo con le dita, ci premiamo un pollice e lui si raddrizza, traballa e ci fa paura da quanto è alto. Lo abbiamo infastidito con le nostre mani sporche e lunghe, i nostri schiamazzi che godono che abbia ceduto al sonno e sia umano come lo siamo noi, disgraziati che altrove avrebbero passeggiato incontro alla forca, condannati a essere appesi. Che sia al tempo, che sia alla corda.
Il viso del ragazzo non si riconosce, è gonfio e pulsa, dell’insonnia e del male che gli abbiamo fatto, ma quando scatta in avanti capiamo che non crollerà e dentro al suo abbraccio c’è il collo di qualcuno, un’altra faccia gonfia, che pulsa e gli somiglia tra vent’anni. Stringe, lo attacca al petto come un pupazzo, un fratello caduto. Pesa, scalcia e lui non lo lascia. Solleva il mento, l’occhio gli si infila tra le sbarre e la notte gli parla, purissima evanescente, l’ascolta. Lo ammonisce con la fermezza di una madre e a lei cede, il collo del compagno scivola dall’incavo del gomito e quello torna a respirare, due mani e due ginocchia e la fronte al pavimento. Fuori, nessuno se n’è accorto. Ora siamo noi a tacere.
Ci guarda e ci riconosce, ancora non le nasconde le mani, non gli chiediamo quanto, quanto e nessun nome, strisciamo indietro e ci ritiriamo perché lui è un’ombra e una lancia. In basso, il compagno che è stato preso tossisce, ha un grumo di catarro rosato che gli sboccia sulla lingua, lo sputa nella manica e noi lo dimentichiamo, sconfitto come capita.
Il ragazzo, lento, torna contro il muro. Chiude gli occhi e si riaddormenta. Ha il volto piegato per non sentire la notte che lo fissa, l’aria nera chiamarlo dalla finestra. E noi, che adesso sappiamo che ha capito, che aspettiamo con lui la fine. Ora lo sa, che è come noi. Dormiamo tutti.
Il mattino dopo, è il sesto giorno. Il ragazzo è entrato nel cerchio.

Cento di questi anni Lisetta Carmi

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Foto tratta da Con amore e con amicizia. Lisetta Carmi di Anna Toscano, Electa, pagg. 2-3, Foto Giovanni Battista Martini, courtesy Martini& Ronchetti, Archivio Lisetta Carmi

di Anna Toscano

Foto tratta da Con amore e con amicizia. Lisetta Carmi di Anna Toscano, Electa, pagg. 2-3, Foto Giovanni Battista Martini, courtesy Martini& Ronchetti, Archivio Lisetta Carmi

Per ricordare il centenario della nascita di Lisetta Carmi ho provato ad andare con la memoria al tempo trascorso insieme, lei non c’era già più, novantottenne aveva lasciato il cielo con le nuvole veloci dietro di lei a Cisternino e tutto il resto di questo mondo. Ci siamo frequentate nell’autunno e nell’inverno di quell’anno, il 2022, più che altro ho passato quel periodo della mia vita a parlare con Lisetta Carmi: è stata una conversazione particolare perché io parlavo a lei e lei parlava a tutti, ma rispondendo alle mie domande, alle mie curiosità, non è stato così facile, ho dovuto suonare forte. Ho suonato forte a diverse biblioteche, ho viaggiato nelle librerie antiquarie, sono rimasta ore incantata davanti al suo volto al monitor.

In quel periodo poche delle sue pubblicazioni erano in commercio – oggi c’è qualche riedizione – e tra le introvabili, tra quelle che negli anni non avevo ancora portato a casa, molte sorprese mi aspettavano. Io cercavo la vita della pianista Carmi, della fotografa Carmi, della fondatrice del primo ashram in Italia, cercavo musica, immagini, e ho trovato moltissime parole. Nelle biblioteche più incredibili nell’inverno del 2022, coperta sulle gambe e thermos caldo poggiato a terra, ho scoperto che tutto quello che sapevo dopo anni di pedinamenti delle esposizioni di Carmi non era ancora nulla di fronte a quello che stavo scoprendo. Che tutti i libri, quasi sempre cataloghi di sue mostre o all’interno di altre mostre, erano corredati da molti apparati testuali di suo pugno: parole. Anche il libro che conoscono tutti, “I travestiti”, dell’inizio degli anni ’70, è pieno di parole – su carta leggera rosa – sue, di altri, frutto di interviste: parole. Dire. Tutte le interviste reperibili online, compresi i corti, lei dice, parla: parole.

Alle domande che le rivolgevo, sfogliando cataloghi e saggi, guardando documentari, sostando davanti a immagini, lei rispondeva con le sue parole stampate accanto alle sue fotografie. E parlava, parlava della sua immensa vita divisa in molte vite: Babaji fece un disegno per lei in India, disegnò una faccia, poi una seconda faccia, poi una terza, una quarta faccia, un fior di loto e poi una quinta faccia e le disse che avrebbe avuto cinque vite. E così è stato. Cinque vite riunite in una lunghissima vita, riunite da cosa? Dagli occhi, dalle mani e dal cuore.

Sono stati gli occhi, le mani e il cuore a portare Lisetta nella sua prima vita di pianista e concertista, una vita iniziata molto giovane in compagnia di pianoforte e spartiti. Uno studio pieno di dedizione per Lisetta bambina, nata nel ’24 del secolo scorso da una famiglia ebrea a Genova, un amore per gli altri e le altre, per la vita, spezzata a quattordici anni quando a causa delle leggi razziali le viene impedito di frequentare la scuola. Una dedizione e una passione che la vede giovanissima attraversare a piedi di notte, la luna in cielo, raccontano le sue parole, il confine con la Svizzera in fuga dai rastrellamenti: una mano nella mano della madre e gli spartiti di Bach sotto il braccio. Il ritorno a Genova è un primo piano su Lisetta che angosciata assiste a quel che è rimasto, a chi non è tornato, a come è tornato chi è tornato, a chi non tornerà più.

Riprende i suoi studi e inizia la sua carriera di concertista, la distanza che la separa dalle altre persone è ancora quella distanza che l’allontanamento dalla scuola le ha inferto. A Genova il mese di giugno del 1960 è un mese di scontri e manifestazioni, in trentamila aderiscono a uno sciopero generale contro il congresso nazionale del Movimento Sociale Italiano e Lisetta decide di unirsi ai portuali nelle manifestazioni. Stare con la gente, in mezzo alle persone, fare per l’umanità quello che in tempo di guerra non ha potuto fare: esserci. Il suo maestro le consiglia di non scendere in piazza, di non andare, di preservarsi le mani così importanti; la risposta di Carmi è la frase che parla di lei più di ogni altra: “Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano molto più importanti del resto dell’umanità allora avrei smesso di suonare il pianoforte”. Smette.

Con la stessa passione e disciplina, con mani cuore e occhi, avrà da questo momento tra le mani una macchina fotografica. Inizia da autodidatta, compra un manuale e segue un corso per stampare ed esce, esce tra la gente. Per oltre cinque anni frequenta le case dei travestiti nei carruggi a Genova, i luoghi, i tempi, le persone delle canzoni di De Andrè; fotografa i lavoratori del porto, i camalli, sta con loro, frequenta il porto mercantile; i reparti dell’ospedale, tra cui la sala parto; gli operai siderurgici; i teatri; le genti della Sicilia e della Sardegna; e poi fuori, il mondo.

Con la macchina fotografica Lisetta Carmi entra nella sua seconda vita, quella in cui va incontro alle altre, agli altri: mani, occhi e cuore che si muovono insieme per pigiare il pulsante di scatto davanti a donne, molte donne, bambini, operai, contadini, braccianti, tutta una umanità emarginata e senza voce a cui Carmi decide di dare voce. Ogni lavoro fotografico, ogni reportage, non è un lavoro che porta avanti per il denaro o per il successo, ma per capire, per conoscere e dare voce agli ultimi. Il libro “I travestiti”, nella rarissima edizione del 1972, è un fiasco di vendite, le librerie lo tengono nascosto, pochi ne parlano, ma gli addetti ai lavori ne capiscono l’enorme valore: Lisetta Carmi, con decine di anni di anticipo sui tempi, già lavora a progetti che documentano dall’interno la vita di comunità – quelli che dal Duemila chiamiamo “Long time project”- in cui lei non è semplice spettatrice ma entra a farne parte.

Non cerca lo scoop – che avrebbe potuto fare il giorno dopo il capodanno del ‘65 trascorso nella casa di alcuni travestiti – né vuole diventare famosa o sentirsi dire quanto fosse brava, le interessa capire gli altri e le altre, stare in mezzo a loro. Non le interessa la fotografia perfetta, esteticamente impeccabile, il suo lavoro è anche l’immagine sporca ma che dice, racconta, perché lei costruisce un discorso, costruisce percorsi narrativi democratici, dove nessuno scatto predomina sugli altri, in primo piano, ma ognuno è una parte di un discorso narrativo per immagini. Se ci si pensa non c’è uno scatto che rappresenti tutto il lavoro di Carmi, perché tutti concorrono insieme a un progetto che è durato quasi vent’anni, la sua seconda vita.

La terza vita è l’incontro con Babaji, nel 1976, e la svolta: Lisetta non ha più bisogno dell’apparecchiatura fotografica per stare con le persone. Fa costruire e dirige per due decenni il primo ashram d’Occidente, a Cisternino, come lo stesso Babaji le ha indicato: questa terza vita è interamente dedicata agli altri, ad aiutarli. In un’intervista dice che quelli che non ce la facevano a San Patrignano arrivavano da lei: di nuovo al servizio degli ultimi. Quando lascia la direzione dell’ashram, ma continua a viverci e a farne parte, fonda “La voce di Cisternino”, un periodico semestrale che attraverso la parola scritta la porta a riavvolgere presente e memoria.

Ma dietro la porta c’è un’altra vita e con essa il ritorno alla musica: incontra Paolo Ferrari che da bambino era stato un suo allievo di pianoforte a Genova e ora a Milano dirige il Centro Studi Assenza. Questo incontro porta Lisetta al pianoforte, ne compra uno nel 1994, a studiare nuovamente, suonare e studiare la musica dell’assenza. Dopo alcuni anni conclude questa esperienza e questa vita e ne inizia un’altra: a una mostra incontra il fotografo Uliano Lucas con il quale inizia un fitto dialogo sulla fotografia, così intenso da spronarla a rimettere mano al suo archivio, ai negativi, con un lavoro di catalogazione grandissimo. Grazie a questo lavoro di archiviazione nasce un nuovo interesse per l’opera di Carmi, mostre a lei dedicate sono sempre più frequenti.

Le cinque vite e un fior di loto. Dov’è il fior di loto disegnato per lei da Babaji? Forse è lì, tra i pennelli e le chine con cui Lisetta pratica la calligrafia cinese negli ultimi anni della sua vita, la sua nuova scrittura, le sue nuove parole.

A un certo punto Lisetta Carmi scompare dai tetti di Cisternino, dalle scale che la conducono al primo piano della sua casa sulla cui porta c’è un cartello con scritto “Suonare forte”, ma rimane nella sua infinita vita aperta a tutti, e la possiamo trovare tra le sue fotografie, nelle sue parole, nei suoi libri. Perché lei, a cento anni dalla sua nascita, è qui sempre con gli occhi, le mani, il cuore, per i cari altri e le care altre.

Senza misura. Leggi gli altri ritratti di questa rubrica

“Il ritorno di Hartz” di Osvaldo Lamborghini

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La collana Biblioteca di poesia, diretta da Massimo Rizzante per l’editore Metauro, è dedicata a rendere accessibili in Italia alcune delle maggiori voci della poesia internazionale ed europea in particolare. In questi anni sono uscite prime antologie di autori inediti in volume, quali il ceco Jan Skácel, il brasiliano Haroldo de Campos, il polacco Tadeusz Różewicz, lo spagnolo Jan José Ángel Valente, il francese Jean-Jacques Viton, il catalano Gabriel Ferrater. Presentiamo qui un estratto dall’antologia del poeta argentino Osvaldo Lamborghini, seguita dal saggio che chiude il volume del romanziere e critico argentino Alan Pauls.

di Osvaldo Lamborghini

traduzione di Massimo Rizzante

PROSA SPEZZATA [estratto]

1

   Se c’è qualcosa che odio è la musica, 
Le rime, i giochi di parole.
Sono di una certa generazione. 
La morte e la vita se ne stavano 
In un quaderno a righe:
La morte e la vita,
Il maschile e il femminile,
Gli orgasmi senza patria
E gli organi da parte a parte,
prendevano la forma di un bersaglio.
Appunti, appunti, appunti.
Amputa,
La “rocca” della maledizione.

  È mattino su questo bricco d’argento
E già dall’inizio c’è uno sguardo di troppo:
Sono di una certa generazione.
Ma prima ce n’era un’altra. 
Prima di me e della mia,
E quella di letteratura se ne intendeva
Tanto che non avevano bisogno di accusarsi troppo
L’un l’altro (o molto) o molto
Per scoprire la verità.
Sono di una certa generazione, 
Oh vita – l’idiota della pubblicità.
Quei progenitori sono stati liberi. Di una tale libertà,
Di una stupidità oggi quasi
Impossibile da cogliere, gravitano come nostri modelli. 
Noi, quelli più lucidi.
Sono di una certa generazione. 
C’è bisogno di metodo.

   La noia della vita d’albergo
Come una semplice svolta lungo la strada.
È pomeriggio in questo manoscritto,
Le ore volano.
Dopo il mate c’è il pranzo,
Il caffé in un bar, una breve
Passeggiata per il centro, e di nuovo,
Di nuovo nel mio nascondiglio.
Adesso è pomeriggio,
Pomeriggio inoltrato in questa matita,
E avanzo per il semplice gusto di camminare
Come chi misura il suo trilocale
E appoggiato alla finestra...
E appoggiato alla finestra fuma.
Fumo azzurro, fumo verde, fumo nero, fumo colorato: 
Non ho restituito il libro che mi hanno prestato
E mi piacerebbe perfino rubarlo,
Tenermelo per sempre, l’avverbio che sfuma. 
Garantisco che questi pensieri non sono aggressivi. 
Sono di una certa generazione, c’era da aspettarselo. 
Bussano dolcemente alla porta.

Sono qui, ridicoli. 
Sono di una certa generazione.

Questo è un verso
Abbaia il cane su una superficie rarefatta,
Come a dire che non è così orribile la risata dell’idiota 
Quando immersi nel lavoro ci sfiora con la sua ala.
Questo compiacimento nell’errore è il mio marchio di fabbrica,
Ma sono di una certa generazione. 
Alla fabbrica s’impose il Manierismo 
Protervo, l’occultamento dalle gambe 
Corte della mancanza di talento,
Sebbene per alcuni anni un po’ mi sia divertito.
Odio la musica, odio l’arte, odio
I miei paradossi in falsetto e la mia voce incoerente.
Ma amo: amo il pene
il cui volto non posso indovinare nascosto abilmente dietro la maschera 
                                                                  [delle mutande 
E poiché non so decidermi se guardarlo o toccarlo 
Faccio voti e suffragi.

   La forma della poesia è una disgrazia passeggera.
Perché alcune parti del mio corpo si mantengano vive
Devo ricoprirle di cocaina.
Disgrazia passeggera, così parlo almeno nel ritmo cercato,
Il ritmo arbitrario del progetto senza sostanza, 
E scrivo come un principiante, un pivello
 – Alla mia età – «progetto», «sostanza».
Generazione,

di un’agonia campana sfera di cristallo o legno bianco. 
Ho sempre mantenuto questa tendenza e inevitabilmente la conserverò 
                                                                [arancio: 
Appena qualcosa sta per essere partorito, volto la testa, 
Ma anche quando si nasce alle mie spalle, incrocio le dita.
È notte sul color marmo che invade la mano e la peluria. 
È tempo di chiudere gli occhi, presto ci saranno le prime luci dell’alba.
Ma si sono riaperti, tattili, attenti in attesa dell’alba 
Allora il bricco sul fuoco, la fiamma del gas sulla sigaretta, braci.

Sessualmente perfetto e quasi quasi 
Dio da adorare,
Al principio del giorno l’artista non ti dimentica, né ti rima,
Perché ogni rima offende: basta che amputi il tuo discorso.
Il mattino è pesante come un ammasso di malintesi sull’avanguardia.

Prendo un libro e poi un altro, e so già, la curiosità lo fa 
                                                        [senza pensarci 
Forse, Le Origini della Psicoanalisi,
Per le lettere, per il tema, 
Per essere soddisfatto.

Mi sono sforzato di essere sincero, di farmi prendere al laccio.
Ho iniziato tranquillamente questa prosa, piangendo per i cavalli dimenticati,
Disposto il mio spirito perché non fosse solo uno stato d’animo, 
Ma qualcosa uccide l’essere che si coniuga
E sento che le bianche riserve sono sempre più scarse.
Con i baffi radi, appena pronunciati, è racchiusa: 
L’effigie di mia madre in una foto del mio volto. 
Il povero zarevič è un falsario.
Ed è già mezzogiorno sul pennone di madreperla 
Che diventerà sempre più sgradevole, più pesante più sessual
Mente insoddisfatto, più idiota nelle sue sorprendenti rotazioni 
Come un volo ad alta quota, con la sua aspirazione sottomarina 
Più volgare nella sua assurda autolimitazione
E più indisponente nel suo orgoglio di cavia. 
No, non si tratta della fine di un talento,
Ma, o piuttosto, del discredito di ciò che c’è dentro.
Senza ironia, nel mio mondo morale regno io.
Questa intrasingenza allegra è il risultato di un lungo lavoro.

Bussano alla porta, spero
Sia il medico il visitatore inatteso.
L’ospedale come il fiore allettante dell’avvenire.

Instancabile, sempre alla ricerca di un “grande” difetto,
È molto probabile che io sia di una certa generazione, sebbene 
                                              [è certo che mi sia isolato 
Ma per meglio condividere l’idolo gema, e due:
Come se allo stesso tempo volessi adorarlo senza testimoni,
Crederci e divorarmelo da solo, avendo per caso Lacan come 
                                                      [vicino di stanza. 
Ormai c’è bisogno di molte domeniche piovose perché la mia pelle si rinfreschi. 
Per divertimento ho amato una farfalla rendendo onore al fernet,
Aria

     aria,
Aria di bilancio senza un soldo e aria di morte che conferma quanto, 
Considerando che nella cucina dell’albergo la luce non è un fuoco fatuo:
Lì trionfa una fiamma tentatrice.

(...)

MALEDETTO MITO
di Alan Pauls

Come è accaduto per Rosas e per Evita, sebbene in modo meno pubblico e complicato, i resti di Osvaldo Lam- borghini a un certo punto sono giunti in patria. Questo è il primo significato di Novelas y cuentos I, la prima antologia di Lamborghini pubblicata in Argentina dal 1980, quando Fogwill decise di includere il bellissimo Poemas nel catalogo della sua casa editrice Tierra Baldía.
Alla fine degli anni Ottanta, quando un primo Novelas y cuentos uscì in Spagna, con il marchio Serbal, la lamborghinofilia porteña non sapeva che cosa pensare. Da un lato c’era euforia: l’edizione comprendeva un pugno di inediti a lungo attesi (Las hijas de Hegel, El Pibe Barulo, El Cloaca Iván) e riuniva per la prima volta in un solo volume – e in edizione rilegata! – quello che la comunità lamborghinofila si era già abituata a leggere, anzi a consumare, nelle precedenti edizioni quasi clandestine di Chinatown (El fiord) e di Noé (Sebregondi retrocede), in riviste raffinate ma estinte («Innombrable» pubblicó La causa justa) o in sudicie fotocopie (Matinales, Neibis). Dall’altro, un certo malessere: si era d’accordo nel far uscire il maledetto dal suo nascondiglio e rinchiuderlo in alcune pagine patinate, ufficializzando così, attraverso la dignità borghese del Libro, le ingiurie, la violenza e i grotteschi fantasmi di cui i suoi adepti avevano imparato a godere in sottoedizioni stile fanzine? E si era contenti che la responsabile di tale insperata ascesa sociale del mostro fosse una casa editrice spagnola?

Così è stato. Nel frattempo, tra la morte di Lamborghini nel 1985 a Barcellona e la sua rentrée postuma, è accaduto tutto quello che doveva accadere.
Ci sono state due antologie spagnole (Novelas y cuentos e Tadeys) e un libello-oggetto d’arte cofirmato da O. L. e Arturo Carrera (Palacio de los aplausos pubblicato da Viterbo); ci sono stati articoli, interventi, tesi; c’è stato un cer- to “travaso” di lamborghinismo in regioni non letterarie della cultura argentina (il teatro di Ricardo Bartis, la lirica di Patricio Rey, l’immaginario di Fito Páez); c’è stato un esecutore testamentario geniale (César Aira, che ha scritto la prefazione dei due libri usciti da Serbal, che ha scritto la postfazione di quelli usciti da Sudamericana e che perfeziona ogni giorno di più la sua missione di “nobile doppio” del morto) e c’è stato un guardiano di buona memoria (Germán García, che ha scritto la postfazione all’edizione originale de El Fiord e nel 1986 ha pubblicato La intriga de Osvaldo Lamborghini – poi raccolta, con altri documenti, in Fuego amigo nel 2003 – una severa biografia del «populista oligarchico» con cui aveva rotto le relazioni nel 1975), e, qualche anno fa, c’è stata una monumentale biografía di Ricardo Strafacce dove si racconta tutto, ma proprio tutto, del nostro artista (Mansalva, 2008).
«Così è stato» significa: Lamborghini il Maledetto è or- mai un Maledetto Mito. Una vita errabonda e una morte triste e lontana lo hanno reso un mistero che un esecutore testamentario fedele e un pugno di detrattori “risolvono” impallinandosi a vicenda con le loro contraddittorie interpretazioni: i «modi aristocratici» e la «severa cortesia» (Aira), la «malafede» (Masotta) e il «cinismo» (García). E meritare il contradditorio degli altri – meritarlo post mortem – è il modo più classico di essere un mito.
A chi credere? A Aira, che vede in Lamborghini un ca- valiere gentile, un fondatore, un artista della perfezione? A

García, che lo descrive come un manipolatore, un picco- lo borghese impaurito, una vittima dell’Antiedipo? Lamborghini è morto, morto e pubblicato finalmente qui, in Argentina,  spuntano ancora molte delle voci sociop- sicotiche che esplodono nei suoi testi. Non è questa una buona ragione per passare dal credere al leggere? Io, da parte mia, confesso che entrambe le versioni ufficiali mi ispirano letture leggermente diverse: quella di Aira, che ha saccheggiato l’opera di Lamborghini, la leggo come una variante peculiare dell’autoritratto (l’autoritratto di Aira); quella di García, che ha saccheggiato la sua vita – o il suo romanzo famigliare –, come una lettura particolarmente perspicace del dispositivo retorico della sua opera (l’opera di Lamborghini).

Ho incontrato personalmente Lamborghini una sola volta, una mattina, in una piccola libreria di Avenida Santa Fe, e quello che ricordo di più di quell’incontro è la sua mano molle e umida. È quel che mi è rimasto di tutto ciò che Lamborghini era, è e forse continua a essere: una let- teratura.
Nella sua opera assistiamo al dispiegarsi di un’esperienza che sempre di più ci stiamo abituando a coniugare al passato: l’esperienza di una sovranità letteraria brutale, che fa della lingua – qualcuno oggi si ricorda, per le opere in prosa, di ciò che va sotto il nome di lingua? – qualcosa di estremamente opaco, tattile e biodegradabile come un corpo, e dello scrivere un proceso quasi chimico nel qua- le “narrazione”, “poesia”, “saggio”, “fabulazione”, “per- sonaggi”, “intreccio”, sono il prodotto di accumulazioni, precipitati, coagulazioni che si ergono sempre davanti ai nostri occhi, vivi.
Il passaggio repentino è il gran meccanismo e allo stesso tempo il gran tema della letteratura di Lamborghini: il suo trasferirsi improvviso dall’informe al racconto, ad esempio, dalla quantità alla qualità, dalla poesia alla prosa, dal fuori al dentro, e anche quello sfoggio di rapidità  che consiste nell’abolire tutto ciò che c’è tra due punti, non un semplice salto, ma piuttosto un assalto: «filmare direttamente sullo schermo», «fare di necessità virtù e della prosa verso», «pubblicare quello che non scriverò mai…».
Leggiamo Lamborghini e abbiamo la sensazione – nel piacere, nella grazia, nel rifiuto, e anche nel tedio che com- porta la lettura della sua opera – che la letteratura, per un momento, torna a essere un Tutto: il nome più alla portata di mano che abbiamo per nominare il paradiso e l’inferno.

Quando sento parlare i personaggi

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Cristina Vezzaro intervista Antje Rávik Strubel

CV Antje Rávik Strubel, lo scorso anno è uscito in Italia per Voland il tuo Donna blu, vincitore nel 2021 del Deutscher Buchpreis, che ho avuto il piacere di tradurre. La protagonista del romanzo, però, non è la donna blu del titolo. Vuoi raccontarci di lei e di questa scelta?

ARV La mia protagonista è Adina, una giovane donna che parte per il mondo in cerca della paura (il riferimento è alla fiaba dei fratelli Grimm, ndr). E il mondo non si mostra esattamente dal proprio lato migliore. Per fortuna c’è però la donna blu, che impersona la bellezza, la speranza. È una figura nostalgica, ed è stata fondamentale per riuscire a scrivere il romanzo.

CV Dalle letture che ne sono state date sono emersi soprattutto il tema del me-too, la violenza “sessualizzata”, come la definisci tu, nei confronti delle donne; e la necessità di rilettura dei rapporti Est-Ovest (e del superamento di un’Europa a due velocità) attraverso la ricostruzione di una memoria che integri i crimini dello stalinismo contro l’umanità. Sono entrambi temi politici di grande attualità, ma non sono gli unici del romanzo.

ARV No, ci sono anche l’amore, la fiducia e l’interrogativo più antico del mondo: chi sono? E come sono diventata ciò che sono? Il romanzo affronta molti aspetti che prima o poi attraversano le nostre vite. Nella storia d’amore tra Adina e Leonides troviamo poi due personaggi che rappresentano l’Europa odierna. Leonides viene dall’Estonia. Adina dalla Repubblica Ceca. Dopo un’odissea, Adina atterra a Helsinki, dove i due si conoscono. Ho intuito piuttosto in fretta che sarebbe diventato un romanzo sull’Europa. O per essere più precisi: un romanzo che si sarebbe interrogato sul rapporto tra l’Europa dell’Est e l’Europa dell’Ovest. L’ho scritto prima della terribile guerra d’aggressione contro l’Ucraina, quando nessuno in Occidente si occupava più di tanto dei piccoli stati dell’Europa orientale o dei Paesi baltici né del delirio di grandezza di Putin. Lo squilibrio tra Est e Ovest invece a me è sempre interessato, perché io stessa vengo dall’Est. Sono cresciuta nella Repubblica democratica tedesca. Da bambina andavo spesso in quella che allora era la Cecoslovacchia, e questo mi unisce alla mia protagonista.

CV Sebbene tu abbia scritto questo romanzo nel corso di otto anni fino alla pubblicazione nel 2021, i temi trattati non potrebbero essere di attualità maggiore. Anche in Italia i femminicidi si susseguono. La violenza contro le donne sembra non conoscere epoche né confini.

ARV La violenza contro le donne non ha razza, non ha classe, non ha nazionalità né religione. Però ha un genere. Più o meno in questi termini l’ha definita Rebecca Solnit. Prendiamo un aspetto di cui mi sono occupata durante la scrittura: il mito della donna che mente. Uno degli ostacoli principali per arrivare alla condanna degli autori dei reati è dato dal fatto che alle donne non si crede. Fondamentalmente vengono accusate di mentire. È un elemento che è emerso in modo netto man mano che facevo le ricerche per il romanzo. Storicamente il potere, e con esso il potere di parola, è sempre stato maschile. Le donne non erano considerate alla pari degli uomini, così sono state condannate alla vita privata, al silenzio, non hanno avuto accesso alla vita pubblica, alle professioni, alla cultura. Per cui questo mito della donna che mente è secolare: chi non può parlare o esprimersi in pubblico è ritenuto inattendibile non appena prova a farlo. Sono modelli che tutt’oggi caratterizzano la nostra mentalità e anche la legislazione, modelli difficili da scardinare.

CV Storia e letteratura sembrano offrire chiavi di lettura più visionarie della realtà rispetto ai giornali stessi. Hai sempre intravisto nella scrittura questa possibilità?

ARV La letteratura offre la possibilità della lentezza. E quindi dell’approfondimento. Quando scrivo, è raro che mi occupi di attualità. Mi interessano piuttosto i grandi temi che riguardano l’umanità nel suo complesso. Come ad esempio quello dei confini che ci poniamo, che consideriamo invalicabili. Fino a 16 anni ho avuto davanti ai miei occhi un confine molto concreto: il Muro. Da lì nasce il mio interesse per il superamento dei confini. Nei miei primi romanzi seguo le tracce di due sistemi un tempo divisi da un confine: la Germania Est e la Germania Ovest. Poi hanno iniziato a interessarmi i confini invisibili. Perché, ad esempio, riusciamo a pensare solo in termini di due generi opposti. Perché determinati tipi di amore sono oggetto di tabù. A interessarmi poi sono anche i confini linguistici, ovvero l’arricchimento reciproco tra le lingue una volta superati gli ostacoli. Anche per questo ho iniziato a tradurre. Lucia Berlin. Virginia Woolf. Non da ultimo credo nell’idea piuttosto antiquata che i libri possano cambiare in meglio il mondo. Solo che i libri sono come sommergibili. Non sempre il loro effetto si fa vedere subito. Ci vuole tempo.

CV La tua posizione di scrittrice impegnata è ormai nota: che si parli di femminismo, di situazione nella ex Germania Est in vista delle prossime elezioni politiche o di violenza contro le donne, la tua opinione di intellettuale è richiesta. Come vivi il tuo ruolo di scrittrice impegnata a livello sociale e politico? Ti sembra particolarmente di rilievo considerata la situazione attuale?

