Home Blog Pagina 2

Personaggi oltre le righe. Rileggere Brianna Carafa nel suo centenario

0

di Anna Toscano

Nella cinquina del Premio Strega del 1975, vinto da Tommaso Landolfi, comparivano i nomi di Eraldo Miscia, Laudomia Bonanni, Vittoria Ronchey e Brianna Carafa. I nomi delle scrittrici ritornano tra vincitrici e finaliste dello Strega in quegli anni, Brianna Carafa no. Arrivata in cinquina nel 1975 con il romanzo La vita involontaria, edito da Einaudi, libro di cui Italo Calvino e Claudio Magris, tra gli altri, scrivono benissimo, Carafa non era lontana dalla vita letteraria del suo tempo. A Roma, sua città di adozione, negli anni Cinquanta, lei architetta di primi studi e poi psicologa per scelta, era nella redazione della rivista culturale “Montaggio” e già aveva pubblicato racconti e poesie. Erano state le poesie, edite nel 1957 dall’editore romano Carucci, e i racconti apparsi in riviste a farla conoscere come scrittrice.

La sua è una scrittura distaccata e precisa, una penna che cerca nella storia dei suoi personaggi i tasselli dissonanti, una pervicacia nell’affondare nell’animo umano per parlare di follia, margini, voragini e scelte, che si è confermata nel suo secondo romanzo, Il ponte nel deserto, uscito postumo nel ’78 per Einaudi.

Nata nel 1924 a Napoli e confrontatasi sin da bambina con figure femminili che avevano intrapreso vite non convenzionali – la madre precipita mentre pilota un aereo sportivo nel golfo di Napoli, la nonna paterna traduttrice di Tolstoj, la nonna materna grande attivista per i diritti delle donne – aveva deciso di lasciare il padre, duca Antonio Carafa d’Andria e la di lui madre per trasferirsi a Roma da Marianne Frankenstein Soderini, la nonna materna.

La sua formazione come architetta e poi quella come psicologa non ha diviso i suoi campi di attenzione, semmai ha intrecciato l’indagine di Carafa sull’animo umano a partire dall’essere e dai suoi manufatti, piccoli o grandi che siano: una sorta di sguardo sulle cose con due diverse, opposte, acute prospettive. La sua prematura morte ha fatto sì che vari strati di polvere cadessero sulle sue opere. Ma per lei, come per molte altre scrittrici del passato, tale è stata l’unicità dei loro libri da farli sopravvivere all’oblio.

Per noi che amiamo spulciare le bancherelle di libri usati, le casette del bookcrossing, i siti di vecchi libri – per noi che a ogni scaffale del reparto usati ci pare di esser morti e di vedere lì i nostri scaffali – Carafa è una vecchia conoscenza e le edizioni Einaudi, acquistate a uno o cinque euro alla copia, erano pure regali scelti col cuore per le persone care.

Quando in piena pandemia si guardavano le coste dei libri delle proprie librerie casalinghe, li si sfogliava e spolverava pensando sempre più titubanti al futuro, quasi si coccolava questi libri come compagni corpi di casa, ecco la notizia che la casa editrice Cliquot inizia a ripubblicare proprio Carafa. In tempo di lockdown esce La vita involontaria, poi il secondo romanzo e i racconti, mettendo in moto un interesse molto vivo per questa autrice.

Oggi, che ricorre il centenario dalla nascita di Brianna Carafa, ci teniamo a ricordare i libri di questa grande scrittrice, a rileggerli, anche in vista di un volume di inediti in uscita il prossimo anno, sempre per Cliquot.

La vita involontaria, in cinquina allo Strega nel 1975, ha come protagonista Paolo Pintus, un ragazzo che cerca di crescere e diventare adulto nonostante le aspettative di genitori e familiari, quasi ormai tutti sepolti. La storia dei suoi parenti, le loro proiezioni dal passato sul futuro del ragazzo lacerano Pintus. Lui prova a districarsi nelle relazioni umane cercando risposte che non sa darsi, decisioni che non sa prendere, guardando alla storia dei suoi genitori e di suo nonno cercando risposte che non trova e divincolandosi dal loro esempio. Il punto di osservazione sembra dipanarsi su una tangente unica: cosa determini ciò che siamo.

Pintus fa ogni cosa affinché il proprio passato non determini il suo futuro, per essere in grado di compiere una scelta propria. La storia del nonno, la casa dai tetti rossi, l’osservazione delle persone sono le tre costanti della narrazione: cerca dall’unica zia vivente il motivo per cui il nonno urlasse recluso in una stanza, non avrà mai risposte ma riuscirà a darsele da solo. Il ricordo dei Tetti Rossi, luogo misterioso e taciuto da tutti sebbene sotto gli occhi della città: un manicomio.

Lascia ancora ragazzo Oblenz, città natale sul mare, per andare in una città fredda e sconosciuta a studiare in una facoltà che non lo interessa. Nella nuova città, Vallona, Pintus affronta un percorso di formazione fortemente determinato dalle assenze degli amici – chi lo ha tradito, chi deluso, chi si è suicidato – dalla presenza di donne – nel percorso di lasciare ed essere lasciati, del subire il gelo o farlo subire – e dell’alcol che spazza via tutto.

La storia si svolge per incontri: è l’incontro con l’umano, che talvolta si rivela inumano, che mette in grado Pintus di dare uno scacco alle aspettative degli altri e al contempo farlo crescere nelle proprie aspettative. In un attimo di rivalsa su sé stesso sceglie un luminare di psicologia come mentore e la facoltà di psicologia per vedersi nel futuro, per mettere insieme tutte le tessere del mosaico di sé che ha a disposizione. Pintus tornerà ai Tetti Rossi con la conferma di quanto aveva intuito sin dall’infanzia: che il disagio psichico per i ricchi è una stanza ben ovattata, per i poveri un manicomio di cui nessuno osa parlare, che l’essere umano è composto di bene e male e che è una scelta quale delle due strade intraprendere.

Con il secondo romanzo, Il ponte nel deserto, Carafa affonda ancor più le mani nel fango dell’umano nelle sue contraddizioni, per stenderlo sulla carta. È Roberto Berla, chiamato Bobi, il protagonista: le foto sul pianoforte che lo ritraggono da bambino, accanto alla perfetta sorella, sono mosse e lo sgabuzzino in cui viene spesso rinchiuso dalla fida cameriera della madre perché è svagato è pieno merletti mangiati dalle tarme. Il bambino non rispecchia le aspettative di una ricca famiglia che preferirà decretare su di lui una colpa anziché una malattia, diventerà un importante ingegnere senza perdere la sua vaghezza. La colpa, che invece era malattia, lo condurrà a una fine tragica per chi fa parte di quella ricca borghese società pronta ad additarlo, a una fine che Bobi prenderà con sollievo nella sua svagatezza.

Nella raccolta di racconti Gli angeli personali Carafa attingerà alla sua storia personale, regalando ritratti di grandi personagge, come la governante o la nonna materna, sempre con la sua scrittura curata, un lessico sorvegliato e preciso, uno stile che ricorda la narrativa mitteleuropea a lei contemporanea.

È l’umano che interessa Carafa, un umano in una storia critica, difficile, altra, che lo pone ai margini di una società preconfezionata che vuole metterlo per sempre in un luogo oscuro, uno sgabuzzino, una casa dai tetti rossi o una stanza isolata. Carafa ci dice con le sue narrazioni che è a lui che bisogna guardare, come lo diceva in poesia già nel ’57: “Lascialo entrare: /lascia cercare al forestiero /nei tuoi occhi /l’immagine di sé /che tu portavi e non volevi dargli”.

Bambini perduti nei Giardini di Kensington

3

di Flavio Luzi

  1. Chiunque volesse, oggi, accostarsi alle opere di James M. Barrie dedicate a Peter Pan si troverebbe, suo malgrado, in balìa di due differenti mistificazioni tanto insidiose quanto decisive. La prima risale alla pubblicazione del libro The Peter Pan Syndrome Up di Dan Kiley nel 1983, dove, attraverso una malaugurata distorsione psicoanalitica, la figura di Peter Pan è associata alla situazione della neotenia psichica. Kiley ha prodotto così una duratura confusione fra i tratti di un bambino che desidera insistere nella propria condizione di bambino e quelli di un adulto che, al contrario, rifiuta la propria condizione di adulto. Che si tratti di una vera e propria falsificazione è evidente dal sottotitolo del libro dello psicologo, ovvero Men Who Have Never Grown, che, in maniera mendace, calca il sottotitolo di Barrie, The Boy Who Wouldn’t Grow Up, capovolgendone il senso. Non serve, certo, un critico raffinato per rendersi conto che un uomo o un adulto che non è mai cresciuto è tutt’altra cosa da un ragazzo o un bambino che non vuole crescere. La seconda mistificazione risale, invece, al doppiaggio italiano del film d’animazione Peter Pan, prodotto nel 1953 dalla The Walt Disney Company, promotore di uno dei più subdoli equivoci a cui si potesse assistere in un Paese non anglofono, capace di condizionare, con la connivenza dei genitori, l’immaginario di intere generazioni di bambini che di lì a poco avrebbero integralmente sostituito la fruizione del cartoon alla lettura del libro. La mistificazione in questione è quella che riguarda la traduzione dell’espressione lost boys con la ben più tendenziosa “bimbi sperduti”. Non si tratta di un mero cavillo filologico. La ricercata forma “sperduto” o “sperso”, da “sperdere” (variante letteraria di “disperdere”), mediante l’apposizione del prefisso s- (riduzione piuttosto infrequente del prefisso dis-) tende a sfrondare la ricchezza che conviene al campo semantico della perdita, mitigandone gli aspetti più inquietanti. A pensarci, si tratta di un’operazione del tutto coerente con la sistematica edulcorazione delle fiabe e della letteratura infantile perseguita dalla Disney. John R. R. Tolkien, autore che non amava le raffigurazioni disneyane, ha scritto una volta che la letteratura per l’infanzia nasce dal disinteresse degli adulti nei confronti di libri dei quali non gli sarebbe importato nulla se i bambini li avessero usati in modo improprio. Se ciò è vero, allora, non v’è dubbio che, secondo la diagnosi rilasciata da Walter Benjamin già nel lontano 1929, la crisi di questo particolarissimo genere letterario abbia coinciso con il momento in cui quegli stessi libri hanno attirato nuovamente le attenzioni degli adulti, cadendo vittima degli specialisti e dei pedagoghi di professione.

 

  1. Bambini – se non ragazzi – perduti, dunque. La polisemia del verbo “perdere” (dal lat. perdĕre “rovinare”) si mostra senz’altro più adeguata a rendere la versatilità dell’inglese lose, dall’antico inglese los “distruzione”, derivato dal protogermanico*lausa-, dalla radice i.e. *leus-, forma estesa di *leu-, cioè “allentare, dividere, tagliare a pezzi”. Bambini rovinati, smarriti, sconfitti, errati ed erranti, financo deceduti. In francese, secondo una formula che si sarebbe stabilmente impressa nel lessico militare per indicare la fanteria leggera sacrificabile, ossia la carne da macello, si sarebbero chiamati enfants perdus, come quelle truppe di avanguardia, composte da gente scalza e priva di denaro, che sul finire dell’XI secolo, nel corso della Prima Crociata, precedevano l’esercito, trasportando viveri, scagliando sassi contro i nemici e rovesciandone le macchine da guerra. Ed enfants perdus è la medesima espressione a cui ricorre Guy Debord nella sua terza opera cinematografica, Critique de la séparation, per riferirsi alla propria vita e a quella dei suoi amici:

 

Tutto ciò che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto di me stesso, il tempo passato: e la scomparsa, la fuga; e più generalmente il trascorrere delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso dunque più volgare dell’impiego del tempo, ciò che si definisce il tempo perduto, s’incontra stranamente nell’antica espressione bambini perduti (enfants perdus), incontra la sfera della scoperta, dell’esplorazione di un terreno sconosciuto; tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia. È a questo incrocio che ci siamo trovati e perduti. (G. Debord, Critique de la Séparation, in Id., Œuvres, Gallimard, Paris 2006)

 

 

Non è certo casuale che, con una felice intuizione, Vincent Kaufmann abbia definito il progetto rivoluzionario situazionista come una singolare lettura di Karl Marx da parte di Peter Pan.

 

  1. Giorgio Manganelli ha opportunamente sottolineato come i libri di Barrie, non meno di quelli di Lewis Carroll, affondino saldamente le proprie radici «nel mito puerile di “essere perduti”, perduti una volta per tutte all’atto di nascita, segnati di una perdizione che la madre potrebbe stornare, ma non lo farà» perché «[n]aturalmente, anche la madre è “perduta”» (G. Manganelli, Peter Pan amore mio, «Europeo», 28 dicembre 1981). Ci si può perdere nelle nebbie del fumo o nei fumi dell’alcol, tra le pagine dei libri, nelle alterne fortune del panno verde o nell’insurrezione che viene, ma anche fra gli inganni deliziosamente crudeli delle fate, creature gelose e fugaci dedite alla danza e a ogni altra attività non possa essere considerata di alcuna utilità. Quale perdita è, qui, in questione? Senz’altro una perdita dal significato ontologico, che, in qualche modo, le co(i)mplica tutte senza prediligerne alcuna. Si prenda Peter Pan stesso. Le descrizioni proposte da Barrie sono numerose. Nella sceneggiatura Peter Pan, or The Boy Who Wouldn’t Grow Up del 1904, è un bambino piuttosto piccolo, scappato senza esitazioni nei giardini di Kensington il giorno stesso in cui è venuto al mondo, non appena ha udito i piani che i suoi genitori serbavano per lui e la sua vita – per il suo futuro. La sua condizione è quasi quella di un mai-nato, il suo essere quasi quello di un mai-stato. Il suo posto è Neverland (in greco si direbbe: οὐ τόπος), il luogo dove vivono i bambini perduti, i bambini caduti dalla carrozzina che nessuno viene a reclamare entro sette giorni dalla scomparsa. Nei successivi libri Peter Pan in Kensington Gardens e Peter and Wendy, rispettivamente del 1906 e del 1911, emergono altri dettagli su questo personaggio enigmatico. Peter – spiega Barrie – è molto vecchio pur avendo sempre la stessa età, cioè una settimana: a sette giorni, infatti, ritenendosi ancora un uccello (perché tutti sono stati uccelli prima che esseri umani) fuggì da una finestra senza inferriate per fare ritorno ai Giardini di Kensington. Piuttosto allusivo. Vi è, infatti, un modo certo per invecchiare conservando sempre la stessa età e questo, effettivamente, è gettarsi dalla finestra: morire – scrive Manganelli –, morire subito. La perdita che concerne questo bambino di nome Peter, allora, è quella del decesso prematuro, della morte in culla, del figlio che abbandona il genitore. Ma non è finita. Dopo qualche tempo, infatti, al pensiero della disperazione materna, provò a far ritorno a casa, salvo trovare la finestra chiusa e provvista di inferriate, intravedendo all’interno dell’appartamento sua madre dormire serenamente abbracciata a un altro bambino. La perdita che concerne questo Pan, allora, è altrettanto quella dell’orfano, del reietto, del figlio abbandonato dal genitore. Un doppio abbandono. Gilles Deleuze l’avrebbe chiamata una doppia cattura o un doppio furto, tale da produrre «un blocco asimmetrico, una evoluzione a-parallela» (G. Deleuze, Conversazioni, Ombrecorte, Verona 2019, p. 12). E, infatti, come gli rivela il sapiente corvo Solomon Caw, Peter Pan è innanzitutto un Betwixt-and-Betwinn, un mezzo-e-mezzo, un tra-questo-e-quello, niente più che un fra, un frattempo o un frammezzo, ma un frattempo o un frammezzo assoluti che, da “tra” e “mentre”, si fanno “qui” e “ora”. Una creatura della soglia o, come direbbe Victor Turner, un essere liminale. La sua storia, d’altronde, nasce nel mezzo delle conversazioni tra Barrie e il piccolo David (George Lewellin Davies), in un reciproco narrare e rinarrare, rifare e disfare, che si interrompe solo quando nessuno potrebbe più riuscire a ricondurre il racconto all’uno o all’altro, all’adulto o al bambino – salvo avvisarci che la maggior parte delle riflessioni morali (most of the moral reflections) appartengono ai rigurgiti dell’adulto. Né uccello né umano, né vivo né morto, né essere né nulla, né puersenex, “Peter Pan” non è il nome di un vero e proprio personaggio, ma del medesimo divenire in cui è trascinato ogni bambino perduto e che, irriducibile ai termini delle dicotomie, cresce fra di essi e fuori di essi, secondo una propria avventurosa direzione. Tutt’altra cosa dall’adolescente, non-più puer e non-ancora senex, che sta lì ad articolare e mediare, introducendo il bambino nell’adultità. Se Peter Pan ha da insegnarci qualcosa è proprio che l’adolescenza non esiste. Ma questo vuol dire che neppure il passato e il futuro lo determinano, perciò non ricorda e non pianifica. Manganelli lo considera un fantasma senza memoria e, pertanto, senza vendetta: dimentica i pirati che giocosamente uccide, sostituisce continuamente le vecchie avventure con le nuove, vive l’anno avanti come fosse il giorno avanti. Si potrebbe quasi azzardare ch’egli convochi tutte le forze dell’avventura contro la parola “esperienza”. Il suo però non è un eterno presente, omogeneo e vuoto: l’avventura conosce solo la pienezza dell’attimo. Senza provenienza e senza destinazione, senza memoria e senza progetto, Peter Pan non è qualcuno, non ha un’identità, ma è l’immagine o l’idea di quel movimento di perdita che pertiene, in più alto grado, al divenire-bambino e lo deterritorializza su Neverland. Ciascuno dei bambini perduti, ognuno a suo modo, è Peter Pan. Da ciò, la solitudine che sembra affliggere il protagonista: non si può condividere né compartecipare l’indivisibile o l’impartecipabile che si ha già sempre in comune. Come Peter Pan vola via dalla finestra dopo una settimana di vita, così i bambini vengono mandati a Neverland sette giorni dopo essere stati perduti. Ciascuno di loro è, quindi, un mezzo-e-mezzo, da qui l’imposizione di indossare le pelli degli orsi che hanno ucciso (the skins of the bears slain by themselve) in modo da assomigliargli il meno possibile (to look in the least like him). In caso contrario, infatti, sarebbe semplicemente impossibile distinguerli dall’idea, la loro singolarità si dissolverebbe nell’assoluta genericità di ciò che Károly Kerényi poteva chiamare das Ur-Unentschiedene, l’Indifferenziato originario, o, più semplicemente, das Ur-kind, il Fanciullo originario. In maniera speculare, non appena sembra che stiano crescendo, Peter li sfoltisce (thins them out) senza alcun rimorso o esitazione. Significativo è che la stessa peculiare serialità faccia la propria apparizione nella descrizione di Neverland: «tutti i Neverland hanno una somiglianza di famiglia (a family resemblance), e se stessero fermi in fila diresti che hanno lo stesso naso, e così via» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). A caratterizzarlo c’è il fatto di non essere grande ed esteso con noiose distanze fra un’avventura e l’altra, ma ben riempito (with tedious distances between one adventure and another, but nicely crammed). Non è, forse, un Neverland il Paese dei balocchi in cui Pinocchio si perde tra gli innumerevoli giochi di quell’unico smisurato giorno festivo? Non lo è Saint-Germain-des-Prés, il quartiere di perdizione in cui, tra artisti, delinquenti, intellettuali, immigrati e tossicodipendenti, i giovani lettristi avevano trovato il loro rifugio nel piccolo e malfamato bistrot Chez Moineau? E non lo è, parimenti, il Wonderland nel quale si perde Alice? A questo punto, una rettifica si rende doverosa. Barrie, in uno dei suoi rigurgiti moraleggianti, fa affermare a Peter che tra le file dei bambini perduti non ci sono bambine (girls) perché «sono troppo intelligenti per cadere dalla loro carrozzina (are much too clever to fall out of their prams)» (J.M. Barrie, Peter Pan, or the boy who wouldn’t grow up). È ormai, però, risaputo che fra le bambine c’è sempre fortunatamente qualche Alice ardente di curiosità che, senza sapere cosa farsene di libri privi di dialoghi e figure, è pronta a precipitarsi alla rincorsa di un coniglio bianco munito di un orologio da tasca, seguendolo fino in fondo alla sua stretta tana e perdendosi nel Wonderland. Se è senz’altro vero che una ragazza vale più di venti ragazzi (one girl is worth more than twenty boys) non è certo per il senno piccolo borghese che, sin dalla culla, vorrebbe instillarle suo padre.

 

  1. Talvolta c’è stata una Wendy che a un certo punto, dopo aver condiviso numerose avventure, ha tentato di indicare a questi bambini perduti una nuova strada di casa. Coloro che l’hanno seguita si sono ritrovati e hanno, così, davvero finito col perdersi. Come ammette lo stesso Barrie con un insolito contegno: «non vale la pena di dire altro su di loro (it is scarcely worth while saying anything more about them)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Sono andati nelle buone scuole, dove hanno appreso cose serie. È possibile che abbiano addirittura imparato a suonare uno strumento, dedicando il poco tempo libero a ogni sorta di attività sportiva. Sono diventati coscienziosi; si sono sposati. In altre parole, sono cresciuti. Si sono realizzati. Sono diventati qualcuno. Ogni giorno, alla stessa ora, si recano al loro ufficio con un ombrello sottomano, per non rischiare di farsi sorprendere dalla pioggia e buscarsi un malanno, o, peggio, sgualcirsi il completo. Qualcuno è ingegnere, qualcun altro giudice. Si sono definitivamente congedati dalla loro avventura, hanno ritenuto di portarla a termine, di metterci un punto, piantando i piedi bene in terra e perdendo a poco a poco la capacità di volare. Infatti, «[s]olo chi è allegro (gay), innocente (innocent) e senza cuore (heartless) può volare» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Nessuno di loro sarebbe ormai in grado di raccontare una storia ai propri bambini – una storia sufficientemente buona da spingere le rondini che costruiscono i nidi sui cornicioni delle case a origliare, s’intende. Né, tantomeno, saprebbe cogliere il bacio segreto, ma perfettamente visibile, che riposa indelibato all’angolo sinistro della bocca gentilmente ironica delle loro consorti. Solo un bambino perduto – magari proprio quello che fu – potrebbe ancora, con estrema facilità, riuscire a rubare quel bacio che non avrebbe dovuto essere di nessun altro. A distinguerli dal Capitano James Hook, probabilmente, c’è solo la pressoché totale accettazione dell’adultità, con la conseguente assenza di risentimento nei confronti di Peter Pan. Se Hook, questo etoniano che ha abbandonato Oxford per darsi alla pirateria e accumulare le ricchezze di una vita di dura fatica (of a life of toil) – uno che, per intenderci, «simpatizzava più per i classici che per i moderni (his sympathies were with the classical rather than the modern side)» e, sostanzialmente, «[i]n politica era un conservatore ([i]n politics he was a Conservative)» (J.M. Barrie, Captain Hook at Eton) – detesta così tanto i bambini perduti è unicamente perché, attaccato al ricordo della propria infanzia, al non-più del bambino che è stato, non riesce a estrarre alcuna gioventù dalla sua età, trovandosi precluso l’accesso a qualsiasi divenire. Per questo motivo il tempo non può non apparirgli nelle sinistre sembianze di un coccodrillo annunciato da un inesorabile ticchettio, ben intenzionato a seguirlo ovunque al solo scopo di divorarlo.

Gli altri, invece, quelli che la strada di casa non gli è mai riuscito di impararla, hanno continuato a trovarsi perduti in mezzo al crocevia fra la perdizione e l’avventura, fra la dissoluzione e la scoperta, fra la destratificazione e la sperimentazione, tra le nebbie del fumo e i fumi dell’alcol, tra le pagine dei libri, le alterne sfortune del panno verde, le rivolte fallite e i trabocchetti spietatamente graziosi delle fate. “Trovarsi perduti”: veramente perduto, infatti, non è ciò che esige di essere cercato e trovato, ma ciò che esige di essere trovato in quanto perduto, di restare perduto e, in quanto tale, imperdibile. Per questo Henrik Ibsen negli ultimi versi del IV atto del Brand poteva scrivere che la felicità nasce dalla perdita e davvero eterno resta solo ciò che è perduto. Come dei novelli Ade – e, in effetti, questi Pan (o, per meglio dire, “questi Iakchos” e, ancora, “questi Diónysos”) hanno più di qualche familiarità con i misteri di Eleusi – hanno estorto a Demetra la promessa di poter tornare a prendere Kore a ridosso di ogni pulizia di primavera, salvo poi dimenticarsene, sospesi, senza passato né futuro, tra le loro molte avventure. D’altronde, mantenere una promessa non ha mai voluto dire soddisfarla. E così Wendy non ha potuto fare a meno di crescere, ma quel che ferisce maggiormente è che lo ha fatto deliberatamente, «di sua spontanea volontà un giorno prima delle altre ragazze (of her own free will a day quicker than other girls)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Niente tocca più da vicino del gesto con cui, di fronte alla sopraggiunta incapacità di Wendy di saltare sulla schiena del vento, Peter si lascia cadere sul pavimento per precipitare in un pianto inconsolabile – inconsolabile, sì, ma scevro da qualsiasi nostalgia o rimorso. Ché, chi è così pieno di avventure, non ha alcun senso del tempo (He had no sense of time), neppure del tempo trascorso. Perciò non è facile comprendere per quale ragione piangesse. Forse piangeva per Wendy, consapevole che ormai «non era una bambina con il cuore spezzato per lui (a little girl heart-broken about him)», ma «una donna adulta che sorrideva di tutto questo (a grown woman smiling at it all)», anche se con sorrisi privi di allegria e innocenza, «sorrisi dagli occhi umidi (wet eyed smiles)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). O, forse, piangeva per se stesso, perché, nonostante conoscesse estasi infinite (ecstasies innumerable), quella modesta serenità domestica non poteva che rimanergli distante e incomprensibile, sbarrata per sempre (for ever barried) da una finestra con le inferriate. Sfuggevolmente impalpabile, come per chi cercasse di afferrare il tepore. Nemmeno il tempo di porsi la domanda e asciugare le lacrime, tuttavia, che il pianto è già dimenticato.

In una Neverland che, di volta in volta, all’ora della chiusura si disvela nei giardini di Kensington o nei vicoli di Trastevere, nous vivons en enfants perdus nos aventures incomplètes.

Andrea Franzoni: «guardare il frutto e non prenderlo.»

1

 

 

È uscito, per AnimaMundi Edizioni, Nature vuote di Andrea Franzoni. Ospito qui alcune poesie, insieme alla nota di Antonella Anedda.

 

***

 

e sul monte, nulla:

era una storia anche quella.

 

Rimase a guardare.

 

Dalla base della nuca, il cardo

cominciava a fiorire.

 

L’infanzia era questo:

rovesciare la voce

 

imparare a dormire.

 

***

 

Soggiace

con tenera visione di niente

il canto di ogni mattina:

 

chi fa qualcosa la rovina

chi fa qualcosa la rovina.

 

***

 

C’è più luce nel vaso

quando il vaso si spezza.

 

Ma c’è più luce ancora

quando il vaso non c’è.

 

***

 

Guardare il frutto e non prenderlo.

Lasciarlo maturare nel proprio albero.

Lasciarlo marcire.

Lasciarlo cadere.

Lasciare che faccia un nuovo albero.

 

 

DIRAMAZIONI

di Antonella Anedda

 

Traducendo dallo spagnolo lo straordinario Voci (Argolibri, 2023) di Antonio Porchia, Andrea Franzoni citava da Anne Carson: «Qual è il potere dell’inspiegato», una frase che compare anche in Nature vuote. L’inspiegato non è l’inspiegabile, ma invece quello che resta della spiegazione, il suo potere è legato alla possibilità di una punteggiatura slittante, di una scrittura semplice, piana ma non impoverita, vuota per abbondanza e non per impotenza. Ancora Antonio Porchia: «Ciò che ritorna non ritorna mai del tutto, anche quando ritorna del tutto». Nature vuote è un lavoro sul resto e una riflessione sul costruire che comporta la necessità di non caricare la costruzione. Alle citazioni da Carson e da Emily Dickinson si uniscono i versi di Thierry Metz che sulla necessità di trattare la parola come mattone e muro ha edificato la grandezza della sua poesia. Il resto si nutre di perdita, si s-carica, il vuoto presuppone un pieno. Se parla con le immagini – come testimonia la poesia dedicata a Simone Pellegrini – è molto attento a svuotarle azzerandone la sonorità. Al tempo stesso muovendo l’aria dentro le parole anche quando rivela le sue fonti (come Hölderlin, Valery, come appunto Metz) non azzera la sorpresa della persona che legge: «La domanda passa. Il sole scende». È la risposta a «perché facciamo tanto se poi non siamo niente». L’assenza di punto interrogativo svuota l’interrogativo. Spesso l’uso della terza persona crea i presupposti dell’osservazione: «e sul monte nulla: \ era una storia anche quella. \\ Rimase a guardare. \\ Dalla base della nuca il cardo \ cominciava  a fiorire». Spesso, come in una poesia molto bella intitolata Finire il passato la ripresa di un termine anzi il suo ispessimento: «come un lago intorno a un lago» definisce un circuito ironico che passa attraverso la pazienza fisica: «Tenere la lingua ferma finché sopra \ ci cresca l’erba. \\ Come un lago intorno a un lago. \ Il confine, il significato». Franzoni sa come dice Valery che «un’opera mancata può essere un capolavoro interiore». I testi in sequenza di Introduce semplice luce mostrano i reticolati geografici di una poesia che ha ragionato su cosa sia e come possa essere percorsa la zona tra parola espressa e taciuta. Per parafrasare ancora Anne Carson esiste non solo il diritto di rimanere in silenzio davanti all’intraducibile ma esistono anche variazioni possibili, diramazioni. Una di queste è l’oblio (all’Angelo dell’oblio è dedicata infatti una poesia del libro). Secondo una variazione chassidica sul Talmud il solco tra naso e labbra che abbiamo sul viso deriverebbe dall’impronta del dito dell’angelo sulla bocca del neonato perché dimentichi il sapere dell’intera Torah che aveva imparato durante la gestazione. Ricordare tutto causerebbe disperazione, il pieno appesantirebbe tutta la vita in una continua rivisitazione dell’infelicità del nascere e del morire. È il vuoto che permette di imparare di nuovo e di testimoniare. Uno dei motivi del mio interesse per la natura del vuoto di queste Nature vuote è nel riconoscimento di un linguaggio e di un pensiero che, partendo dalla consapevolezza della perdita, sceglie di esporre solo gli oggetti necessari in uno spazio di sopravvivenza ma anche di nuova costruzione, accettando il paradosso di essere per non cadere nell’arroganza del non voler essere. «Triste sei meno triste. Resta triste» – aveva scritto Antonio Porchia. Poeta sei meno poeta. Resta poeta.