ARV Dubito che io, in quanto scrittrice, abbia di meglio o di più da dire rispetto ad altri sulla pace nel mondo. Sono però felice che non esista più la figura dell’intellettuale Übervater, un’autorità maschile indiscussa che prende posizione su tutto e tutti, e che si possano invece sentire molte voci diverse. Una certa notorietà offre certo l’occasione – oltre che, mi pare, anche l’obbligo – di esprimere in pubblico il proprio parere. Personalmente intervengo solo se mi sembra di poter dare un contributo concreto. Come all’inizio della guerra d’aggressione della Russia, quando la Germania e l’Italia tardavano ad approvare le sanzioni: in quel momento ho scritto una lettera aperta a Olaf Scholz (uscita sulla FAZ, ndr). Dovevo sfogare il mio malumore, anche perché durante gli otto anni di stesura del romanzo mi era diventato chiaro il monito dei Paesi baltici, perfettamente consapevoli di come Putin stesse riaccendendo il culto di Stalin e pianificando una guerra contro l’Europa.

CV Ai tuoi lettori regali in questo libro un’esperienza di lettura “diversa”: al livello di consapevolezza politica e sociale si intreccia una trama che a sua volta si intreccia con la figura della donna blu, che dà il titolo al romanzo. La scelta di non narrare una storia dalla A alla Z offre ai lettori una possibile apertura alla complessità. Cosa ti guida nella scrittura?

ARV Mi considero certo un’autrice politica, ma la scrittura è un processo estetico. Ed è vero, i miei romanzi non sono mai narrati in modo lineare, è raro che abbiano un andamento cronologico. Mi ripugna profondamente l’idea di raccontare tutto, di spiegare ai lettori fin nei minimi dettagli cosa devono pensare. È una cosa che mi annoia da morire quando leggo, e quando scrivo voglio innanzitutto divertirmi, altrimenti non potrei occuparmi per anni sempre e solo di un argomento. Nel mio caso bisogna anche saper leggere tra le righe. Lavoro volentieri con gli accenni, le allusioni, motivi che si riprendono, riflessioni sulla narrazione, e mi piacciono anche le contraddizioni, mi piace farmi sorprendere, anche da me stessa. Nei miei romanzi si possono trovare gli influssi più vari, dall’elemento giocoso postmoderno della letteratura americana a quello esistenziale di una Ingeborg Bachmann o di Marlen Haushofer fino allo scetticismo di Joan Didion nei confronti della lingua.

CV I piani della realtà, della narrazione e della metanarrazione si intersecano, e ciascuno di loro è caratterizzato da uno stile diverso. Ad accomunarli è però quella “poetica della discrezione” di cui ha parlato la critica tedesca Miryam Schellbach in una delle primissime recensioni uscite in Germania. Come nascono nei tuoi romanzi la voce narrante e le voci dei personaggi?

ARV Lavoro molto con il suono della lingua. Solo quando sento parlare i personaggi inizio a capire chi sono e come sono. Anche la donna blu e lo stile dei passaggi in cui compare sono nati da un dialogo interiore. La voce narrante, decisiva in un testo letterario, nasce dall’interazione tra forma e sostanza, un processo che nemmeno a me è del tutto chiaro. È difficile da descrivere. So però di averla trovata quando il ritmo funziona e la voce mi convince.

CV Una particolarità di questo romanzo è che spicca in un panorama letterario come quello tedesco, caratterizzato negli ultimi anni dalla tendenza all’auto-fiction e alle letterature della post-migrazione. Qual è la situazione attuale?

ARV I testi di auto-fiction vanno per la maggior al momento, ma è una tendenza che non si troverà nei miei libri. Vivo già tutti i giorni con me stessa, perché mai dovrei anche scrivere di me, per quanto in versione romanzata? Mi pare in ogni caso che il ricorso all’Io come voce narrante nella letteratura contemporanea sia piuttosto ingenuo, perché solleva problemi di prospettiva. Continuano a esserci i ben collaudati nonché tradizionali romanzi familiari che abbracciano diverse generazioni. Ed è vero che da qualche tempo c’è più consapevolezza anche rispetto alle tematiche della migrazione e della post-migrazione, spesso mediate a loro volta dal genere del romanzo familiare. Con un leggero ritardo, perfino il nature writing ha conquistato la letteratura tedesca. Una novità è invece data da una consapevolezza queer, femminista, nella letteratura così come nel mondo letterario. Dieci, quindici anni fa, le case editrici, le pagine culturali dei giornali o le istituzioni letterarie erano guidate esclusivamente da uomini, mentre oggi si constata una maggiore diversità nella distribuzione del potere. Nel 2001 sono entrata in un mondo letterario patriarcale ancora fortemente caratterizzato dalla ristrettezza di vedute del dopoguerra della Germania Ovest. Fortunatamente negli ultimi anni la situazione si è vivacizzata. Mi ha fatto piacere, ad esempio, che in Italia e in Spagna Blaue Frau sia stato pubblicato da case editrici fondate da donne (Daniela di Sora, Voland; Silvia Bardélas e Beatriz González, De Conatus, ndr).

CV Oltre che in Italia e in Spagna, il libro è uscito in traduzione anche in Finlandia, in Croazia e in Sud America, e uscirà quest’anno anche in Francia. Lo hai presentato in Bolivia, Argentina e in Spagna nell’ambito di diversi festival, oltre che qui in Italia al Salone del Libro e a Festivaletteratura. Dall’incontro con il pubblico ti sei fatta un’idea della lettura che ne viene data nei vari paesi?

ARV Mi ha sorpreso constatare come in tutti i paesi ci siano stati spunti di discussione. Perfino in Bolivia. E non solo per la dilagante violenza contro le donne. Anche il tema della società a due velocità, purtroppo, è condivisibile un po’ ovunque. Be’, poi ci sono alcune lettrici che si sono innamorate di Leonides, altre che avrebbero voluto salvare Adina…

CV Stai lavorando a un nuovo romanzo?

ARV Sto scrivendo un romanzo dai toni più allegri su una giornalista che cade in rovina. È perfetto per un momento come questo, in cui populisti e autocrati assediano i media pubblici per la loro brama egomaniaca di potere. Sarà, in ogni caso, un romanzo più leggero, vivace. Ci voleva, dopo il lavoro difficile, estenuante di Donna blu. Mi succede spesso che dopo un libro voluminoso e complesso abbia bisogno di scrivere un romanzo più frizzante, brioso.

 

 

 

È morto un poeta

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Enzo Moscato in “Ritornanti” di Enzo Moscato - ph©Pino Miraglia

Enzo Moscato in “Ritornanti” di Enzo Moscato – ph©Pino Miraglia

 

(Un mese fa è morto Enzo Moscato. Qui un suo ricordo, uscito in versione ridotta sull’edizione cartacea de’ Il Mattino, 17 gennaio 2024. ot)

di Igor Esposito

È morto un poeta, un grande poeta della scena teatrale italiana, e di grandi poeti, come ebbe a dire Alberto Moravia ai funerali di Pasolini, non ne nascono molti in un secolo. Ma non basta scrivere che sia morto un poeta, perché dire che Moscato sia stato uno degli ultimi cantori del teatro italiano e un lirico supremo è una costatazione o una diagnosi a cui arrivano anche le orecchie di chi raramente frequenta la poesia o di chi, a tratti, si finge sordo. Terremoto, bradisismo, peste o fiume che esonda e tutto travolge è inequivocabilmente, da quarant’anni, la babelica drammaturgia di Enzo Moscato; ecco perché anche ai finti sordi che hanno avuto la sorte di inciampare in una pièce di Moscato è apparsa la poesia del teatro e della vita. Ora però, e soprattutto oggi, che vanno di moda le anime belle e i versificatori preteschi dediti all’anestetizzante consolazione dell’italico gregge, sempre più smemorato, schizofrenico e puerile, bisogna capire, una volta per tutte, in cosa consiste la vera natura di un poeta. E questa natura, o prima essenza di ogni poeta, è la sgradevolezza. Come ha scritto uno dei più grandi scrittori del secolo scorso, Julio Cortázar,

Lo sgradevole del poeta non sta nel fatto che abbia un cuore pettinato in modo diverso dagli altri, bensì nel fatto che è sempre un testimone, e si sa quanto siano sgradevoli i testimoni. Ma il poeta è peggiore, è quel testimone che non dice nulla contro di voi, ma voi sapete che dal momento in cui ha scritto il suo primo verso, quell’individuo sta testimoniando contro di voi, contro la parte di voi che è la città, che è il fine settimana, che è una marca di automobile, che è il vostro menefreghismo. E questa sgradevolezza è amplificata dal fatto che non c’è modo di afferrarlo.

Ecco l’inafferrabile Moscato, demiurgo d’una lingua polisemica e meticcia, un artista che non ha mai ceduto alle lusinghe del mercato, alle serie televisive che lui ironicamente sbeffeggiava apostrofandole serial killer, che non ha mai spalleggiato o suonato il piffero dei politicanti, che non ha mai avuto un pelo sulla lingua confessando pubblicamente lo stato comatoso del teatro italiano, impaludato in logiche clientelari; dove impera un Ministero, come già denunciava Eduardo, che non riesce a dare la giusta dignità al fuoco primordiale del teatro, ovvero agli attori e agli autori. Ma anche un Moscato che ripetutamente dichiarava che il teatro è una vocazione a cui non si può sfuggire e bisogna viverla sapendo che lungo la strada si incontreranno più spine che rose. Senza dimenticare la tagliente ironia su alcuni teatranti dediti ormai a un teatro di retroguardia, nati incendiari e morti pompieri. Ecco perché credo sia giusto sottolineare, al di là della sua opera iperbolica, ossimorica e allegorica, che avrà sempre la forza di parlare e difendersi da sola, come tutte le opere degne della parola Arte, che anche questa, nel deserto dell’industria culturale, è la preziosa eredità che Moscato lascia ai felici pochi. Un’eredità che valga come monito e insegnamento, da chi negli anni della sua giovinezza ha insegnato filosofia e partendo proprio dalla filosofia ha forgiato, come solo a pochi eletti è concesso, un’opera mondo, un angelico bestiario, un’epifania di sangue e bellezza, di sacri riti e bestemmie; e lo ha fatto dal microcosmo dei suoi Quartieri Spagnoli, riuscendo a regalarci l’universalità del cosmo e dell’umano. Un uomo che è riuscito a porre al centro della sua febbricitante scrittura teatrale anche l’aspetto filosofico e metafisico della vita e non sarà di certo un caso se Emanuele Severino, nel suo volume La filosofia antica e nel suo saggio Il giogo, ha posto Eschilo al fianco dei filosofi antichi, definendolo “uno dei più grandi pensatori dell’Occidente”. Ma è bene ricordare che Moscato ha fatto tutto ciò da esiliato in terra, restando fedele, con ferrea coerenza, ai suoi amati predecessori, da Giordano Bruno a Leopardi passando per Artaud, Genet, Pasolini e Lacan, solo per citarne alcuni. E questa affermazione però non vuole essere una santificazione. Perché anni fa, conversando con Laura Betti, l’indomabile giaguara mi fece capire che santificare un poeta o un artista significa neutralizzarlo e chiuderlo nella sua bara. E mi disse, riferendosi a Pasolini, che un poeta non è di tutti, ma di chi lo studia. E Moscato ha dedicato la sua vita allo studio, presupposto fondativo della sua scrittura, come affermò durante una nostra pubblica conversazione, di ben due ore, tenutasi nel 2020 al Cinema del Carbone di Mantova. E anche questo valga come monito per i drammaturghi che verranno, e a tal riguardo mi ritornano in mente le parole di Eduardo che in un’intervista dichiarò:

Scrittori che mi hanno mandato copioni e non li ho potuti recitare. Non si convincono. Io di fronte a una commedia sono in dubbio per trent’anni prima di mettere la penna sulla carta. Ma quelli dicono è facile, si mettono là tac tac tac e riempiono di paglia una pagina.

La paglia brucia o vola e di lei non resta nulla. Ciò che resterà è la scrittura di Moscato. Ora che il suo esilio in terra è finito, il suo corpo si sta già decomponendo ricongiungendosi alla materia del suo amato Lucrezio. Ma perdonami, Enzo, se di colpo ti do del tu, come facevamo nella vita, e perdonami ancora se oggi non posso tenere fede a questi versi di Lucrezio: “Nulla dunque è la morte per noi e non ci riguarda affatto, dal momento che la natura dell’anima è da ritenere mortale”. Perché io so che la tua anima resterà nelle compagne del tuo esilio, nelle tue vestali di scena, dall’inarrivabile Isa Danieli, alla straziante Cristina Donadio di Little Peach, alla Licia Maglietta di Palummiello, a Iaia Forte che ci ricorda che ‘A morte, ccà, è sulo festa a mmare o all’indimenticabile Imma Villa di Scannasurice; così come resterà nei tuoi fanciulli di strada, e qui forse, scherzosamente e con affetto, ti sarebbe piaciuto chiamarli guitti, dall’irriducibile Tonino Taiuti di Play Moscato a Benedetto Casillo, ai visionari Martone e Servillo del capolavoro che fu Rasoi, fino al tuo più giovane e intimo sodale: Giuseppe Affinito. Così come resterà in tutti gli attori della tua compagnia e in tutti i teatranti che ti hanno attraversato scegliendo di lavorare sui tuoi testi, dal Cerciello di Bordello di mare con città al Saponaro di Occhi gettati, solo per citarne alcuni; e anche in quel pubblico che hai saputo commuovere e contagiare, perché come amavi ripetere il teatro è prima di tutto, artaudianamente, contagio e azzardo. Ma questa non vuole essere una speranza, perché come insegna Monicelli la speranza è un’invenzione dei padroni e a te, filosofico scugnizzo, i padroni non sono mai piaciuti. E poi come potrebbe essere una speranza se oggi l’unica mia certezza è che la Bellezza senza di te, come cantava il tuo terribile ragazzo di Charleville, è ancora più amara. Addio Enzo, addio alla tua divina sgradevolezza; e se non ti chiamo maestro è solo perché nella mia mente resta indelebile una tua battuta: i maestri, i maghi della merda.

 

Pietà

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di Ilaria Palomba

Nel violento, trafelato alternarsi di stati d’animo, cercando rifugio nelle Suite di Bach, telefona O. Quando le chiedo come stai, ride, giustamente. Dice che ha cambiato badante, che trascorre quasi tutto il tempo a letto, che la nuova l’accompagna solo quattro ore al giorno, che la presenza dei suoi per quanto salvifica è in fin dei conti snervante, che il suo amore virtuale prosegue, anche se nessuno dei due fa un passo per renderlo reale. O. ha trovato un soffio vitale anche nell’impossibilità di muoversi, nella piccola scoperta delle sensazioni recuperate. Truccarsi al mattino per mandare una fotografia all’uomo con cui la sentivo parlare ogni giorno in ospedale, curare l’alimentazione fin nei minimi dettagli per mantenere il corpo esile, fare il botox per ringiovanire. Piccole cose, dice, che ti danno la misura del senso di esserci ancora.

Sto cercando anch’io quel senso, dico.

Ma tu cammini, dice.

Lo so, scusami.

No, non devi scusarti.

Sì, invece.

C’è qualcosa su cui dovresti riflettere.

Cosa?

Sei certa di aver deciso consciamente?

Non saprei, ero stanca.

Sì, ma di cosa?

Non lo so, mi vergogno molto. Un paio di volte, sotto acido, molto prima dell’incidente, ho visto il mio corpo cadere dall’alto, poi in coma.

Non chiamarlo incidente.

Come dovrei chiamarlo?

Suicidio.

Tentativo di suicidio.

Non era un tentativo.

In che senso?

In rianimazione ne hai avuto un assaggio.

Ma era delirio, avevo un trauma cranico, ero sotto morfina.

Cosa sentivi?

La voce di un uomo.

E cosa diceva?

Che dovevo rinunciare al mio nome, o la vita o il mio nome, che questo era solo un passaggio, solo una delle quindicimila vite che mi spettavano, e che se l’avessi sprecata la successiva sarebbe stata identica.

Hai vissuto una breve incursione nello spirito, ma poi l’hai dimenticato. Hai compreso il significato della richiesta della voce? A cosa devi in realtà rinunciare?

Non lo so, all’ego forse, all’identità.

Dopo aver riattaccato mi torna quell’antico senso d’angoscia che in alcuni momenti accompagna le mie giornate. La porta è chiusa a chiave, sento le voci dei miei, che ormai tento in ogni modo di arginare. Ho perfino paura di attraversare il corridoio e raggiungere il bagno.

Cammino su via Appia il primo di novembre, con mia madre, scegliamo le verdure dal fruttivendolo, cercando di capire cosa mangiare e cosa no. Lascio a lei l’arbitrio dei gesti, come se per un anno e mezzo fossi stata assente. Cerco di osservarla con benevolenza, o almeno mi sforzo di farlo. Ci dividiamo le buste, prendo spinaci e kiwi, lei fagiolini, tocchetti di carote e zucchine. Poi entriamo in un negozio in cui eravamo state un anno fa, la negoziante non mi riconosce. Ero appena uscita dall’unità spinale, avevo il deambulatore, mi stancavo dopo pochi passi, sudavo e mi dolevano le ossa del bacino. Avevo capelli radi, incarnato terreo, corporatura lasca e gonfia per i farmaci. Ora sono un’altra, e mi felicita sapere non mi abbiano ricondotta a quell’essere amorfo che entrò un anno fa con il rollator e subito si abbandonò inerme sui cuscini all’ingresso. Scelgo delle magliette nere a righe, una traforata e una blu, la commessa mi indica un camerino. Dal camerino sento mia madre dire alla commessa: Si ricorda? L’anno scorso. È la prima volta che torna in un negozio da allora. Povera figlia. No, perché?, dice l’altra. Ho visto che porta un tutore, ha avuto un incidente? Mia madre rincara la dose, con il suo atteggiamento melenso e patetico, sciorina il repertorio dei sette mesi di ospedale, degli undici interventi, di modo che uscendo dal camerino, oltre a notare di essere tornata a calzare discretamente una quarantadue, mi accorgo dello sguardo compassionevole della commessa, e mi sento nuovamente freddata dalla violenza della pietà. Adesso va meglio, vero? Complimenti per i traguardi raggiunti, dice. Severa, la osservo e abbandono il negozio, mia madre resta lì con le magliette in braccio. Più tardi, a casa, le dirò di lasciarmi in pace. Al suo rimbrottare, seguono le becere ciance di mio padre, per cui: Non è mica colpa nostra, troppo bene ti è andata, e non ci hai mai neanche ringraziato. Così, stremata, ripensando alla loro presenza costante, al commento di ogni azione, alle code in bagno al mattino, al senso di colpa che mi hanno instillato per quel gesto di cui forse non avevo mai neppure supposto fossero in parte responsabili, agisco sconsideratamente fracassando un tavolinetto in legno all’ingresso e l’appendiabiti. Mio padre fa per colpirmi ma prima che lo faccia gli do un pugno in faccia e torco il polso a mia madre che tenta di fermarmi. Torno nella mia stanza, nel berciare indefesso della mente che non mi abbandona e si spande esiziale in ogni parte di me, fino a rigettarmi nell’insensatezza di ogni cosa, nella mia insignificanza, nel desiderio antico e sempiterno di abbandonare il mondo.

Questa e molte altre notti rinfocolate dall’insonnia, medito nuovamente di annientarmi, giunta ancora qui, nel deserto, nel deserto dell’affetto, del sentire, del giudicare. Non ho sentimenti che non siano spregevoli, la mia sola consapevolezza è di non essere quel prodigio da loro prefigurato, di non aderire all’ideale scolpito dalle aspettative di tutti, o forse solo dalle mie.

Una casa in mezzo al bosco, coperta da embrici, cerco riparo riconoscendo alla finestra il volto di una donna dai tratti velatamente nipponici, e di un uomo. Uno sconosciuto al pianoforte suona una melodia che interrompe bruscamente per ricominciare molte volte daccapo. Lo contemplano, seminudi, fradici. Dalla posizione in cui sono – una ladra che voglia arrampicarsi per entrare dalla finestra della mansarda – posso vederli fino alle clavicole. Sembra si siano spogliati poco prima che arrivassi. È una nudità familiare, sottende un’antica complicità, probabilmente antecedente al mio suicidio – ho smesso di usare la parola incidente grazie alla perentorietà di O. –, nudità da lenocinio di cui non posso essere artefice. Io sono l’estranea alla finestra, ma la casa è quella della mia infanzia, il Prima assoluto. Filze di biancheria intima pencolante e bagnata di pioggia nell’orto antistante il muro. Era bianco, quel muro, e rosse le tegole, sarebbe stata la casa disegnata da un bambino se non fosse stata un tempo la mia. Urlo e batto le mani ai vetri e lei, salace, pur guardando in mia direzione, finge di non sentirmi e non vedermi. Anche lui mi guarda ignorandomi; non si toccano, ma quelle nudità abbacinano spietate. Non posso più essere toccata, e neppure vista, scivolata oltre la linea di confine tra vivi e morti, tra abili e inabili. Resto a guardare le foglie roride, e la tempesta – il cielo iniettato di folgori – mi colpisce strappandomi la giacca.

Svegliarsi e non svegliarsi mai. Controllare il telefono, trovare i soliti messaggi, decidere di sparire. Come si prende la decisione di farlo? Come nel sogno, guardavo altri riuscire dove io avevo fallito, e andavo bendata tra le spade. Ero quella precisa carta degli arcani minori. Poi, sono stata risparmiata, ma continuano a lasciarmi fuori dalla porta di una casa che non mi appartiene più. Non chiedo perdono. Mio padre mi osserva senza parlare, mia madre alza le spalle: non ho chiesto perdono neanche a loro. Quella pietà non posso accettarla, così come la premura riservata ai malati, ai paria. Se non posso entrare nel mondo, combattere, sapere che giungerà un giorno il mio grande sì alla vita, allora voglio andarmene. Al culmine del pianto vado a prendere la cartella clinica della rianimazione del San Giovanni.

Orientamento diagnostico:

03/05/2022

Politrauma in caduta da grande altezza: ESA, PNX polmonare destro, emotorace destro con aree contusive polmonari, fratture costali multiple scomposte a destra, lacerazione segmenti epatici V-VI sottoposto a trattamento in radiologia interventistica, emoperitoneo, frattura da scoppio L2 con frammenti endocanalari, frattura pluriframmentaria del sacro, frattura scomposta branca ischiopubica destra e acetabolo, frattura processi trasversi L1L2L5S1-destra.

Referto:

03/05/2022

TC del collo senza MDC

TC cranio senza MDC

TC del bacino senza MDC

TC del torace senza e con MDC

TC addome superiore con e senza e con MDC

Esame eseguito prima e iniezione di mdc per via e.v.

Iperdensità dell’emiporzione sinistra del tenorio come per ESA.

Strutture mediane in asse.

IV ventricolo normale e in sede.

Spazi liquorali della volta e della base di ampiezza nei limiti.

Falda di PNX polmonare a destra che risale fino all’apicema con maggiore spessore in sede basale circa cm3 di diametro.

Modesta quota di emotorace a destra.

Ampie aree contusive polmonari nel lobo medio e inferiore a destra.

Fratture costali multiple scomposte a destra.

Lacerazione dei segmenti epatici V-VI con segni di spandimento attivo di mdc in fase arteriosa che si rifornisce nelle fasi più tardive.

Segni di emoperitoneo con quota ematica periepatica e nel Douglas.

Frattura da scoppio di L2 con frammenti ossei endocanalari coinvolgente lamine e peduncoli.

Frattura pluriframmentaria del sacro.

Frattura scomposta della branca ischio-pubica destra con piccoli spot attivi parasinfisi omolaterali e dell’acetabolo con coinvolgimento del pilastro anteriore.

Frattura dei processi trasversi di L1-L2-L5-S1 di destra.

Dal punto di vista scientifico non ha senso essere qui. Non oso più pronunciare molte parole, non ne trovo di adeguate. Nella cartella clinica dell’unità spinale era scritto: livello di lesione L2-B; paraplegia. B è quasi completa. Sono arrivata in unità spinale il 25 maggio in quelle condizioni. Sono uscita il 28 ottobre con il rollator, il livello della lesione era cambiato. Dovrei sempre riaprire quella cartella per rendermi conto. Perché io dimentico. Ritorno al punto di partenza. I libri accatastati. Il mandala sulla parete. Gli armadi e gli specchi. Il parquet. Lo sproloquiare del notiziario. Il rombo di un’auto. Pioggia. Dimentico di aver vissuto qui prima del suicidio. Di essere stata quasi anoressica. Di aver portato a casa amanti appena conosciuti per poi tornare ossessivamente a pensare a lui. Dimentico. Le mani, la lingua, il sesso. E di aver poi pensato alla punizione. Non sentirai mai più. Vogliono amputarti l’arto destro a partire dalla vagina. Resterai storpia. Di aver detto a un’infermiera: Vi prego, staccate tutto, non posso affrontarlo. Embolizzazioni. Trasfusioni. Dimentico. Cosa ci fai qui? Meriti questa seconda possibilità? A quali condizioni? Non pensare. Ora cammina. Non pensare. Non devi pensare.

Quello che accade dopo un suicidio, se si sopravvive, naturalmente, è che alcuni non ti considerano più tra i vivi, li spaventi, per loro sei comunque morto e devi costantemente affermare che esisti, è stucchevole, ma va fatto.

Le epifanie allo specchio di Graziano Graziani

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di Lidia Tecchiati

È il 1906 quando James Joyce pubblica una raccolta di quindici novelle sul “The Irish Homestead”, dal titolo Gente di Dublino. È in quella precisa occasione che introduce il concetto di epifania: una rivelazione improvvisa e inattesa, una manifestazione di qualcosa che non può essere incasellato in una definizione materiale quanto piuttosto in una spirituale. Ma l’elemento straordinario è che questa rivelazione così potente, questa risonanza con ciò che intimamente sentiamo ma che fino a quel momento nemmeno sapevamo di provare, scaturisce da un gesto, un evento, una frase del tutto banali, che caratterizzano la vita quotidiana di un qualsiasi essere vivente. Eppure, ci manifestano un significato celato ben più profondo della banalità e casualità da cui origina.

Più o meno negli stessi anni, nel romanzo autobiografico dalla leggenda editoriale travagliata, Stephen Hero, lo scrittore irlandese ci dà una definizione più precisa di quell’entità così difficile da afferrare e da spiegare che è l’epifania: “L’anima dell’oggetto più comune, la struttura del quale è stata così calettata, ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania”.

Ed è proprio attraverso presagi e rivelazioni che ai miei occhi si è mostrato il primo romanzo di Graziano Graziani, edito da Tunué e uscito a marzo 2020.

 

Girolamo è nato il 29 febbraio, un giorno che nemmeno esiste tutti gli anni. Ne consegue dunque che la sua esistenza, sin dalla nascita, risulti ai suoi e ai nostri occhi precaria e traballante. Si potrebbe definire come un uomo cogitabondo, un flâneur che passeggia, alla mano una cartina geografica alle volte reale, alle volte immaginata. L’azione del camminare come pratica simbolica con cui trasformare lo spazio si estende al suo (e di conseguenza al nostro) sguardo: Girolamo si muove all’interno di uno spazio-tempo spesso non definito, altalenando tra le varie età della sua vita. Nei capitoli anaforici “Girolamo e…”, narrati in terza persona, questo walkscaper ci guida attraverso la sua personale osservazione e interpretazione della realtà, spinto da una disillusione e da un’ironia sferzante che ci sbatte in faccia tutta la tristezza e la frustrazione provata nel far parte di un mondo che non riconosce (più) e nel quale fatica a collocarsi come io.

Il romanzo è costruito su due piani di narrazione differenti: da un lato ci sono i capitoli alla terza persona, in cui Girolamo osserva e riflette, a diverse età, sul mondo che lo circonda, dalla percezione della finitezza umana all’equazione impossibile delle relazioni sentimentali, passando per le grida di bambini irriverenti e approdando al profumo di rum e al sapore di lampone della nostra galassia. Dall’altro, troviamo dei capitoli senza titolo, in cui Girolamo parla in prima persona dando del tu al lettore e a un amico orologiaio, “che normalmente con uno sguardo mette in chiaro il confine che c’è tra speranza e credulità” (p. 186), e lo guarda un po’ come si guardano i mezzi matti, con un misto di diffidenza e nascosta ammirazione. In questi capitoli Girolamo cerca se stesso, attraverso le pieghe del tempo e di una burocrazia tipicamente italiana, illogica e ulteriormente complicabile, quando possibile, e cioè sempre.

Il romanzo tratta della sua anima e del suo sentire, messi in relazione con elementi della vita quotidiana del tutto ordinari e quotidiani, da cui però partono delle riflessioni molto intime e profonde. A volte risulta quasi complicato seguirne i ragionamenti logici, più Girolamo si allontana dalla realtà per approdare all’immaginazione. Questi capitoli, oltre alle epifanie joyciane, mi hanno riportato ad alcuni racconti brevi inzuppati nel realismo magico di Murakami, in cui le storie di personaggi comuni che conducono vite apparentemente normali e ben ancorate alla realtà terrena sono in realtà un espediente come un altro per addentrarsi in un altro piano di esperienza, un po’ come se si aprisse una porta – o meglio un portale – per accedere ad un modo che di ordinario ha solo le vesti, ma che in realtà lascia spazio all’immaginazione e a tuffi onirici. Un modo per affrontare una realtà complicata? Per fuggire dalle domande esistenziali che attanagliano la mente umana da secoli – da dove vengo chi sono e dove sarò dopo la morte?