 

La Crew

0

di Federica Frascogna

All’uscita della metro siamo di fronte al cantiere, al di là dei lavori in corso c’è il Colosseo. Passa un’auto dei carabinieri. Piegata a novanta gradi, stendo il cartone in terra. Noi trasformiamo gli imballaggi che la gente butta in pavimento. Novo, occhiali da sole e scarpe sfondate, allinea bottiglie vuote. Lombo, stazza da pesi massimi e collana formata da denti, schiarisce la gola. Cafunè è in ritardo, oggi è l’ultima possibilità di fare cappello prima della Baia Domitia jam. Gli mando un messaggio in chat:
– Dove ti sei infrattato, negro?
– Sono arrivato, Goma!
Pronti a strusciare le mani l’uno dell’altro, pugno contro pugno e pugno sul cuore, ma la mano di Cafuné stringe quella di Tecla. Appoggio le mani sui fianchi e sollevo il labbro superiore mostrando i denti. La stronza si è fatta il bagno nel profumo. Tecla abbraccia Cafuné.
Cafuné annuisce, Io e Tecla andiamo a vivere insieme.
Novo e Lombo, in coro, Yayoboy!
A braccia incrociate guardo Cafuné, batto la mano sullo sterno, Vivi dove ti pare ma arriva puntuale ai nostri show!
Cafuné tende il braccio verso di me, Easy, la mia parte di soldi è per l’affitto a Torpigna.
Guardo Tecla, Pensi solo ai soldi. Lo show deve cominciare!
Tecla si unisce al pubblico davanti a noi.
Con un dito chiudo una narice, Quella sta pisciando nel nostro posto e ci spruzza il profumo sopra.
Lombo volta il capo a destra e a sinistra, Fotte sega, Goma, c’è un botto di gente! Vai col funk!
Novo solleva il mento, Love Peace Unity and Havin’ fun!

Love Peace Unity and Havin’ fun! Lo ripetiamo dai tempi degli allenamenti sotto alle Poste. Ci siamo sudati il rispetto di chi c’era prima di noi nella scena, ci siamo fatti il culo quadrato. Stare sul territorio concrete quando non si hanno conoscenze fa male, i vecchi ci spiegavano qualche tecnica solo quando si accorgevano che sbattevamo la testa e tornavamo il giorno dopo ancora insanguinati. Per continuare a migliorare ci siamo fatti tutta l’Italia in pullman. Adesso i ragazzini si allenano in palestra con i materassi poi si sparano le pose facendo i video con il tre piedi per strada. I vecchi fanno i giudici ai contest supportati dagli sponsor, contenti che possono aggiungere un’esperienza sulla bio.

Cafuné prepara i flowerstick, intinge gli stoppini nella paraffina. Chiude il contenitore, si allontana e scarica il combustibile sull’asfalto, fa un arco col braccio lucido di sudore. Puzza a bestia, sposta i dreadlock dalla fronte, Cazzo! Mi sono scordato il cappello!
Tiro fuori dallo zaino un cappello da pescatore, Negro rincoglionito.
Appoggio il cappello in terra, a un paio di metri dal cartone.
Cafuné mi guarda fare riscaldamento: seduta a gambe aperte, il pantaloncino agli inguini, le tette verso il cartone, la carne aumenta sui fianchi. Cafunè lecca le labbra, Goma! Il sesso è passato di moda!
Fletto il busto a destra e a sinistra, Ti piacerebbe…
Lombo coinvolge il pubblico chiedendo una parola per dare inizio al flow, fa beatbox: la sua voce crea i suoni degli strumenti. Mentre è Lombo a fare musica, Novo usa il marker per un bubble style sulla cassetta della frutta. Urlo, It’s my turn!
Dalle radici della Capoeira in footwork le mani prendono il posto dei piedi, versavice, il Six Step evolve in Zulu Spin, accovacciata, giro su me stessa, passo alla power move Corona, giro sulla testa, concludo con il Chair Freeze, in equilibrio sul braccio ad angolo retto. Cafuné fa ruotare sopra di sé le bolas, catene con la spugna incendiata. Applausi. Ci inchiniamo mano nella mano.
Lombo indica il cappello, Se lo spettacolo vi è piaciuto, potete dare un contributo!
Centododici euro più il rame dei tirchi che si svuotano le tasche. Strusciamo le mani l’uno dell’altra, pugno contro pungo e battiamo il pugno sul cuore.

Tecla si avvicina di fronte a noi, dal lato nostro del cappello, ha girato un video dello show col cellulare. Si posiziona dietro a Cafunè che riceve complimenti e strette di mano dal pubblico.
Tecla guarda Novo, Candidati al progetto del comune: fare murales per colorare le periferie. #Spacciare arte e non droga! Ho i contatti.
Novo abbassa gli occhiali da sole, Una tag legale?! Io faccio graffiti e sono il king…cazzo
Tecla alza le mani, Sarà il comune a pagare le spese.
Sudata fradicia, vicino alla cassa, mi tolgo la canotta, Noi non siamo in vendita.
Cafuné guarda la mia schiena lucida mentre saluta l’ultimo fan, un bambino.
Tecla tira fuori dalla borsa una maglietta, Goma! Puro cotone, realizzata all’uncinetto, dalle immigrate del laboratorio. Indossarla è politica!
Mi volto indietro, appoggio la maglietta ricamata sulla cassa che pompa i Sly & The Family Stone.
Tecla stringe il braccio di Cafuné, Domani ho il laboratorio in associazione, ma devo esserci al festival!
Lombo gratta la testa, La vedo male…
Io sollevo le sopracciglia mi avvicino a Lombo, Si chiama jam.
Tecla lascia le chiavi della sua auto sopra alla cassa, C’è il pieno per Baia Domizia. Vi raggiungo in treno venerdì.

Lombo, Cafunè e Novo incastrano gli zaini e gli attrezzi nella macchina di Tecla. Io apro la portiera davanti e quella dietro, mi metto in mezzo ben nascosta, abbasso il pantaloncino, mi accovaccio e lo mantengo ben lontano dalla fregna. Piscio nella bottiglia di vetro.
Sento il rumore del cofano che si chiude. Schizzo le scarpe. Blocco il flusso di pipì. Mi rivesto.
Cafunè sale al posto guida, Lombo accanto a lui, io rovescio la bottiglia bollente sulla ruota posteriore dell’auto mentre Novo sale dietro dalla parte opposta. Metto la bottiglia bagnata e puzzolente nello zaino.
Percorriamo la via Appia, ci sono quattro puttane sotto gli ombrelloni, due algerine e due bulgare sedute sui materassi che la gente butta all’angolo. Guida Cafuné. Mi guarda dallo specchietto con l’Arbre magique, Tu quanto prendi, Goma?
Seduta dietro, accanto a Novo che dorme, ho la vescica ancora piena, Ti piacerebbe…
Lombo, accanto a Cafuné, mette la collana di denti nel portaoggetti, Che rottura di coglioni.

Nella pineta di Baia Domizia il toy fotocamera al collo e spalle curve ci indica dove parcheggiare, Condividete dalla vostra pagina artista un video che presenti il gruppo con l’hashtag #baiadomiziajam.
Scrollo la canotta per pulirmi, Non ce ne fotte dei profili, veniamo meglio di faccia!
Stiamo per battere i pugni, ma Cafuné, distratto dal cellulare, scrive in chat a Tecla: – Sono arrivato.
Il toy curvo, Che battle fate? Breaking, MCing o Writing?
Lombo e Novo in coro, Facciamo fire show!
Il toy sospira, Mettetevi all’angolo dei gazebo food, c’è il pezzo di strada con l’asfalto.

Andiamo in spiaggia libera. Uno sputo rispetto allo spazio che si sono presi i lidi. Non abbiamo i costumi. Mi spoglio, faccio il bagno in mutande e top. Cafuné si allontana per rimedia un pallone mezzo sgonfio, Goma c’hai le ginocchia raschiate, sei piena di calli sui piedi.
Uscita dall’acqua mi abbasso a novanta gradi, con la schiena dritta, pompo dalla cassa le tracce di Bahamadia, Female Powa! Mi seggo sulla sabbia.
Lombo e Novo ciucciano birre dopo i passaggi a pallone, in coro, Yayoboy!

Mi alzo di scatto, Ho visto un pescatore! Cafuné puzza a bestia, mi segue.
Il vecchio con la barba bianca ha la rete azzurra piena di pesci che ballano affogati nella plastica intatta con dei pezzi di plastica in bocca.
Saltello, Posso?
Il pescatore annuisce, prendo la rete. Cafuné si posiziona di fronte a me. Tiriamo, ognuno dalla propria parte all’unisono. Impanata di sabbia lascio per un attimo, mi volto, così Cafunè vede il culo. Il negro tira talmente forte che la rete gli arriva sulla testa. Cafuné bagna i dreadlock a mare, tira giù la testa poi la lancia verso l’alto, scrollando l’acqua.
Io rido, Ti sei deciso!
Cafuné strizza i dreadlock, Goma! Non ce la faccio più ad averti davanti agli occhi!
Il pescatore ci dà un secchiello di telline, Fatele spurgare nell’acqua.

Nell’area parcheggio della jam, dove restiamo a dormire, facciamo le croci con le unghie sui morsi di zanzara. Di fronte alla macchina c’è il lago, è circondato da una staccionata di legno che lo separa dai pini. Sistemiamo l’unica tenda che abbiamo sul prato.
Sfrego le mani, La gente poco fresh e molto social di questo festival c’ha gli aghi di pino nel culo!
Lombo sbadiglia, Me ne sbatto, creiamoci un profilo artista, solo per sparare dissing.
Starnutisco, La presa per culo è una trappola, ci resti sotto.
Novo apre le braccia, Ma è gratis! Facciamo vedere solo le cose che ci fanno comodo.
Guardo la macchina di Tecla, Troppa comodità vi sta infettando. Io e Cafuné in macchina e voi in tenda ok? Così Lombo sta più largo.
Cafuné vuole restare al posto di guida, gli mollo un cazzotto sulla spalla, Mettiti dietro!
Cafuné, La smetti di fare la puttana? Qua c’è l’aria calda!
Mi arrampico sul sedile, Ci vado io, fratello!
Cafuné porta tutti e due i sedili attaccati al cruscotto, facendo casino, Non mi chiamare fratello!
Il seggiolino del guidatore urta il clacson che suona. Salto, cacata sotto. Cafuné ride. Inarco la schiena. Stesa, mi abbraccio da sola, sfrego le mani sulle braccia.
Cafuné incrocia le gambe, La golden age è finita!
Guardo la nuca piena di dreadlock, Ci alleniamo talmente tanto da andare sempre di freestyle. Con la fotta dell’esibizione esce qualcosa di ancora più bello, Non ci serve la moda, fratello!

Venerdì. Fuori al gazebo, ci sediamo alla tavola di legno con la mozzarella e il secchiello di telline. Cafunè è andato in stazione.
Novo succhia telline, Dura Cafunè a prendere Tecla! Staranno scopando…
Lombo rolla un joint. Mi guarda che non mangio, Ma che c’hai, sorella?
Io con le mani sulla fronte, Niente.
Il ragazzo fotocamera ci porta del liquore offerto dalla jam.
Cafuné ci raggiunge, è davanti alla tavola mano nella mano con Tecla.
Mangio le unghie.
Tecla sorride, Lombo che ne dici di fare visual merchandising per il rap!?
Lombo gratta la testa.
Sputo le unghie sul tavolo, Lui è Master of Cerimonies.
Tecla fa roteare la mano libera, Si tratta di strategie per farvi entrare in altri contesti, così non avrete più bisogno del cappello, sarete retribuiti!
Mi alzo in piedi, Che cazzo c’entra con noi?
Tecla mostra la spalla sulla quale ha fatto tatuare il nome Cafunè, Goma sei limitata alla breakdance. Fai un ingresso dal pubblico, format accattivante.
Ho mal di pancia, metto il dito medio vicino alle labbra, Si dice breaking, bboying, bgirling! Breakdance è merda di commercio!
Cafunè si tocca le labbra con il dito medio della mano libera.
Tecla, Dovresti essere aperta alla contaminazione. Non devi spogliarti, bensì promuovere cultura e rispetto dei diritti dei migranti.
Mi avvicino sotto il naso di Tecla, Pussy a fiorellini, preferisco andare in galera che farmela con una stronza.
Lombo evita la rissa: mi prende in braccio, ha la canna in bocca, cade la cenere sulla maglietta, si buca sulle tette, Goma scalci manco stessi facendo un Monkey Swing, fotte sega, non prenderla sul personale.
Novo ride, Ah, ah! Battaglia nel fango, sorella! Dai, pensa al bene della crew.
Cafuné sposta i dreadlock dalla fronte.

Il nostro spazio è nell’angolo, c’è un bel passaggio di persone attirate dagli odori di fritto dal gazebo. Love, Peace, Unity having fun!
Sto tra il pubblico, faccio ginga: in piedi con apertura e chiusura braccia. Le mani urtano la spalla di Tecla, che è in prima fila. Le monete tintinnano nel cappello da pescatore. Cafunè si inginocchia, mantenendo in movimento le bolas, crea un cerchio di fuoco.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

S’intrecciano le catene e il fuoco attacca i capelli, Cafuné urla.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
Il fuoco delle bolas ha preso i dread! I dreadlock vanno a fuoco!
Tecla corre verso di noi. Novo e Lombo spengono la cassa, non troviamo la maglietta in cotone che Cafuné di solito prepara, inumidita, sulla cassa, per spegnere il fuoco. Se l’è dimenticata! Negro rincoglionito!
Urlo a Tecla, Togliti la maglietta!
Tecla sfila la maglietta all’uncinetto, la mette in testa a Cafuné. Le fiamme si spengono.
Tecla in reggiseno di pizzo, Respira, Cafuné!
Io stringo i pugni in mezzo al fumo.