Forse sì, o forse è tutto più semplice di così. Girolamo vaga tra i vicoli della sua città così come tra i vicoli della sua memoria, cercando di districare una matassa di ricordi che non riesce a sbrogliare e collocare nel giusto ordine cronologico. Si sofferma sulle assenze, su ciò che una volta c’era e ora velocemente è scomparso, assenze e sostituzioni che hanno completamente cambiato la geografia del suo passato insieme alle abitudini di una vita. E, giustamente, Girolamo alle sue abitudini – e di conseguenza alla sua vita – non vuole rinunciare: piena solidarietà da parte mia se alla sostituzione dell’unico forno del quartiere con una banca, risponde con una proposta che a me pare tutto fuorché paradossale: “la banca potrebbe aprire uno sportello per il pane. Uno solo, non di più; gli altri possono pure continuare a commerciare in soldi. Se cominciate voi, magari la banca accanto tra una settimana aprirà uno sportello per la verdura, e quella in fondo alla piazza forse entro la fine del mese si sarà dotata di uno sportello per la frutta. Sarebbe una soluzione pratica, spiega Girolamo” (p. 29).

Ma si sofferma anche sugli sguardi di Viola, unica costante nella sua vita ma anche nelle pagine di questo libro; un amore perduto che nel suo essere lontano dal presente è in grado di tenerlo in vita e riportarlo alla realtà strappandolo così ai suoi viaggi ai confini della realtà. Un’ancora alla realtà che incarna tutte quelle occasioni che Girolamo pare rincorrere ma mancare sempre, tutti quei “se” ipotetici che rimangono sospesi a mezz’aria. È troppo abituato a subire ed osservare la sua esistenza per viverla davvero, o forse è solamente incapace di sincronizzarsi sulle sue frequenze.

“Eccolo, forse, l’unico momento desiderabile dell’esistenza, pensa Girolamo, quello in cui ci si trova un po’ fuori sincronia con sé stessi. Un po’ prima o un po’ dopo, ma proprio di poco, di un’inezia appena, qualcosa di trascurabilissimo nello scorrere del continuum spaziotemporale – e ci si guarda venire investiti da un’onda d’acqua e si ride, perché tanto in realtà siamo già, o non siamo ancora, altrove.” (p. 185)

Si fa sempre fatica a parlare (e scrivere, in questo caso) di qualcosa che si sente come intimamente proprio. Un luogo in cui ci si è a proprio agio con i pensieri, in cui ogni riferimento sembra accordarsi intimamente con le proprie convinzioni sul mondo in cui viviamo e sul suo veloce cambiamento. Uno spazio sicuro in cui si normalizzano i sentimenti umani, anche quelli che solitamente si provano con vergogna, aspettando al varco sensi di colpa che hanno l’esatto compito imposto di divorarci. Un libro che mi ha fatto riflettere su cose che sapevo da sempre dentro di me, ma a cui non sono mai riuscita a trovare uno spazio consono e una parola giusta. Un romanzo che può fungere da mappa urbana e mentale, per orientarci nel mondo e nei suoi luoghi nascosti, per guidarci verso un realismo magico necessario per interpretare la nostra esistenza su questa terra. Per trovare frammenti di noi stessi che formano l’immagine riflessa nello specchio.

Una scrittura essenziale, solo apparentemente asciutta, eppure densissima; a tratti nostalgica, come richiede questo libro. Una rinuncia ammirabile al superfluo – e in letteratura al giorno d’oggi ne abbiamo fin troppo – e una capacità di comunicazione e connessione emotiva che si poteva già trovare negli scritti precedenti dell’autore, penso ad esempio alla Planimetria sentimentale del disastro, e che in questo suo primo romanzo trova terreno fertile per esprimersi nella sua forma migliore.

Questo è stato ed è per me questo libro: un luogo in cui ogni scoperta si rivela come un’epifania, e si chiude con un sorriso convinto, dato da un qualcosa che si presagiva e che viene confermato. Una sensazione epidermica e poetica simile a quella che Amélie Poulain provava tuffando la mano in un grosso sacco di legumi.

“Perfect days”. Ambire il mondo

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di Daniela Mazzoli

“Sempre meglio che pulire i cessi!” Quante volte lo abbiamo sentito dire. È il limite di ogni situazione, scomoda, difficile, insopportabile. Non è abbastanza scomoda, e non troppo difficile, e certamente è più sopportabile che: pulire i cessi. E l’idea è che, guardando il destino di chi come mestiere è costretto a pulire i residui dei nostri residui, ogni altra sorte sia da accettare.

Ma questa è la luce accecante di un’affermazione non del tutto verificata. Poi arriva l’ombra, che ci permette di vedere meglio alcune cose. C’è un uomo che in modo rituale compie ogni giorno gli stessi gesti, costruisce con questi gesti l’architettura portante delle sue giornate: prendersi cura di sé, lavarsi i denti, sistemare i baffi, poi prendersi cura degli altri viventi, libri e occhiali da riporre, panni da piegare, annaffiare le piante, poi uscire, alzare gli occhi al cielo, e fare in modo che quel cielo, in ogni stagione, allarghi la faccia in un sorriso di conferma, di essere al mondo e che il mondo duri. Poi inizia la giornata, un giro sempre identico, come una collana, a cui si agganciano mani, chiavi, canti, incontri.

Il protagonista del film Perfect Days non è un uomo che pulisce i bagni. È un uomo che legge. Che ascolta Lou Reed mentre viaggia in macchina, che dice di sì a chi chiede ospitalità, a chi vuole ascoltare la sua vecchia musica, a chi ha bisogno di un po’ di soldi per ‘giocarsi tutto’ con una ragazza da ‘dieci su dieci’. È un uomo che recupera piantine di acero nel parco dove fa ogni giorno la pausa pranzo e se ne prende cura in una specie di serra casalinga, e che è capace di raccogliere la sfida lasciata in un biglietto anonimo dietro la fessura di un water. Sembra non succedere niente in questo film, in questa vita. E sembra, ma solo sembra, che la lezione sia proprio qui: apprezzare le cose piccole, riuscire ad essere felici nella propria esistenza minima.

Ma è solo un difetto di prospettiva. Che cos’è una vita? Che cosa significa ambire a qualcosa? Significa girarci intorno, stare intorno a qualcosa per chiederle approvazione e consenso, e poter accedere così ai più alti ruoli. Hirayama non è un uomo che pulisce i bagni. È un uomo che gira intorno alla stessa giornata, agli stessi gesti, allo stesso albero a cui scatta foto come fosse una persona amata. E più che l’albero è la luce che fotografa e che passa attraverso quelle foglie. Cerca qualcosa, che gli ricordi o che somigli abbastanza, alle ultime immagini – bagliori o ombre?- con cui si chiudono gli occhi nel sonno ogni sera. Proprio come le immagini dell’abbandono all’inconscio anche le foto che scatta sono in bianco e nero, sono un’astrazione, non soltanto una foto, un’impressione. È un segreto quello che cerca di ascoltare Hirayama ogni giorno, e forse per questo sta molto zitto.

Ascolta. Ascolta gli altri sicuramente ma ascolta anche oltre le parole che sente o cose che vede. Ascolta il matto che si snoda in danze nel parco, come se fosse appeso a qualche altro mondo o filo a noi ignoto. Ascolta il silenzio degli altri, e qualcosa che non ha nome, ma sente esserci e attraversare ogni azione, ogni ora, ogni adesso. Ascolta il suono della scopa sulla strada che all’alba lo risveglia: il primo suono della sua giornata è un suono solitario, di cura, una signora che spazza i marciapiedi. Senza che nessuno la guardi. Ascolta le confidenze non richieste, il dolore, il bisogno. E mentre lui sta zitto il mondo gli gira intorno, gli chiede aiuto.

Sentire tutte queste cose, in un solo istante, a un certo punto, lo sopraffà, lo raggiunge in una canzone, in un punto simile ad ogni altro punto, eppure miracoloso: la perfezione di vivere che sempre si accompagna allo strazio per l’irraggiungibile, per una ‘prossima volta’ che forse non ci sarà, perduta eternamente.

Non è una vita minima, non è pulire bene i bagni -un lavoro che nessuno vorrebbe fare e farlo tanto bene come se dovesse durare per sempre e invece al prossimo che entra sarà da ricominciare. Non è questo che succede, non è l’ultimo film di Wim Wenders. Essere ambiziosi e desiderare, ed essere nella propria storia è questa cura invisibile dell’invisibile, sapendo che senso e ricompensa ci sono già stati dati, e serve riconoscerli con una scelta, perseverante ed elastica. Che ogni vita è regola ma anche infrazione, che almeno una volta un abbraccio -da chi ha fatto altre scelte eppure ci appartiene- può interrompere la continuità delle nostre fogliefronde, lasciare entrare un’ombra nella luce, farci piangere.

Su “Guerre culturali e neoliberismo” di Mimmo Cangiano

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di Antonio Del Castello

Se avessero guardato alla classe operaia come a un’identità oppressa e marginale, cioè con il dispositivo vittimario e con le categorie etico-culturali vigenti oggi tra i liberal degli Stati Uniti e di parte dell’Europa, Marx ed Engels avrebbero dovuto limitarsi a un silenzio autocolpevolizzante, impegnandosi semmai a decostruire il proprio privilegio identitario di borghesi (soprattutto il secondo, figlio di un ricco industriale renano) e il proprio classismo magari inconscio, per evitare di causare discomfort negli individui identificantisi nel gruppo sociale oppresso. È questo uno dei paradossi a cui può essere portato a pensare chi legga Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano, appena uscito per Nottetempo nella collana «saggi • figure», suo terzo libro di critica materialista della cultura dopo La nascita del modernismo italiano (Macerata, Quodlibet, 2018) e Cultura di destra e società di massa (Milano, Nottetempo, 2022).

Cangiano ci aveva abituato a saggi voluminosi (rispettivamente di 628 e 525 pagine) e impegnativi, oggi ci offre un libro relativamente breve (189 pagine) e maneggevole, nonostante la difficoltà teorica dei problemi che affronta. Il primo dei tre, ripercorrendo la storia sociale degli intellettuali italiani di primo Novecento (1903-1922) e del loro programma di egemonia piccolo-borghese da esercitare sugli intellettuali di strato inferiore (come giornalisti e insegnanti), aveva individuato nel modernismo la «logica culturale» della fase imperialista del capitalismo, sorretta da filosofie (contingentismo, pragmatismo, ecc.) adatte a una borghesia intellettuale (non tecnica) in crisi nella fase di modernizzazione capitalistica dell’Italia. Il secondo aveva proposto una mappa dettagliata dell’intellighenzia europea di destra attiva tra il 1870 e il 1939 nel segno di una strategia che includeva «un approccio culturale alla politica e, spesso, un approccio politico alla cultura» ovvero una «possibile sovrapposizione tra artistico e politico».

Terzo tassello, Guerre culturali e neoliberismo è il saggio meno accademico di Cangiano, non solo per i libri da cui in parte prende le mosse o che possono più immediatamente essere individuati come suoi compagni di strada (penso, tra gli altri, per restare all’ultimo decennio in Italia, ai saggi di Daniele Giglioli ed Elisa Cuter), ma per il taglio argomentativo-narrativo e anche autobiografico, che muove dall’esperienza quasi decennale dell’autore negli Stati Uniti, il paese che è «everyone’s future», come recita il titolo del capitolo I.

Il libro propone una critica del “culturalismo” (disseminata ovunque ma concentrata nel cap. V) e delle possibili derive liberali tanto della cultura woke quanto della sua controparte universitaria, cioè la Theory e gli Studies, quell’indirizzo di studi incentrato sulle dinamiche di potere e privilegio legate a tradizioni e canoni letterari. Per cultura woke si intende invece quel posizionamento progressista che include le identity politics, ossia l’individuazione, in prospettiva principalmente etica e linguistico-culturale, di identità plurime marginali e oppresse (genere, razza, e anche classe, come vedremo meglio in seguito); il safetyism, cioè l’ideologia della sicurezza emotiva (comfort) diventata centrale nell’etica di sinistra; l’inclusività, l’attenzione ai privilegi, ecc. Ciò che insomma la destra ha cominciato a chiamare cultural marxism, la «riformulazione, in ambito etico-culturale, di un marxismo sconfitto sul piano economico-politico» (p. 17). Di tutto questo si ricostruisce la storia e soprattutto si tenta una riconnessione con i processi materiali con i quali è in relazione dialettica: produzione del valore, mercato e sfruttamento del lavoro, ecc.

Il «culturalismo» di cui si parla qui è, infatti, l’atteggiamento che attribuisce assoluta preminenza agli aspetti simbolici della politica, raggiungendo in questo anche un notevole livello di radicalismo, senza però che ciò implichi (più) una richiesta di trasformazione materiale del sistema economico; un atteggiamento, quindi, che tende a politicizzare ogni aspetto della vita e della cultura mentre accetta, di fatto, la totale depoliticizzazione (e quindi naturalizzazione) dell’economia; una strategia della «guerra culturale» che, avendo ormai perso di vista la dialettica tra cultura, struttura economica e orizzonte della prassi, individua in sé stessa il proprio fine. Anche l’individuazione delle identità, siano esse privilegiate o subalterne, avviene per lo più in ottica puramente etico-culturale, in totale disconnessione da una prospettiva materiale focalizzata, invece, sulla realtà dello sfruttamento del lavoro e sull’estrazione di valore economico da esso (capp. i­-iv).

La seconda parte del libro entra nel merito del complesso modo in cui il capitale, con i suoi molteplici standard di azione, può rendere il culturalismo (cap. VI) e l’etica woke (cap. VIII) perfettamente compatibili con le proprie esigenze. È, questo, un tema assolutamente centrale, perché è su questa base che il libro riesce nel suo compito forse più difficile: quello di sottoporre a critica il culturalismo e l’etica woke non solo evitando, ma anzi al tempo stesso decostruendo, e con inedita efficacia, le distorsioni “rosso-brune” che fino a questo momento ne avevano costituito la vulgata critica. Ci si riferisce qui a quelle tendenze (i cui capofila in Italia sono il filosofo Diego Fusaro e, volendo, il politico Marco Rizzo) che, sovrapponendosi al sovranismo della destra estrema, assumono che lo Stato possa agire come baluardo contro il mercato, e oppongono strumentalmente diritti civili e diritti sociali accusando la cosiddetta “sinistra fucsia e globalista” di fare il gioco dei liberali e del capitale globale, interessato, al fine di promuovere nuovi consumi, a favorire individualismo, sradicamento, fluidità, ecc.

Ricostruendo questo fenomeno è possibile individuare un vero e proprio «cultural turn», una ‘svolta culturalista’ che nel iv capitolo è perfettamente definita non solo, o non tanto, come lo spostamento del conflitto sul piano psicologico, linguistico e ideologico, quanto piuttosto come «la disconnessione di quest’ultimo dal piano economico-strutturale», come «un progressivo decadimento delle richieste di uguaglianza economica a favore di quelle connesse al riconoscimento simbolico» (p. 72). Una svolta vista sull’orizzonte della raggiunta egemonia neoliberale e della conseguente impotenza politica della sinistra (negli anni dieci al centro dei saggi di Giglioli). [1] Un orizzonte segnato da un realismo politico (cioè un assetto psichico, cognitivo ed estetico) che ha radicalmente ridefinito il campo di ciò che è possibile in fatto di politica ed economia, e che per questo ci fa apparire il mercato neoliberale, con la sua violenza endemica, come mediatore universale di ogni relazione umana e habitat naturale dell’umanità del XXI secolo, e che in conseguenza fa apparire, non solo come impossibile, ma addirittura impensabile, qualsiasi alternativa (There is no alternative). Insomma, ciò che, finito il sogno (o l’incubo) della rivoluzione, cioè della possibilità di trasformazione e superamento delle contraddizioni del nostro sistema economico, siamo ormai abituati a chiamare, con Mark Fisher (1968-2017), «realismo capitalista».[2] Il «cultural turn» segnerebbe dunque il passaggio da un’idea di battaglia culturale per la conquista di un’egemonia utile a rovesciare i rapporti di produzione a una “guerra culturale” vista, ormai, in dimensione definitivamente strategica: il fine – perché unica possibilità percepita – dell’azione politica individuale.

Cangiano non mette mai in discussione il fatto che sia giusto politicizzare (o ripoliticizzare) sfere private (come l’identità di genere o l’orientamento sessuale) a lungo escluse dalla lotta politica, ma segnala i limiti di un’operazione di questo tipo quando sia attuata sullo sfondo di una de-politicizzazione dell’economia e dei rapporti di produzione, che sempre più spesso, ormai, nell’orizzonte del realismo capitalista, vengono “essenzializzati”, cioè appunto percepiti come naturali o comunque immutabili. Come già detto, d’altronde, è proprio di fronte all’impotenza percepita rispetto all’azione trasformativa che il radicalismo si sarebbe trasferito, riducendosi, sul piano meramente culturale e simbolico. «Il primo rischio è dunque che, mentre politicizziamo tutto, finiamo per de-politicizzare proprio l’economia, per cui possiamo vedere come correttivi concetti quali l’“inclusione” – cioè, la richiesta di partecipazione paritaria a un sistema che resta, tuttavia, basato sullo sfruttamento» (p. 34).

Si tratta, insomma, di comprendere il doppio tavolo su cui il capitalismo gioca. Purché sia salva la possibilità dello sfruttamento, loro unico fine, i capitalisti (e i governi che li sostengono) possono tanto strumentalizzare (nonché aizzare) il sessismo e il razzismo presenti nella società per sfruttare meglio la manodopera, il lavoro riproduttivo e il lavoro di cura di donne e migranti, quanto mettere a valore i discorsi di emancipazione che montano dal basso in campagne di marketing all’insegna del black, del pink o del rainbow washing. «Il capitale – in una formulazione di Elisa Cuter – mobilita l’erosione del binarismo di genere come la sua ratificazione, a seconda di quanto gli fa comodo». [3] La società capitalistica è, del resto, «culturalmente egualitaria», come ha ricordato Giglioli, sulla scorta di Tocqueville.[4] Sbagliano dunque, per Cangiano, tanto i woke a pensare che il capitale agisca solo nel senso dell’universalismo oggettivante e normativo (maschile, eurocentrico, imperialista: Dio, patria e famiglia), quanto i rosso-bruni a pensare che il capitale, per incentivare nuovi consumi, punti al contrario soltanto al pluralismo relativistico e alla frantumazione delle identità.

«Ogni relazione di oppressione – è un’altra fondamentale tesi del libro di Cangiano – è connettibile al quadro dello sfruttamento a fini di profitto» (p. 40). A chi legge potrebbe venire fatto di chiedersi se questo è vero. Anche l’oppressione patriarcale? Anche l’oppressione di genere, anche il razzismo sono davvero tutti risolvibili nell’ottenimento di plus-lavoro al fine di creare plus-valore? Il privilegio maschile messo in discussione dal femminismo non è forse più antico del capitalismo? Il valore simbolico collegato all’onore maschile non agisce con più forza proprio in contesti segnati dalla penuria economica? Sul piano storico ciò è innegabile e Cangiano infatti non lo nega. Qui, però, la sua lettura non è più storiografica, ma strategica, nel senso della prassi: «Se precisi e vigenti rapporti di potere, come il patriarcato o la whiteness, pur preesistenti al capitalismo, non vengono intesi sulla base dell’uso che ne fanno (o non ne fanno!) i capitalisti nella loro lotta per il profitto, sarà quasi inevitabile separare il campo etico-culturale del privilegio da quello materiale dello sfruttamento» (p. 44).

Se si separano i due campi, è inevitabile la frammentazione del fronte dei subalterni, perché le identità sfruttate sul piano economico ma percepibili come privilegiate sulla base della razza e del genere (e cioè il maschio bianco abile e cisgender appartenente alla classe lavoratrice), non potranno essere viste come compagne nella lotta, e le energie impiegabili in una auspicabile prassi trasformativa del sistema economico si esauriranno, nel migliore dei casi, nella riflessione sul proprio privilegio identitario (check your privilege). Così facendo, il compito non sarà più confrontarsi «con il capitale o con lo Stato che produce sfruttamento e oppressione, ma con il discomfort che il [proprio] privilegio può produrre nei [propri] stessi alleati» (p. 37): ideologia del safetyism che viene decostruita (vedi pp. 136 e sgg.) tramite il chiarimento della sua relazione con un contesto sociale segnato da grande precarietà economica (rispetto alla quale la sicurezza emotiva resterebbe l’ultimo privato rifugio dopo la scomparsa del welfare, cioè della sicurezza sociale) e competizione interpersonale. La condotta individuale votata al rispetto del benessere emotivo altrui e l’etica (ironicamente definita da Lukács come «la prassi dell’individuo isolato», come ricorda Cangiano) resterebbero dunque le uniche possibilità di azione dopo la fine dei progetti di radicale trasformazione sociale seguiti alla sconfitta storica del movimento operaio di fine ’900.

Che fare, dunque? E ciò che chi legge non può che attendersi dai capitoli finali (VIII-IX) del libro. Bene, questi suggeriscono innanzitutto di recuperare la categoria relazionale di classe contro quella individualizzante e vittimizzante di identità: «La classe è un posizionamento sociale che, con tutte le possibili differenze interne (di genere, razza ecc.), accomuna un gruppo di persone nella forma in cui si relazionano al modo di produzione (vendita della propria forza lavoro ecc.); e come tale, la classe in cui una persona ricade non è necessariamente fissata per la vita: deriva da ciò che fai, non da chi sei» (p. 149); in altre parole, di rovesciare il dispositivo della vittima in un nuovo paradigma della forza sociale: di finirla con la divisione del fronte dei subalterni su base identitaria e tentare una sua ricomposizione, come già ha invitato a fare Elisa Cuter, sulla base dei comuni obiettivi (e desideri) politici.[5]

Giglioli aveva visto nel «dispositivo vittimario» il più forte generatore di identità funzionante oggi: l’identità (essente, passiva) avrebbe preso il posto del soggetto (agente, attiva).[6] Come giustamente ricorda Cangiano, e ricollegandoci al paradosso da cui siamo partiti, nulla di meno marxista sarebbe stato, nelle prime epoche del capitalismo, interessarsi alla classe operaia in quanto oppressa. La classe operaia è centrale, nella lettura marxiana, in quanto è su di essa e sullo sfruttamento del suo lavoro che si basa l’intero sistema economico.

Un nodo attende ulteriore riflessione. Meglio: una domanda potrà essere formulata con maggiore radicalità. Se la risposta a questa domanda potrà venire soltanto dal terreno concreto delle pratiche di lotta, a questo libro dovrà molto la correttezza della sua formulazione. In un sistema, come il capitalismo, fondato sullo sfruttamento del lavoro, non può che essere ancora la working class «la categoria sociale centrale (insieme al capitale)» (p. 150). Se non questa, nessuna. E se così non fosse, del resto, non ci sarebbe alcuna possibilità, nemmeno teorica, di presa di controllo del modo di produzione capitalistico e della sua trasformazione.

Ma se il baricentro di questa classe si è modificato a misura dei mutamenti nella produzione, con la fine del fordismo, la delocalizzazione industriale, la terziarizzazione e la nuova centralità che il lavoro affettivo, relazionale, creativo e cognitivo ha nella produzione di valore nella nostra società (Cangiano ne è perfettamente consapevole); se «dobbiamo ora operare con tutta una serie di soggetti e gruppi sociali la cui relazione col modo produttivo, il cui essere classe, è meno evidente» (p. 160), allora bisogna forse tentare di trasformare le culture wars, da conflitti che dividono il fronte degli oppressi, in una lotta per l’egemonia all’interno del campo degli sfruttati. E si potrà farlo, anche grazie a questo libro, tramite la comprensione della dialettica tra oppressione e sfruttamento, e tramite la riconnessione della lotta culturale al piano materiale della produzione e del mercato capitalistico.

Il concetto di intersezionalità (esaminato nell’ultimo capitolo), emerso storicamente in risposta al problema della potenziale concorrenzialità fra le varie identità subalterne, non risolve il problema se riduce la classe, come fa la cultura woke, a un’identità oppressa tra le altre (insieme a genere, razza, ecc.). Riconsiderare l’intersezionalità materialisticamente, «cioè a partire dalla relazione che intratteniamo con produzione e mercato, non dalla condizione di vittima» (p. 168), implica allora uno sforzo ulteriore di individuazione dei soggetti che possano guidare la classe lavoratrice dopo la crisi di fine ’900. Se non può più farlo l’operaio industriale, marginalizzato (in questo caso sì) dall’automazione e dalla delocalizzazione industriale), potrebbero appunto essere le donne – in quanto, per ragioni storiche legate alla nostra società divisa e messa interamente al lavoro dal capitalismo, si trovano al centro del lavoro di relazione, riproduzione e cura, a sua volta centrale nel capitalismo contemporaneo – a guidare la classe lavoratrice globale del XXI secolo.

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Note:

[1] Cfr., di Daniele Giglioli, Critica della vittima, Milano, Nottetempo, 2014, e Stato di minorità, Roma-Bari, Laterza, 2015.

[2] Cfr., di Mark Fisher, Realismo capitalista (2009), trad. it., Roma, Nero, 2018, e Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. K-Punk/1, trad. it., Roma, Minimum Fax, 2020, in part. le pp. 153, 177, 291 e sgg.

[3] Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, Roma, Minimum Fax, 2020, p. 93.

[4] Daniele Giglioli, Stato di minorità, cit., p. 58.

[5] Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, cit., p. 198.

[6] Daniele Giglioli, Stato di minorità, cit., pp. 48 e passim.

LE DUE AGRICOLTURE: LE RAGIONI DEL DISAGIO

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Pubblichiamo questa lucida analisi di un gruppo di agricoltori lombardi, impegnati da tempi per delle soluzioni agroecologiche, sulle due agricolture italiane, apparsa ieri sul blog STORIEDELBIO, molto utile per capire le ragioni delle rivolte di queste settimane, e le possibili soluzioni (G.S.)

TRATTORI IN GIRO PER L’EUROPA… CONTRO L’EUROPA?

In questi giorni stiamo assistendo ad imponenti manifestazioni di agricoltori di tutta Europa, spesso spontanee e non facenti riferimento ad organizzazioni professionali e sindacali rappresentative, che portano all’attenzione della opinione pubblica e delle Istituzioni un profondo disagio della categoria.

Disagio legato in primis al profondo divario che c’è tra la quantità di lavoro e di passione presente nel ciclo produttivo agricolo e il reddito che ne deriva che, spesso, è pura sussistenza.

In moltissimi casi e in modo diffuso in tutta Europa queste manifestazioni hanno individuato la Politica Agricola Europea e, in particolare, la sua recente evoluzione greening, come la responsabile di questa dicotomia. E’ stato facile, per l’avanzante populismo e nazionalismo europeo con alcune tragiche presenze di estrema destra come in Germania, cavalcare queste proteste in funzione anti europea in vista delle prossime elezioni, nella speranza di un tornaconto elettorale.

Gli agricoltori firmatari di questa lettera credono che le ragioni del disagio siano molto più complesse e che sia necessario uno sforzo analitico importante per far che si che queste proteste creino il presupposto per affrontare il problema in modo serio e non in funzione del beneficio elettorale di qualche forza politica lasciando ai tantissimi partecipanti alle manifestazioni soltanto l’amaro in bocca.

LE DUE AGRICOLTURE

Fin dagli anni sessanta si è andata delineando una tendenza, ormai diventata strutturale, di una netta separazione tra una agricoltura delle grandi superfici, dei grandi numeri economici, della capacità di investimento e di accesso al credito, legata a commodities come cereali, carne, latte … ma anche frutta e orticoltura, che per semplicità chiameremo Agroindustria e, dall’altra parte, una agricoltura familiare molto legata al territorio, spesso marginale, di collina e di montagna ma non solo, con volumi produttivi spesso insufficienti a garantire investimenti, ma con un beneficio sociale immenso derivante dal presidio di un territorio spesso non agevole ma prezioso. Questa, sempre per semplicità, la chiameremo Agricoltura Contadina.

Le politiche agricole, nel corso degli ultimi 50 anni, hanno tendenzialmente trattato queste due agricolture nello stesso modo con il risultato di renderne sempre più forte il divario.

Dai dati ISTAT dell’ultimo censimento, si evince che le aziende familiari di piccole dimensioni si sono dimezzate, mentre le altre si sono rafforzate, non nel numero, ma nelle dimensioni, diventando sempre più grandi, più efficienti, con grandi capacità di avanzamento tecnologico e di incidenza sui mercati.

Una parziale risposta delle piccole aziende alla crisi è stata l’introduzione delle cosiddette “attività connesse”: quali la trasformazione e vendita diretta dei prodotti, l’agriturismo, l’ospitalità, le attività didattiche e sociali ecc, che hanno dato respiro a quelle aziende che, per vari motivi, si sono trovate nella condizione di utilizzare questa opzione creando non solo reddito ma anche occupazione.

Il rapporto diretto con i cittadini ha creato possibilità di scambi culturali e progetti condivisi.

LA POLITICA COMUNITARIA

Fino a pochissimo tempo fa e cioè prima della proposta del nuovo regolamento comunitario, la politica comunitaria, attraverso l’applicazione del sistema dei contributi, non ha quasi per nulla tenuto conto delle differenze tra le due agricolture: tanta più superficie avevi, tanto più contributo prendevi (primo pilastro) indipendentemente dalla tipologia della produzione, dal valore ambientale di questa, dal beneficio sociale in termini di occupazione ecc, riservando la parte di aiuto o all’investimento strutturale o al beneficio ambientale (es. biologico) una quota minoritaria del suo bilancio (secondo pilastro).

Questo bilancio, che in termini relativi assorbiva ben il 50% di tutte le risorse comunitarie e oggi si attesta sul 25%, in termini assoluti è rimasto invariato intorno ai 55 miliardi di euro l’anno (provenienti dalle tasse dei 400 milioni di cittadini).

Con la nuova programmazione, la UE ha cercato di invertire la tendenza consolidata diminuendo progressivamente i contributi a superficie (primo pilastro) e creando sistemi di integrazione al reddito vincolati ad alcuni obiettivi di carattere generale e legati ad bisogni di protezione ambientale, di benessere animale e di salute del cibo e dei consumatori.