***

Anno nuovo, 01/01/2020. Cafuné vive con Tecla, insegna Capoeira all’associazione “Rete migrante”, ha avuto un’ustione al cuoio capelluto, non vedrà mai più il fuoco. Lombo lavora di notte come buttafuori nei locali. Novo fa murales per il progetto del comune.

Al Colosseo c’è un botto di gente a capodanno. Metto il cappello da pescatore in testa, poggio il cellulare in terra, senza cassa solo io sento i Cymande. Vado al bar. Orchestra di Vienna alla tv e tintinnare di bicchieri.

Prendo un pacchetto di patatine. L’uomo alla cassa mi guarda da capo a piedi. Voglio andare via ma ho sete. Mi avvicino alla cassa, guardo a destra e a sinistra.

L’uomo sistema gli occhiali sul naso, sorride, ha un incisivo spezzato, Di cosa hai bisogno? Penso a tutto io.

Voglio andare via ma ho sete. Mi tocco il naso, Acqua naturale.

L’uomo alla cassa guarda a sinistra, urla al ragazzo nero, Prendi dell’acqua!

Il garzone si china verso il frigo, dietro il bancone. Porge l’acqua all’uomo, che passa la bottiglia di plastica a me.

Io apro lo zaino.

L’uomo sorride, tocca i capelli medio lunghi neri e grigi, mi fa l’occhiolino, Sono centododici euro.

Io indietreggio, Allora me ne vado.

Esco mettendo acqua e patatine nello zaino. Corro.
Il ragazzo nero mi segue.

Mi tira la spalla, Ci dev’essere stato un problema. Puoi tornare?

Io mi volto e cammino affianco al ragazzo, Devo aver capito male.

Alla cassa del bar guardo l’uomo, sospiro, Pensavo mi stessi offrendo da bere.
Il garzone mette il dito medio sul labbro superiore, torna dietro al bancone.
Io guardo a terra, Del resto quant’era? Per un euro e dodici centesimi.
L’uomo alla cassa annuisce, Sto lavorando! Prima di tutto il rispetto per chi lavora!

Io piango e tremo.
Io piango e tremo.
Un bambino mi indica la vecchia accanto a lui, con gli occhi color rame porta il cellulare all’orecchio.

Arriva la macchina dei carabinieri al Colosseo.

Il carabiniere ha le mani sui fianchi, Come ti chiami?
Tiro su col naso, mento, Mi chiamo Tecla.

Il carabiniere pretende la carta d’identità, Ce l’hai il fidanzato? Chiamalo altrimenti, se non collabori, devi venire con me.
Guardo a terra, Faccio show, non ho niente, cosa c’è di male?
Il carabiniere indica il mio zaino, Lo sai benissimo. Si dice artista di strada e loro fanno spettacoli, tu invece stai piangendo. Sei drogata? Devi venire in caserma.

Ingoio saliva. Cerco la vecchia con gli occhi di rame, sono stupida, come se potessi far parlare lei con il carabiniere. Il telegiornale, dallo schermo in alto a destra del bar, interrompe il concerto di capodanno e manda in onda la notizia di un virus letale in Cina.

La vecchia beve liquore al bancone.

Foto di Pete Linforth da Pixabay

Les nouveaux réalistes: Gennaro Pollaro

3

Pazienza

di

Gennaro Pollaro

Apro gli occhi e vedo il signor Aiello disteso sulla sua sedia di paglia con un bicchiere mezzo vuoto tra le mani.

“Dove siamo?”, gli chiedo affondando nel divano come nelle sabbie mobili.

Il signor Aiello si dondola senza distogliere i suoi occhi dalla mia figura e inizia a far oscillare un ciondolo. Non amo essere fissato in questo modo ma è come se lentamente, senza alcuno sforzo, il signor Aiello fosse capace di sentire la mia profondità.

Il fischio del signor Aiello, seguito dal graffiare della sedia sul pavimento, ha la stessa frequenza di una macchina da cinema. Tic tac tic tac tic tac. Un treno passa e di colpo mi sbatte all’interno. Poi avanza, si ferma per accogliere il passeggero che attende sulla banchina di nebbia. Si tratta di un uomo vecchio, ha l’odore dei guanti di cuoio di Marie e una particolarità: è in bianco e nero, come nei film del dopo guerra, vestito di un’uniforme militare.

“Posso sedermi?”

“Faccia pure”

Si piega con la schiena e aiutandosi con le mani, sulle ginocchia scricchiolanti, prende posto su una poltrona. Il rumore che fa la poltrona è quello di un vecchio pouf. Sembra sgonfiarsi e infine regge l’urto degli anni come se fosse niente.

Ma il vecchio non si persuade e freme all’idea di sedersi accanto a un giovanotto che gli ricorda certo qualcuno in un tempo lontano. Indica me e le colline. Poi aggiunge:

“Il viaggio sarà lungo e avremo a un certo punto voglia di riposarci. Ho lasciato una donna per una destinazione fisica perché l’amore è come un fiore e nonostante si annaffi alla fine muore.”

Poi il treno rallenta davanti a un pannello che indica la stazione successiva.

Una mano mi prende per la camicia tirandomi giù dal treno che parte con sopra l’uomo e il signor Aiello.

Arrivato al villaggio mi accorgo di trovarmi sulla stessa panchina in cui Marie mi ha lasciato ieri. Davanti a me, contro ogni ragione logica, al posto del gazometro c’è una pasticceria. Qui non si vendono tiramisù, c’è scritto sulla porta di vetro. E così avvicino il naso e sento il contrasto del mio alito. Non riesco a vedere ciò che sta all’interno. Mi frugo nelle tasche alla ricerca di una chiave ma trovo un pezzo di carta sul quale vi è disegnato un castello; poi l’orologio della piazza, che segna le sette in punto, batte sette colpi. Immagino il corpo tondo di Marie e, in bilico sui miei piedi, mi incammino sui sampietrini della città che inizia a scaldarsi sotto il sole del mattino.

Non mi riesce proprio di rigare dritto. A ogni passo ciondolo a destra, poi a sinistra, e quando incrocio la mia figura nei vetri vedo sotto gli occhi due borse di fatica. Ho la sensazione di osservare un altro me stesso. Un bambino che non ha mai dimenticato quel viaggio.

Mi incammino verso la stazione per riprendere il treno ma non è come me la ricordavo. Al posto del sole ci sono le nuvole, ma è soprattutto l’odore delle strade a confondermi. A ogni passo tiro su col naso per sentirle. Sento invece come se quell’odore di zolfo che passava tra i palazzi si fosse mischiato con il profumo della pietra di una città sconosciuta.

Penso a Marie che a novant’anni non ha mai avuto la possibilità di confondere un tiramisù con un ricordo. E penso anche all’odore dei broccoli che è la cosa più buona del mondo.

Poi la voce del signor Aiello arriva prima del rumore dei suoi passi.

“Ci sono progressi”, dice.

Trattengo le parole nello stomaco e mi verso un bicchiere. Gli chiedo di continuare la sua magia ma il signor Aiello risponde che per il momento basta così. Gira la testa in direzione di una porticina e come un gatto fila via, nella direzione da cui è venuto, senza svelare il suo segreto.

Sento come se nell’aria ci fosse qualcosa che mi trattenga più del dovuto. Le luci bianche all’ingresso vorrebbero sollevarmi. I meccanismi spigolosi delle macchinette del caffè giocano un brutto scherzo. Lontano, verso il muro di mattoni, mi accorgo di non essere lo stesso. Pure il cartone sul quale c’era scritto fragile non c’è più. Quel cartone sono forse io?

Il solo ricordo immutabile è Marie che cuce i guanti senza pensare a dove sia finito io. Chissà se mi sta cercando. Chissà se le importa veramente di me.

Il sole tramonta sulla destra e il paesaggio fuori si muove. Sto andando così a rilento verso sud?

Il signor Aiello ha gli occhi come cotonati. Minacciose sopracciglia mi osservano come se qualcuno avesse paura. E quello sono io.

Impagliato sulla sedia osservo uno scenario di fango. Una mosca si posa sul mignolo ma si tratta di un corvo.

È inverno.

Io e Marie, a due a due, andiamo a domicilio d’usura. Un luogo in cui statuette e monili impacchettati fanno compagnia a penne d’oro e pezzi di carta volanti, attaccati fra loro da cordacchie.

“Sedetevi”, fa il signor Aiello a me e a Marie.

Marie mi spinge da dietro come se fossi un’altalena. Mi altera la calma che ho dentro dal mattino. L’odore è di polvere e starnuti, poi viene il momento del contratto.

“Sono diecimila lire se paga entro quindici giorni, poi cinque punti a settimana fino a un massimo di dodici”, fa il signor Aiello.

Marie mi stringe le nocche della mano. Ritengo siano unghie di felicità malgrado provi dolore.

Il matrimonio d’onore è fatto tra noi e il signor Aiello dal cuore d’oro (come i monili).

“Se lo vuoi, puoi”, mi dice il signor Aiello.

Me ne infischio.

Troppo facile parlare quando si ha una carta parati gialla e dei lampadari ad olio.

Dal terrazzo odo i clacson che provengono dal basso.  Il caffè nelle rotte tazze mi ricorda ceramiche matrimoniali. Affari degni di un primo ministro in guerra con se stesso. Provo a ripristinare le origini perché non posso combatterle. O forse sì?

“Gli scompensi energetici sono tutt’affatto normali”, dice il signor Aiello.

“Mi ricordano il mago di Oz”, rispondo.

“Lo conosce?”

“No”

Sono condannato, da sempre, a subire sortilegi.

“A cosa serve complicarsi la vita alimentandola con personaggi così potenti?”, mi dice il signor Aiello.

Marie mi sorride sempre. Diventa seria solo quando cucina – pasta coi broccoli – e si proclama anche direttrice della parte lavativa.

La sola difficoltà che trovo con Marie è che talvolta ho come l’impressione che le mie parole non le arrivino spulciate. Forse è per questo che sorride? Ha di me l’idea di qualcuno che in realtà non esiste?

Mi attacco a un’immagine che ha la consistenza di uno yougurt: Marie sembra sparata da un cannone e dalle orecchie fuoriescono scintille. Ogni minima scarica elettrica, da quando sono chiuso qui, è capace di farmi entrare in contatto col mio io e questo mio sconquassa.

Al terzo colpo di ciondolo sono proiettato in un posto in cui un tizio che somiglia al signor Aiello prende per mano una bambina. Entra in un bar parlando una lingua straniera e parla al cameriere, poi accarezza un cane.

Io ripenso a Marie che col suo cane ci parla da sempre – ma senza quel sorriso.

È la depressione a soffocare la loro comunicazione. È per questo che Marie e il suo cane si comprendono: perché non si dicono niente.

Poi il tizio che somiglia al signor Aiello, dopo aver ordinato un cocktail, paga in contanti tirando fuori un portafoglio. Non lascia mancia ed esce in direzione di una chiesetta medievale. Intorno la gente li ignora. Ognuno fissa il davanti respirando a stento. Poi il signor Aiello lascia quella bambina davanti all’ingresso. Essa somiglia a Marie in una foto da piccola.

Il signor Aiello tiene le mani sulle ginocchia e mi osserva aspettando che io dica qualcosa. Mi posiziona sul divano e mi chiede di imitare la sua posizione. Di colpo dice:

“Muoviti, che non abbiamo tempo”

Io penso che il tempo non esista.

“Muoviti, dici qualcosa”, insiste il signor Aiello.

“Come in una prigione fui impiantato e poi sradicato come una pianta”, farfuglio.

Il signor Aiello mi osserva, poi abbassa la testa sul suo orologio e mi dice:

“Va bene così. Per oggi va bene così”

Non ci capisco niente di questo andare e venire per i vicoli della mia mente. Ho come l’impressione di vivere due vite. Una in cui c’è il signor Aiello. L’altra in cui ci siamo soltanto io e Marie.

Secondo il signor Aiello tutto dovrebbe risalire a quando qualcuno ha deciso che, uno:

si deve venire al mondo, e due:

il trasferimento genetico non sarebbe l’unica fonte di convergenza.

Gli ho confessato che prima di abitare con Marie, io vivevo con un topolino che mi aveva regalato e con persone che Marie conosceva molto bene. Una delle quali addirittura la conosceva moltissimo e mi somigliava abbastanza.

“Somatismi e modi di fare”, secondo il signor Aiello, “vengono da esperienze antiche di anni e forse pure millenni!”.

Un’aristocrazia che non considera i valori assoluti ma solo un luogo chiamato casa.

“Ci sono popoli per i quali…”, dice il signor Aiello.

Con uno sguardo interrompo il suo flusso e mi scuso.

“Ci sono popoli per i quali la casa è soltanto un concetto mentre per qualcun altro essa è un cono che spara fuoco a palla…”

“E per lei, cos’è una casa?”, gli chiedo.

Il signor Aiello fissa una particina alle mie spalle.

“Sono io a fare domande qui”, dice.

Poi si alza e guarda fuori la finestra, aggiungendo:

“Le regole, quelle maledette!”

Il signor Aiello mi spiega – senza aprire bocca – in quale luogo sarebbe sensato trovarsi l’origine delle mie preoccupazioni. Muove le mani sulla sua testa come a formare un cerchio e poi tira fuori ancora quel maledetto pendolo.

Entro in un posto che suppongo il signor Aiello non abbia mai visto. Lo suppongo perché il signor Aiello, tutto quello che ha visto, lo mette nella sua stanza sotto forma di oggetti o infusioni d’aria calda che proviene da candelotti verticali. E qui non vedo niente.

Poi mi propone un gioco.

“Prendi un foglio dalla risma e inizia a scrivere”

Lo guardo dubbioso.

“Scrivi, cazzo!

 

Il signor Aiello ha riassunto come segue i miei scritti complessi:

Nonostante le cose non vadano come devono andare, il mio paziente sente che un giorno ce la farà. Il pizzicore agli occhi è un buon punto di partenza. La sua schiena stanca attesta il lavoro che stiamo compiendo.

Il primo ricordo del mio paziente è un bambino che se ne sta su una girella di plastica. Prova piacere nel camminare a piedi nudi, sui quadrati rossi incastrati del pavimento freddo. Poi si muove per arrivare a destinazione. L’unica che esiste: Marie.

L’antologia di RicercaBO

0

di Leo Canella

Ritratto tanto poetico di un autore tanto contemporaneo (sull’antologia di RicercaBO)

0.

E’ in uscita l’Antologia di RicercaBO (2007-2023) da Manni Editore a cura di Renato Barilli e Leonardo Canella. Che io Barilli so chi è ma l’altro? Canella c’ha due sopracciglia pelose due bruchi bellissimi che vatteli a vedere su Google. Metti Canella.

1.

io c’ho due bruchi bellissimi al posto della sopracciglia che sono tanto contemporaneo e le coscette di pollo sul divano sotto il cuscino. Poetico.

Poetico c’ho due bruchi bellissimi al posto delle sopracciglia che la sera guardano Bruno Vespa che c’ha le sopracciglia pelose come le mie. Poetiche. Bruno Vespa è il più grande autore contemporaneo perché è peloso.

2.

che lo dice anche la mia grande amica la poetessa Lalla (ha appena pubblicato due libri). La mia grande amica la poetessa Lalla è su Facebook e foto e sorrisi che presentazioni con la mamma morta in prima fila e sei bravissima che ti leggo se tu mi leggi. Che se non mi leggi io non ti leggo però comincia prima tu. La mia grande amica la poetessa Lalla è tanto poetica perché legge Bruno Vespa. Che legge anche Canella Giovenale e Andrea Inglese però comincia prima tu. La mia grande amica la poetessa Lalla è sperimentale, dice. La mia grande amica la poetessa Lalla è su Facebook.

3.

e poi io so fare il bel discorso che sono tanto poetico e tanto contemporaneo, anche. E il cut up e Adorno la globalizzazione e i funghi secchi che in sconto alla Despar vicino casa dodici euro mezzo chilo. Un affare!! (che ti danno pure un libro, vedi sotto). Cuki gelopiù sacchetti freezer sette strati ultra resistenza spessore maggiorato massima tutela dei liquidi fondo con saldatura multipla rinforzata igienizzati all’interno procedimento ‘Stery System’. Che io faccio il bel discorso e c’ho i video su YouTube col bel discorso tanto Cuki sette strati. Io sono un autore tanto poetico e tanto contemporaneo perché c’ho due sopracciglia pelose.

4.

e c’ho la mamma morta nel freezer che quando presento le nughette la metto in prima fila. Anch’io. E foto applausi like. E mi becco pure la pensione. IO scrivo perché c’ho la mamma morta nel freezer. Se non c’hai la mamma morta nei freezer non sei tanto poetico e contemporaneo, secondo me. E neanche sperimentale che non fai il cut up. Se c’hai la mamma morta nel freezer fai il cut up che però devi usare Cuki gelopiù sacchetti freezer sette strati che sono trasparenti. E postmoderni, tanto.

5.

e c’è questa cosa dell’antologia di RicercaBO che la devi prendere coi bei nomi dentro (quarantuno). PRENDILA! (te la danno anche alla Despar vicino casa coi funghi secchi dodici euro mezzo chilo, cfr. supra). E dai con l’intervista che non me l’hai chiesto però va bene lo stesso. E i like su Facebook e Instagram e Porta a porta con la mia mamma morta in prima fila. Trasparente e postmoderna. Tanto. E applausi e TV che c’è pure Rosaria Lo Russo e Renata Morresi e Silvia Tripodi che però Bruno Vespa è più peloso. Anche Michele Zaffarano è peloso.

6.

se vieni a RicercaBO ci sono poi le pizzette. RicercaBO è un laboratorio di ricerca di nuove scritture perché c’ha le pizzette (l’idea l’hanno avuta Renato Barilli e Nanni Balestrini). Che però le pizzette a RicercaBO sono pelose perché sono tanto poetiche e contemporanee. Alessandro Broggi ha mangiato un sacco di pizzette pelose a RicercaBO. Anche Marilina Ciaco e Carlo Sperduti. E sono diventati tanto pelopoetici e contemporanei perché hanno mangiato le pizzette a RicercaBO. TANTE! Ti aspettiamo.

7.

che adesso ti ho detto chi sono io e come la penso, secondo me. E ti ho detto pure che c’è l’antologia di RicercaBO in uscita da Manni Editore coi bei nomi dentro (quarantuno) tanto poetici e contemporanei che sanno fare il cut up perché sono pelosi. E c’hanno pure la mamma morta nel freezer perché sono contemporanei. Tanto.

Fine.

*

Immagine: Renato Barilli, ritratto.

Incantamenti, molteplice, identità

3

di Francesca Matteoni

Introduzione a Incantamenti. Antologia poetica a cura di Francesca Matteoni, Cristina Babino, Laura Di Corcia, pubblicata da Vydia Editore.

Con poesie di Mariasole Ariot, Cristina Babino, Elisa Biagini, Maria Borio, Alessandra Carnaroli, Tiziana Cera Rosco, Laura Corraducci, Manuela Dago Pecorari, Azzurra D’Agostino, Evelina De Signoribus, Laura Di Corcia, Francesca Genti, Laura Liberale, Viola Lo Moro, Franca Mancinelli, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Laura Pugno, Marilena Renda, Mariagiorgia Ulbar.

per Cristina, Laura e tutte le altre che sono,
che verranno

Nella mia casa conservo una valigetta di cartone dove anni fa ho chiuso un incantesimo. Ne ricordo la fonte: era un lutto per il quale ho rinnovato una delle mie molte e bizzarre promesse infantili. Ho portato quella valigetta con me per quattro traslochi fino all’abitazione odierna, senza mai riaprirla, scordandomi pure del suo contenuto. Ogni tanto riappare nello sguardo. La lascio dov’è. Un incantesimo funziona meglio quando ce lo dimentichiamo, quando la volontà espressa è tale da lasciarsi la nostra persona molto indietro sul cammino.

CJ Leede: «questa è la mia storia, e voi non potete controllarla»

0

 

 

Nel segno di Hermes e da un’idea di Tiziano Cancelli nasce Mercurio, casa editrice fondata insieme a Matteo Trevisani, Antonio Sunseri, Leonardo Ducros, Simone Caltabellota e Francesco Pedicini.

I libri di Mercurio, leggiamo nel comunicato inaugurale, «sono narrazioni sulla soglia: al confine tra i mondi, tra i generi letterari, tra l’oggi e il domani. I libri di Mercurio, attraverso le loro evocazioni letterarie e contemporanee, convocano un rituale collettivo per resuscitare quella forza vitale, quell’entusiasmo feroce che solo le storie, a cavallo fra i mondi, sono in grado di catalizzare.»

Tra i primi titoli c’è Maeve, romanzo di CJ Leede tradotto da Gaja Cenciarelli, candidato ai Bram Stoker Awards e vincitore dell’Octavia E. Butler Award.

Ospito qui, in anteprima, i due capitoli iniziali.

 

I

Gli uomini condividono tutti lo stesso sogno ed è questo: Sposare un tesoro di ragazza. Vivere un’esistenza degna e piena di successi – grazie agli insegnamenti paterni. E, una volta raggiunto l’apice dei traguardi filiali e genitoriali, dopo aver finalmente conquistato l’imponente vetta della virtù, dell’onore e di un’incontestabile virilità, allora e solo allora, vedersi strappare moglie, figlio e cane. In modo brutale, spietato.
Riappropriandosi, finalmente, della libertà.
Perché si è comportato da uomo buono e giusto, e proprio perché quella scomparsa lo ha trasformato in vittima, l’uomo virtuoso potrà votarsi, con il pieno sostegno dei presenti, alla violenza, alla rabbia, al nichilismo e alla dissolutezza. Che, per tutto il tempo, sono stati il suo fine ultimo. Perdersi nell’estasi gloriosa e giustificata della rappresaglia. Quanti mariti hanno fatto la fila davanti alle biglietterie per vivere la stessa fantasia, oggetto dei desideri più profondi, viscerali e selvaggi?

Gli uomini sono creature insipide, stupide.
Ecco la verità, quella che solo pochi di noi conoscono: Non ti serve una storia edificante e virtuosa per fare quello che vuoi. Non sei costretto a essere prima una vittima per poterti poi trasformare in un mostro. Non c’è bisogno di vedersi strappare via i propri cari per potersi dare all’alcol, alla violenza, all’inseguimento della gloria. La vita è fugace e senza senso, e muore dalla voglia di essere presa da dietro e scopata fino all’oscurità.

Non più di quanto possiate controllare il vostro sesso che penzola sempre più in basso, né il surriscaldamento di questa grassa, pigra galera di pietra che galleggia nel buio costellato da schizzi di sperma.

Mi chiamo Maeve Fly.
Lavoro nel posto più felice del mondo.

 

II

Io e Kate siamo in ginocchio, una di fronte all’altra, nella sala del castello della regina di ghiaccio, vestite da principesse, come ogni giorno. Guardo una goccia di sangue, e poi un’altra, cadere dal naso di Kate sulla testa del bambino seduto su di lei.

Kate è bellissima e ha i postumi di una sbronza. È una gemma opaca ma comunque preziosa in una grotta artificiale buia e pseudonordica. Lo dico in senso letterale. Le pareti di questa sala sono state dipinte per sembrare un castello scandinavo qualsiasi, che non assomiglia affatto ai pochi castelli scandinavi realmente esistenti.

Kate ha ventisei anni, uno meno di me. Il bambino che ha in grembo indossa una maglietta di un qualche cartone animato e ha dello zucchero filato incrostato alla faccia. Il sangue che cola dal naso di Kate non può che migliorare un’immagine già desolante. Sembra che la madre non se ne sia accorta. Oggi è un martedì di settembre, e i genitori rabbrividiscono in quest’aria artificiale, mentre il sudore della California meridionale gli si raffredda disgustosamente sulla pelle.

«Che carino il tuo vestito! Sta meglio a te che a me!», dice Kate alla ragazzina seduta accanto a me. Questi bambini sono fratello e sorella, e io non riesco a non considerarli in competizione. Un giorno uno dei due mangerà l’altro, uno dei due ruberà il marito o la moglie dell’altro. Il piccolo, quello con lo zucchero e il sangue, non avrà più di quattro anni e, nonostante ciò, la sua mente è già al lavoro.

A un certo punto pare capire, con grande chiarezza, la fortuna che gli è capitata. Seduto su una donna con cui non spartisce alcun legame di sangue, il viso vicinissimo a quei seni giovani e sodi. Ha la bocca aperta, e gli occhi fissi su uno dei capezzoli di Kate. Con i costumi dobbiamo indossare il reggiseno, ma a Kate non importa molto. Io non mi lamento. E nemmeno questo bambino.

La bambina accanto a me fa una piroetta nel suo abito da principessa. Il personaggio di Kate è la sorella minore del mio. Kate abbassa gli occhi e le rivolge un sorriso affettuoso. Nessuno si è accorto che le sanguina il naso. Il bambino tende la mano verso l’alto, appena qualche millimetro, verso l’oggetto della sua adorazione, lentamente, come se potesse non essere reale. Si ferma. Mi guarda: posso farlo? Sarò punito? È quello che vogliono sapere tutti gli uomini. Sorrido e gli strizzo l’occhio. Alla fine saremo puniti tutti. Allora perché no?

Mi piace da morire impersonare la mia principessa. La maggior parte delle bambine qui è attratta da quella di Kate, dato che lei è la sorella incrollabilmente virtuosa, la protagonista che non solo salva il villaggio, ma che si innamora anche di uno scandinavo bello e possente e con cui metterà al mondo altri scandinavi più belli e possenti. Solo alle ragazze devastate piace la mia principessa, la sorella dai poteri distruttivi, quella senza marito. Quella che recita il ruolo sia della principessa che della cattiva. Ne parleremo più avanti, ma il mio ruolo è rilevante, una sfida archetipica rara in un mondo così piatto e prevedibile. Lei è più che magnifica. L’unico lato negativo del nostro incarico è la canzone del pupazzo di neve che suona a intervalli regolari nell’arco della giornata e che consiste in un minuto e cinquanta di voce nasale. Una tortura insopportabile. I bambini vivono per quel momento.

Questo ragazzino, invece, sta traendo il massimo dai soldi spesi dai genitori e se ne frega della canzoncina. La sua attenzione è tornata al seno, e nei suoi occhi c’è una nuova determinazione. Dal naso di Kate scende un’altra goccia rossa che si mescola con i capelli del bambino e io mi sento travolgere da un amore profondo e incrollabile. Per Kate. Per questo lavoro. Per tutto.

Io e Kate abbracciamo la bambina e ci stringiamo per la foto. C’è la fila, non possiamo far aspettare gli altri. Siamo molto popolari al parco. Le più popolari, in effetti.

Mentre ci avviciniamo per entrare nell’inquadratura il bambino mi guarda e avverto l’importanza del momento quanto lui. Questo sarà il picco della sua infanzia, un giovane cavaliere coraggioso alla sua prima, vera impresa. E io sono la testimone di tale traguardo. Lo incoraggio, imperturbabile, con un cenno del capo. Lui capisce e si prepara a fare la sua mossa, sulla strada del destino.

Allunga la mano.
«Dite cheese!», grida la madre.
Il bambino dà una bella strizzata al seno di Kate.
Il flash si illumina. La madre grida. Kate ride. Il padre cerca di sembrare sconvolto, ma si vede dal sorrisetto nascosto a stento, da come modifica la postura. È fiero del figlio. Avrebbe voluto essere lui a mettere la mano sul seno della principessa. Finalmente asseconda la fantasia che, fino a quel momento, stando in piedi davanti a noi, non si era concesso. La carne morbida e soda paragonata a quella della moglie, ormai madre, la gioia proibita di una ghiandola mammaria ancora intatta, ancora non conquistata da lui. Ecco l’invidia dei padri per la loro progenie. Ecco come restano ancorati a quell’invidia, in eterno.

Lo guardo e inarco il sopracciglio, lui scrolla le spalle, per nulla dispiaciuto. Sa d’istinto che io so. Succede sempre a quelli che sanno.

 

Nel pomeriggio abbiamo mezz’ora di pausa. Entriamo nella stanza del personale. Cenerentola e Biancaneve mangiano yogurt senza grassi, senza zucchero e senza lattosio. Ci fulminano con lo sguardo. C’è una gerarchia ben definita tra le principesse, e la mia e quella di Kate sono tra le più giovani e popolari. I bambini hanno quasi dimenticato quelle vecchie. E poi, va specificato che noi – io, Kate, Cenerentola, Biancaneve, e le altre – ci troviamo nella posizione più bassa della gerarchia rispetto alle principesse che lavorano nel parco principale. Noi siamo in quello accanto, l’ultima aggiunta, che ospita giochi più adatti agli adulti, e le attrazioni per bambini – come ad esempio conoscere principesse – sono solo di complemento. Il nostro parco ha sempre meno visitatori del gemello accanto, l’originale. Apre tardi, chiude prima. Quindi essere Cenerentola o Biancaneve nel nostro parco è come essere la serie B della serie B, il che rende queste principesse estremamente livorose. Anche io lo sarei.

Le ignoriamo ed entriamo nello spogliatoio, dietro la stanza del personale. Ci togliamo la parrucca. Il colore dei miei capelli non è poi tanto diverso dal biondo platino del mio personaggio, ma siamo comunque obbligate a mettere la parrucca. I capelli di Kate, a differenza del rossiccio della parrucca, sono del rosso più vivo che si possa sperare di avere senza tingerseli. Sono così affascinanti che a volte resto a fissarli troppo a lungo. Filo di rame, piroclastite, sangue mestruale. Kate prepara le botte su un piatto di carta preso nella sala del personale, e le pippiamo dagli applicatori degli assorbenti interni. Me ne passo un po’ sulle gengive. Sistemiamo degli asciugamani sul pavimento e ci stravac chiamo a terra, appoggiandoci agli armadietti, e mangiamo gli orsetti di gomma per cui stamattina ho flirtato con il tipo del minimarket. Il rosso dei capelli di Kate manda bagliori fluorescenti. Ha una carnagione così trasparente che riesco a vederle il reticolo delle vene sottopelle.