LA QUESTIONE AMBIENTALE

Mentre il settore agricolo in questi anni si dibatteva da un lato nella ricerca di sempre maggiore produttività ed efficienza (agroindustria per semplificare) e dall’altro nella diversificazione e nella territorialità (agricoltura contadina sempre per semplificare), nella società europea prendeva sempre più rilievo e consapevolezza la questione ambientale.

Aree vaste con problemi di inquinamento delle acque superficiali e profonde, gravi carenze idriche, diminuzione della fertilità dei suoli, con alcuni casi di “desertificazione”, immissioni di CO2 e ammoniaca nell’atmosfera, presenza di metalli pesanti ecc. con conseguenze importanti sulla salute dei cittadini.

Una parte di queste problematiche ricade sulla responsabilità del settore agricolo, soprattutto in aree di grande concentrazione produttiva in corrispondenza di elevate concentrazioni antropiche (es. pianura padana, nord della Germania, Olanda e Danimarca, significative aree in Spagna e Francia ecc) per cui la UE, sotto la spinta dell’opinione pubblica e delle necessità epidemiologico-sanitarie, ha legato le sovvenzioni ai settori produttivi sia agricoli che industriali, a comportamenti ambientalmente sostenibili e ormai indilazionabili anche in funzione dei cambiamenti climatici.

Per il settore agricolo questo si è concretizzato in alcuni nuovi obblighi se si vuole continuare ad aver accesso ai contributi (rotazione obbligatoria delle colture, inerbimento invernale, diminuzione dell’apporto chimico di sintesi) e in alcuni obiettivi facoltativi coperti da risorse specifiche (agricoltura biologica, benessere animale, protezione delle api ecc). A nostro giudizio condizioni che, se correttamente sostenute e applicate, non vanno a deprimere i redditi (che sono depressi per altri fattori), ma addirittura li possono sostenere.

QUALI POLITICHE

A nostro giudizio sarebbe grave se la UE abbandonasse, sotto la spinta della protesta e rispondendo pavida a spinte populiste, la visione di una agricoltura agroecologica che fa la sua parte nella difesa dell’ambiente e contribuisce alla lotta ai cambiamenti climatici riducendo in modo progressivo la propria impronta ecologica.

Questo può avvenire se si tiene ben presente quanto esposto precedentemente: l’agricoltura “agroindustriale” ha bisogno di forte sostegno nella riduzione dell’impatto chimico, nell’adeguamento tecnologico al fine di ridurre le emissioni, nella diminuzione delle concentrazioni eccessive di animali da reddito in certe aree sensibili, nell’avere protezioni assicurative contro le calamità ecc; l’agricoltura “contadina” di piccole dimensioni, familiare, di aree interne, quella che si rivolge a mercati locali e che produce beni originali e fortemente legati alla territorialità e offre servizi ai cittadini, ha tutt’altri bisogni: semplificazione burocratica, servizi sanitari e sociali di prossimità, sostegno alle condizioni impervie (montagna), sostegno alle produzioni di nicchia, sostegno alla diffusione e implementazione di tecniche agro-ecologiche, servizi gratuiti di assistenza tecnica e soprattutto un sostegno al reddito che ne riconosca il valore sociale, ambientale ed ecosistemico. Senza di ciò questa agricoltura sparirà in un breve lasso di tempo.

Ci vogliono quindi due politiche differenziate, ma integrate.

Una riduzione della tassazione indifferenziata può diventare un ulteriore fattore positivo per grandi aziende che già fanno reddito, ed essere al contempo insufficiente per aziende che non superano la sussistenza.

L’Europa da sessant’anni, attraverso i denari impiegati nella Politica Agricola, ha contribuito ad una crescita complessiva del settore, ad una sua valorizzazione professionale, alla difesa degli spazi non edificati con il semplice permanere degli agricoltori sul territorio.

Oggi questo tipo di politica non risponde più ai bisogni del settore e può contribuire ad acuire le differenze tra le agricolture: contributi indifferenziati premiano solo le grandi aziende e marginalizzano le piccole. Ad esempio dare lo stesso premio capo/vacca sull’ecoschema1 ad una azienda di mille vacche e ad una di cinquanta, magari in zona svantaggiata, non ha senso.

Per affrontare con serietà queste problematiche ci vorrebbe una classe dirigente non legata a facili slogan e a interessi di brevissima portata e spesso in funzione di labili vantaggi elettorali.

Anche le Organizzazioni Professionali agricole hanno la responsabilità di non accodarsi a questi facili slogan, ma di guidare un profondo processo di ridefinizione del ruolo dell’agricoltura nella attuale fase economica, sociale e soprattutto ambientale.

Non è, a nostro giudizio, negando e ricusando una politica per altro moderatamente greening che si risolvono queste contraddizioni. Anzi il rischio è di dare un contentino alla protesta senza aggredire la sostanza dei problemi.

Dario Olivero Renata Lovati Cascina Isola Maria, Albairate

Gabriele Corti Cascina Caremma Besate

Alberto Massa Saluzzo Presidente Distretto Dinamo

Fabio Di Stefano Il Frutteto Botanico Albairate

Raffaele De Cechi Cascina Lema Robecco sul Naviglio

Alberto Bosoni Società Agricola del Parco Abbiategrasso

Giovanni Molina Agronomo Vigevano

Tommaso Gaifami Agronomo Milano

Niccolò Reverdini Cascina Forestina Cisliano

Massimo,Camilla Crugnola Orti bio Broggini Varese

Frontiere, innesti, migrazioni. Alterità e riconoscimento nella letteratura

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[Per Pacini è uscito La pratica del commento 4. Frontiere, innesti, migrazioni. Alterità e riconoscimento nella letteratura, a cura di Tiziana de Rogatis. L’indice del volume, che ospita contributi di vari autori e autrici, è consultabile qui. Pubblichiamo l’introduzione della curatrice].

di Tiziana de Rogatis

I testi e le letture che compongono questo volume formano la quarta tappa di un progetto sul commento avviato nel 2014 da Daniela Brogi, Pietro Cataldi, Giuseppe Marrani e da chi cura questo libro. Rispetto agli altri tre volumi da noi pubblicati all’interno di tale progetto, questo quarto rilancia il valore del commento dalla prospettiva attuale e scottante dello straniero e della xenofobia. Una questione che sta sollecitando la rinascita di antichi nazionalismi e sta facendo erigere nuove frontiere geografiche, politiche e ideologiche nel territorio dell’Unione Europea e nel mondo. Le migrazioni e le convivenze multiculturali e multietniche sono assediate oggi da semplificazioni, retoriche, manipolazioni e menzogne mediatiche di diverso orientamento. In un simile contesto storico, la pratica del commento permette di restituire alla parola sullo straniero un fondamento condiviso, perché radicato nella semantica, e – al contempo – una apertura problematica, perché garantita dalla polisemia.

I testi qui commentati si succedono in senso cronologico dal Duecento fino all’immediata contemporaneità, attraverso una prospettiva che intreccia la letteratura italiana con altre lingue e culture in chiave transnazionale e globale. Tramite le scelte testuali e i commenti delle studiose e degli studiosi che hanno collaborato a questo volume, desideriamo individuare le frontiere linguistiche, simboliche e geografiche delle migrazioni e delle soggettività straniere o ibride del passato e del presente. Desideriamo capire le parole di queste opere nel loro spessore di significati che possono essere sia radicalmente altri, distanti, sia profondamente vicini e affini. L’insieme di questo volume vuole essere al tempo stesso una esperienza di sprofondamento nel passato remoto e prossimo e una esperienza di riemersione nel presente: una dislocazione rigorosa, dunque, ma anche audace e perturbante.

Il discorso sullo straniero varia in modo significativo a seconda del tipo di identità nazionale e linguistica che ogni Paese ha maturato1. Da un punto di vista letterario, l’Italia è stata per secoli una «patria immaginaria»2, il cui straordinario repertorio linguistico e culturale ha tuttavia consentito una possibilità di identificazione con un progetto politico arrivato a compimento solo 162 anni fa. In questo senso, l’Italia rappresenta nel panorama europeo un’eccezione, dal momento che ha conseguito la sua Unità molto tardi e ha di conseguenza prodotto una politica coloniale non meno feroce, e tuttavia breve e postuma rispetto ai secolari imperi e alle altrettanto secolari predazioni della maggior parte dei Paesi europei. Altri tratti di irregolarità italiani sono individuabili nella notevole varietà dialettale e nella potenziale appartenenza del cittadino alla regione ancor prima che alla nazione, nella insoluta questione meridionale (con le conseguenti divisioni e asimmetrie tra Nord e Sud e migrazioni da Sud a Nord), nelle ideologie antagoniste e nelle ambivalenti forme di resistenza al processo di aggregazione e disciplinamento dello Stato3. Essendo quindi ancora oggi un Paese centrifugo, composto in una certa misura da stranieri che imparano a convivere, l’Italia è sia un Paese esposto alle derive nazionaliste e xenofobe che stanno investendo l’Europa sia un laboratorio di inclusione che può sperimentare nuovi percorsi di riconoscimento rispetto all’emergenza migratoria. La prospettiva italiana del nostro percorso toccherà quindi alcuni punti della rappresentazione dello straniero nel nostro immaginario nella nostra letteratura e nella nostra identità nazionale, visti da dentro e da fuori.

Il volume prende avvio dallo statuto contraddittorio dello straniero nella letteratura cavalleresca (Stefanelli) e prosegue delineando il nuovo paradigma dell’alterità codificato da Marco Polo nel Devisement dou Monde/Milione (Burgio). Altre tappe del nostro discorso sono: le strategie linguistiche del «Conciliatore» tra il 1818 e il 1819 e la censura imposta dallo straniero invasore, gli austriaci (Salvatore); la narrazione da Sud di un Meridione estraneo e/o colonizzato dal grande progetto dell’unificazione nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (Di Gesù); la nuova percezione delle frontiere dopo la Seconda Guerra mondiale, dalla prospettiva del rimpatrio postbellico degli ebrei sopravvissuti alla shoah e di un intero mosaico di popoli europei in movimento nella Tregua di Primo Levi (Baldini); le forme del trauma migratorio e del translinguismo nel dispositivo testuale del traduttore in La mia casa è dove sono di Igiaba Scego (de Rogatis). Allo straniero, visto dall’interno e dall’esterno di questo spazio nazionale, il volume accosta e intreccia alcune tappe dell’alterità e/o del riconoscimento nelle altre letterature; tappe spesso connesse a questioni traduttologiche e dunque a pratiche di confine tra le culture. È il caso, per esempio, della ricostruzione dell’estraneo e dell’estraneità nel Rulin waishi, capolavoro del Settecento cinese commentato dal punto di vista delle sue traduzioni (Di Toro). Un analogo nesso tra commento e traduzione, nel quale l’uno rafforza e valorizza l’altro, è anche nel contributo che investiga il mito dell’alterità nella Saison en enfer di Rimbaud (Tajani). La traduzione è una prospettiva privilegiata anche nel commento a Amatissima (Beloved) di Toni Morrison, laddove si insiste sull’atto traduttivo «come luogo in cui accogliere la differenza e dare ospitalità all’estraneo» (Cavagnoli). L’analisi testuale di Bieguni, narrazione per frammenti di Olga Tokarczuk, apre con un’importante riflessione sul titolo. I bieguni – membri di una storica setta mistica russa, dedita al viaggio – si pongono infatti come metafora dell’erranza e del suo valore ambivalente nel mondo contemporaneo (Tomassucci). Infine, il contributo che si occupa della Trilogia di Amitav Ghosh (Sea of Poppies; River of Smoke; Flood of Fire) è l’occasione preziosa per rovesciare il punto di vista occidentale etnocentrico sullo straniero e per fare esperienza di una disseminazione dell’estraneità, oggi espressa dalla migliore tradizione ibrida post-coloniale. Da questo punto di vista ibrido – per esempio, nel caso di Ghosh, anglo-indiano – l’estraneità non è solo violenza e orrore ma anche tratto resistenziale, eversivo e creativo (Spandri).

Anche le parole-chiave (frontiere innesti migrazioni alterità riconoscimento) che compongono il titolo di questo volume sono state scelte a partire dall’attualità. A partire, quindi, per un verso dalla attuale emergenza delle migrazioni e delle diverse forme di xenofobia reattiva alle migrazioni e, per l’altro, a partire dalle diverse forme di innesti: quelle aree ibride di metamorfosi delle identità e dei linguaggi, generate dalle migrazioni. Nella restante parte di questa introduzione, situerò quindi nel dibattito multiculturale contemporaneo queste parole chiave e sottolineerò il loro senso complessivo, il loro stare in relazione in un paesaggio complessivo. In questo modo, lettrici e lettori di questo volume potranno tracciare la persistenza o la discontinuità di tale paesaggio all’interno dei singoli contributi del volume. Secondo competenze e punti di vista diversi, autrici e autori di questi contributi hanno valorizzato nelle opere in esame la trasformazione e (spesso) la sovversione creativa di queste parole chiave: il loro tradursi in forme e dispositivi testuali polisemici. Lettrici e lettori potranno quindi verificare il potere ambiguo eppure intensamente liberatorio dell’immaginazione letteraria: la sua capacità di aggirare, sfumare, sospendere ma anche trasformare o rovesciare i rapporti di forza interni a tale paesaggio. Al tempo stesso, tracciando la metamorfosi nei testi di queste parole chiave è possibile fare esperienza del modo in cui il commento rivela e valorizza la sedimentazione dei contenuti nelle forme.

Non è un caso che la terza parola-chiave del nostro titolo sia migrazioni. I dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) sottolineano una drammatica evidenza. Nel giro di dieci anni, il numero mondiale dei profughi è più che raddoppiato, passando dai 41 milioni del 2010 ai 108,4 milioni del 2022[4]. Più della metà di questi 108,4 milioni sono profughi all’interno del proprio stesso Paese (62,5 milioni). La parte restante vive invece nella condizione più radicale della diaspora, cioè della dispersione in varie parti del mondo di un popolo costretto ad abbandonare la propria sede di origine.

Secondo Arjun Appadurai, la nostra età globale e multiculturale è quindi definibile attraverso la parola «etnorama» – dove «il suffisso -orama permette di indicare la forma fluida e irregolare di questi panorami» – o, in inglese, «ethnoscape» (da «scape», con un rinvio all’idea di scenari in movimento). Questa parola composta definisce «quel panorama di persone che costituisce il flusso mutevole in cui viviamo: turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti, e altri gruppi e individui in movimento»5. L’ethnoscape è «la demografia del nuovo internazionalismo», la cui ampia rilevazione include «la storia della migrazione post-coloniale, della narrazione di una diaspora culturale e politica, degli enormi spostamenti di comunità contadine e aborigene, della poetica dell’esilio, della prosa spietata di rifugiati politici ed economici»6. Porre l’accento sull’ethnoscape non vuol dire ignorare che molte parti del mondo continuano a essere modellate da un tessuto di relazioni e strutture sociali stabili e monologiche. Vuol dire, piuttosto, tenere presente che «la trama di queste stabilità è percorsa ovunque dall’ordito del movimento umano, quanto più persone e gruppi affrontano la realtà di doversi muovere, o la voglia di volerlo fare»7.

Dalla prospettiva di Ulrich Beck, all’origine di questo quadro di ethnoscape, c’è la «società del rischio»8, vale a dire l’assetto di una economia globale neoliberista e neocoloniale sempre più orientata a speculare cinicamente sulle risorse, sui limiti e sulla sopravvivenza degli esseri umani e della Terra. I dati della società globalizzata fanno emergere: un aumento progressivo delle disuguaglianze tra gli individui e tra le nazioni; una concentrazione sempre più oligarchica delle ricchezze; un aggravarsi della crisi climatica; un estendersi della privatizzazione delle risorse naturali; un impoverimento progressivo delle agricolture dei Paesi a basso reddito; una crisi politica sistemica nelle aree del Global South; dalla prospettiva occidentale, una deterritorializzazione delle aziende, una perdita dei loro prelievi fiscali e un conseguente impoverimento del welfare nazionale9.

Ritornando ora ai dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il 52% degli attuali flussi di rifugiati proviene da tre soli Paesi: Siria, Ucraina e Afghanistan. Ma se poi guardiamo quali sono i primi cinque Paesi che ospitano i rifugiati nel mondo abbiamo una sorpresa. Collocata al quarto posto – preceduta da Turchia, Repubblica Islamica dell’Iran e Colombia e seguita dal Pakistan (tutti Paesi da un punto di vista geografico limitrofi a importanti diaspore) -, compare la Germania: è l’unica nazione occidentale, e dunque ad alto reddito, che con 2 milioni e 100.000 rifugiati rientra nella graduatoria dei primi cinque Paesi del mondo chiamati a reggere il peso economico e sociale delle migrazioni da diaspora10.

Se sono comparativamente bassi i numeri dell’accoglienza dei rifugiati in Europa, sono invece molto alte le frontiere che l’Europa ha eretto proprio per impedire l’accesso a questi flussi migratori. In particolare, tra il 2012 e il 2019, molti Stati dell’Unione Europea hanno eretto barriere anti-migranti ai loro confini per centinaia di chilometri11. Secondo Alessandro Leogrande, queste barriere hanno generato all’interno del territorio dell’Unione Europea delle vere e proprie faglie simboliche: «ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre».12 Le crepe frammentano infatti uno spazio, quello europeo, che con l’Unione di Schengen si era dichiarato totalmente unito, coeso e attraversabile senza passaporti.

La faglia in movimento è la «Frontiera» – prima parola-chiave di questo volume -, la mappa mobile delle barriere:

La Frontiera non è un luogo preciso, piuttosto è la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento, che coincidono con la possibilità di finire da una parte o rimanere nell’altra. […] La Frontiera corre sempre nel mezzo. […] Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai13.

Una dinamica simbolica e spaziale importante della frontiera è quella tra il dentro e il fuori, tra chi è interno al fortino Europa e chi viene relegato al suo esterno: «per molti la Frontiera è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere»14. Sulla base di queste recenti derive europee di nazionalismo e di «primordialismo»15 – derive sollecitate, secondo Appadurai, da retoriche viscerali della difesa della patria, della lingua e del sangue – riacquista oggi un ruolo importante la parola straniero e purtroppo proprio nel suo sedimento etimologico di marginalità e di esclusione etnocentrica. Lo straniero è infatti nel suo etimo latino ‘extraneus’, esterno ed estraneo, ed è anche associato in italiano e in altre lingue europee all’area dello ‘strano’: étranger/étrange; stranger/strange; Fremder/fremd16.

Questa scottante attualità del rapporto dell’Europa con lo straniero, questo definire e segregare l’alterità – quarta parola-chiave di questo volume – attraverso una frontiera sta d’altronde già in una tappa decisiva del rapporto dell’Europa con l’extraneus, documentato dalla Giunta di Valladolid, dalle trascrizioni delle sue sedute17 e dalla ricerca di Tzvetan Todorov su Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de las Casas, i principali protagonisti della storica conferenza18. Nel 1550, Carlo V d’Asburgo – imperatore del Sacro Romano Impero – convoca in Spagna, a Valladolid, una Giunta di esperti in diritto e in teologia, per stabilire se i nativi dell’America siano barbari da sottomettere o individui liberi da convertire con il buon esempio. Cinquantotto anni dopo la scoperta dell’America, una disputa tra due fronti opposti formalizza quindi le logiche di dominio grazie alle quali gli europei stanno subordinando per la prima volta in modo sistematico ed estensivo l’altro. Da una parte, secondo il filosofo e giurista Juan Ginés de Sepúlveda i nativi dell’America del Nord e del Sud (i cosiddetti ‘indiani’ o ‘indios’ d’America) sarebbero senz’altro «barbari». Andrebbero quindi sottomessi e dominati con la forza, sulla base della naturale gerarchia sociale voluta da Dio19. Dall’altra, il sacerdote Bartolomé de las Casas sostiene che tutti gli esseri umani sono per natura uguali e «liberi» davanti a Dio, e di conseguenza lo sono anche i nativi20. Dal punto di vista di Las Casas, le differenze saranno infatti livellate con l’educazione e la spontanea conversione al cattolicesimo dei nativi, cui essi si sarebbero mostrati – a suo dire – intrinsecamente inclini21. Il cattolicesimo umanitario del sacerdote è ben diverso dal feroce razzismo di Sepúlveda e dai biechi interessi di sfruttamento di cui questo filosofo si fa portavoce. Non a caso, Las Casas ammonisce continuamente la Giunta di Valladolid contro il rischio di un cattolicesimo imposto con la forza dai coloni: «gente di guerra, assassini, razziatori, conquistatori»22. Entrambe le posizioni presuppongono tuttavia una scala di valori che pretende di essere universale, ma è in realtà falsamente universale: una scala di valori esemplata sul modello dell’uomo bianco, europeo e cattolico. Come sottolinea Beck23, questo falso universalismo tende a identificare la differenza dagli europei come il valore minimo e la somiglianza con loro come il valore massimo. Da questa prospettiva, Sepúlveda enfatizza la differenza tra nativi ed europei; Las Casas la somiglianza. Nessuno dei due – secondo Beck – prende però in considerazione la possibilità che l’altro possa essere sia differente sia uguale e che quindi l’umanità dei nativi abbia sia radicali differenze sia forti somiglianze rispetto all’idea di umano postulata dagli europei. Questa polarità tra differenza estrema e somiglianza estrema continua a ripetersi nel rapporto etnocentrico e assimilazionista dell’Occidente con l’altro, ed oggi è quanto mai attuale. La dottrina dei valori universali, vale a dire il ritenere e rappresentare i valori della modernità occidentale come valori assoluti, integralmente positivi e progressivi, cui l’altro si deve assimilare è permeata di colonialismo e di neocolonialismo.

Alla frontiera dell’extraneus si contrappone tuttavia la frontiera del «Terzo Spazio», dell’«innesto» – seconda parola-chiave di questo volume – e delle appartenenze ibride. La parola «innesto» è ispirata al passaggio di un discorso della scrittrice translingue Jhumpa Lahiri. Si tratta della lectio magistralis tenuta da Lahiri all’Università per Stranieri di Siena, in occasione della sua laurea honoris causa nel 2015. In un punto decisivo del discorso, poi pubblicato con il titolo Tre ultime metafore, Lahiri cita la scrittrice Elena Ferrante, che in un suo romanzo (La figlia oscura) fa parlare una madre travolta da una crisi esistenziale  profonda. Questa  donna, di  nome  Leda, definisce le sue figlie «un innesto sbagliato»24. Riprendendo tale metafora, Lahiri, una delle voci più autorevoli del «cosmopolitismo radicato»25 di oggi, afferma:

Sono io stessa frutto di un azzardato innesto geografico, culturale. Scrivo fin dall’inizio di questo tema, quest’esperienza, questo trauma. L’innesto mi spiega, mi definisce. E ora che scrivo in italiano sono diventata un innesto anche io26.

L’«innesto» è questo punto di vista plurimo e poliprospettico, questa nuova e precaria zona di frontiera, delineata e abitata dai mondi postcoloniali delle migrazioni, delle diaspore, dei translinguismi. Nella visione di Homi Bhabha, l’«innesto» è un «Terzo Spazio» («a Third Space»)27: una categoria che ricorre non a caso in tre dei contributi inclusi in questo volume (Cavagnoli, de Rogatis, Spandri). Il terzo spazio si trova al confine tra il primo spazio dei colonizzatori e il secondo spazio dei colonizzati, tra la violenza dell’assimilazione colonizzatrice e la nostalgia di una perdita originaria, di un purismo delle origini, spesso espressa dai colonizzati. Il terzo spazio è un «interstizio», abitato da identità ibride: sono individui «in-between», che vivono una costante «estraneità al domestico». Questa «unhomeliness» si riferisce alla tendenza a sradicarsi, a perdere la propria identità di partenza come quella di arrivo, ma si riferisce anche alla possibilità di riscrivere attivamente la propria storia personale proprio a partire da tale esperienza di perdita e spaesamento. Dove c’è «estraneità al domestico» non ci può essere idealizzazione dell’origine, pretesa di un legame incorrotto con la tradizione, ma ci sono sia una origine sia una tradizione28. Da questa prospettiva, viene ripensato anche il concetto di differenza, che ha sempre in sé qualcosa di perturbante: «la differenza è questo spazio che sta nel mezzo, che viene sviluppato mediante la sovversione e il mascheramento». Essa va vista «come una negoziazione complessa e continua». Secondo Bhabha, il multiculturalismo deve negoziare tra le differenze avendo come obiettivo il processo stesso di confronto e conflitto e non quello puramente finalistico di una traduzione totale. La differenza diventa quindi un punto di vista che si oppone sia all’addomesticamento dell’assimilazionismo sia all’isolamento delle diversità, proprio di un certo multiculturalismo iper-relativista e falsamente irenico: un’altra questione scottante della nostra contemporaneità29.

Dal punto di vista dell’emergenza di oggi, quali sono le identità ibride del terzo spazio? L’ibridità può essere, per esempio, un tratto creativo dei nostri studenti di seconda e terza generazione, nati in Italia – come Igiaba Scego – da una prima o seconda generazione immigrata oppure arrivati in questo Paese da bambini. Secondo i dati del report Miur 2021/2022, sono quasi un milione (865.388) tra scuole per l’infanzia e secondarie superiori: il 10% della popolazione scolastica totale30. Sono studenti translingui e portatori di appartenenze inclusive, sono sia italiani sia di un altrove, ma sono di cittadinanza non italiana almeno fino alla maggiore età e fino alla conclusione di una procedura di riconoscimento troppo complessa, spesso fallimentare. Sono coloro cui l’Italia nega da anni lo ius culturae.

Se Bhabha ci mette in guardia dal rischio degli essenzialismi e della nostalgia verso le origini incorrotte cui sono potenzialmente esposte le comunità di migrazione, in modo analogo Amartya Sen contesta il «monoculturalismo plurale». Con questa formula, Sen definisce e critica l’idea di una società multietnica nella quale le diverse culture «viaggiano una accanto all’altra come navi nell’oscurità»31. Sen polemizza in particolare verso le più recenti politiche britanniche, che avrebbero generato il «monoculturalismo plurale». Negli ultimi venti anni, i Governi inglesi avrebbero infatti investito i fondi statali in politiche multiculturali quasi esclusivamente finalizzate a rafforzare nelle comunità di migrazione la forma monologica e purista delle radici culturali32. Il «monoculturalismo plurale» classifica gli esseri umani «in base alle tradizioni ereditate (in particolare alla religione ereditata) dalla comunità in cui sono nati, dando per scontato che quella identità non scelta abbia automaticamente la priorità su altre affiliazioni legate alla politica, alla classe, al genere, alla lingua, alla letteratura, ai coinvolgimenti sociali e a molte altre cose»33. Si produce così una ghettizzazione delle diversità etniche nelle loro origini: nei quartieri periferici delle metropoli occidentali e nelle derive identitarie essenzializzate. Al contrario del «monoculturalismo plurale», il multiculturalismo si basa invece, proprio come le parole-chiave di questo volume, su una forma di inter-relazione, di coesistenza, di invenzione e supporto del «terzo spazio» e delle sue tante appartenenze ibride.

Dal punto di vista storico, l’extraneus è stato dunque per l’Occidente l’umano non umano di Sepúlveda oppure, nella migliore e comunque meno frequente delle ipotesi, l’umano troppo umano di Bartolomé de Las Casas: oggetto di pregiudizi e proiezioni positive, idealizzanti, ma non per questo meno collusi con il dominio coloniale. La modernità postcoloniale ha invece aperto la strada ad una idea plurale e relazionale di umano, quella degli individui reciprocamente coinvolti in una dinamica di alterità e di «riconoscimento», quinta e ultima parola-chiave del nostro titolo. Come sottolinea Charles Taylor nel 1994, «la nostra identità è plasmata, in parte, dal riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone»:

Un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, una immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia34.

Siamo ancora lontani quindi da una idea reciproca, simmetrica e reversibile di «riconoscimento». Alla linea trasversale di un multiculturalismo che è – nella migliore delle ipotesi – plurale e – nella peggiore – eterogeneo e frammentato si contrappone una linea verticale, incisa da disuguaglianze socio-economiche, da gerarchie linguistiche, da pregiudizi, stereotipi razziali e di genere. Il campo di forze tra comunità di maggioranza e comunità di minoranza e tra le minoranze interne alle comunità di minoranza – evocato da Charles Taylor nel 1994 – è tuttora il nodo irrisolto delle odierne democrazie multiculturali.

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Note:

1     U. Melotti, Migrazioni internazionali. Globalizzazione e culture politiche, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 1-14.

2      S. Rushdie, Patrie immaginarie, traduzione di C. di Carlo, Milano, Mondadori, 1991.

3     Melotti, Migrazioni internazionali, cit.

4     UNHCR (edited by), Global Trends. Forced Displacement in 2023 https://www. unhcr.org/global-trends-report-2022, p. 2 (ultimo accesso: 22 settembre 2023); UNHCR (edited by), Global Trends. Forced Displacement in 2020 https://www.unhcr.org/5ee200e37/, p. 2 (ultimo accesso: 22 settembre 2022).

5    A. Appadurai, Modernità in polvere, traduzione di P. Vereni, Milano, Cortina, 2012, p. 46.

6    H. Bhabha, I luoghi della cultura, traduzione di A. Perri, Roma, Meltemi, 2001, p. 16.

7     Appadurai, Modernità in polvere, cit., p. 47.

8      U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, traduzione di V. Privitera, Roma, Carocci, 2013.

9     Ibidem.

10     UNHCR (edited by), Global Trends. Forced Displacement in 2023 https://www. unhcr.org/global-trends-report-2022, pp. 2-3 (ultimo accesso: 22 settembre 2022).

11     B. Tertrais-D. Papini, Atlante delle frontiere. Muri conflitti migrazioni, traduzione di M. Aime, Torino, Add, 2018.