Si apre la porta della stanza ed entra Liz.

Liz è quanto di più terribile possa esistere in un essere umano, quindi la mia nemesi. È odiosa e allo stesso tempo curiosamente affascinante. Liz adora le regole, adora attenervisi, esservi fedele, succhiare i loro piccoli cazzi metaforici con l’amore e la pazienza di una santa o di una donna che lo fa per soldi. È anche la nostra supervisora. Una specie.

La osservo mentre il viso le diventa paonazzo dopo averci visto. È una delle due modalità di Liz. Sono entrambe insopportabili, ma questa almeno mi sembra vagamente divertente. Kate dà una botta, e Liz incrocia le braccia sotto i seni debordanti, la fonte di tutta la sua disperazione. Le bocce. Le tette. Un tempo era una principessa, come noi, ma un bel giorno si è svegliata e ha scoperto che, durante la notte, il suo petto si era gonfiato così tanto da non entrare più nel costume. Oddio, per entrarci ci entrava, ma faceva la figura della pornostar, quindi la Direzione l’aveva convocata per comunicarle che i suoi giorni da principessa erano finiti. È la delusione più grande della sua vita, e non si riprenderà mai emotivamente. Liz è stupida e sexy, e non entrare più nel vestito diventando l’apoteosi di ciò che qualsiasi donna vorrebbe essere, anche sborsando dei soldi, per lei costituisce la morte di tutto ciò che di bello e buono esiste al mondo.

E questo manda fuori di testa Kate che, bellissima a sua volta, ucciderebbe per avere il corpo di Liz. Il fatto che Liz si dichiarasse dipendente dalle ciambelle – una dipendenza molto borghese e masochista che, peraltro, non le fa mai mettere su un grammo da nessuna parte – e una generica e sgradevole sensazione di adolescenza prolungata hanno mandato per sempre in fumo qualsiasi possibilità avesse con Kate. A me non frega niente di queste cose. Per me, il punto è solo lei, Liz. Una che non fa altro che andarsene in giro a controllare, o a crogiolarsi nel desiderio infinito di qualcosa che non tornerà più: la persona più inconsapevole che io abbia mai incontrato in questa città. La malinconia, i sospiri pesanti e gli sguardi famelici attaccati ai nostri vestiti da principessa, un desiderio così profondo da farmi venire la nausea. Liz è, in ogni senso e sopra ogni altra cosa, la creatura peggiore e più elementare che chiunque possa scegliere di essere. Una vittima.

Ora Liz è un personaggio in pelliccia, a volte uno scoiattolo, altre una topolina. Quando ha perso il ruolo da principessa ha montato un casino tale che la Direzione, tentando di soddisfarne lo spropositato desiderio di dare il suo contributo, e di evitare la vertenza che, ritenevano, sarebbe seguita (benché Liz non avrebbe mai fatto niente per infangare la loro reputazione), le ha attribuito il titolo semiufficiale di Principessa Supervisora. Non è una vera e propria carica e non le porterà un aumento di stipendio, lo so perché io e Kate abbiamo aperto di nascosto il suo armadietto per controllare le buste paga, né le darà altri benefit degni di nota, se non la sensazione di avere una qualche forma di potere su di noi.

«Ancora? Ancora? Vi farò licenziare, voi due siete strafatte!», sputa fuori Liz, con un sussurro febbrile.

«Rilassati, Liz. Fatti una botta», dice Kate.

«Se credete di poterla passare liscia con—»

«Scusa, con cosa? Con che cosa non dovrei passarla liscia?», dice Kate. «Mi pare di ricordare che potresti essere tu a non passarla liscia, Liz, se solo io, be’, lo sai…», si osserva le unghie, «insomma, se solo io dicessi qualcosa, o mostrassi qualcosa, alla Direzione».

Liz impallidisce.

Lei ama il parco. Lo ama più di ogni altro posto al mondo. Il suo sogno è quello di fidanzarsi indossando delle orecchie da topo identiche a quelle di un futuro marito, amante pure lui del parco, di sposarsi nel castello di Cenerentola, di passare una notte magica a sputtanarsi la verginità nell’ambita suite del castello del parco sulla East Coast che non riuscirà mai a prenotare. Nell’appartamento in cui convive con altri, la sua stanza è ricoperta di moquette bianca, piena di accessori del parco, e tutti i giorni fa colazione con ciambelle a forma di topo. Guarda a ripetizione i cartoni animati, soprattutto quelli vecchi. Non si è mai masturbata, mai nella vita, perché si sta conservando per un Ben o un Jake o un Paul che sarà senza dubbio vergine anche lui. Forse non Jake. I Jake in genere sono degli stronzi. Non lo so, sto scherzando. Voglio un’altra botta prima di ricominciare il turno.

«Non capisco perché passi il tuo tempo con lei. Sei meglio di così», mi dice Liz, ed è sincera. Ha sempre visto in Kate la cattiva e in me l’anello debole, e non ha mai sentito il bisogno di credere il contrario.

«Andiamo al Bab’s stasera?», mi chiede Kate, ignorando Liz. Il viso di Liz è tornato alla sua espressione ferita, lugubre, eccessiva, e in tutto questo io mi sto solo chiedendo se si sia mai tagliata il cespuglio o se la sua cosina scorrazzi selvaggia nelle mutandine di cotone da principessa.

«Sì, forse», le dico. Bab’s, abbreviazione di Babylon, è lo strip club stile Old Hollywood nel seminterrato del Gangplank, lo strip club stile piratesco dove in genere vanno tutti i turisti newyorkesi. Io e Kate ci andiamo perché quei turisti sono quasi sempre alla ricerca di ragazze californiane a cui offrire da bere nella speranza di alleviare il proprio jet lag, la rabbia quotidiana e qualunque altra specie di livore sepolta dentro di loro. Pronti a schizzare tutta quella roba fuori dai loro cazzi e dentro a qualcosa di consenziente – o quasi consenziente. Di solito è una questione di prospettiva, in ogni caso. E ripartono sempre il giorno dopo.

«Vorrei finire il libro che sto leggendo», dico, «magari dopo».

Liz fissa malinconicamente il vestito di Kate, fa un lungo sospiro mentre abbassa le spalle e si volta a guardare dietro di noi, nell’abisso infinito del desiderio.

«No, stronza, l’avevi promesso, ricordi? Mio fratello?» Kate si avvicina tanto che i suoi capelli mi sfiorano il braccio, sento il suo sudore e il profumo stucchevole dei grandi magazzini, lo stesso che dice di usare fin dalla pubertà. Intravedo anche il buco nella lingua dove aveva il piercing prima che se lo togliesse per questo lavoro. Quella lingua ne parla cinque, di lingue, una in più della mia. È così che ha ottenuto il lavoro, probabilmente è così che l’abbiamo ottenuto tutte e due. Di millennial troppo o poco istruiti ce ne sono a palate ma, in qualche modo, siamo finite entrambe qui.

E a quel punto mi ricordo. Suo fratello si è appena trasferito in città. L’avevo dimenticato. La mia mente è stata… altrove, negli ultimi tempi.

 

Storia tripla (racconto giovanile)

0

di Lisa Ginzburg

  1. José

L’ho scelta perché scopava bene; e perché non c’era niente, né in lei, né nella sua vita, che mi procurasse una qualche pena, un coinvolgimento. Adesso credo che se solo volessi ragionerei in un altro modo con une donna. Ma allora era così: da una donna cercavo solo sesso e silenzio; distanza mentale e amore fisico.

Ha scelto un lavoro (o meglio l’ha preso, in un momento in cui aveva ben poco da scegliere) che l’ha guastata. Se ne è resa conto anche lei, ne sono certo, anche se finge provocatoriamente di no; e c’è qualcosa di agressivo, e disperato, in questo suo giocare col proprio abbrutimento.

Anch’io mi sono guastato, sicuro: anzi, secondo la gran parte di quelli che ci conoscono, io molto più di lei. Ma anche se loro non lo sanno né lo sapranno mai, almeno io non ne godo. Anzi la gioia sta nei pochi instanti in cui ritrovo il me di prima, il sentimento, l’intensità.

Julio è nato dopo solo un anno, e quasi subito abbiamo smesso di scopare. O forse per qualcosa di più complicato, di cui non so e non voglio capire nulla. Non ci penso. E anche se vedo quanto gli ho fatto male, lo ignoro e spesso lo maltratto.

Ho cominciato a uscire da solo. Prima con un senso di grande libertà, poi di grande solitudine. Ana-Luz (che io però ho sempre chiamato Ana) non si è mai opposta, non glie ne è mai importato niente. I guai sono cominciati solo un anno e mezzo fa, quando ha iniziato a voler uscire anche lei. E la baby-sitter, e la cena da lasciare a Julio, e la lavatrice da stendere, e non sentire la sveglia la mattina perché da quando esce anche lei all’asilo lo portiamo a turno…una vita scema, oltre che dura scema, piena di battibecchi. Lei che ronza come una mosca, è sempre più magra, lavora sempre, e io che solo ogni tanto mi ricordo di quando con un sorriso dolce sulle labbra mi aspettava alla finestra, a casa dei suoi giù all’Alfama, e a me mentre le andavo incontro la vita sembrava fatta con l’aria della primavera.

Mi son messo a frequentare locali, locali di ogni sorta. In molti posti qui a Lisbona suonano dal vivo, e i primi tempi mi soffermavo ad ascoltare attentamente le parole delle canzoni. Tante parlavano dell’abitudine nell’amore, di come sa dsitruggerlo. Pensavo quanto banale è la vita, tutte le vite; pensavo a Ana, alla sua bocca che non baciavo più. Ero triste, ma disllluso. Rapido e perfido, il cinismo si apriva in me la sua strada.

Esteban l’ho conosciuto dopo quasi un anno di quella vita notturna. In discoteca mi spiava da lontano, e con lo sguardo, nel buio, sembrava leggere tutto, vedere tutto. “Sono di Capo Verde, ma non ci torno da più di cinque anni. Tre volte alla settimana vado in un posto a cantare la mia saudade. Vieni a sentirmi se ti va. Ci sono ogni venerdì, sabato e domenica”.

Che paura. Chissà perché subito un senso di paura. E poi quello sguardo, un po’ strabico, un po’ ridente e un po’ tragico. Voglia di ferirlo. Voglia subito di ferirlo. Bevo più del solito quella notte, e mentre torno barcollando a casa, pesto un gatto che mi taglia la strada e lo ammazzo. Avidamente quasi, lo schiaccio sotto la suola dello stivale. Mentre lo faccio penso al sorriso di Esteban, caldo, aperto. Una fitta di paura. “Io lo schiaccio pure a lui, porco dio!”. Ora non mi spavento più neanch’io; la mia rabbia non ha più ritegno, e senza ritegno io la lascio fare.

Vado il venerdì seguente, e mentre vado non so neanch’io perché sto andando. Non ci ho pensato mai durante la settimana, neanche una volta, ma la mattina del venerdì una delle prime cose che mi vengono in mente è quella visita che mi attende la notte.

Arrivo che sta già cantando. Che voce! “Calda e profonda come l’amante sapiente, dolce e avvolgente come l’inesperta”… mi molce il cuore, e non devo né voglio, assolutamente, che nessuno se ne accorga, e tantomeno lui… Lui che da lontano mi vede, e mentre canta sorride, e in quel suo guardarmi e sorridermi c’è tutto, non voglio, non è.

Viene a sedersi al mio tavolo alla prima pausa. Beviamo. In principlo parliamo poco, il minimo indispensabile, e questo mi piace, mi fa sentire a mio agio. “Tu hai un gran dolore, l’ho visto subito; e non vuoi guardarlo, e più non vuoi, più quello cresce”. Come parla sicuro, con quel sorriso – persino altero, nella sua innocenza: la prima volta non me ne ero accorto.

“Sei mai stato con un uomo?”

L’avevo anche immaginata una domanda così, da parte sua, il mio disagio però mai. Il sorriso timido che gli ho rivolto mentre nervosamente mi accarezzavo i capelli scuotendo la testa per dire di no.

“E tua moglie, com’è? Perché ce l’hai una moglie, vero?”

Chissà come mai mi metto a parlare tanto. Forse il troppo whisky, forse i troppi mesi di silenzio, cullando il mio risentimento come  un bambino (un bambino questo sì amato, accarezzato). Parlo di Ana come se Esteban la conoscesse. Ascolta attento; due volte mi interrompe perché deve tornare a cantare. E due volte il suo canto mi commuove: come fosse il canto della mia vita, come se nelle sue parole, nella sua “saudade de Cabo Verde” stesse tutta la mia amarezza – e l’aria di primavera che l’ha preceduta, e lo struggimento per l’impossibilità che ritorni…

Mi accompagna alla macchina. Zoppica leggermente, e c’è qualcosa nel suo corpo, grosso, un po’ pingue, che commuove. Qualcosa di patetico, ma portato con grande dignità. Ho voglia di piangere, per quel groppo in gola rauco e serrato, lo stesso che mi accompagna da mesi senza volersi sciogliere. Così rispondo male alle sue domande, e con la mia malagrazia non aiuto, anzi interrompo la melodia della sua conversazione. Per un attimo mi sembra di essere con mio figlio, anche lui bisognoso, oppresso da necessità che io non so sopportare.

Esteban implorante e quasi felice di implorare; col suo sorriso disarmato lascia cadere le mie risposte sgarbate, e la cosa mi fa incazzare ancora di più. Quando mi chiede se ci rivedremo rispondo di no con un mugugno beffardo. “Macché, lasciami perdere, pensa piuttosto alla tua voce, che è bellissima”. Mi chiudo dietro la portiera e faccio per accendere il motore.

E’ stato allora. Preso da un impulso che nemmeno adesso so spiegarmi, sono sceso dalla macchina e l’ho baciato con furia sulla bocca. I suoi capelli lunghi profumavano; e con un gemito di piacere, senza carezze, ci siamo salutati.

Per mesi l’ho fuggito. Disertavo le strade attorno a quella del locale – la Rua do Poço dos Negros, commovente di sera coi ragazzi fuori dalle case e dai negozi, in attesa della notte che incomincia… In ufficio, una mattina ho trovato un bigliettino sul tavolo, “Ti ha cercato un certo Esteban”: l’ho strappato.

Un giorno però mentre sto guidando, accanto Julio e la sua presenza sempre per me faticosa, lo vedo attraversare la strada. Mi fermo: “Vieni, monta in macchina”. E lui felice si siede dietro e si mette a giocare con Julio. E’ bravissimo col bambino, nessuno ho visto bravo così (a parte mio padre, che però sta a Santa Cruz e il nipote lo vede due volte l’anno, se va bene). E Julio è raggiante, che finalmente qualcuno lo stia ad ascoltare, che qualcuno lo guardi come una persona, un bambino che ha occhi per vedere il mondo e orecchie per sentirlo.