12     A. Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 39-40.

13     Ivi, pp. 40 e 314.

14     Ivi, p. 314.

15     Appadurai, Modernità in polvere cit., pp. 184-186.

16     R. Ceserani, Lo straniero, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 24.

17     B. de Las Casas- J. G. de Sepúlveda, Disputa sugli Indios. La giunta di Valladolid, traduzione e cura di S. de Liso, Bari, Montella, 2020.

18 T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, traduzione di A. Serafini, Torino, Einaudi, 1984.

19 «Questi barbari sono inferiori agli spagnoli come i bambini son inferiori agli adulti e le donne agli uomini» ( J. G. de Sepúlveda, Del Reino y los Deheres del Rey, in Tratados politicos, Madrid, Institutos de Estudios Politicos, 1963, p. 33; traduzione di A. Serafini in T. Todorov, La conquista dell’America, cit., p. 185)

20 «Tutti gli indiani che vi si trovano devono essere considerati liberi, perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cui io stesso sono libero» (B. de Las Casas, Carta al príncipe Felipe – 20 de abril de 1544, in Opuscolos, Cartes y Memoriales, Madrid, Biblioteca de Autores Españoles, 1958; traduzione di A. Serafini in Todorov, La conquista dell’America cit., p. 196).

21 «Mai non si videro in altre epoche, o presso altri popoli, tanta capacità, tanta disposizione, tanta facilità per questa conversione» (B. de Las Casas, Carta al Consejo de Indias – 20 de enero de 1531, ivi; traduzione di A. Serafini in Todorov, La conquista dell’America cit., p. 198).

22 B. de Las Casas in B. de Las Casas – J. G. de Sepúlveda, Disputa sugli Indios, cit., p. 389.

23 U. Beck, Il cosmopolitismo radicato, in La società cosmopolitica. Prospettive dell’epoca postnazionale, traduzione di C. Sandrelli, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 133-150, pp. 144-146.

24     E. Ferrante, La figlia oscura, Roma, e/o, 2015, p. 59.

25     Beck, Il cosmopolitismo radicato, cit., pp. 144-146.

26     J. Lahiri, Tre ultime metafore, in D. Balicco (a cura di), Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2016, p. 24.

27  H. Bhabha, I luoghi della cultura, cit., p. 58.

28     Ivi, p. 12n, 22 e 22n.

29     Ivi, pp. 89, 13.

30 Miur (a cura di), Gli alunni con cittadinanza non italiana a. s. 2020/2021, in https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/NOTIZIARIO_Stranieri_2021+%281%29. pdf/150d451a-45d2-e26f-9512-338a98c7bb1e?t=1659103036663 (ultimo accesso: 22 settembre 2023).

31 A. Sen, Identità e violenza, traduzione di F. Galimberti, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 158, XV.

32 Ivi, pp. XII-XV, 14-16, 158-163.

33 Ivi, p. 152.

34 Ch. Taylor, La politica del riconoscimento, in Ch. Taylor-J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, traduzione di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli, 2007, 9.

 

“Vittime senza giustizia, almeno la memoria” di Anna Paola Moretti

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I QUADERNI DEL CONSIGLIO
Collana editoriale del Consiglio regionale delle Marche [2023]

di Orsola Puecher

Anna Paola Moretti, storica della memoria e della deportazione femminile, [⇨ Considerate che avevo quindici anni. Il diario della prigionia di Magda Minciotti tra resistenza e deportazione, ed. affinità elettive 2017], in questa nuova indagine Vittime senza giustizia, almeno la memoria Angela Lazzarini e Virginia Longhi fucilate dai fascisti nel Montefeltro del 1944 ricostruisce con la consueta accuratezza, fra documenti, archivi e ricerca di testimonianze sul campo, la vicenda di due giovani donne martiri del nazifascismo nel pesarese: Angela Lazzarini a Macerata Feltria e Virginia Longhi a Pennabilli.

Vicende piccole, fra le moltissime poco note, per anni travisate e dimenticate, ma che contribuiscono proprio per questa capillarità con ancora maggiore forza a sfatare  quella trita, millantata e pretesa differenza fra il fascismo degli “italiani brava gente” e il nazismo “male assoluto”, che ancora inquina la storia e la politica italiana. E che impedisce, quasi con un sussulto genetico che blocca in una smorfia di pietra l’apparato fonatorio, agli attuali governanti di destra di riuscire a dichiararsi antifascisti. Nel limitarsi a condannare le leggi razziali e il nazismo c’è un’antica ipocrisia, una mancanza irrimediabile ma voluta di diffusione della conoscenza della storia di una dittatura, il fascismo, altrettanto feroce e disumana di quella nazista.

Nel 1944 arriva sull’Appennino tosco-marchigiano  la Legione Tagliamento, comandata dal Colonnello Merico Zuccari, che opera  tra la provincia di Arezzo e quella di Pesaro, per coadiuvare lo schieramento tedesco nelle fortificazioni di quel tratto di Linea Gotica in cui continue erano le continue diserzioni dei lavoratori coatti e il sabotaggio dei partigiani.

Furono assassinati renitenti alla leva, disertori dalle milizie fasciste, operai che avevano disertato il lavoro alla Todt, partigiani, sospetti partigiani. Nel Montefeltro fucilò anche due donne: Angela Lazzarini a Macerata Feltria e Virginia Longhi a Pennabilli.

Costituito su base volontaria, i suoi legionari si consideravano un reparto d’elite, definito da Mussolini “ la legione del mio cuore” e considerato dal generale tedesco Wolf, comandante delle SS in Italia: “una delle mie migliori unità nella lotta contro i banditi”.
Addestrati dai nazisti, applicavano una particolare ferocia con­tro i civili, gli stessi metodi che i nazisti avevano già sperimentato nell’occupazione della Polonia e dell’Urss: rastrellamenti, sevizie, uccisioni, saccheggi, incendi e distruzioni, sequestri di persona, ar­bitrarie perquisizioni, crudeltà di ogni tipo. La Legione lasciò una lunga scia di sangue in tutti i territori in cui fu impiegata, si macchiò di atti criminosi: “una serie raccapricciante di delitti e atrocità”, “si­stemi coloniali”, come recita la sentenza del processo tenutosi al Tri­bunale Miltare Territoriale di Milano, che unificava i procedimenti giudiziari per i delitti commessi nelle varie provincie. [Vittime senza giustizia,almeno la memoria Angela Lazzarini e Virginia Longhi fucilate dai fascisti nel Montefeltro del 1944 pag. 22]

Dalle 317 testimonianze raccolte il Tribunale accertò un curriculum di violenza inaudita: 236 fucilazioni, 27 seviziati, 140 saccheggi, incendi e rapine, senza tener conto dei processi già conclusi; ma la consistenza reale delle atrocità compiute fu senz’altro più ampia di quanto il Tribunale avesse potuto documentare. (Cfr. Sandro Severi, Il Montefeltro tra guerra e liberazione 1940-1945, Società di Studi Storici per il Montefeltro, San Leo, 1997, p. 176.) [ibidem nota 4 pag. 22]

La Tagliamento uccise renitenti alla leva, disertori dalle milizie fasciste, operai che avevano disertato il lavoro alla Todt, partigiani, sospetti partigiani. Nel Montefeltro fucilò anche due donne: Angela Lazzarini a Macerata Feltria e Virginia Longhi a Pennabilli.

La storia delle donne, specie delle cosiddette donne “comuni”, è stata spesso dimenticata e le loro azioni sottovalutate e anche distorte. Pesa sulla mancata memorabilità delle vite femminili la forzata attribuzione alla sfera privata, mentre quella pubblica viene riservata agli uomini, nefasto elemento costitutivo della cultura patriarcale. [ibidem pag. 30]

Angela Lazzarini

Angela Lazzarini nata il 20 agosto 1918 nella casa al n. 19 di Mercatovec­chio, frazione del comune di Pietrarubbia, di famiglia contadina, lavora a servizio in diverse famiglie della zona. Mentre lavorava alla mietitura in un podere in località Mercatale di Sassocorvaro viene arrestata, probabilmente per una delazione, per aver aiutato un giovane disertore.

Un giovane legionario sedicenne o diciottenne (più probabilmente diciottenne se, come aveva riferito, era stato costretto ad arruolarsi dopo essere stato sorpreso in un rifugio a Genova, dove viveva) dice ad Angela di essere stato arruolato a forza e le chiede aiuto per avere vestiti borghesi e poter disertare. Angela lo confida all’amica Ersilia, ne parla a casa; il padre si dimostra contrario, ma lei raccoglie ugualmente abiti dal vicinato; “andava casa per casa a chiedere un pantalone, una camicia”, dirà l’amica Ersilia. [ibidem pag. 54-55]

Angela bastonata e violentata, viene fucilata il 28 giugno 1944 sotto il campanile di Certalto, frazione di Macerata Feltria.

Dagli atti giudiziari si vede anche come lo stupro fosse pratica ordinaria di dominio e intimidazione, frutto del disprezzo verso le donne connaturato al culto nazionalista della virilità. Spesso le don­ne violentate rimasero sterili e invalide. [ibidem pag. 29]

La storia delle donne, specie delle cosiddette donne “comuni”, è stata spesso dimenticata e le loro azioni sottovalutate e anche distorte. Pesa sulla mancata memorabilità delle vite femminili la forzata attribuzione alla sfera privata, mentre quella pubblica viene riservata agli uomini, nefasto elemento costitutivo della cultura patriarcale. [ibidem pag. 30]

Ad Angela non fu permesso di rivedere la madre.
A ridosso del campanile di Certalto, venne fatta sedere su una se­dia e bendata. L’esecuzione avvenne circa alle ore sedici. Il picchetto di esecuzione era composto da 6 militi tra i più giovani, alcuni poco più che adolescenti, che mentre Angela era in chiesa erano andati nella cantina di Fucci e “si erano avvinazzati, per non capire quello che stavano facendo”[nota 71 Enzo Fucci, Dov’eri l’8 settembre?, cit., p. 62.]; attorno era steso il cordone del plotone di sicurezza, poi gli incaricati della vigilanza.
Colpita da tre colpi in testa e tre in varie parti del corpo, Angela morì subito, in un lago di sangue; sul campanile rimangono le tracce dei sei colpi con un proiettile infisso. Fu coperta con un lenzuolo prestato. (nota 72 Dichiarazioni di don Leone Fucci al processo, fasc. 25 del 1949, Fondo Corte d’Assise di Ancona, Archivio di Stato Ancona.) [ibidem pag. 66-67]

Angela Lazzarini

Poco prima del suo trasferimento al nord, con la fucilazione di Virginia (Gina) Longhi il 4 agosto 1944, la Tagliamento consumò il suo ultimo delitto nel Montefeltro e il secondo omicidio nei con­fronti di una donna.  [ibidem pag. 111]

Virginia Longhi

Virginia (Gina) era nata a Pennabilli il 9 giugno 1918, la madre era ricamatrice in oro di paramenti ecclesiastici il padre falegname, erano sei sorelle, mandate per la povertà di mezzi da parenti e in un collegio di suore a Roma.

Minuta, mora e con gli occhi azzurri, nel ricordo dei familiari Gina era una ragazza allegra estroversa e vivace, che amava cantare. Recitava e cantava anche nella filodrammatica locale, come è attestato dai registri del Teatro Vittoria. Dal momento dell’inaugurazione il custode del teatro aveva diligentemente annotato tutti gli avvenimenti che si erano susseguiti nel luogo centrale della vita cittadina, aveva a volte aggiunto qualche commento agli spettacoli di prosa o ai film proiettati per le forze armate e talora allegato locandine. [ibidem pag.117]

Virginia Longhi

Per aiutare i genitori Gina lavava la biancheria dei militari della Divisione Camilluccia della Legione Tagliamento.

Pochi giorni dopo, ancora in casa Bergantini, mentre un coman­do tedesco lasciava il paese, Virginia si era rivolta scherzando ai mi­liti presenti: “Come farete da soli se i vostri comandanti scappano. Preparate i vostri fagottini come fanno i vostri amici tedeschi”. [ibidem pag. 125

L’imprudente battuta canzonatoria fu la causa del suo arresto il 27 luglio 1944. [ibidem pag. 125]

Raccontò don Giardi, canonico della Cattedrale:
Mi recai dal capitano Martinola il quale mi mise sotto gli oc­chi tutta l’inchiesta fatta dal sottotenente Pocci, nei riguardi della signorina. Ricordo un po’ confusamente le accuse: a) avrebbe sparlato dei comandanti fascisti, perciò avrebbe fatto opera disfattista; b) sarebbe stata la fidanzata di tale Enzo Plazzotta, il quale per quanto era a loro conoscenza militava nelle bande dei ribelli (nota 32 Don Giardi, testimonianza resa a Pennabilli il 23/1/1945. Tribunale Militare Territoriale Bologna, Fascicolo processuale n. 99 R.G., archiviato in Tribunale Militare territoriale Firenze, parte terza, fasc. 297 v. 1, Archivio di Stato Firenze.]
Negando recisamente le accuse, il sacerdote ottenne la rassicurazio­ne che la punizione sarebbe stata un taglio di capelli; cercò anche, inu­tilmente, di incontrare Zuccari nella visita che questi fece a Pennabilli.
Il 3 agosto invece arrivò in motocicletta il sottotenente Dante Ago­stini con l’ordine di condanna a morte; un ordine scritto di Zuccari, che tuttavia nessuno al processo poté dire di aver letto direttamente. In merito al certificato Zuccari avrebbe commentato: “Se è pazza dobbiamo fucilarla, perché dobbiamo purificare l’Italia dai pazzi” (nota 33 ibidem).
Dopo nove giorni di carcerazione, in una giornata piovosa (nota 34: La pioggia è ricordata da Luigi Ciotti e Gino Sereni; Damiani dice invece che il tempo era sereno.), un sergente e tre militi andarono a prelevare Virginia per portarla nel luogo scelto per l’esecuzione: Villa Chiappini, a pochi passi dalla casa di Antonio Balducci, forse per un’ulteriore sfregio a quella fa­miglia. Dalla casa i suoi familiari avrebbero assistito all’esecuzione (…)[ibidem pag.132]

Dopo la scarica del plotone, il comandante Dante Agostini sparò un ulteriore colpo al viso di Gina, già deceduta. Secondo la testimonianza riportata da Sandro Severi, dalle ferite non sgorgò una goccia di sangue: Virginia aveva avuto un collasso cardiocircolatorio prima dell’esecuzione e i legionari fascisti avevano “quasi certamente fucilato una ragazza già morta”. (nota 40: Severi, Il Montefeltro tra guerra e liberazione 1940-1945, cit.) [ibidem pag.132]

“Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022”. Intervista ad Alberto Bertoni

2

 

a cura di Andrea Carloni

 

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, dopo una serie di opuscoli, libretti, plaquettes inaugurata nel 1981, ha esordito con il volume Lettere stagionali (Book Editore 1996, con una nota di Giovanni Giudici), a inaugurare una sequenza di otto libri, tra cui spiccano le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (Book Editore 2008, 2012, 2016) accompagnate da una poesia in versi pavanesi di Francesco Guccini oltre che da una nota critica di Milo De Angelis, e che si compone nei suoi ultimi esiti di Traversate (SEF 2014, prefazione di Paolo Valesio), della silloge Poesie 1980-2014, (Nino Aragno Editore 2018), del libro in dialetto modenese Zàndri (Book Editore 2018), delle traduzioni di Irlandesi (Corsiero Editore 2020), dell’Isola dei topi (Einaudi 2021 Premio Carducci 2021 e Premio Pontedilegno 2022) e dell’“Autobestiario” Culo di tua mamma, (Collana Giallo oro di Pordenonelegge, Samuele Editore 2022).

Proprio sull’“Autobestiario”, la sua ultima raccolta di poesie, Alberto Bertoni ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Il titolo di questa raccolta, Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022, ci porta a due autori: il Charles Bukowski poeta e il Federigo Tozzi di Bestie. Cosa può dirci di questo titolo e del rapporto con questi due riferimenti letterari? 

Per rispondere a questa domanda, devo prendere le mosse da qualche considerazione di ordine strutturale prima che meramente descrittiva o confessionale di uno stato d’ispirazione legato a una specifica poesia. Nel settembre del 2022 è uscito un libro che io non avevo minimamente previsto di fare. Anzi, tutto è avvenuto per caso (il caso è una componente tutt’altro che secondaria dell’ispirazione e della composizione poetica): verso la metà dello scorso giugno 2022, gli amici Gian Mario Villalta e Alessandro Canzian mi hanno proposto di partecipare con un mio volume di versi alla collana Gialla Oro che la Fondazione Pordenonelegge ha affidato da un paio d’anni a Samuele Editore. Io avevo i cassetti dove conservo gli inediti che vengo componendo quasi del tutto vuoti, perché nel ’21 è uscito un mio libro impegnativo, L’isola dei topi, nella prestigiosa collana “Bianca” di Einaudi. Tuttavia la proposta dei due compari di poesia era molto intrigante, perché non mi chiedevano un libro generico, bensì un libro monotematico.

Così, d’acchito ho risposto che mi sarebbe piaciuto comporre un Bestiario, includendovi qualche poesia del passato, qualche inedito (che sapevo di conservare in un certo comparto segreto del cassetto cui ho fatto cenno prima) e qualche traduzione. I due furono entusiasti della proposta, ma mi diedero una scadenza ravvicinatissima: dieci giorni al massimo, dal momento che intendevano uscire per il settembre successivo, quando per l’appunto si svolge la kermesse di Pordenonelegge.

Quello stesso pomeriggio sono entrato nel tunnel di un trip compositivo e ordinatore mai sperimentato prima e – dopo otto giorni di lavoro matto, notturno e disperatissimo – ho consegnato ai due committenti il volume Culo di tua mamma, che riprende nel titolo un verso di Charles Bukowski dedicato all’ippica, sport e motore di un rapporto con i cavalli da corsa che mi appassiona e mi attrae fin da quando ero bambino: proprio loro, i cavalli, incarnano da sempre per me gli animali più degni di passione. In una parola, l’elemento unificatore di questo libro (nel quale riconosco alcuni dei motivi e degli esiti più durevoli della mia scrittura poetica) risiede nel capovolgimento del prevalente uso letterario degli animali nel tempo lungo della storia occidentale, dalle favole di Esopo e Fedro fino ad Alice nel paese delle meraviglie e a Pinocchio, ma anche oltre, spingendoci almeno verso Rodari e Scialoja.

La via maestra, infatti, è stata il più delle volte quella di un’umanizzazione più o meno esplicita delle proprietà animali e di una esposizione più o meno parodica di vizi e virtù del genere umano, proiettata su una serie di comportamenti animaleschi evidentemente permeati da peculiarità caratteriali e psicologiche di per sé umane. Rileggendo alcune mie poesie del passato più recente insieme con quel blocco di una trentina di inediti che erano andati a rintanarsi nel cassetto segreto di cui sopra, mi sono accorto che – al contrario – gli animali che facevano sempre più spesso capolino nella mia poesia erano portatori della procedura opposta: e incarnavano quel processo di animalizzazione dell’umano che mi sembra sempre più diffuso entro la nostra civiltà di massa, meccanizzata e informatizzata, ma anche sempre più spietata, belligerante e “vuota” di spiritualità e di comunità.

Quanto a Tozzi lo considero non da oggi uno dei grandi rimossi della nostra tradizione letteraria, insieme coi non meno grandi Antonio Delfini e Alberto Savinio. Bestie, uscito in prima edizione da Treves (quindi un editore di primo piano, lo stesso di d’Annunzio e di Gozzano) nel 1917, nell’anno più drammatico della Prima guerra mondiale – un dato assai rilevante – è uno dei libri decisivi della nostra tradizione del nuovo, aprendo di fatto il Novecento e il suo lanciarsi a capofitto nella pratica del romanzo: in Italia sotto la spinta di un grande critico – di lì a qualche anno, per di più, convintamente antifascista – come Giuseppe Antonio Borgese.

“Chi ti piace di questa corsa?”
“Culo di tua Mamma”, l’ho informato
ma non appena si è messo
a cercarlo sul programma
me ne sono andato.

Per un momento sono stato il babbo
anzi, la mamma della larva
finché non hanno detto basta
l’aroma di pipì nell’aria
della mia casa, il
dentifricio che manca
o la risacca di carta
per terra e negli infissi
morta la larva adesso, annichilita
dalla pressione di due dita

Il suo libro trabocca di “bestie” e ci racconta delle relazioni domestiche con i propri animali affezionati. Ma allo stesso modo, in fondo, non ci ricorda anche che la selvaticità del mondo animale non potrà mai aderire del tutto alla nostra visione domestica e umana?

Sono d’accordo con l’assunto di base: il gatto è un animale domestico fino a un certo punto, non è che lo si possa assoggettare alle regole di una pacifica coesistenza piccolo-borghese entro una realtà condominiale. Dall’inizio del nuovo secolo ho avuto tre gatte, la prima era già anziana quando ho cominciato a conviverci, la terza ha cinque anni e mezzo ed è la protagonista del passo poetico ripreso qui: un passo che mi è caro, perché riprende un attimo di sospensione che mi piace equiparare al surplace nel quale si impegnavano – quand’ero bambino – i velocisti su pista, per acquisire una posizione di vantaggio tattico nei confronti dell’avversario che aveva il vantaggio di poter scattare da dietro, all’improvviso. Ovviamente, il retroscena del surplace verificatosi fra la mia gatta e me la sera che mi ha ispirato la poesia è consistito in un mio piccolo gesto sospeso fra carezza e buffetto al quale lei ha risposto con una fulminea zampata, però ad unghie chiuse: doveva ancora cenare. Non c’è bisogno che aggiunga che anche in futuro potrò convivere solo con felini di sesso femminile, proprio per questa imprevedibilità e per la punta di spirito vendicativo che nella gatta esplode sempre dopo una mia vacanza, temperate da una considerazione istintiva e intelligente per lo stato delle cose e i rapporti di potere domestico.

Siamo ben vivi
mentre ci fissiamo
immobili da qualche istante
la mia gatta e me

Siamo ben vivi e anche
pronti a scattare
l’uno verso l’altra

L’elemento che più di ogni altro gli umani e gli animali si trovano a condividere è l’ambiente. Quanto è importante oggi, nel corso della ricerca poetica, cogliere non solo la fascinazione e le storie dei paesaggi e dei luoghi, ma anche i mutamenti e i rischi che vi incombono?

Devo prenderla un poco alla larga. La poesia, di questi tempi, non è certo un genere letterario che va per la maggiore, perlomeno sul piano della resa commerciale e del conseguente interesse mediatico o editoriale. Tuttavia, i tre milioni di italiani e di italiane che sentono oggi il bisogno di scrivere in quella forma artificiale di linguaggio che è il verso e che magari hanno nell’orecchio la prosodia “non più romanza” del rap (che comporta versi non più sillabici, ma fondati su quattro o cinque battiti accentuali “forti”) superano tranquillamente ogni imbarazzo di competenza e di rapporto diretto con un’arte millenaria come la poesia nel nome di un bisogno – che è di tutti – di funzione poetica, fra confessione, autofiction e rispecchiamento nelle diverse forme gradevolmente necessarie di eufonia, armonia e musicalità verbali: in un contesto entro cui l’oralità prevale ormai endemicamente sulla scrittura.

A ciò si aggiunga che la funzione poetica è in rapporto stretto con i nuovi nodi problematici (cui corrisponde un’omologazione mai accaduta prima tra “valori” e “disvalori”, esigenze di approcci realistici e distopie) che una società in continua trasformazione come la nostra di ormai “ex primo mondo occidentale” pone con forza sempre più accentuata in primo piano: il clima, le guerre, l’istruzione, una medicina e una scienza davvero per tutti, l’attitudine maschile al femminicidio, le migrazioni, i colonialismi sempre più diffusi perpetrati dalle cosiddette “grandi potenze” nei confronti di paesi, popoli, lingue circostanti, il bisogno complessivo di un’ecologia (delle menti prima ancora che degli ambienti o delle risorse energetiche o delle connessioni fra l’umano e l’animale) che coinvolga tutto il pianeta e non sia più settoriale (cioè appannaggio solo dei più ricchi e istruiti), la perdita d’incisività del suffragio universale, sempre più orientato ad affidarsi a sistemi totalitari ed esplicitamente neofascisti. Tutti questi elementi compongono un quadro di realtà molto problematico e quasi sempre contraddittorio con il quale una poesia che ormai non fa più parte del Letterario come lo intendevamo nei secoli passati ma guarda piuttosto all’Antropologico un po’ deve e un po’ vuole fare i conti: da questo punto di vista, la radicale discrasia fra l’Economico e il mondo poetico può trasformare in atout una penuria tanto estrema entro un mondo soggiogato dal denaro e dall’ansia del possesso. Io sono davvero convinto che oggi niente meglio della poesia possa incidere sul destino civile e sull’autoconsapevolezza di una società contemporanea che possa riprendere a definirsi e in qualche modo riconoscersi giusta. Ed è plausibile che questa “rinascita” etica possa prendere le mosse da una pratica poetica di massa (e in quanto tale destinata a una vita di superficie) che tuttavia, qualora venga plasmata e incanalata verso le profondità “verticali” occupate dai bituminosi territori dell’onirico, può fornire qualche buona medicina dell’inconscio e dell’interiorità, permettendo ai suoi adepti di guarire dalle malattie purtroppo assai diffuse del narcisismo e del solipsismo.

Allo stesso modo, questo vantaggio potrà facilitare anche il rapporto (che è in realtà una contraddizione) fra l’ansia di autofiction che pervade gran parte dei testi poetici “spontanei” e la condivisione di esperienza che deve necessariamente coinvolgere un Altro/Altra-da-noi. Com’è naturale, tale condivisione è destinata ad avvenire a distanza di spazio, di tempo, talvolta di lingua. Ma, se di buona stoffa, un messaggio poetico non meramente confessionale, bensì di slancio insieme emotivo e conoscitivo, darà luogo a un’esperienza affettiva e politica, proprio perché estranea ai gravami di ideologie definitivamente archeologiche. In questa chiave, sono integralmente d’accordo col bravo poeta spagnolo Alfonso Brezmes (classe 1966), edito in Italia da Einaudi, quando dice: “Il poeta – mi dici – è un’anima carica di passato. La poesia – ti rispondo – è quel luogo del futuro che io ho scelto perché tu viva.”

Come un animale
non morirò di freddo
né di fame

Di sete, piuttosto,
o di zanzare,
se non prima di Covid-19
o di guerra nucleare

Nei suoi versi il tema della morte ricorre e si manifesta come se la poesia stessa si rivelasse il principale strumento di studio e conoscenza di questo argomento. In che modo nella poesia la morte e i morti si incontrano con la vita e i vivi?

Certo, le due soglie davvero metafisiche con le quali ogni vera poesia è destinata a confrontarsi sono l’Amore e la Morte. Infatti – quando si parla di poesia – la parola assume una dimensione apotropaica, predisponendosi a far riecheggiare nei testi più riusciti (basta pensare a Dante, alla “selva oscura” che si situa al principio della nostra tradizione in lingua di sì) la voce dei morti. Della prima volta che ho percepito in modo drammatico la consapevolezza del destino di morte che tutti ci accomuna conservo un ricordo molto preciso ed è un ricordo che precede il mio innamoramento per la poesia. Avevo 8 o 9 anni, quindi doveva essere il ’63 o il ’64, e stavo sul divano del tinello in braccio a mio padre, quando scoppiai in un pianto dirotto. Lui in casa spesso stava con la canottiera, nei mesi primaverili o estivi, e quindi ho un ricordo preciso del suo collo e della spalla nuda, da cui a un certo punto sollevai la testa, già in lacrime, lo guardai in faccia e gli dissi: “Papà, ma è vero che dobbiamo morire tutti? E quindi morirai tu e morirò anch’io?”. Lui mi rispose che era vero e che a tutti noi sarebbe toccato un giorno di morire, tanto che io continuai a piangere in modo ancora più violento. Quindi la prima sensazione di morte fu autoindotta dal mio rimuginio mentale e non provocata da uno specifico evento luttuoso.

Per quanto riguarda il gusto cui si può associare il senso della morte, penserei a un tè molto forte, di quelli che poi ho imparato a bere in tempi più recenti, tipo il tè nero, oppure sicuramente a una vodka, che, infatti, è un liquore che non amo particolarmente e che cerco di evitare (non sempre riuscendoci) proprio perché con la sua secchezza e questo suo bianco di ghiaccio, questa trasparenza assoluta, mi fa pensare alla morte. Come colore, il nero, per l’appunto. Vado nell’ovvietà del luttuoso, che coinvolge il colore della mia stessa automobile, ma che, tutto sommato, non amo. Non amo non tanto su me stesso perché se mi capita di portare dei jeans neri, o una maglia nera, non ho nessun problema: non lo amo come colore di moda. Il fatto che mia moglie e le sue amiche, quando vogliono sentirsi eleganti, si vestano integralmente di nero è una cosa che io contesto fortemente e mi vengono in mente i colori che invece usavano nell’antica Roma o nelle corti durante l’autunno del Medioevo, che erano colori vivi, rossi, turchesi, verdi… Nondimeno, perfino gli emblemi della nostra idea di classicità, le statue e i bassorilievi di Fidia, nel mondo greco, erano tutti colorati in modo molto vivace (ori, turchini, porpore), così come segno di distinzione, nella Firenze medicea e rinascimentale, era portare degli abiti molto colorati, simboli di raffinatezza perché era più difficile reperire i colori. Anche nel femminile mi piacciono molto gli abbigliamenti colorati. Il nero come abbigliamento di moda e di distinzione mi mette tristezza.