Passiamo insieme il pomeriggio, un assurdo intero pomeriggio. Andiamo sino a Belèm, saliamo sulla torre. Poi ci fermiamo in un bar, Esteban compra a Julio un grosso gelato ai gusti cioccolato e banana. Il bambino è come lo vedessi la prima volta, quasi lo trovo simpatico. Alle sette e tre quarti dico che devo andare, e porto via due, un uomo e un bambino, profondamente tristi: gli sguardi di entrambi dicono delusione, in macchina incombe un silenzio risentito. Lasciamo Esteban all’angolo con Rua da Rosa; con il suo fare pesante si mette la borsa di tela sulle spalle (piena di chissà quali assurde cose strane) e abbraccia prima Julio e poi me. Non c’è allusione, non c’è niente, solo un grande calore.

Con un pretesto, dopo dieci minuti Julio scoppia a piangere. E’ rimasto di nuovo solo; non ha più con chi scambiare, e quell’istante di vicinanza e amore anche con me, è già finito. “Non frignare, non rompere” ricomincia a sentirsi dire. A cena più di una volta nomina Esteban, il suo nuovo grande amico. Al di là dei bicchieri e delle pentole unte vedo Ana rabbuiarsi. E’ ancora una donna molto sensibile, pur nel suo abbrutimento, ancora in grado di ingelosirsi per qualcosa che non sa, in cui lei non c’entra. Prima di uscire (stasera è il suo turno) mi domanda chi è questo Esteban. Mentre le rispondo evasivo avverto il tono falso, alterato, non credibile della mia voce. Ma non me ne frega niente: niente.

Mi butto sul letto. E’ assurdo, ma lo desidero; penso a quel suo culone che sballotta sotto i jeans, a quei cazzo di capelli lunghi profumati. Sono pieno di rabbia, di voglia di azzittire tutto, spegnere la luce e tutte le luci del mondo. E nel buio, gridare.

Il Venerdì, intorno a mezzanotte sono di nuovo in Rua do Poço dos Negros, e di nuovo senza averlo programmato. Da lontano, mentre canto mi sorride contento, lo stronzo. C’è molta gente, smette di cantare solo verso le due. E’ normale che mi accompagni di nuovo alla macchina, normale che questa volta salga con me, che mi dica dove abita, che io salga su da lui, che ci ritroviamo abbracciati sul suo letto scalcinato. Che spegniamo tutte le luci. Che nel buio gridiamo, come animali feriti.

Ana non mi sente entrare nel letto all’alba, né uscirne poche ore dopo quando suona la sveglia. Meglio così; meglio che non veda quanto sono pallido, quanta paura ho negli occhi – cose che mi dice lo specchio del bagno, inesorabile.

 

2. Esteban

I ceci mescolati a una pastella verde, l’odore delle spezie; mia madre mescola piano, e canta. Questo è il mio primo ricordo della vita.

Una notte dei bastardi di un paese vicino l’hanno ammazzata, mia madre. Mentre tornavano a casa, ubriachi, hanno sparato col fucile così, per divertirsi, e lei che stava tornando a casa l’hanno presa. Avevo quindici anni: vennero a dirmelo in tre, i vicini. Non ho gridato dall’orrore, né pianto. Non ho fatto niente; ho aspettato ancora tre anni, poi sono scappato a Lisbona. Quando torno sull’isola, tutti ancora dopo tanto tempo mi puntano addosso sguardi di compassione, cui io rispondo quasi felice, sono sguardi che mi proteggono per ché mi fanno sentire più forte di quanto non sia.

Avessi avuto più coraggio averi provato a incidere un disco. Di avere una voce speciale me ne rendo conto anche io, io stesso riesco a commuovermi quando mi sento cantare. Ma coraggio non ne ho avuto, o forse più semplicemente, voglia. Mi basta questo, addolcire le serate della gente, nella penombra vedere certi occhi lucidi, sentire voci che un po’ tremanti cantano con me. Immaginare le coppie promettersi chissà quali cose, ignare dell’amarezza dell’amore. Scaldare i cuori gonfi di saudade dei capoverdiani che frequentano il locale, amici e non. E sfinirmi nel canto. andare a dormire spossato dopo aver sfogato tutta la mia malinconia.

“Tu ti esprimi” mi dice Taudès, mio cugino, e credo proprio che abbia ragione.

Non guardo per spiare; però vedo. E ti ho visto. Tanti dicono le cose soavemente, tanti coprono tutto di un velo di falsa cortesia. Tu no; tu sei stato subito franco con me, vero, senza complimenti. E cattivo; e io per tutto questo mi sono innamorato. Mi sei entrato subito dentro, nella pelle. E tu, perché non vedi tu? Amore mio; l’ho pensato subito: amore mio.

C’è una canzone che non canto spesso, credo perché mi fa soffrire. Dice più o meno così, tradotta: “le scuse le sappiamo o le troviamo/lo so, sarebbe potuto essere/mia perduta rugiada del mattino”.

Sei stato subito, anche, quella canzone. Perché l’ho sentito subito che non era possibiie. Che avrei perso, e avrei sofferto per te. Mia perduta rugiada del mattino.

Il giorno dopo quello in cui ti avevo incontrato, quando sono andato a pranzo da Taudès e la sua famiglia, come ogni mercoledì, ero allegro. Se ne sono accorti tutti: anche Miminha, mentre come faccio di solito giocavo con lei prima di mettersi a tavola. Perché i bambini vedono, e io ho sempre cercato di vedere come vedono loro. Mantenere sulle cose gli stessi occhi profondi e attenti dell’infanzia, ascoltando i movimenti del cuore. Così campo, così mi mantengo in piedi del mondo.

Ero allegro perché pensavo a te, ai tratti decisi del tuo viso, ai tuoi capelli corti, la linea netta sulla nuca. Così virile. Amore mio. Sono come scemo, anche dopo, quando cammino per le strade sorridendo ai bambini che mi passano accanto, a Lapa.  Un appuntamento te l’ho dato e chissà, chi lo sa. Presagisco guai, ma scorre vita, energia. Qualcosa di profondo e dolce, da regalare tutto a te.

Quando ti ho chiamato è stato perché non ce la facevo a sopportare l’attesa, il desiderio che mi galoppava dentro dopo il bacio che ci siamo dati. Sapevo che non avrei dovuto chiamare, ma sapevo anche che commettere un errore era il solo modo per poi, pentito, mettermi infine l’anima in pace. Infatti mi sono rassegnato, ho ricominciato a uscire il giovedì con il collega di Taudès che mi paga sempre la cena e non sa baciare, il fine settimana lavorare, il mercoledì andare a pranzo da Taudès e giocare con Miminha. C’era un gran vuoto, ma anche una strana grande calma; la stessa del pomeriggio che ci siamo incontrati e ho conosciuto Julio, Julio che ti assomiglia e in più ha la pazienza e la dolcezza che mancano a te. Al termine di quel pomeriggio mi sono addormentato prima che arrivasse il buio, per quanto ero stanco – e felice. Quelle ore trascorse a Belèm sono il ricordo di sicuro più bello; molto più di quello della notte in cui ci siamo amati. Perché lì ti ho perduto, lì eravamo soli con le nostre anime sgualcite, senza più lo sguardo saggio di Julio, lui che sapeva come farci stare vicini. Hai avuto paura dopo José, amore mio. E chissà, magari ne ho avuta anche io, per quanto proprio non mi sembra. Mentre mi penetravi ti ho chiesto: “amami, sempre”. E intanto lo sapevo, che non sarebbe stato mai più.

Poi l’altra sera siete tornati, voi due, altre persone, e anche lei.  E’ stato tremendo. Vedevo nella penombra gli occhi tristi di Julio, tu eri in disparte ma io sapevo che lo stavi maltrattando con le parole, e stavo male. Parlavi con i tuoi amici, e la cosa peggiore era che tra loro c’era anche Tino, Tino che è la più bella voce di Lisbona, che è il mio maestro, con il quale ho passato tante sere infuocate di tramonto con le chitarre su al Castelo, a imparare. L’ho salutato con il microfono mentre andava via, lui mi ha fatto un cenno, un mezzo sorriso di vecchio. Tu niente, neanche ti sei voltato a guardare. Dopo un po’ ho cantato “mia perduta rugiada del mattino”, mi sono emozionato io stesso mentre la cantavo, diversi occhi lucidi in sala, commozione. E tu niente, probabilmente neppure ascoltavi – quella canzone che voleva dirti tante cose, la mia dichiarazione, la mia resa. Il desiderio che bruciava, rassegnato. Era arrivata lei, con altri, e quanto eri teso potevo vederlo da dietro, per come muovevi a scatti quel tuo collo che mi eccito solo a guardarlo.

Lei è dura e segaligna, come me l’hai descritta tu. L’aria di qualcuno che si è perduto e non può ritrovarsi. Orrenda: le mani che accarezzavano la testa del figlio erano di madre sì, ma secche, nodose, tese. Ho capito quella sera che vi odiate. Anche non vi avessi mai visto prima, l’atmosfera pesante al vostro tavolo l’avrei percepita da lontano.

Dall’altra sera sto proprio male. Ho detto al collega di Taudès che se vuole possiamo vederci anche un’altra sera alla settimana, tanto ormai cosa vuoi che me ne importi. Vaffanculo a tutto, José. Perché ti amo, per la prima volta davvero amo, quindi vaffanculo, non me ne frega un cazzo di niente.

 

3. Ana-Luz

Fernando prima lo vedevo di rado, scopavamo da dio, in casa sua, e basta. Ma nell’ultimo anno ci siamo proprio impazziti, tutto è sempre più triste ma più forte, e non riusciamo a stare senza vederci più di dieci giorni. Se continua così impazzirò sul serio: non ho più forza nemmeno di vedere Rosita, che mi legge le carte e almeno lei mi distrae.

José è stato il primo uomo della mia vita; a parte un timido bacio negli anni della scuola (in corriera, al ritorno da una gita a Obìdos) i maschi, prima di lui, proprio non li conoscevo – mio padre a casa non c’era mai, e quando c’era dormiva sempre.

Il primo anno mi ascoltava; si sedeva ai piedi del letto la sera, e mi lasciava parlare. Spesso mi sfotteva, o replicava alle mie confidenze in modo sbrigativo, sgarbato. Però mi capiva, o almeno, desiderava capirmi. Invece l’estate a Santa Cruz a casa di suo padre, la stessa in cui sono rimasta incinta, abbiamo smesso di provare a capirci. Come per un tacito accordo (ma sarebbe più esatto dire disaccordo) è cessato ogni sforzo. E’ incominciata una distanza, amara, proterva, nel tempo sempre più amara e proterva.

Ho preso l’abitudine di saltare i pasti, sempre più spesso. La ragione mi è chiara: non è che mi manchi l’appetito, è che il morso della fame mi fa sentire meglio. Quando ho fame provo un’emozione, un calore nel corpo che assomiglia al desiderio, una rabbia che risuona come energia. Lo sguardo affamato attira altri sguardi, e a me è sempre piaciuto sentirmi osservata per la strada. E tante volte, mentre cammino per questa città che odio e amo come fosse una persona, questa città che è il solo luogo che conosco – e lo conosco a memoria, davvero – tra le gambe sento un cuore che palpita, che canta la sua canzone rabbiosa e forte, di fame.

Fernando: ma Fernando non è niente, è solo la mia delusione (la delusione ha fatto sì che lo incontrassi). Le voci nei vicoli la sera quando torno dopo che l’ho lasciato, quelle sono la cosa più viva di questa vita mia che non capisco più, che mi è sfuggita. Ah, avessimo potuto! Forse saremmo andati a Madrid, come sognavamo all’inizio, da fidanzati. Oppure a Capo Verde, che José ama tanto senza esserci mai stato (ultimamente va sempre in un locale di capoverdiani, e l’altra sera mi ha costretta a raggiungerlo lì. E’ un mondo strano, struggente e appassionato, che non mi appartiene. C’era uno che cantava canzoni tristissime, e che chissà perché ci spiava da lontano).

Non so cosa succederà. Di separarci ne parliamo da tanto, ma non riusciamo a deciderci, non c’è dolore abbastanza, né gioia, tali da portarci a una scelta. A Julio gli occhi si fanno ogni giorno più tristi, e la maestra tempo fa mi ha convocato per parlarmi preoccupata. Io quasi non mangio più, lavoro più che posso pur di non pensare. José è come non ci fosse: anche lui, come faceva mio padre, quando è in casa dorme sempre o finge di dormire.

Eppure Rosita legge nelle mie carte un amore stupendo, una casa lussuosa, un secondo figlio (e femmina questa volta, grazie a dio). Io non so se crederle ancora, come ho fatto in questi anni per tenermi su; so solo che mi affanno, e le voci nei vicoli ormai sono grida, e il cuore tra le gambe  è gonfio di pianto e sta per scoppiare.

 

 

La caduta

0

di Walter Nardon

1.

E così arrivò anche la caduta. Del tutto inattesa, simile a una perdita d’attenzione che non si può recuperare e che poi, vista da vicino, si mostra spaventosa. Una messa in minoranza nel consiglio di amministrazione del Comitato Promotore di Sviluppo lo aveva indotto a presentare le dimissioni. Con sorpresa nessuno, neppure Sardelli o Innocenti gli avevano chiesto di ritornare sui suoi passi. Ora non poteva più tirarsi indietro. Mentre usciva a un quarto a mezzanotte da Palazzo Poli illuminato a festa, il suo intuito gli aveva rivelato la natura dell’errore: sorda e degradante. Di lì – lo sapeva – poteva infatti venire anche il resto, a partire dalla verifica in Consiglio quindici giorni più tardi. Si fermò a controllare l’orologio, poi prese via Matteotti. Alternative non ce n’erano, non di apprezzabili, almeno. Avrebbe potuto rimanere al suo posto cercando di assecondare i giovani – proporsi come mentore (ma lo avrebbero riconosciuto in quella veste?) – oppure poteva scegliersi un ruolo di oppositore dignitoso, un ruolo esemplare, per così dire, che aveva sempre trovato inutile, il più ambito dalla media borghesia cittadina che amava ostentare la probità rivelandosi in concreto pavida e inconcludente, in grado solo di costruirsi una carriera all’ombra della cattedra vescovile. Oppure poteva tacere, scomparire nel numero, dando a intendere di lavorare a una proposta più efficace. Ma se non poteva contare su un consenso allargato, quanto sarebbe potuto durare il bluff,  due mesi? E quando fosse venuto a galla che la sua proposta sarebbe stata praticamente irricevibile, che figura avrebbe fatto? No, le dimissioni erano più oneste; ma in questo ambito l’onestà è solo un’opzione e mai la migliore: è solo l’opzione di chi non ha forza. Doveva ammettere di essere un po’ a corto di soluzioni.