Nella mia vita interiore, la presenza della morte non è affatto saltuaria. Negli anni, confesso di aver maturato un’angoscia violentissima nei confronti della morte e dell’idea che tutti dobbiamo morire: cioè non sono affatto cambiato, da quel pianto primario, esploso nel mio tinello modenese, cui accennavo poco fa. Anzi, mi sorprendo, in giorni particolarmente cupi, a fare una specie di conto alla rovescia di quanto mi rimarrà ancora da vivere: anche perché ultimamente molti amici cari o sono morti o versano in situazioni di salute decisamente rischiose. Negli ultimi anni, per esempio, mi è capitato di andare a trovare all’ospedale un amico vero, con cui ho fatto molti viaggi familiari, di coppia, sia a Parigi che in Maremma, che ha vissuto un’esperienza di leucemia fulminante e ha dovuto seguire protocolli di cura pesanti e rigidi, in attesa di un trapianto di midollo. Alla fine, il trapianto è andato bene e l’amico è guarito, ma in ogni caso, sì, io continuo a essere ossessionato dalla morte, ci penso tutti i giorni e cerco, in qualche modo, di esorcizzarla. In proposito, sono assolutamente convinto che l’unico modo sensato, umano, per esorcizzarla siano le soglie sempiterne, le frontiere di metamorfosi e di transfert, insomma l’Eros e la Poesia. E la poesia è oggi per me un appiglio decisivo: anzi, lo strumento umano che meglio mi permette di elaborare l’esperienza del lutto e di difendermi dall’insistenza sempre più ingombrante dell’idea di morte. La realtà del mio soffrire di vertigini e del terrore anche solo di affacciarmi a un primo piano è legata al fatto che, naturalmente, sento affiorare con prepotenza il desiderio di buttarmi di sotto. Avverto in quei momenti un’attrazione del vuoto davvero fortissima e non è un problema di orecchie o di equilibrio nell’orientamento. È un problema psicologico di attrazione alla morte, per annichilirne la pervasività del pensiero.

In me, ma soprattutto nel mio rapporto con la poesia (lo ripeto, più letta che scritta), non è mai rimosso il dialogo con i morti, nel senso che l’angoscia di cui sto dicendo non mi impedisce mai di parlarne, attraverso la poesia, anche se, ovviamente, cerco sempre di guardare la realtà con occhio molto lucido. Ritengo che la poesia sia lo strumento più potente che abbiamo per far parlare i morti e per dialogare con i morti. Spero che, magari, proprio loro, i più cari, i nonni i genitori le amiche e gli amici sopravvivano ancora per qualche anno dopo la mia morte attraverso alcuni versi e che, in qualche modo, se non altro il mio fiato, la mia voce, possano anche solo flebilmente far riecheggiare nel profondo di qualche coscienza aperta davvero all’ascolto le loro esperienze, i loro nomi, i loro profili attraverso l’aria dei vivi: di certo non preconizzo una sopravvivenza decennale, o centenaria, o millenaria, ma una sopravvivenza minima, di qualche mese, di un paio d’anni: mi farebbe molto piacere, naturalmente comprendendo anche me stesso in questa sopravvivenza lieve, non invasiva né tombale, ma acustica, viva, vocale.

…il problema è come
dopo la morte riascoltare
chi di una storia ci ha svelato
i dedali infiniti delle tane
intanto che i parchi
gli incroci i profili delle case
urlano implorano piangono
tutte le sagome più care

Può parlarci del ruolo della memoria nella sua attività di scrittore, e quindi anche del rapporto con la materia autobiografica e il ricordo delle esperienze vissute?

Nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla che scriverla. Più importante ancora sarebbe imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori: infatti, se ognuno di noi conducesse un vero esame di coscienza, si accorgerebbe che nella suddivisione attuale del tempo quotidiano l’occasione per una lettura piena e liturgicamente concentrata risulta sempre più ristretta e difficile. La lettura infatti è spesso più ostacolata che favorita dal contesto nel quale ci si trova anche professionalmente ad agire: a maggior ragione se si svolge il mestiere di insegnante.

Leggere davvero una poesia (meglio precisare: una grande poesia) implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica (da applicare al linguaggio) di orecchio musicale e di competenza espressiva, retorica, metrica. La poesia è infatti un atto linguistico nel quale al significato referenziale degli enunciati si somma tutta una serie di strategie espressive che coinvolgono l’ordine delle parole, le strutture allitterative e fonosimboliche, la dislocazione degli accenti lungo il filo del discorso, gli effetti di parallelismo grafico e sonoro (rime, assonanze, consonanze), la suddivisione metrica che – in tempi di verso libero – tende a organizzarsi secondo un’accettabile suddivisione del recitativo, la qualità spiazzante dei cosiddetti tropi, che si danno quando il linguaggio sostituisce i termini propri con termini che provengono da campi semantici diversi rispetto a quelli che richiederebbe una logica consequenziale: metalessi, metonimie, sineddochi, soprattutto metafore.

L’effetto di queste energie aggiuntive rispetto al semplice “contenuto” del testo poetico (e letterario in genere) e alla sua organizzazione tematica hanno il fine di potenziare la parte emotiva, suggestiva e infine immaginativa propria del messaggio poetico. Lo dice già Leopardi, meglio di ogni altro, quando nell’Infinito elenca una serie di percezioni sensoriali, intessute di “spazi”, “silenzi”, “quiete”, concludendo “io nel pensier mi fingo”: in questa formula, risiede l’essenza stessa della compiuta ricezione poetica, affidata all’opera ri-creatrice dell’immaginazione individuale, esperienza somma di piacere, di condivisione e di trasformazione dell’emozione sensoriale in conoscenza, per una congiunzione finalmente compiuta di corpo e pensiero.

Tutto questo ha direttamente che fare con la memoria, che – non dimentichiamolo mai – è necessariamente composta anche di oblio: altrimenti non potremmo vivere. La memoria poetica non è qualcosa di passivo o acquisito una volta per tutte: piuttosto è uno strumento dinamico e in continua evoluzione, nel cui dominio rientra anche quel fenomeno meraviglioso che è la memoria involontaria, tanto legata ai sensi corporali solo in apparenza “minori” rispetto alla vista e all’udito: il gusto, il tatto, l’olfatto. Ma la memoria, in un poeta, è anche letteraria, oltre che storica, familiare, personale. E lì si affacciano i traumi, le ossessioni, i tabù, vale a dire tutti quei sintomi che proiettano nel linguaggio della poesia anche le attitudini meno visibili del nostro inconscio.

Ha un odore, credimi, il passato
quando torna nell’eco di una voce
covo e rogo di polvere
in fuga non appena piove
come oggi sui muri le lucertole

 

Isole che si credevano perdute

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Riccardo Socci e Tommaso Di Dio in dialogo attorno a Poesie dell’Italia contemporanea (Il Saggiatore 2023)

 

RS: Caro Tommaso, quando il lettore si trova di fronte questo tuo originale e, per molti aspetti, coraggioso lavoro viene colpito innanzitutto da un fatto in senso proprio ovvio: la sua mole. Il criterio quantitativo che informa questa antologia (1085 pagine) è sottolineato, e implicitamente assunto a metro di riferimento per misurare l’importanza e la profondità dell’opera, già in quarta di copertina: “più di seicento poesie. Più di duecento autori. Cinquant’anni di poesia italiana”. I testi sono strutturati in cinque sezioni – una per decennio – e attraversano un arco di tempo che va dal 1971, anno che segna uno spartiacque nella storia della poesia italiana contemporanea, come la critica ha ormai ampiamente mostrato, al 2021. I loro autori coprono invece un lasso di tempo ancora più ampio, se consideriamo che tra l’anno di nascita del poeta più vecchio (Montale, 1896) a quello del poeta più giovane (se non vado errato: Cornelio, 1997) è passato oltre un secolo.

Durante la lettura, ho avuto l’impressione che il numero degli autori antologizzati per ogni decennio tendesse via via ad aumentare, fino a raggiungere una soglia particolarmente elevata nell’ultima sezione, 2010-2021. Ho pensato dunque di verificare questa idea. Nella tabella di seguito riporto i dati raccolti:

 

AUTORI 1971-1979 1980-1989 1990-1999 2000-2009 2010-2021
Totale decennio 44 60 56 80 111
Precedentemente citati / 22 35 34 36
Non citati prima 44 38 21 46 75
Totale antologia 224

 

Considerando sia il totale degli autori presenti per ogni decennio sia quello dei poeti di volta in volta “nuovi”, ovvero non citati nelle sezioni precedenti, si assiste effettivamente a una crescita quasi esponenziale del loro numero. Si passa ad esempio dai 44 poeti presenti nella prima sezione ai 111 dell’ultima, dai 38 autori “nuovi” del decennio 1980-1989 ai 75 di quello 2010-2021. Questa tendenza all’ipertrofia, per così dire, viene d’altra parte preannunciata al lettore nell’Introduzione, quando affermi di voler rappresentare, pur senza pretese di esaustività, “gli esiti ricchissimi della poesia degli ultimi vent’anni” (p. 14).

Se, da un lato, un impianto di questo tipo può essere letto come una sorta di mise en abyme, sul piano strutturale, del contesto storico-sociologico che ricostruisci nei cappelli introduttivi alle sezioni (la proliferazione di forme e stili, la progressiva democratizzazione della presa di parola in poesia, la parcellizzazione del campo ecc.), dall’altro il rischio di un effetto di sovraesposizione alla parola poetica (o meglio, alle parole poetiche) è molto alto. Credo che siano davvero ammirevoli l’ampiezza e la complessità di questo lavoro ma, all’atto della lettura, confesso che la preminenza accordata al criterio quantitativo, soprattutto nell’ultima sezione, ha finito talvolta, paradossalmente, per appiattire il “paesaggio” (riprendo qui la tua metafora), attenuando le specificità di forme e stili, che pure persistono. È un effetto, ripeto, che si amplifica a mano a mano che il lettore si avvicina al nostro presente, laddove il campo della poesia si fa più confuso e il lavoro di canonizzazione è ancora tutto da compiere.

Pur comprendendo benissimo la difficoltà di svolgere un discorso critico attorno a un oggetto così ravvicinato, l’impressione generale è che il criterio qualitativo, che di certo avrà avuto un suo peso nella costruzione dell’antologia, sia rimasto a volte in secondo piano. La selezione, in sintesi, sarebbe forse potuta essere più stringente. Partirei dunque da questo luogo comune, da questa domanda banalmente provocatoria, chiedendoti di riflettere sui temi sopra esposti: ci sono davvero, oggi in Italia, così tanti poeti e poetesse significativi e meritevoli di essere letti?

 

TDD: Caro Riccardo, ti ringrazio di questi utilissimi carotaggi numerici e della domanda finale che mi permette, fin da subito, di porre in evidenza un punto fondamentale del mio lavoro. Diciamo così: questo non è un racconto che parte dagli autori; pochi o tanti che siano, ho cercato il più possibile di disinnescare l’enfasi che di solito attribuiamo alla funzione autoriale quando leggiamo un testo di poesia contemporanea. Anche il paratesto che accompagna le poesie (con il nome dell’autore posposto, con l’anno sempre in vista in basso a destra, per esempio) è stato costruito in funzione di rendere più efficace questa esperienza. Abbiamo addirittura deciso di togliere le biografie degli autori inclusi (cosa sulla quale ho ancora dei dubbi), proprio per indicare ai lettori questa idea centrale con la massima evidenza.

La riduzione dell’enfasi autoriale, da parte mia, non ha alcun rigido presupposto ideologico, ma rispecchia semplicemente un metodo di lavoro. Poesie dell’Italia contemporanea è prima di tutto un esperimento con il genere antologico e, come tale, prova a manipolare alcuni presupposti ereditati dal Novecento, forse in maniera troppo meccanica: la centralità dell’autore è fra questi. Quando ho iniziato a scegliere i testi, non avevo nella testa un numero ristretto di autori dal quale poi avrei attinto la selezione. L’impressione che si ha leggendo un’antologia “classica” è che il curatore abbia già in mente un canone di autori. L’antologia diviene il momento in cui un critico esplicita ciò che era già implicito nella sua idea di poesia e questo per lo più avviene mediante un’esposizione del nome degli autori: che infatti in molte antologie è di solito esibito nelle copertine, se non proprio nel titolo (penso a Poeti italiani del Novecento di Mengaldo, con l’enfasi proprio sulla figura biografica degli autori).

Poesie dell’Italia contemporanea è composto rigorosamente al contrario: leggendo il più possibile in ogni direzione, senza alcun pregiudizio stilistico, ibridando il mio gusto e le mie letture con quelle di altri scrittori e critici che ne hanno uno opposto e poi scegliendo e selezionando sempre di più quello che mi sembrava essenziale per comporre un percorso testuale che mettesse a disposizione del lettore una gamma ampia (ma coesa) delle possibilità poetiche di ogni decennio. Insomma, ho cercato per quanto ho potuto di non rendere dirimente chi avesse scritto quello che a mano a mano andavo selezionando, ma soltanto la forma e il contenuto dei testi. Da questo punto di vista, il numero crescente degli autori nei decenni è un effetto del tutto secondario, ma certo non insignificante. Ti confesso che mi sorprende che ti abbia colpito per prima cosa questo aspetto in un lavoro che prova in tutto e per tutto a disinnescare proprio questo approccio alla lettura della poesia. È interessante: forse dice più di te e del modo che hai di guardare al panorama contemporaneo? Oppure è una riflessione nata per una sorta di controspinta? Comunque sia, mentre procedevo nella scelta ho avuto anch’io l’impressione che questo metodo avrebbe messo in risalto la minore importanza della funzione autore nei decenni più recenti: e così è stato e le ragioni possono essere molteplici.

La prima che mi ne viene in mente è una spiegazione banale: per esempio, se al tuo computo aggiungi il fattore generazionale il risultato prende una luce diversa. Aver deciso di inserire le forme testuali sviluppate anche da alcuni autori nati negli anni ‘90 del Novecento (cosa che è stata fino all’ultimo oggetto di discussione e ripensamento) e il fatto che anche molti poeti nati negli anni ‘80 abbiano esordito in quella stessa decade ha fatto sì che molti nuovi autori si aggiungessero ai già tanti e notevoli nati negli anni precedenti proprio in concomitanza dell’ultimo decennio del volume. Se togliamo dal computo i nati negli anni ‘90 gli autori nuovi citati diventano 57, se togliamo anche quelli nati negli anni ‘80 diventano una trentina: un numero in linea con le decadi precedenti. Dare al mio lavoro una soglia generazionale, come altre antologie nel passato avevano fatto, era assolutamente ciò che non volevo fare e il risultato è stato quindi un aumento del numero degli autori.

Un’altra spiegazione è sempre legata al metodo che ho seguito per costruire il volume. Proprio come ci insegna l’osservazione concreta di un paesaggio, a mano a mano che lo sguardo si avvicina alla soglia del punto di vista (cioè alla fine del volume, al punto prospettico dell’intero lavoro che non per caso ha nel titolo la parola “contemporanea” proprio per sottolineare il punto di vista: il mio non è un lavoro di storia della letteratura) da un lato aumentano i dettagli visibili, dall’altro diminuiscono le differenze. A grande distanza, distinguiamo agevolmente una montagna da un altopiano, mentre più in prossimità del punto zero le differenze diminuiscono. Credo che questo senso di appiattimento del paesaggio che tu mi indichi derivi anche da ciò: è una deformazione prospettica dovuta all’avvicinarsi al punto di vista dell’intero lavoro. Ti confesso che dopo un paio di mesi dall’uscita del volume, non mi pento delle scelte che ho fatto. Sono ancora in dubbio su di una decina di pagine forse, ma non di più: mi sembra che se avessi tolto ancora, avrei mancato di segnalare alcune ricerche più interessanti di questi ultimi anni.

Infine c’è un’altra spiegazione che mi sembra più intrigante, perché forse indica meglio qualcosa del nostro tempo e vorrei sapere cosa ne pensi. Forse sempre meno la funzione autore è una soglia decisiva per indicare la qualità dei testi. Mi spiego. Al netto delle eccezioni, converrai che la gran parte degli autori pubblica di più, per più anni di seguito, con meno censura, con meno controllo, con meno dialogo (anche con la critica); questo ha come effetto che anche autori interessanti producono più libri, ma sempre meno “perfetti”, con poesie certo potenti e significative, ma in mezzo a altre che lo sono molto meno. Se questo è sempre successo, in questi anni mi sembra che il fenomeno sia più esteso e degno di nota. Questo comporta il fatto che, mentre – diciamo – fino ai primi anni Duemila, l’autore era una marca utile per trovare una sicura esperienza, oggi lo sia molto meno. Ci sono autori che, pur non potendo uscire dal canone, hanno smesso di scrivere poesie decisive da molti anni, ma che continuano a pubblicare libri e libri: come nell’incanto di una strana inerzia. Proprio qualche settimana fa ho assistito a una lezione di una ottima professoressa e studiosa di poesia contemporanea che sosteneva davanti agli studenti che, pur essendo bruttissimo, avrebbe letto e studiato l’ultimo libro di un certo celebre autore solo perché era di quel certo autore. Ma perché? Per dirla in maniera un poco provocatoria: perché questa auto flagellazione? Perché perseverare a oltranza nell’affezione alla funzione autore, quando se ne potrebbe fare a meno, se non sempre, soprattutto in certi contesti? In sintesi, possiamo dire anche così: è come se, pur aumentando la quantità di scritture notevoli, si sia estesa anche la rarità dei fenomeni poeticamente significativi, che quindi sono distribuiti su di un numero sempre maggiore di autori. Cosa ne pensi?

 

RS: Sottolinei un punto importante, che può rendere ragione anche dell’impostazione generale che hai dato alla tua antologia. La proliferazione di cui si parlava riguarda tanto il numero degli autori presenti nel campo poetico quanto quello delle raccolte che ciascuno di loro produce. Nel corso di quarant’anni di carriera, il poeta lirico forse più importante del secondo Novecento italiano, Vittorio Sereni, ha pubblicato in totale quattro libri di versi. Molti autori dell’ultima generazione raggiungono oggi i trent’anni avendo alle spalle tre, quattro, cinque pubblicazioni. Lo stesso vale per quelli della generazione più vecchia, che nell’arco degli ultimi due decenni hanno dato alle stampe un numero davvero elevato di libri, quasi sempre non all’altezza dei lavori precedenti – a questo proposito, le scelte che hai fatto nell’antologia mi trovano del tutto d’accordo. Le cause di questo mutamento sono molte; ne segnalo soltanto due: da un lato gli autori hanno abbassato il livello di autocensura, allargando le maglie di quel senso del pudore che ancora accompagnava un poeta come Sereni; dall’altro molti editori (in particolare i più importanti) hanno reso i loro criteri di selezione via via meno stringenti, o comunque meno legati al valore delle scritture. Il risultato è quello che hai evidenziato: il nome dell’autore non è più una garanzia dello spessore letterario dell’opera, mentre la qualità media delle pubblicazioni, per un fatto anche solo puramente statistico, si è senza dubbio abbassata (ciò ovviamente non significa che oggi non si scrivano grandi libri di poesia). Spesso restano singole poesie importanti o addirittura decisive, circondate da altre meno necessarie.

Vengo però qui a un punto sul quale vorrei invitarti a riflettere. Per molti autori, questa è una scelta programmatica. Soprattutto a partire dagli anni ’90 (ma è un fenomeno di lungo corso), il macrotesto ha assunto un rilievo crescente. La struttura e il progetto generale della raccolta sembrano essere diventati spesso il punto principale della riflessione poetica, a discapito dell’autonomia delle singole poesie, che soltanto all’interno dell’organizzazione macrotestuale prevista dall’autore riescono a trovare coesione e senso. Come hai affrontato il problema del rapporto fra testo e libro nella tua antologia?

Un altro tema sul quale mi piacerebbe conoscere il tuo punto di vista riguarda, più in generale, la funzione dell’antologia. Quell’impressione di ipertrofia e di sovraesposizione al testo poetico avuta leggendo non dipende soltanto dell’aumento del numero degli autori antologizzati (il chi ha scritto la poesia), ma anche da quello degli stili e delle poetiche (il come la poesia è stata scritta). Le due cose sono ovviamente collegate. Nel corso degli ultimi anni, la critica ha condotto un lavoro (tuttora in corso) di sistemazione del campo poetico italiano tra anni ’70 e ’90. Quest’opera è invece ancora tutta da svolgere per quello che accade a partire dal Duemila. Forse è anche a causa della mancanza delle categorie critiche necessarie per leggere e ordinare i fenomeni poetici che l’effetto di caos stilistico aumenta nelle ultime due sezioni della tua antologia. Come accade in Parola plurale, sembrano qui convivere senza contraddizioni, e quasi prive di una dialettica di fondo, le forme e gli stili più vari. Nel corso del Novecento (mi rifaccio ad esempio agli studi di Scaffai), l’opera di canonizzazione e lo scontro fra le diverse poetiche è avvenuto soprattutto in sede antologica (Mengaldo, che hai citato, Sanguineti, Porta ecc.). Scegliere di includere un autore (non in quanto nome, ma in quanto rappresentante di una proposta formale e stilistica) significava escluderne volutamente un altro. È evidente, ed è stato ribadito, che il tuo lavoro prende le mosse da altri presupposti e si pone altri obiettivi. Pensi però che questa pubblicazione, nel campo poetico odierno, possa riattivare, magari per contrasto, anche quel tipo di funzione antologica? Più in generale, credi che un certo modo di vivere il campo poetico, fatto di contrasti aperti, prese di posizione pubbliche e discrimini sia definitivamente tramontato con il secondo Novecento?

 

TDD: Dici bene, Riccardo. Poni problemi che mi sono posto anch’io in sede di elaborazione del progetto, ma non a tutti ho saputo (o ho potuto) dare una risposta adeguata. Ogni progetto prevede un metodo e ogni metodo seleziona cosa enfatizzare e cosa invece sarà messo in ombra. E in fondo un libro è anche ciò che sceglie di non essere. Uno dei limiti che più ho sofferto dell’impostazione che mi sono dato per Poesie dell’Italia contemporanea è proprio quello che tu indichi: come restituire i macrotesti? È un problema che ogni antologista incontra, anche quello con un’impostazione più tradizionale. Tra l’altro sono convinto anch’io, da poeta, della loro importanza: penso ai miei lavori come Verso le stelle glaciali (Interlinea, 2020) oppure l’ultimo Ardore (Aragno, 2023) che è un vero e proprio poema, con un personaggio, in cui ogni sezione è incatenata alla successiva, con una cornice narrativa di sfondo. A tutto questo, il mio volume non ha potuto dare una risposta, se non in maniera del tutto indicativa: segnalando, nelle cinque soglie introduttive alle decadi, alcune forme macrotestuali notevoli, che spero il lettore curioso possa poi verificare in sede di lettura in proprio. Perché, Riccardo, il problema più grande non è stato tanto con i macrotesti alla Caproni, per intenderci, o alla Riccardi, in cui ciascun frammento mantiene una sua parziale autonomia, ma con quel particolare macrotesto che è il romanzo in versi: e non sono pochi i poeti che negli ultimi cinquant’anni hanno scelto questa forma e hanno saputo dargli una veste molto convincente. Penso soprattutto a tre esempi: Bertolucci, Pagliarani, Targhetta. Come si fa? Qui davvero ci si scontra con l’impossibile. A consolarmi della sconfitta, però, è stata questa riflessione: che anche il mio lavoro è, in fondo, un macrotesto. Ho pensato ogni sequenza di poesie come una sorta di libro autonomo, in cui, oltre alla rappresentatività autoriale, gli attriti fra i testi e i contatti e persino i loro scontri (pure ironici) sono stati il criterio di scelta e di selezione. Ogni testo collocato nella mia sequenza assume un senso diverso dall’originale e spero che questo compensi, in parte, la mancata restituzione del contesto di partenza. Questa se vuoi è una caratteristica importante del mio lavoro: non si è trattato tanto di restituire il libro di origine, ma di creare con i testi altrui un nuovo testo, che potesse essere letto e goduto anche in autonomia rispetto ai libri da cui estrae i materiali. Poesie dell’Italia contemporanea è, in fondo, un lavoro di montaggio e solve e coagula è il suo motto, come ho provato a dire con l’ultima poesia di Anedda che chiude il volume: «sgretolarsi permette di coagularsi di nuovo»

In questo senso, il mio libro è anche una provocazione, senza alcuna arroganza: non credo né che il mio metodo sia l’unico né che escluda altri; spero invece che questo libro apra, anche per contrasto, a risposte inedite e alternative e – perché no? – anche al ritorno di posizioni forti, magari con categorie critiche più stringenti delle mie. Detto questo, penso che sia impossibile tornare ad una situazione novecentesca di canone ristretto unilaterale: il quadro è troppo frammentato, le forme troppo ibridate, le genealogie sono tutte giustificate a priori; e poi è cambiato il ruolo sociale dei poeti, che sono tutti «più simili e soli», come dice un frammento di Claudio Parmiggiani che apre, non a caso, l’ultima decade. Ma dico questa senza alcuna nostalgia: ho voluto il mio lavoro inclusivo e polifonico anche perché risponde prima di tutto alla necessità di restituire un enorme massa di esperienze che era del tutto sottratta ai lettori, non solo come testualità, ma come percezione. Volevo innanzitutto lanciare un segnale, aprire un campo del sensibile. C’è tanta buona, ottima poesia che si è scritta negli ultimi vent’anni e credo che nessuno lavoro potrà dirsi definitivo; e questo per me non è un male: è liberatorio. So che alcuni studiosi stanno approntando un lavoro antologico con tutt’altri presupposti; io stesso ho in mente di scrivere un prossimo libro con criteri completamente diversi da quello di cui stiamo parlando. Spero che nell’incrocio fra strumenti e risultati diversi si potrà guadagnare una prospettiva più complessa e più ricca sulla poesia contemporanea. In fondo un’antologia è un cannocchiale: non solo avvicina al lettore forme che prima erano lontane e meno visibili, ma sposta gli orizzonti e fa trovare isole che si credevano perdute.

 

RS: Riguardo all’impostazione generale che hai dato all’antologia, mi piacerebbe soffermarmi su un altro punto che coinvolge ancora, per certi aspetti, il rapporto fra i singoli componimenti e il macrotesto di appartenenza. Pur non essendo il tuo, come hai ricordato, «un lavoro di storia della letteratura» in senso stretto, da una prospettiva diacronica questo libro propone anche una ricostruzione (che ovviamente non pretende di essere esaustiva) del campo poetico italiano degli ultimi cinquant’anni. Per ogni decade, il discorso prende le mosse da un breve inquadramento storico nel quale si mettono in luce gli eventi che più hanno segnato la vita sociale, politica e culturale nel nostro Paese, stabilendo così (com’è naturale che sia, a mio modo di vedere) una correlazione più o meno stretta fra la storia collettiva e quelle dei percorsi poetici individuali. I componimenti sono ordinati secondo il criterio più oggettivo che si possa scegliere: la cronologia. Come scrivi nell’Introduzione (p. 18), «la cronologia dei testi diventa il valore dominante. I testi scorrono entro il nastro del tempo, ciascuno nell’anno della prima pubblicazione del libro da cui è estratto».

L’antologia non è evidentemente la sede adatta per approfondimenti critico-filologici, ciononostante, credo che un’impostazione di questo tipo, unita all’arco di tempo relativamente ampio preso in considerazione, possa esporre talvolta a rischi di anacronismo. Faccio due brevi esempi: il più evidente, a mio giudizio, è il caso di Sandro Penna, inserito all’altezza del 1973, anno di pubblicazione del volume Poesie per Garzanti, nel quale l’autore ha raccolto, poco prima di morire, gran parte della sua produzione. Se, da un lato, questa collocazione aiuta ad esempio a mettere in luce il rapporto fra Penna e un poeta più giovane come Bellezza (che a lui soprattutto guardava in Invettive e licenze), dall’altro si rischia di dimenticare che i testi presenti nella tua antologia sono stati composti verso le fine degli anni Trenta (seguo la cronologia proposta da Deidier nel volume Mondadori), e già pubblicati in raccolta fra anni Trenta e Cinquanta. Sono testi, insomma, che sul piano storico non hanno nulla a che fare con l’attentato di Piazza Fontana, e che da un punto di vista di storia letteraria dialogano (o, al contrario, scelgono di non dialogare) più con Saba, il primo Montale e un certo ermetismo che con Bertolucci o Satura. Il secondo esempio è quello di Mario Benedetti, i cui testi compaiono per la prima volta nell’antologia all’altezza del 2004, anno di pubblicazione di Umana gloria. Benché sia stato proprio il volume Mondadori ad affermare Benedetti come uno degli autori più importanti della sua generazione, non possiamo non considerare il fatto che i testi lì raccolti sono stati quasi interamente composti e pubblicati in varie plaquette fra anni Ottanta e anni Novanta. La sua poesia forse più nota, Che cos’è la solitudine, è stata ad esempio scritta, verosimilmente, verso la metà di quest’ultimo decennio, e quindi pubblicata già nel 1999 nel Parco del Triglav. Faccio riferimento a questo caso specifico proprio perché la poesia mi sembra perfettamente aderente al cappello introduttivo che proponi per il decennio 1990-1999, intitolato Lo spettatore immobile, ad esempio quando scrivi: «non è un caso che l’arte di questo decennio abbia trovato nella violenza immobile alcuni emblemi rappresentativi. […] Le azioni artistiche ora mettono di fronte un corpo deformato, davanti al quale si è chiamati a sentire, restando a distanza. Si è interpellati a incarnare la figura del testimone, più che quella del produttore di significati» (p. 310).

Un’antologia di ampio respiro come la tua non può ovviamente tenere conto di tutti i casi particolari, ma mi è sembrato interessante proporti questi due esempi per chiederti di parlarci, in generale, di come hai affrontato il complesso rapporto fra storia e poesia e quello, forse anche più complesso, fra poesia e storia.

 

TDD: In un mare così ampio e divergente di scritture, mi sono risolto a individuare un criterio di ordinamento dei testi più neutrale possibile, ma al contempo – come hai ben sottolineato  – non mi sono astenuto da prendere alcune scelte: anzi, a mio parere il mio lavoro sta tutto qui. Ma ci arriviamo. Innanzitutto è bene dirlo subito: al contrario di altri lavori esplicitamente storico-letterari, ho voluto dare vita soprattutto a un racconto. Le cinque soglie che introducono la scelta dei testi sono proprio cinque narrazioni che insieme formano un romanzo della poesia italiana, che sia anche un romanzo della società italiana: qualcosa che interpreta, raccoglie, elabora e prova a restituire in maniera non inerte una serie di informazioni e dettagli, ricalibrati nel fuoco di un racconto. Il punto è che non ho scritto le soglie narrative prima della scelta dei testi, ma dopo. In questo senso Poesie dell’Italia contemporanea è un lavoro induttivo, non deduttivo: non è un’antologia a tesi, come altre – e notevoli – sono state pubblicate in passato (penso per es. a quella di Enrico Testa). Le soglie narrative sono state pensate e scritte soltanto dopo aver costruito le sequenze dei testi, dopo averle attraversate e meditate. Quelle pagine introduttive sono state immaginate affinché creassero le atmosfere di cui mi sembrava necessario che il lettore si impregnasse prima di imbattersi proprio in quei testi e non in altri. Da questo punto di vista se non sono certo racconti completi delle decadi, hanno però l’ambizione di suscitare l’impressione che vi sia un legame fra testo e contesto e la cosa pareva naturale anche a me, ma non è scontata: mi è stata anzi criticata da più parti. Mi hanno infatti accusato di uscire dal campo della mia “specializzazione”, di toccare questioni che esulano dalla letteratura. Per me però era importantissimo che il lettore avesse sempre il sospetto che il testo non fosse un assoluto, ma fosse circondato da un contesto ermeneutico, da una serie di elementi (sociali, economici, artistici), prossimi e remoti, che ne costruiscono il senso e che concorrono alla sua interpretazione. Detto questo, capisci bene che il senso della storia che ho voluto indicare non è certo storicistico: non c’è alcun determinismo fra i contesti e i testi. Se anzi c’è qualcosa che la grande poesia fa spesso è proprio smentire la storia, o meglio: la grande poesia sta in un accordo-discorde, in un equilibrio scaleno, non prevedibile, non desumibile da ciò che accade; sta nell’anticipo e nel ritardo, non è mai desumibile dai fattori che la circondano, ne è anzi la rivelazione e insieme il sovvertimento. L’idea di storia che volevo emergesse fin dalle prime pagine di questo lavoro è l’idea di storia che Walter Benjamin aveva sviluppato nei suoi Passages. Ciò che si trattava di formare non era una collezione di frammenti, giustificati da una pedagogia critica (l’ipotesi di tante antologie), ma una “costellazione del risveglio” in cui è il lettore a dover connettere il mito del passato con il suo presente, attraverso la mediazione del testo, così da crearsi da sé quello che Benjamin chiama una “relazione dialettica”. Avevo in mente le parole di Benjamin: «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione» (p. 516). Ancora Benjamin scrive: «Il testo è il tuono che poi continua a lungo a risuonare» (p. 510). Ecco, volevo che il lettore ascoltasse, nell’ora della sua lettura, nella dimensione fisica e linguistica del testo che si trova davanti, il lento propagarsi dell’eco di questa luce trapassata. Il montaggio di testi e tempi che ho costruito è principalmente volto a costruire una storia per fratture, dialettiche, shock e emergenze: per eventi e agnizioni, più che per ragionamenti e discorsi, che pure ci sono, come sai, ma non volevo che fossero né l’unico modo né quello privilegiato per entrare nell’esperienza della poesia.

A questo punto, forse è più chiaro perché ho deciso di mettere Penna negli anni Settanta e Benedetti negli anni Duemila. Sono due casi diversi, ma ugualmente interessanti. E mi fa molto piacere che tu li abbia notati: sono infatti due storture, due sbreghi dello spazio-tempo. Ho deciso di inserire Penna nel decennio della sua maggior influenza, in cui vinse i premi letterari più importanti, in cui era circondato da una serie di scritture che guardavano a lui come un modello. Non metterlo significava sottrarre al lettore un’esperienza testuale di cui si parlava, che si leggeva, che in quegli anni era nelle mente di molti poeti, più di quanto era accaduto negli anni della sua prima pubblicazione. Mi sembrava insomma un elemento essenziale del contesto sociale del poetico dell’epoca, ma in più mi permetteva di dire qualcosa sulla poesia, in generale. La poesia di Penna è un perfetto esempio di fuori-sincrono: sembra essere del tempo perché non è stata del suo tempo. Esiste una Penna degli anni ‘30 e esiste una Penna degli anni ‘70, potremmo dire. Ma escludere questa seconda vita di Penna sarebbe stato una mancanza: la sua supposta ingenuità e la sua supposta antiletterarietà antiborghese fanno parte del sapore degli anni ‘70, ne sono la rivelazione in una vorticoso hysteron proteron. Diverso il discorso per Mario Benedetti. Hai perfettamente ragione: la sua poesia si iscrive molto bene nel decennio degli anni ‘90 (come Penna negli anni ‘30). Avrei potuto inserirlo nella sequenza degli anni ‘90 e avrei sicuramente compiuto un gesto storico-filologico. Ma sappiamo bene entrambi che in quel decennio la poesia di Benedetti era del tutto impercepita e che i libri prima di “Umana gloria” (2004) per Benedetti non avevano valore di opere compiute. Dovendo fare delle scelte, delle esclusioni, delle sottrazioni, ho preferito allora dare risalto alle quattro opere di Benedetti dei primi anni Duemila: mi sembrava che collocarlo lì ne potenziasse al massimo la forza testuale, la capacità di creare connessioni inattese. Il criterio che ho seguito in questo senso è sempre lo stesso: rintracciare la possibilità, nei limiti della cronologia, che un testo provochi la massima reazione nella catena e non la sua astratta collocazione storico-filologica.

 

RS: Per concludere il nostro dialogo, ringraziandoti per la disponibilità al confronto, vorrei chiederti una riflessione sull’accoglienza ricevuta finora dalla tua antologia. Non mi riferisco tanto ai dibattiti e alle critiche in merito ai singoli autori e ai singoli testi che si è scelto di includere/escludere (questioni che pure comprendo ma che trovo perlopiù oziose, se alimentate, come spesso accade, soltanto da interessi privati e da posizionamenti individuali), quanto alla discussione più ampia che, a tuo parere, questo lavoro è riuscito (o meno) a generare, sia nel campo della critica sia in quello, forse più importante, dei lettori di poesia.

 

TDD: Grazie a te Riccardo, per la generosa disponibilità a discutere insieme. Potrei cominciare dicendo che a fronte di un ottimo riscontro meramente editoriale di vendite, non si è poi davvero avviata per esempio sui giornali la riflessione che speravo sui metodi delle antologie o anche solo sulla ricchezza della poesia italiana contemporanea. Di sicuro, ha pesato il fatto che fosse un’opera non allineata con le varie correnti esistenti e che fosse, in più, un lavoro se non innovativo, almeno insolito, che richiede tempi di lettura e di studio non indifferenti per scriverne. Mi è dispiaciuto soprattutto per via di alcune proposte che gettavo sul piatto sulle quali mi sarebbe piaciuto si potesse creare un dibattito. Nel mio lavoro c’è implicita, per esempio, un’idea di lettura della poesia che non sia solo sull’asse critico\studente, ma che possa essere incontro ermeneutico di un lettore adulto (non per forza laureato in lettere) di fronte alla complessità di un testo; oppure l’idea della fine dello stato di belligeranza fra la cosiddetta poesia di ricerca e poesia lirica; oppure ancora un altro tema su cui mi sarebbe piaciuto ragionare insieme sarebbe stato il tema della continuità fra le generazioni, che molte antologie hanno oscurato. Devo aggiungere però che diversi insegnanti di istituti secondari superiori mi hanno scritto dicendomi che hanno portato il volume in classe, hanno letto i testi insieme agli studenti e hanno provato a creare attraverso la lettura le categorie di interpretazione del testo: pare che si siano avvenute esperienze didattiche interessanti. Non ho pensato questo volume per le scuole (né per l’università) e mi sembra senz’altro azzardato e coraggioso, ma mi ha fatto piacere saperlo usato in contesti per cui non è stato pensato. In generale, ho riscontrato una forte dicotomia nella ricezione del mio lavoro: da una parte i nostalgici, dall’altra gli entusiasti. Fra i primi metterei una categoria che indicherei come “Letterati”, ovvero coloro i quali hanno in genere una laurea in filologia e sono nati dalla prima metà degli anni Novanta in giù. Mi pare abbiano sofferto molto per la mia impostazione non tradizionale e non storicistica e che non siano stati colpiti dal tentativo di seguire i modelli di Benjamin e di Warburg (che sono belli da leggere, da citare, ma non da seguire); molti hanno manifestato una certa nostalgia per un impianto più tradizionale. Insomma – per essere un poco semplificatori – mi è sembrato che volessero, ardentemente, un nuovo Mengaldo. È come se dicessero: vogliamo il Novecento che non abbiamo vissuto. Hanno l’idea (rispettabilissima) di un’opera antologica che sia una messa in ordine di un panorama che percepiscono troppo confuso (un monumento ordinato di ciò che è stato) e che, al contempo, esprima un gesto di forza egemonica di una linea della poesia o della critica (naturalmente: quella a cui appartengono). Da questo punto di vista, il mio lavoro ha scontentato un po’ tutti; innanzitutto perché – in questo seguendo da vicino Antonio Porta e il suo Poesia degli anni Settanta (1980) – non ho voluto fare un monumento statico, che addomesticasse una volta per tutte una pluralità, ma un oggetto dinamico e policentrico che restituisse un’immagine percorribile dello stato dell’arte. Su questo ha fatto una riflessione importante Andrea Cortellessa nella presentazione che si è tenuta a Roma: non c’è una teleologia nel mio lavoro perché viviamo in tempi radicalmente non teleologici. Ma appunto non a tutti va bene così: alcuni pensano l’antologia come strumento di “ortodonzia letteraria”, di correzione o compensazione delle storture della propria epoca. Dall’altra parte rispetto ai “Letterati”, invece ci sono stati gli “Entusiasti”: spesso sono lettori non specialisti, che non scrivono sulla stampa, che non fanno recensioni, che hanno comprato il volume sulla fiducia e sulla scorta di una passione sincera per la poesia. Diversi mi hanno scritto messaggi personali e mi confermano che si sono trovati a loro agio dentro le pagine: si sono anche divertiti a giocare con i testi e con le tante interpretazioni possibili e hanno scoperto molti autori di cui non avevano mai sentito parlare. (Ricordo per esempio una persona che mi ha ringraziato tantissimo perché ha scoperto Beppe Salvia, che non aveva mai sentito nominare prima). Ho notato poi che alla categoria degli “Entusiasti” appartengono più facilmente i non laureati in lettere (sono magari studiosi di filosofia o di arti visive o artisti) e i lettori molto giovani (diciamo nati dopo la metà degli anni ‘90). Si sono trovati completamente a loro agio nell’impostazione del volume e diversi mi hanno anche sottolineato il carattere “liberatorio”: l’idea insomma che la poesia non sia per forza legata a un’idea di studio manualistico, ma a un’esperienza diretta di un testo è più in linea con i loro desideri. (In particolare mi ricordo un fotografo di Perugia che mi ha detto che si era trovato molto a suo agio nell’impostazione perché – a detta sua – la successione delle immagini in molti libri di fotografia è costruita come nel mio volume). Mi ha poi stupito la ricezione di alcuni poeti, che sebbene non abbiano scritto pubblicamente, mi hanno mandato dei messaggi sul mio lavoro. Alcuni poeti (anziani) mi hanno ringraziato; uno ha paragonato il mio lavoro a una “spotify della poesia” (non so se c’era volontà di offendere nella definizione: a me è piaciuta molto). Altri ancora, più vicini alla scrittura lirica, sono stati colpiti (e addirittura offesi) dalla presenza nel mio lavoro di molti poeti legati alle tradizioni della sperimentazione e della ricerca; al contrario, molti poeti sperimentali hanno apprezzato la prossimità violenta e le somiglianze improvvise fra stili così difformi (stupendosi e a volte inquietandosene). Non in pochi hanno poi colto il piano artistico dell’opera e sono rimasti colpiti dall’idea di poter leggere il decennio come “un libro di libri”, disinnescando il criterio dell’autore. In fondo, mi sono accorto, la tracciabilità dell’autore interessa soprattutto ai poeti (il cui narcisismo è proverbiale) e agli storici (cioè: ai laureati in filologia, che tra l’altro sono anche spesso poeti), a tutti gli altri interessa davvero poco o, quanto meno, accettano più facilmente l’idea che non sia la categoria principale. Mi sono reso conto solo a posteriori in effetti che Poesie dell’Italia contemporanea è pensato più come una mostra d’arte che un’antologia letteraria. Proprio in questi mesi al museo della Triennale di Milano è allestita una mostra antologica sulla pittura italiana che si intitola Pittura italiana oggi, a cura di Damiano Gullì, che pur lasciando visibile il nome del pittore e selezionando solo le opere di artisti italiani nati tra il 1960 e il 2000, dispone senza distinguere fra le generazioni centoventi opere pittoriche in una sequenza libera, ritenuta significativa dal curatore. Mi ha colpito che per molti punti l’impostazione sia simile a quella che ho seguito nel mio lavoro e in quel caso nessuno ha avuto da ridire sul metodo del curatore (ma anche in quel settore molto si è discusso sui nomi degli esclusi e degli inclusi, ovviamente). Insomma, mi pare che in generale la poesia italiana faccia fatica a pensarsi come un linguaggio fra le arti contemporanee e desideri sempre tornare a legarsi alla propria nicchia specifica: di metodi, di aspettative, di interessi. Se c’è una cosa che invece mi piacerebbe accadesse è che in futuro il mio lavoro fosse rubricato come un tentativo di emancipazione della poesia dai propri schemi, dai propri pregiudizi: forse anche da se stessa.

 

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[Una versione più breve di questo dialogo è stata già pubblicata in «Gradiva», n. 64, II, Fall 2023, pp. 73-79]

 

Il mio primo maestro era svedese

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di Paolo Morelli

Lo scorso 4 febbraio si è spento a 89 anni a Firenze Kurt Hamrin, calciatore di Juventus, Padova, Milan e Napoli, ma soprattutto e innanzitutto della Fiorentina, tuttora al nono posto dei marcatori italiani di tutti i tempi. Una leggenda, una delle tante storie infinite che il calcio contiene come forse nessun’altra vicenda umana.

È stato il mio primo maestro. Di sicuro è stato lui a convincermi di giocare tutte le mie fortune all’ala destra.
Avevo sei o sette anni quando è arrivato alla Fiorentina, di cui già ero tifoso. Era il 1958 e la palla, tra un rimbalzo e l’altro, occupava almeno il 90% del mio tempo, col vantaggio ulteriore che non me ne rendevo conto. La prima volta che ho visto una palla non me lo ricordo, ma lo potrei inventare. Mi sembrava che fosse tutto lì il senso, nel reagire al suo movimento, cercare di addomesticarlo, insomma capirlo. Lo studio era immersivo, si direbbe oggi, in ogni momento delle giornate della vita e senza nemmeno un dubbio o una stanchezza, tutto il resto spariva su altri piani meno interessanti, rimandabili di fronte a una necessità più che evidente, lampante, in perenne mutamento. Interno o esterno, anfratti, muri per ore, lampadari, da solo o con gli altri. Bisognava studiare, fare meglio, qualcuno faceva meglio di altri, il controllo totale però era escluso a priori, qualcosa di mai del tutto addomesticabile era costantemente sotto i nostri occhi stupiti da tanto insegnamento. All’epoca era il primo addestramento e l’unico nel vero senso della parola, i libri scolastici non reggevano il paragone. Ognuno sceglieva il suo punto di vista da cui operare nello studio e, proprio allo stesso tempo è costretto a sceglierlo dalle peculiari caratteristiche fisiche e psicologiche che ora, man mano, scopre di avere o non avere. Si imparano anche le regole del gioco, le prime regole di gioco di cui si sente parlare, chiare, intoccabili, così si crede, provenienti forse dall’inizio di tutto, per il resto si va a tentoni ma con i piedi, tra la polvere o il fango a seconda delle epoche dell’anno che sono tutte sterminate, senza limiti di campo. Si impara che siamo una squadra e che ci sono limiti utili dell’individualismo, mai oltre quelli che servono a superare l’ostacolo. A volte i campi di gioco sono così vasti che sconfinano nel fiume, qualcuno di noi c’è anche morto per recuperare la palla sacra, divina.
Quando lo svedese Kurt Hamrin arriva, la Fiorentina è una grande squadra. Io da romano ero diventato viola per la vita perché in quel periodo mio padre faceva il cuoco durante il ritiro estivo all’Abetone e Miguel Montuori mi aveva carezzato sulla testa. Miguel Montuori era il primo grande 10 della Fiorentina, dotato poi di una sfortuna grandissima.
Ed ecco che arriva l’esempio, l’insegnamento, la prima via da seguire. Ripeto, anche col vantaggio ulteriore di non rendersene conto, con quell’unico grande vantaggio di non saperlo non sapevamo che lo studio della Via consiste solo nel seguire, caso per caso, il corso degli eventi. A pensarlo e a dirlo semmai abbiamo imparato dopo.
E all’epoca poi bastava giocare a pallone coi calzettoni abbassati fino alle caviglie per scoprire chi si voleva essere al mondo e dichiararlo. O almeno quello per cui si veniva portati da un certo tale detto Destino di cui non sospettavamo l’esistenza. Un ribelle, un irregolare e, badiamo bene ancora, la fortuna stragrande è di non saperlo. La prima sfida che ne prometteva molte altre, senza sapere nemmeno che le sconfitte supereranno talmente le vittorie tanto da cancellarle. C’è da dire che portare i calzettoni giù, arrotolati fino sui rozzi scarpini era un gesto da attaccante, un gesto irridente e puro, voleva dire agli arcigni terzini avversari coi calzettoni alle ginocchia, non solo che incarnavano gli sbirri di ogni epoca e luogo nella storia del mondo ma che mai ci avrebbero preso. Coi calzettoni giù infatti non si portavano i parastinchi, così quelli avrebbero potuto farti male, magari spaccarti una gamba ma il chiaro messaggio era: non mi prenderai mai sbirro!, e poi ci si poteva comportare di conseguenza, con la libertà e l’agilità che il più delle volte si credeva solo di avere ma bastava e avanzava per tentare. Sivori, Meroni, Corso, Hamrin erano gli esempi da seguire per quelli che volevano rovinarsi la vita nella cerchia più stupida e insensata al mondo, chiamata svagata libertà. Per me soprattutto l’ultimo, Hamrin Kurt, basso biondino svedese, soprannominato l’Uccellino. Il mio primo maestro è stato uno svedese, e io qui lo onoro per questo.
L’ultima volta l’ho visto in un video, già qualche anno fa. Era a Firenze dove viveva, sotto la sede della Fiorentina Calcio. Non ricordo in che occasione erano lì con Giancarlo Antognoni, l’Eterno Dieci e alcuni tifosi. Siccome c’era un pallone in circolo se lo passavano come si fa da sempre, ognuno provava qualche palleggio prima di darlo agli altri. I tifosi erano scarsi al riguardo, perfino Giancarlo ha avuto qualche problema coi pantaloni e le scarpe da città, poi l’hanno data a lui. Quasi non riusciva a alzare i piedi, lui che certe volte pareva proprio volare, radente ai prati per poi atterrare improvviso nell’area di rigore, difatti era sunnominato l’Uccellino e sfidava la legge con l’onestà del coraggio.
Piccolo, biondo, col ciuffo ci ha regalato pochi momenti come questi belli, come dice il poeta. Io all’inizio avevo capito Hambrim.
Era il periodo degli svedesi. La loro nazionale era arrivata in finale ai Campionati del Mondo, l’aveva persa col Brasile di Pelè. L’allenatore di quella nazionale aveva dichiarato di essersi ispirato alla tattica della Fiorentina, in quel momento una delle squadre più forti sul globo terracqueo. Kurt era arrivato in viola subito dopo la vittoria del primo scudetto per sostituire Julinho all’ala destra, e ci è rimasto fino alle soglie del 1968, proprio quando il mio interesse defluiva, scemava, ma solo per una pausa confusa di qualche anno.
Quello irridente non è il modo giusto per affrontare un dribbling, insegnava Hamrin, soprattutto a gambe nude. Non come i sudamericani, Sivori ad esempio. Tanto, il terzino o chi per lui si sentirà comunque irriso, è nella sua natura. L’ideale sarebbe coinvolgerlo nell’euforia del gioco, ma siccome è impossibile ognuno stia al posto suo. Se vuoi irriderlo sei già nella posizione coinvolta della sua eventuale violenza, sei nella combriccola ed è facile che reagisci. Non mi ricordo che Kurt sia mai stato espulso per un fallo di reazione, e non ho voglia né bisogno di guardare le statistiche. Fateci caso, altro insegnamento: il fallo di reazione, anche se lieve, viene considerato più grave perfino della violenza bruta e comunque scatenante, anche moralmente intendo. Si imparava molto allora, era un campo talmente vasto da sconcertare, con le gambe marcate a vita da lividi e cicatrici. È il gran vantaggio di essere ignoranti.
Lui insegnava la calma, nella lotta, ma questo per noi era veramente troppo, lo è anche oggi: il vincente prima vince poi scende in campo, il perdente prima scende in campo poi cerca il modo di vincere. Il dribbling di Hamrin presupponeva la calma, in stile nordico, ma non significa per niente algido.
Scendeva sulla fascia destra saltando gli avversari come birilli, così si dice in gergo, voleva arrivare in porta con la palla al piede, così si dice, una volta l’ho visto con i miei occhi già sulla linea tornare indietro, perché gliene mancava uno e voleva completare il suo compito con diligenza. Depositare alla fine la palla nella rete veniva come istanza solo necessaria, e non era mettere ma depositare, fin lì giungeva l’eleganza.
Altezza 1,69, peso 69 kg., come sottotitolavano le figurine, biondo figlio di un imbianchino di Stoccolma, col ciuffo che certo doveva scuotersi all’aria alle sue movenze, figuratevi un canarino, altrettanto svagato all’apparenza. Passetti brevi, e bravi, il manto erboso lo piluccava con cura. Scatto, dribbling stretto, allungo, guizzo. Essere basso, avere il baricentro basso era un vantaggio allora più di quanto lo sia oggi, permetteva il movimento improvviso, lo scattare, lo sgusciare, permetteva la fuga. Gli alti, i rocciosi, i difensori dell’ordine costituito ci mettevano più tempo per scuotersi e provare a seguirti, braccarti, era la loro natura. Il 2 febbraio 1964, io avevo dodici anni, una domenica certo, segnava 5 goal nel 7-1 a Bergamo con l’Atalanta, un record ineguagliato. Io e mio padre mettevamo la radio al centro del tavolo di formica, solo posso inventare cosa sia successo al centro nel mio cuore basandomi su cosa mi succede adesso a raccontarlo.
E qui si apre uno squarcio, l’interrogativo gigante: io la racconto al naturale, ma come facevamo a sapere, a vedere tutto se scarsi, sfocati e traballanti erano i riflessi cosiddetti in tivù, le immagini delle partite? Eppure giuro che eravamo in grado di descrivere per ore i gesti di ognuno, al ralenti, imitarli frame by frame, farli fruttare come orientativi, educativi. Delle due l’una: o avevamo facoltà adesso dimenticate o mi sto inventando tutto. O sono i miracoli dell’elaborazione fantastica, per me allora ne eravamo capaci e nessuno mi può smentire.
Fiducia, mi insegnava la fiducia Kurt perfino quando è scriteriata, e che altro modo non c’è come questo bello. La mente resta alta pure se la testa bisogna tenerla bassa, a seguire le voglie del pallone, per assecondarlo e sottrarlo a chi vuole te soprattutto, per punirti, la palla in fondo gli interessa meno. Per forza che a volte gli si risponde con un tunnel, la palla sotto le gambe, l’affronto.
Fino dall’antichità si vocifera che ci sia un dio dentro, nell’aria lì racchiusa, e la riprova la vediamo nei rimbalzi e nei contrasti che fa ogni volta che uno di costoro, i benedetti, gli eletti se ne appropria, va da loro ogni volta, l’attirano come se gli appartenesse per diritto imperituro, per una qualità della giustizia.
Devo inventarmi pure questo, non del tutto forse. Forse dopo il suo insegnamento e l’addestramento che ne è seguito in ogni partita in cui non c’era l’arbitro, nel dubbio dei falli chiedevano a me, la mia opinione era risolutiva nelle contese, anche gli acerrimi avversari, come se uno potesse essere autorevole a dieci anni.
Oggi e da tempo portare i calzettoni abbassati è considerato illegale e la scusa è la solita: è per il tuo bene, per la tua sicurezza. Vale a dire non solo le gambe, puoi rovinarti la vita. Ipocritamente, velatamente qualche arbitro permette a qualche eletto di portarli a mezz’asta, Totti ad esempio, o K’varatskhelia.

 

NdR: Kurt Roland Hamrin era nato a Stoccolma il 19 novembre 1934, figlio di un imbianchino. Da adolescente ha lavorato come zincografo, anche mentre giocava nell’AIK Stoccolma dato che le squadre svedesi erano semiprofessionistiche. Dopo il secondo posto della Svezia ai Campionati del Mondo, finale persa contro il Brasile di Pelè, viene in Italia, preso e poi scartato dalla Juventus. Dal Padova passa alla Fiorentina, e dopo nove anni al Milan dove vince la Coppa dei Campioni. Conclude la carriera tra Napoli e IFK di Stoccolma. Viveva a Coverciano.

 

 

Creazione di sé e progetto democratico

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Devo ringraziare Ferruccio Andolfi, curatore di un volume appena uscito, Individualismo solidale. Una nuova immagine dell’utopia (MUP, 2023), per avermi dato la possibilità di ripercorrere attraverso il saggio che qui presento gli autori che sono stati fondamentali per pensare la società in cui vivo e alcuni dei suoi conflitti maggiori. Si tratta sopratutto di filosofi: Wittgenstein, Castoriadis, Descombes, ma anche antropologi come Louis Dumont o scrittrici come Léonora Miano. 

Il volume curato da Andolfi, tratta dell’individualismo solidale, ossia di una prospettiva che riconosce l’irreversibilità della valorizzazione degli individui avvenuta in epoca moderna, ma ammette insieme la possibilità di conciliarla con istanze sociali di generosa reciproca dedizione. Nello stesso volume, si ritrovano interventi di Rino Genovese, Paolo Costa, Ugo Cornia, Italo Testa, Maria Borio, Charles Larmore, Francesca Sofia Alexandratos, e altri/e.

di Andrea Inglese

Siamo nati moderni, cioè individualisti

Cosa significa venire al mondo in una società individualista, in una società che concepisce se stessa attraverso l’ideologia dell’individualismo, ossia cosa vuol dire venire al mondo in una società che ha conosciuto la modernità occidentale? Prima o poi, chi nasce e cresce in essa sarà confrontato a un ideale forte, quello della realizzazione di sé. Gli individui empirici sono sempre esistiti e sono stati considerati, in ogni società, come agenti autonomi. Un agente autonomo, ad esempio, è un agente che è in grado di poter non eseguire un ordine che gli viene impartito, dando una spiegazione più o meno persuasiva di questa sua decisione (o non dandone, al limite, nessuna). Gli individui della società individualista sono individui in questo senso, ma lo sono anche in un altro: sono individui normativi, ossia hanno il compito di realizzare se stessi al di fuori del tessuto di appartenenze e di ruoli sociali che acquisiscono nel corso della socializzazione. In che rapporto questo aspetto ideale sia con l’aspetto fattuale dell’ordinaria autonomia degli individui non è qualcosa di molto chiaro, e ha suscitato vaste riflessioni sia nell’ambito delle scienze umane che in quello della filosofia. Più in generale, l’ideologia individualista fa leva su una serie di presupposti che accompagnano e rafforzano gli ideali che abitano l’individuo normativo, ossia l’individuo che deve innanzitutto esistere per sé, prima di esistere per gli altri. Questi presupposti non sono identificabili attraverso una chiara e coerente lista di nozioni. Stiamo considerando elementi di una configurazione ideologica, che ha finito per imporsi nelle società occidentali attraverso un certo numero di secoli. A questa configurazione hanno contribuito le formulazioni individuali dei filosofi, in modo particolare le loro dottrine del “soggetto”, della “coscienza”, della “ragione umana”; le diverse scienze sociali, elaborando metodi di ricerca incentrati sulla “realtà” dell’individuo; la letteratura stessa, almeno dal XVIII secolo in poi, esplorando attraverso sia generi ereditati sia forme radicalmente innovative l’immagine di un individuo ordinario sempre più estraneo nei confronti della società in cui vive.

Di questa estraneità tra l’io e il mondo sociale, noi contemporanei siamo diventati a tal punto esperti, che la consideriamo spesso un dato di fatto, giudicato a seconda dei casi come una calamità storica o, all’opposto, un punto di partenza inevitabile per affermare, in quanto individui, la nostra identità autentica nei confronti di una collettività minacciante. L’ironia dell’epoca presente vuole, però, che non siamo ancora usciti da un paradosso che già i nostri predecessori moderni ben conoscevano: se l’individualismo liberale ha trionfato, con tutti i corrispettivi vantaggi (autenticità, autoespressione, realizzazione di sé, rivendicazioni di differenze) e svantaggi (narcisismi, solipsismi, egoismi, competitività illimitata), come mai non si sono dissolte con esso le ombre di un condizionamento sempre più capillare delle menti e dei comportamenti individuali da parte di strutture di potere, megamacchine sociali, istituzioni tentacolari? L’incarnazione forse più evidente di questo paradosso è costituito dall’ambivalenza che ogni persona sperimenta nel suo rapporto con le piattaforme digitali e i social network: occasione ideale di una libera espressione di sé o tentazione irrefrenabile di narcisismo, ma anche, contraddittoriamente, pericolo di dipendenza (e alienazione) nei confronti del dispositivo tecnologico o addirittura di manipolazione da parte di algoritmi che selezionano contenuti in modo imperscrutabile.

La contraddizione apparentemente irrisolvibile tra libera volontà individuale, da un lato, e condizionamento più o meno consapevole da parte delle strutture di dominio, dall’altro, ci obbliga se non altro a uscire dall’illusione di una società che avrebbe la forma di un contratto stipulato tra individui già pensanti e agenti in una realtà definita. Come tutti, ho creduto in gioventù di possedere una vita interiore e personale da dover preservare contro un mondo di istituzioni repressive e di forme linguistiche stereotipate. Come tutti, in altre parole, sono stato affascinato dalla figura del poeta “lirico”, indipendentemente dall’aver scelto di praticare io stesso la scrittura poetica. Ho accolto, insomma, con slancio e adesione gli ideali espressivisti dell’individualismo. E ho impiegato, poi, parecchi anni per giungere a dissipare un certo numero di malintesi intellettuali legati ad essi e, più in generale, al paradosso tipico dell’individuo moderno, sospeso tra pienezza assoluta e annichilimento.

Olismo antropologico e democrazia occidentale

Se il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche costituisce il punto di partenza di tale processo di chiarificazione, l’opera del filosofo francese Vincent Descombes ne risulta per certi versi il punto d’arrivo. In Descombes, l’eredità wittgensteiniana è combinata con il pensiero delle “significazioni immaginarie” di Cornelius Castoriadis, con la scuola francese di sociologia di Marcel Mauss e con l’antropologia comparativa di Louis Dumont. Questi molteplici riferimenti gli permettono di elaborare un approccio olistico e quindi radicalmente critico nei confronti dell’ideologia individualista. Il funzionamento di una società – inclusa la nostra, moderna e occidentale –, non può essere spiegata attraverso l’immagine che ne fornisce una tale ideologia. Solo una totalità di senso, un mondo di significazioni comuni e di pratiche adeguate ad esse, un intreccio di giochi linguistici e di forme di vita, solo uno “spirito oggettivo” così costituito può permettere la formazione di esseri umani che, oltre al fatto di essere individuati, sono anche in grado di acquisire, attraverso il processo di socializzazione, una loro autonomia di agenti. Non è possibile suppore degli individui, intesi come soggetti dotati di bisogni definiti e di una ragione funzionante, prima dell’intervento delle istituzioni linguistiche e sociali all’interno di un dato mondo storico. “La società non può fare altro, in primo luogo, che produrre individui sociali che le sono conformi e che la producono a loro volta”[1]. Se questo è vero, l’individuo alla ricerca del proprio sé autentico, l’individuo che si oppone alla società inautentica, dovrà ridefinirsi come un essere che ha acquistato la sua umanità grazie a un tipo antropologico, del quale assume finalità ultime e modalità espressive, entrando a far parte di una totalità sociale, già articolata in ruoli complementari. Dobbiamo allora considerare che è la società a fornire all’individuo tutti i valori che gli permettono di emanciparsi proprio da essa. Ma se formuliamo il legame individuo moderno-società in questi termini, rischiamo di uscire da un paradosso per gettarci in un altro: in che modo la società formerebbe degli individui, affinché essi finiscano con negarne le istituzioni e l’esistenza stessa?

È ancora Castoriadis che può venirci in aiuto: ciò che definisce una società democratica non in senso puramente procedurale, ma sostanziale, è il riconoscimento del potere istituente che individui e collettività esprimono attraverso la lingua e gli usi innumerevoli che caratterizzano una certa cultura. Solo a partire da esso, potrà venir concepito un potere costituente, ossia la scelta e l’applicazione di un certo sistema legislativo. (“Le legislazione non può creare la lingua nella quale sarà elaborata, e tantomeno può creare i costumi grazie ai quali essa non resterà lettera morta”.[2]) La particolarità delle società occidentali consiste, quindi, nell’aver reso esplicito questo potere istituente, e nel difenderne l’espressione concreta attraverso un regime politico specifico, che è quello delle attuali democrazie. In questa “cultura democratica” viene riconosciuta all’individuo singolo la possibilità di far valere una sua autonomia, ma quest’ultima ha senso esclusivamente in rapporto all’eredità culturale che gli è stata trasmessa e in cui è stato educato. In questa prospettiva va inteso, allora, un ideale di realizzazione o espressione di sé: l’agente autonomo, che tutte le società anche gerarchiche, tradizionali e pre-moderne hanno conosciuto, è invitato ora, nelle democrazie contemporanee, a individualizzarsi, ossia a ricevere criticamente l’eredità di valori, usi, discorsi che lo hanno preceduto e in parte costituito. Questa individualizzazione è meno una richiesta di riconoscimento che il singolo indirizza a una collettività, che una creazione di sé rivolta al futuro, una creazione che si realizza attraverso i ruoli e le appartenenze stabilite, ma anche al di là di esse. L’apertura al divenire socio-storico non è solo l’accettazione di un processo inevitabile e in gran parte collettivo e inconsapevole, ma è anche la partecipazione attiva e consapevole ad esso a livello individuale. La domanda di riconoscimento presuppone che, colui o colei che la formula, possegga già la sua fisionomia differente, mentre la creazione di sé implica rischi e incertezze negli esiti di tale processo.

Vorrei / m’immagino / sono persuaso d’incarnare un nuovo tipo di padre (o di marito o d’insegnante), ma in fin dei conti gli altri considerano che mi comporto come tutti i padri che mi hanno preceduto e mi circondano. Oppure gli altri possono sì accordarsi nel riconoscere la novità del mio comportamento, ma esso si traduce per loro in azioni insensate o contraddittorie, impossibili da assumere come modelli alternativi. Nulla garantisce che una creazione di sé, così intesa, possa riuscire, ottenendo quindi adesione e radicamento nelle pratiche sociali. Quello che non si può certo immaginare è una creazione di sé, individuale o collettiva, che si ponga magicamente al di là delle istituzioni esistenti e che sia in grado di esprimersi in una lingua radicalmente nuova. Per misurare il proprio grado di riuscita, una creazione di sé deve presupporre delle istituzioni, rispetto alle quali marcare la propria differenza, così come un discorso comune, di cui innovare e riarticolare alcune “province”. Le fantasie degli anarchici (e anche del marxismo più ortodosso) finiscono per collimare con quelle dell’individualismo liberale più oltranzistico: la società (post-rivoluzionaria per Marx) non è altro che una libera associazione di individui, in grado di decidere intersoggettivamente (per accordo reciproco) il senso di ogni loro atto e di ogni loro parola. Ma un tale scenario è antropologicamente e sociologicamente insensato.

Se vogliamo difendere la possibilità per gli individui di individualizzarsi, se vogliamo difendere l’idea che la creazione di sé possa rimettere in discussione le leggi che ci siamo dati, e quindi anche gli usi e le forme linguistiche, dobbiamo difendere innanzitutto le istituzioni democratiche, l’educazione democratica per i nostri figli, la lingua comune, all’interno delle quale, per altro, avvengono comunque innovazioni e invenzioni. E ciò significa riconoscere le molteplici appartenenze che ci rendono membri effettivi di una totalità che ci trascende. Possedere le prerogative, quindi, di un individuo democratico, implica innanzitutto essere cittadini, ossia membri di una comunità politica e di uno Stato determinati. Riconoscersi come cittadino – scrive Descombes – corrisponde “al momento in cui l’individuo deve riconciliarsi con il suo essere sociale”[3].

Le nostre democrazie han poco di democratico, si dirà. Nei fatti funzionano piuttosto come regimi oligarchici. E inoltre, nonostante l’insegna “democratica” che esibiscono, praticano discriminazioni molteplici, di genere, di orientamento sessuale, di razza, ecc. Tutto questo è vero, ma la democrazia, nel suo significato forte, sostanziale, che è quello difeso da Castoriadis, andrebbe considerata come un progetto da realizzare, non come un insieme di norme e istituzioni di cui siamo già stati dotati una volta per tutte, e di cui si dovrebbe solo garantire il buon governo. Ma lo stesso si potrebbe dire – come dicono per altro certi costituzionalisti – della carta costituzionale italiana: essa è un progetto, non solo qualcosa di dato definitivamente, e che eventuali modifiche o riforme potrebbero compromettere. Se dunque la condizione perché davvero si possa parlare di autonomia e di creazione di sé individuale risiede in una democrazia sostanziale, allora l’individuo dovrà differenziarsi dagli altri individui e, nello stesso tempo, rendersi solidale ad essi nel progetto democratico, in quanto cittadino tra i cittadini.

Constatare che il progetto democratico è incompiuto, e seriamente minacciato, non può comportare una semplice reazione di discredito (“la democrazia è una pura finzione che occulta le reali forme di dominio”, ecc.), in quanto è il progetto più avanzato culturalmente e politicamente che abbiamo sul piano storico-antropologico; esso coincide con il progetto di autonomia, di riconoscimento cioè che le norme che ci diamo non vengono né da Dio, né dalla natura, né dalla ragione umana universale, né della leggi della storia, ma dalla comunità umana e dalle sue istituzioni determinate.

Questo discorso, quindi, non ha valore solo per coloro che già posseggono il privilegio della “piena cittadinanza”, in quanto individui occidentali di una democrazia occidentale. Su questo punto, la scrittrice e militante Léonora Miano, di nascita camerunese ma di cittadinanza francese, è stata magistralmente esplicita. In un passo di Afropea, un saggio del 2020, si rivolge a tutti gli afrodiscendenti che vivono in Europa, e che fronteggiano situazioni di razzismo e discriminazioni istituzionali. Scrive:

Dal momento che non si riesce ad essere lì, non si può essere di nessun’altra parte al mondo. È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come fa Afropea. È possibile dire no alla supremazia bianca, indicando, nello stesso movimento, che si è nati proprio su questa terra europea e, dal momento che è andata così, e dal momento che ciò deve voler dire qualcosa, ci si dà come missione di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: bisogna appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[4]

Per comprendere appieno il ragionamento di Miano, dobbiamo chiarire un punto: ciò che chiama “occidentalità” non riguarda in toto la cultura occidentale, ma una sua componente specifica, che Castoriadis per primo aveva ben isolato: l’espansione illimitata del dominio “razionale” sugli esseri viventi e sul mondo. Questo desiderio di espansione illimitata non è un’invenzione della società occidentale, ma esso ha trovato nel capitalismo la sua forma storica più efficace e perniciosa. Capitalismo – come progetto di espansione e controllo illimitati – e democrazia – come progetto di autonomia – non sono però “significazioni immaginarie” intrinsecamente legate, anche se, nell’evoluzione della società occidentale, si trovano a coesistere. A confortare l’analisi di Castoriadis, vi è il discorso di Miano, che si pone nella prospettiva dei “nuovi arrivati” in Europa, ossia di coloro che, venendo dalle antiche colonie dell’Africa, si sono ritrovati a vivere in un universo politico e in una cultura, in cui non tutto era da rigettare come nocivo o inservibile per creare una propria nuova identità. Anche per i non-europei che si sono ritrovati a vivere sul suolo europeo, l’eredità occidentale è apparsa composita, oltreché contraddittoria. In essa c’erano cose contro cui combattere, ma anche cose di cui servirsi.

I cittadini occidentali – sia individualmente, sia per gruppi minoritari o discriminati – che criticano l’occidente, devono riconoscere almeno due cose, affinché la loro critica abbia qualche possibilità d’incidere durevolmente sulla società in cui vivono. La prima riguarda la salvaguardia di quel progetto di democrazia, che costituisce la legittimazione non solo a livello di procedure, ma anche di attitudini incarnate, di quelle stesse critiche rivolte alla tradizione e alle istituzioni. Se chi critica non lo fa per un religioso rigetto della società terrena in cui vive, come accadeva nel caso degli anacoreti, allora deve sapere non solo cosa rifiutare della cultura e delle istituzioni, ma anche cosa sceglie di difendere e salvaguardare. La seconda cosa, diretta conseguenza della prima, è l’accettazione dell’appartenenza alla società di cui si criticano le istituzioni, e quindi l’accettazione della cittadinanza all’interno di una totalità sociale e politica storicamente e geograficamente determinata.

In nome del genere umano, dell’umanità universale, si può di volta in volta pretendere di ampliare i criteri di cittadinanza, in modo da includere in una società degli individui che ne sono esclusi e che, quindi, non possono intervenire sulle decisioni politiche che li riguardano. Non si possono però difendere concretamente degli individui del genere umano, considerato come un’entità astratta, aleggiante al di sopra di Stati, frontiere, istituzioni precise nei confronti di cui, eventualmente, si potrebbero indirizzare rivendicazioni, richieste, critiche. L’essere umano nella sua pura generalità assomiglia all’individuo nella sua pura singolarità: entrambi esistono al di fuori della totalità sociale storica e determinata, che sola, però, attribuisce loro i mezzi per condurre delle battaglie come soggetto politico.

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[1] Cornelius Castoriadis, « La démocratie comme procédure et comme régime », in La montée de l’insignifiance, Seuil, Paris, 1996, p. 270.

[2] Vincent Descombes, Les embarras de l’identité, Gallimard, Paris, 2013, p. 247. Si tratta di un passo in cui Descombes discute esplicitamente il concetto di potere istituente di Castoriadis.

[3] Vincent Descombes, Exercices d’humanité. Dialogue avec Philippe de Lara, Pocket, Paris, 2020, p. 211.

[4] Léonora Miano, Afropea. Utopie post-occidentale et post-raciste, Pluriel, Paris, 2021, p. 200.

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Chiamate notturne

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di Fausto Paolo Filograna

A Paolo

Marito si è messo alla guida. È ancora luce in quella zona del mondo, e mancano molti mesi alla nascita e alla morte della loro bambina. Ogni tanto, al culmine di qualche salita, se le curve della strada non sono costeggiate da troppi alberi, riesce a vedere una striscia di mare perdersi lontano verso Ovest, poi il nulla ai lati della strada, un’agave, un ulivo secco, finché il muro di una villa illumina il parabrezza, e dal finestrino abbassato si sente l’eco del rumore della macchina nello spazio vuoto. La macchina costeggia muri lunghi diversi chilometri, che rientrano improvvisamente esibendo grossi cancelli scuri e metallici. Cliniche, resort, residenze di industriali arteriosclerotici abbandonate o di politici che vogliono mettere il cazzo all’aria aperta. I miliardari, dice a bassa voce. Impiccàti. Tutti. E intanto pensa al sonno.Non vede l’ora di dormire, e anche Moglie a casa sua non vede l’ora di dormire. E sebbene sappiano che non sarà un buon sonno, ma una ripetizione incosciente delle ossessioni diurne, desiderano abbracciarsi alla sua transitorietà: in un attimo la luce della veglia lava ciò che è accaduto in sogno come l’acqua spegne la luce di un cannello della fiamma ossidrica. E per quanto ormai in parte lo temano, preferiscono il sonno alla vita. “Un giorno verremo giudicati per i nostri sogni” ha detto Moglie a Marito. Ma lui gli crederà? Ogni religione, predica di svegliarsi, di riprendersi dal sonno, e tutti hanno ricercato Dio nella veglia, finora, e nessuno sa se invece non sia sempre stato nel sonno e nel buio, o, come dice Moglie, nel suicidio.

Marito sta guidando da molto. Più avanti lungo la strada si sarebbe profilato il cimitero per un paio di chilometri, con le luci accese anche mentre il sole finisce il suo stupido lavoro. Si ferma prima, nella rientranza di uno di quei cancelli, e comprende che non è per niente calmo. E così, come tante altre notti, la chiama.

Stai guidando?

Mi sono fermato prima.

Prima?

Del cimitero.

Non lo dici in senso metaforico.

No dico davvero. Non voglio fermarmi alle porte del cimitero. Se mi fermano e mi chiedono che ci faccio lì, non posso dire che sto telefonando davanti al cimitero. Dai su. Tra l’altro un collega mi ha raccontato che hanno fermato uno lì davanti al cimitero. Gli hanno detto che ci fai davanti al cimitero. E lui balbetta che è venuto a fare delle visite. Delle visite per cosa, gli chiedono. I finanzieri glielo chiedono perché che si sia fermato al cimitero evidentemente non gli è piaciuto. ‘Sta cosa di fare delle visite al cimitero deve suonare strana a un finanziere. Ma non è solo questo, è anche che stare davanti al cimitero non mi piace.

Perché? Perché doveva suonare strano a un finanziere?

Perché uno fa di tutto per non crepare e finire al cimitero e poi ci va di sua spontanea volontà. Così. E perché se uno crede, crede nell’aldilà, be’ allora è sicuro che al cimitero non i sia nessuno, niente, nada, ok? Corpi, carcasse, polpette stagionate, involucri. Penso io. Altrimenti crede nei fantasmi, e be’, lì è meglio prendere qualche farmaco. E insomma gli hanno aperto la macchina e gli hanno trovato tre etti di cocaina nel portabagagli. Aspettava qualcuno, però vivo.

Madonna… L’hanno fermato solo perché stava al cimitero?

No.

No?

Non davvero. Pare che in realtà lo seguissero da mesi, e sapevano che doveva fare lo scambio con qualcuno. Solo che non sapevano dove. L’hanno seguito a una certa distanza a fari spenti. E ora è dentro insieme al fratello che pure sta in carcere.

Dove sei?

Davanti a una villa.

Capito. Non so.

Cosa.

Tu credi che si sia fermato lì perché in qualche modo voleva farsi fermare? Che in qualche modo voleva morire?

Morire? Magari era l’unico posto dove si può accostare sulla provinciale, dove ci stanno due macchine insieme senza sporgere il muso sulla strada. Perché morire?

Non so. Darsi appuntamento al cimitero. Quando uno dice ci troviamo al cimitero vuol dire una certa cosa, oppure finisco al cimitero vuol dire una certa cosa. Quando lo dicono le persone vuol dire una cosa sola. Sempre. Come ha fatto quello a dire ci vediamo al cimitero senza dirgli ci vediamo al cimitero? Pensi che abbia detto così?

Certo.

E allora sei d’accordo con me, perché ci vediamo al cimitero vuol dire una cosa sola. Perché nel suo caso doveva voler dire altro? Perché era ancora vivo?

Può darsi. Ma non ne sono sicuro. Tu stai dicendo che in pratica voleva morire e non lo sapeva.

Esatto.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

E nel dubbio si è fatto arrestare.

Ma non è per niente morto.

Nel dubbio, ripeto, si è fatto arrestare, che non è morire ma è almeno stare al buio per un po’, senza spazio di manovra diciamo, impossibilitati a fare cose da vivi. In pochi metri quadrati di suolo, che dev’essere proprio un posto del cazzo. E uno non si muove da un posto del cazzo o quando ce lo hanno rinchiuso dentro o quando ci è morto. Che cazzo, sei gretto.

Non so.

Ci sono tante persone che vorrebbero morire.

Lui mi sa che voleva solo i soldi. Roba da vivi.

Ma alcune lo sanno, altre no. Ci sono troppe morti, io credo. Quanti di quelli che affogano si sono spinti volontariamente troppo oltre nel mare o sono andati a farsi una nuotatina quando il mare era in tempesta? Quanti deviando con l’auto non hanno scelto l’albero sul quale spargere le budella? Quanti non hanno pregato per un attacco di cuore? E una volta morti tutti a dire peccato, peccato, la vita, e invece lo hanno voluto. O scherzando con una calibro 13 hanno scelto di scherzare proprio sul petto di un amico o sul proprio?

Non so, che cazzo vuoi che ne sappia.

A te non va che a qualcuno possa voler morire.

Certo, a me non va.

A voi piace quello che a me fa schifo, è per questo che siamo così diversi, io, qui, e tutti voi, lì. Voi, felici, vivete nel mondo di chi vuole vivere. Perché mi hai chiamata?

Per parlare.

Perfetto.

Stiamo parlando. Non ero calmo. Non so perché. Nel portabagagli ho la mia attrezzatura, sono sicuro di non aver dimenticato niente, il Gav tecnico, gasolio per il gommone. Ho comprato un anti-fog per non fare appannare la maschera, roba seria, di fino, roba per sub fighettini. Allora devo essere calmo. Aspetta che controllo. Ormai sto quasi al buio.

Si girò e disse di non aver dimenticato nulla.

Nemmeno tre etti di coca?

Nemmeno tre etti di coca. Senti come sta la bambina?

Al buio anche lei.

Non la senti?

Certo che la sento. O meglio, insomma. Sento che si muove, di notte un botto. Stanotte non prendevo sonno. Mi sono risvegliata alle 2 e mi son dovuta fare un tè deteinato — quello normale non lo sto bevendo più, sai, ho cominciato a fare come da piccola, solo té deteinato tutti i giorni — e boh, ho guardato fuori dalla finestra rimbambita per mezz’ora. Le macchine avevano tutte i fari spenti, non una luce. La luce non mi va tanto. Poi son tornata a letto e alle 4 devo aver preso sonno. Lo sento con la pancia, diciamo. Non con le orecchie.

Chiaro, non bisogna aspettarsi che parli.

No, e nemmeno che pianga, a volte mi chiedo se non abbia bisogno di piangere.

Di solito lo fanno quando escono.

Ma io dico ora, se non ne ha bisogno ora, a volte, di sfogarsi. A me capita spesso, e se è mia figlia dovrà capitare anche a lei, no? Sentirsi male e aver voglia di sfogarsi, aver voglia di piangere. Ma mi chiedo come faccia in mezzo a tutta quell’acqua. E se volesse muoversi, stiracchiarsi, chiusa com’è? Se ci penso sto male.

Forse ha bisogno di stare lì. Se non esce, se non vuole uscire significa che ha bisogno di stare lì, che le piace.

E se non le piacesse e non potesse uscire invece? Se fosse ancora troppo debole per uscire, per piangere? Che inferno.

Può essere. Lo sai che molti pagherebbero per stare nella pancia della propria mamma? Lo sai o no?

Certo. Bravi. Lo dicono tanti, ma nessuno ricorda com’era. Come fanno a dirlo allora? Se non lo ricordano e non lo possono ricordare.

Ci sarà qualcosa di vero in questo desiderio, come in ogni desiderio.

E se la nostra bambina fosse in una specie di carcere anche lei?

Con le guardie?

Senza. Ci sei tu a fare la guardia. E i muscoli del mio utero come un cancello a due ante. Chiusissimo. Rigidissimo. Sicurissimo.

Ci sono io. Anche se ora sono qui, si sta alzando il vento.

Sei preoccupato?

No, credo che sia vento di superficie, in profondità nel mare non cambia niente se è così. Sotto i 30 metri è come stare sotto un tavolo mentre tutti gli altri pranzano.

Chi sono gli altri?

Boh, dio. Al di là della tovaglia.

Dei nuvoloni avevano fatto calare il buio prima che calasse il sole. Accese la macchina per scaldarsi, accese i fari, sullo stereo ricomparvero delle scritte rosse mentre in sottofondo si sentiva lo sfiatare del riscaldamento. Quando le agavi cominciarono a dondolare si videro dei lampi in lontananza. Passarono molto lentamente due o tre macchine con le luci di posizione accese. Sembravano spinte dal vento.

Però qualcosa non mi quadra. Della storia del tipo beccato con la droga.

La storia di prima?

Sì. Se il tipo volesse sì farsi mettere dentro, ma non come surrogato della morte? Ma per solitudine dico.

Perché era un uomo solo?

Perché dentro c’era il fratello. Ti avevo detto che in carcere c’era suo fratello, cazzo. Ti sei dimenticata?

Sì.

Anch’io me n’ero dimenticato ma adesso mi torna e non so perché. Se inconsapevolmente volesse sì stare in carcere, ma solo come pretesto, solo accidentalmente, solo perché il fratello ci era finito di recente?

Be’ poteva andare a trovarlo se voleva vederlo.

Consapevolmente poteva andare a trovarlo, ma inconsapevolmente? Se, come si suol dire, il cuore avesse una porta, e la chiave ce l’avesse avuta solo il fratello?

Ma quello perché stava in carcere? Pure lui coca?

No lui andava in giro con uno scooterone. Lì 300 grammi di coca non ce li metti. Estate e inverno senza casco. Era un biondino che sulle prime gli chiederesti se i genitori non sono slavi.

E invece tutt’altro.

Niente droga lui?

Non per gli altri. Quella sua, quei 10 grammi ci stavano benissimo nello scooterone. Una notte ne aveva fatti fuori più di metà di quei dieci e vedi tu se aveva i soldi per dell’altra. Manco per il cazzo. Quindi esce di casa alle 11, si mette sullo scooterone senza casco, come mostrano le immagini di sorveglianza di un garage, e fa non più di 300 metri da casa sua. Parcheggia davanti a una palazzina, suona a un campanello e la vecchia che ci abita lo fa entrare. Intendo dire: non ho idea di cosa le abbia detto, magari che aveva fatto un incidente e aveva bisogno di acqua, o di un telefono per avvertire un parente, o qualcos’altro che gli sia venuto in mente tra le pareti di quel cranio del cazzo. Fatto sta che gli apre, e questo sale di corsa i due piani, sbarra la porta della vecchia e rovista dappertutto per rubarle soldi e ori, che sono tutti in sala da pranzo.

Ma è andato a rubare di fronte a casa propria?

Esatto. Si conoscevano benissimo, è per questo che la vecchia lo ha fatto entrare.

E invece sembra che proprio per questo non doveva.

E quando ha rubato tutto quello che sembra avere di valore la vecchia, sente dei mugolii e si accorge che questa ha il marito allettato nell’altra stanza col respiratore. Al che va di là, fa alcune domande al marito, gli chiede se lui possiede altri soldi. Lo rigira da un lato e dall’altro convinto che possa essere il posto migliore per nascondere banconote, sotto il malato, insomma, nelle tasche del pigiama. Poi smonta la barriera del letto per infermi del poveretto e con quella picchia la moglie. Alla fine, quando sono già le 11.30 la stupra, e la stessa telecamera lo riprende di ritorno, ma non torna a casa.

Stupra la vecchia?

La vecchia.

E quanti anni aveva?

Più o meno sulla settantina.

Cazzo. E perché l’ha stuprata?

Questo il mio amico non me l’ha detto. E poi non so se la tua domanda ha senso. Ma il fratello, mi è venuto il dubbio che l’abbia fatto per amore di andare in carcere anche lui.

Tu non sei molto normale. È vera tutta sta roba?

È vero che non sono molto normale.

E la storia?

Non credo. Ma non stuprerei mai una vecchia. E se c’è un motivo per cui l’ha fatto, boh.

Tu non lo saprai sicuro.

Chiaro.

Voi non le capite ‘ste cose.

Noi chi?

Voi felici siete ciechi. Voi state al buio, state in una stanza buia, in una cazzo di grande, gigantesca stanza buia, un hangar stracolmo di cose possibili nel buio con una abat-jour accesa nel fondo, e pensate che ci sia solo quella perché fa luce, che in tutta quella cazzo di stanza gigante non ci sia altro che quella merdosa abat-jour. E ‘ste cose non le capirete mai. Voi piuttosto volete la luce, volete capire quella merdosa abat-jour accesa, perché è l’unica cosa che credete ci sia. Ma quando la portate fuori, alla luce del sole, alla potente luce del sole, nell’immensa luce del sole quell’abat-jour sembrerà spenta, e non significherà più niente per nessuno. Sarà una lunga notte, Marito mio, non avete paura voi felici?

Forse la stanza in cui stiamo noi, come dici tu, e quella dove state voi, sono due stanze diverse.

Ho sentito il rumore della macchina accesa e so che chiuderai, che hai fretta.

Non ho fretta. Ho solo freddo.

Ti scrivo se non dormo. Forse un’altra notte del cazzo.

Foto di Harut Movsisyan da Pixabay

Le ripetizioni

1

Gianni Biondillo intervista Giulio Mozzi

Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio, 2021

Ne Le ripetizioni c’è un episodio di reviviscenza della memoria che si dimostra fallace. Mario, il protagonista, ricorda perfettamente una cosa falsa: è una metafora della letteratura? Vero e falso non hanno significato, sono solo scrittura? Il fatto che Mario ti somigli è la prima bugia del libro?

Se proviamo sentimenti veri leggendo storie che sappiamo essere inventate (i romanzi, per esempio), perché un ricordo fasullo non potrebbe essere il ponte verso altri ricordi reali? La scrittura non è né vera né valsa: è finzione, opera. Ho prestato a Mario, per pigrizia d’invenzione, alcuni dettagli della mia biografia; altri dettagli della sua biografia sono completamente estranei a me.

 

Nel tuo romanzo accadono tantissime cose, in un arco temporale ampio, eppure c’è una sensazione di immobilità e di reiterazione continua, quasi una maledizione. La vita non ha senso, fai dire a un prete. Facciamo errori dai quali non impariamo nulla? O il senso sta, retrospettivamente, nel morire?

Per un prete la vita non ha senso in questo mondo: lo troverà nell’altro, nel nuovo. Mario ha diverse chance di cambiamento: decide di non coglierne nessuna. È capace, contemplando il quadro generato dal suo amico pittore, il Gas, di intravedere la possibilità di una rinascita, di una felicità senza fine. Si tira indietro.

 

Mario sembra il perfetto uomo senza qualità. L’esaltazione del mediocre, così come la maggior parte dei tuoi protagonisti. Tutti loro però nascondono vite segrete, bugiarde. I tuoi personaggi, più che ipocriti, sembrano stoici. Dobbiamo convivere con il male che ci portiamo dentro?

Non ho mai pensato ai miei personaggi come ipocriti. Li ho sempre immaginati come divisi, come incapaci di tenere insieme le diverse parti delle loro vite – e come sofferenti per questo. Il loro “male dentro” è questa separazione interna. L’unico di loro che non soffra per una separazione interna, l’unico che è tutto compatto, è Santiago: più o meno il diavolo. La separazione interna è quindi anche il luogo della chance di salvezza: purché la si accetti, anziché negarla.

 

Ogni rapporto sentimentale nel romanzo è soprattutto fisico, violento, perverso. C’è una attenzione a descrivere le umiliazioni corporali ai limiti dell’osceno. È il corpo l’ultimo baluardo della “pura vita” e deve essere perciò mortificato?

Il corpo è tutto. L’anima è un’invenzione greca. La Bibbia non ne parla.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, n 12 del 2021)