Si fermò a osservare la luce di una finta lanterna, che era rimasta accesa in mezzo al Portico dei Vetrai e illuminava l’edera sulle pareti. Neppure quella del “padre nobile” in qualche organismo pubblico era una strada percorribile. Per il padre nobile è necessario il consenso di buona parte del fronte politico e alcune cose gli erano d’ostacolo: l’espressione ruvida su cui si era costruito la sua reputazione e, quindi, alcuni eccessi che la pratica – in una supplenza impossibile delle sue lacune – non aveva saputo smussare e che erano rimasti in bella vista urtando a turno poco, ma un po’ tutti (questo costituiva senza dubbio l’ostacolo generale di maggior peso); doveva poi aggiungere l’acume con cui aveva costruito di volta in volta un metodo diverso per cogliere un diverso traguardo.

Insomma, per due decenni aveva sostenuto – era passato in proverbio – che a contare erano solo l’obiettivo e il risultato, che dovevano coincidere. Ma ora i risultati raggiunti potevano bastare a destare la giusta attenzione in un gruppo politico più giovane, quando non portavano il suo nome inciso a fuoco? D’altra parte, fra patrimonio e alleanze politiche non raggiungeva un capitale in grado di produrre una pressione incontrastabile. Anche sommandoci le influenze più futili delle amiche di sua moglie non sarebbe andato lontano. Un guaio, perché non era più tempo di maggioranze risicate: era montata – come accade di tanto in tanto – l’aria del rinnovamento, che per conquistare l’opinione pubblica impone di lasciare spazio ai giovani. Di norma dura una stagione, dopo di che, una volta cooptati, i due o tre giovani del caso cominciano a comportarsi in modo ragionevole. In genere in tre anni il prodotto scade, rientra tutto. Erano comunque tre anni e il problema rimaneva: togliendogli di mano un obiettivo, di quale metodo avrebbe potuto discutere?

E poi: dove interpretarlo, il ruolo di padre nobile? Sarebbe stato necessario costruire anche questo risultato come un traguardo, ma – e qui gli va senz’altro riconosciuto un merito – Carlo non era quel tipo di politico; non era quel tipo di uomo. Per chi recitarla quindi la parte? Per questi, che lo avevano estromesso? Per un pubblico ancora tutto da creare? Mah. Neanche l’ultima alternativa gli sembrava percorribile: l’aveva vista incarnata da Zafesta un modesto politico della generazione di suo padre e la considerava forse la peggiore, quella di usare ciò che gli restava, la sua insufficiente rete di fedelissimi (Rivolta, Tornabuoni, Donzetti), per costruire dall’esterno una lobby tale da condizionare le consulenze, i piccoli incarichi, perfino qualche appalto. Osservava la fontana in gesso con il putto che giocava col delfino. Agitarsi per l’applauso di questa comunità devota e già tenuta alla riverenza?

Forse l’unica cosa che avrebbe potuto fare era raccontare la sua vita, proporsi come modello: ma gli pesava. Non si sentiva ancora arrivato in fondo.

Controllò il suo orologio con quello del campanile. Aveva molti incarichi. Provò a concentrarsi sul lavoro, ma la crepa avanzava intaccando la sua sicurezza. «Sconfitto e solo», si disse «e invece devono far almeno un po’ di fatica per togliermi di torno». L’onore delle armi non conta niente. Conta solo la forza, la posizione in un rapporto di forza. Il resto è polvere. Perciò – ancora una volta – doveva farsi valere, minacciare qualche danno, far rotolare qualche testa, al punto da farsi pagare quanto serviva per recuperare la reputazione.

Poco più avanti c’era un cantiere della IMMERmobil. Si fermò a osservarne le insegne, le impalcature, le indicazioni del piano di sicurezza, ma erano dettagli. Voleva seguire lo stato d’avanzamento dei lavori, perciò mise la testa oltre le reti di protezione, nella luce di che arrivava forse solo due metri oltre. Procedevano spediti. Ecco, quando non si sa cosa fare, politicamente l’urbanistica paga sempre. Sembra ridicolo, ma funziona. Poteva attaccarli su questo piano. Non c’era anzi altro campo in cui si potesse mettere al sicuro un risultato in poche settimane. Rovinarli, no: sarebbe stato necessario troppo tempo e lui – bisognava essere realisti – non ne aveva.

Quando si verifica un cantiere, è sempre difficile trovarlo scrupolosamente in ordine.

Riprese la via. Nel Bar Panizza si sentiva vociare qualcuno. Tirò dritto.

Guardando questi giovani – ad esempio Verrazzano – la prima cosa che si notava è che venivano dagli studi; ignoravano cosa fosse il volontariato, cosa avesse rappresentato in quegli anni. Certo, anche loro nei primi anni Novanta avevano fatto parte di qualche associazione, ma progressivamente, procedendo negli esami, se ne erano staccati: ne avevano avvertito il limite, anche perché di fatto erano stati messi in un angolo dagli altri soci. Avendo preferito l’ambito civile a quello politico, avevano usato l’associazione per i loro timidi traguardi e per questo difficilmente sarebbero tornati a far parte di questi organismi. Raggiunta la laurea, sognavano di essere invitati a tenere una conferenza (che avrebbero vissuto stupidamente come una rivincita). Davvero non avevano nulla di imprevedibile. Se anche fossero rientrati, difficilmente avrebbero provato a convincere i soci della bontà delle loro idee; anzi, per essere chiari, con tutta probabilità avrebbero lasciato associazioni e soci a loro stessi e si sarebbero trasferiti in città, dove – ignoti a tutti – avrebbero finalmente potuto partecipare a eventi collettivi con i loro simili: andare alle presentazioni dei libri, perfino a cineforum perfettamente inutili. Più avanti avrebbero ricominciato a lamentarsi che lì non li conosceva nessuno, che nessuno li valorizzava per ciò che sapevano, avevano studiato, avrebbero voluto realizzare. E avrebbero continuato a lamentarsi in lunghe serate al bar (o nei pub, come usavano dire in modo ancor più idiota, cercando di copiare l’arredo inglese). In periferia, nelle valli, sarebbero rimasti soprattutto quelli che non avevano studiato, quelli considerati più stupidi, il che gli avrebbe semplificato il lavoro, perché con questi, certo, sarebbe stato più facile intendersi: non avevano esperienza e quindi speravano di acquisirla parlando con quelli come lui, ma soprattutto: avevano dei limiti. Se fossero stati più svegli, li avrebbero mandati a studiare e ora si sarebbero trovati come i loro compagni laureati. In sintesi, con la prudenza si poteva ancora andare lontano.

Guardò un cestino dei rifiuti vicino all’edicola, inusualmente pieno. Le nuove lotterie continuavano a illudere parecchie persone. Ci cadevano anche i più giovani. La serata era umida.

Intanto, per il consenso, un dato di fatto. Era difficile pensare che il volontariato, su quelle basi e con quei numeri, si sarebbe mantenuto senza grandi modifiche, ma bisognava continuare a farlo credere, fare in modo che i più partecipi si esponessero, che i giovani rimasti in periferia si inserissero e, si intende, gratificarli in proporzione, a patto che mostrassero un minimo di riconoscenza politica. E qui un altro problemino. Bisognava farsi pagare prima che il tema stagionale del rinnovamento influenzasse anche il volontariato: non era il caso di impensierirsi, era un ambito conservatore – o per meglio dire in mano a persone che volevano restare al proprio posto – ma era meglio pensarci, prepararsi.

Wilma era buona, ma glielo aveva ripetuto mille volte: non aveva idea delle complicazioni che le cariche comportavano. Non erano questioni sociali. Non si trattava del vestito da indossare, né delle poche parole da dire (ormai questi dettagli li risolveva senza nemmeno più pensarci). Il cuore del lavoro era altrove, la fatica dei calcoli, delle ipotesi, dei rischi da correre, le alleanze temporanee da stringere nelle geometrie più impensate: e, naturalmente, il tutto da impostare quasi per intero su valori presunti.  Ci voleva istinto. Lo sapeva, lo avevano già detto in tanti. Bisognava esserci portati. L’insicurezza è la divisa segreta di chiunque faccia questo mestiere: ciascuno sa che non è destinato a durare a lungo, per questo fa di tutto per durare. I più bravi se la cavavano: lui era in sella da quasi diciotto anni.

2.

«Che fai ancora in giro? Riunioni?»

«Riunioni, caro».

«Sempre in movimento».

«Ma a portata di mano. A Roma io ci vado poco».

«Intendevo, sempre da una riunione all’altra».

«D’altra parte funziona così. E in mezzo cerco anche di combinare qualcosa».

«Sì, lo so, scherzavo. Da dov’è che vieni?».

«Dal Comitato Promotore di Sviluppo. Mi sono un po’ stancato di cercare di farli ragionare, voglio metterli alla prova. Ora vedremo».

«Senti, scusa se te lo chiedo. Sai che un po’ mi interessa e un po’ sono tenuto a farlo: quella faccenda dell’azienda per il turismo – ne abbiamo già parlato – sarebbe ora di metterci mano, no? Io ho sentito tre o quattro colleghi albergatori, ma mi dicono che è tutto fermo, che non si muove niente».

«Eh, bisogna vincere qualche resistenza. Lo so che a te può sembrare strano, ma c’è molta gente che apprezza la gestione in corso: del resto, chi sta bene non ha bisogno di cambiare».

«Ah, non ne dubito. Ma bisogna poi capire se stanno bene davvero. Ce ne sono troppi che non hanno proprio capito che qualcosa è cambiato, che tutto sta andando pian piano verso il peggio. Dai un’occhiata agli indici, alle presenze. Bisognerebbe fare qualcosa, almeno quel tanto da dimostrare che questo organismo ha ancora senso, non credi?»

«Sì, ma la maggior parte dei tuoi colleghi è contenta. Cosa vuoi, che vada a dire che bisogna cambiare tutto, se sono lì proprio per dire che non dobbiamo toccare niente? Credi che qualcuno voterebbe una proposta del genere?».

«No, ma è assurdo. Sai già tutto ciò che serve sapere. Hai visto cosa stanno facendo negli ambiti vicini al nostro? Hai visto Fenoglio? Un vagone di iniziative. Se non ci diamo una mossa, cazzo, restiamo indietro di cinque anni, te lo dico io».

«La questione è tutta qui: chi ci vota? Gli organismi pubblici funzionano in questo modo».

«Non è possibile che nessuno si accorga che se non ci muoviamo restiamo tagliati fuori».

«Prova a convincere i tuoi».

«Sì, siamo a posto».

«Che vuoi che ti dica? L’alternativa è fare a meno del pubblico. Non dovrebbe essere difficile».

«Sì, e i soldi ce li dovrei mettere io? Cioè, dovrei continuare a pagare la quota annuale della società e poi, per poter vedere qualcosa di buono, dovrei tirar fuori i soldi di tasca mia e crearmi un’altra realtà operativa? La tua soluzione sarebbe questa?»

«Convinci i tuoi colleghi».

«Va bene, metti pure che io ci provi, a convincere gli albergatori: nel consiglio di amministrazione ci sono anche due rappresentanti delle associazioni e cinque interlocutori pubblici, quattro, te escluso. Credi che questi ci seguirebbero?»

«Secondo me il problema sono gli albergatori. Se questi sono d’accordo, perché i referenti pubblici dovrebbero mai mettersi di traverso, visto che in teoria sono lì per far contento il settore?»

«Perché? Per affari loro, casini politici fra di loro».

«Non è detto che debbano risolverli proprio lì. Sono sempre le stesse facce e in questo periodo un buon risultato potrebbe fare comodo. Ma bisogna avere pazienza. Potresti dire che tutto resterà uguale, tranne che per un piccolo progetto, una proposta, un tentativo tanto per fare qualcosa, qualcosa che costerà poco, sia chiaro. Non una stagione intera. Non devono preoccuparsi».

«Tu sei d’accordo, no?».

«Naturalmente, ma non spendere il mio nome, altrimenti sembra che voglia fare bella figura io. Fai in modo che sembri roba vostra».

«Devo convincerli tutti?»

«No, bastano meno della metà, al resto ci pensiamo in consiglio».

«Non posso assicurarti niente».

«Non è a me che lo assicuri, ma a te, a voi. Io sono lì solo per favorire il processo».

«Beh, ora vediamo. Ma senti, ti fermi al Bar Panizza?»

«No, è già tardi».

«Va bene».

«Tienimi informato, eh. Lo sai che mi interessa. Ci vediamo».

«Sì, sì, mi faccio sentire».

3.

Girò la testa a terra sul selciato. Non riusciva a mettere a fuoco. Poca luce. Una sensazione di torpore freddo, il senso di un taglio sulla guancia. Un’attrice. Uma Thurman? Era caduto. Era caduto e pur avendo messo una mano avanti aveva sbattuto la testa. Forse cadendo si era girato. Fatto sta che era ancora steso. Probabilmente per qualche secondo aveva perso i sensi. Non aveva ancora chiaro cosa fosse successo. Quel film sulle autostoppiste. Guardava in alto, fra le case, la striscia di cielo stellato. Cercava di recuperare il momento decisivo. Era inciampato. In quel tratto di strada, subito dopo la curva la luce era debole. Le pietre sconnesse da sistemare. Colpa dei lavori. Sì quella autostoppista col pollice lungo. Non riusciva a recuperare l’istante in cui aveva perso il controllo. Era inciampato. Era anche un po’ che non andava al cinema. Ci voleva anche questa, non bastava il ridicolo di quella sera. Pensò che sarebbe potuto rimanere a terra ancora un po’: il pavimento non era così scomodo. Era sfinito. La strada, chiusa al traffico. Quel film su un nuovo sesso. Sentì dietro di sé le voci lontane di due o tre persone che uscivano dal bar. Sì, fermarsi ancora un po’. Riposare. Cercò lentamente di girarsi e a metà rimase steso sul ventre per un momento. Riposare. Sembrava tutto a posto. Che ridicolo. Gus van Sant. Si mise sulle ginocchia. Rialzarsi in modo corretto, come gli aveva insegnato il fisioterapista. Lentamente. Decisivo per chi ha problemi di schiena. Le voci si allontanavano dall’altra parte, per fortuna. Cowboy? No, Cowgirl. Ecco, Cowgirl. In tv qualche sera prima, a tarda ora. Era in ginocchio. Poteva fingere di pregare. Ma era ora di ripartire.

Si rialzò barcollando, ma restò in piedi. Tutto a posto. Cowgirl, che razza di film. Il ginocchio sinistro dolorante. I pantaloni rovinati. E il gomito, un po’ tutto il braccio destro. Ma niente di grave. Si toccò la guancia sinistra, anche qui doveva essere poca cosa. Qualche piccola goccia di sangue. Doveva trovare una vetrina in cui specchiarsi, cercare un po’ di luce. Un politico di secondo piano praticamente distrutto. Perfetto.

Mise a posto i pantaloni e fece un paio di passi. Sì, tutto bene. Non era lontano da casa. La cassetta delle lettere verde cupo sul muro arancione di una casa: «Famiglia Marghetti» con la tromba postale in rilievo. «E se fosse così che comincia?». Perché un conto era sapere di dover porre mano alla battaglia, altro invece dire: «Comincia adesso». Un orrore esclusivo, innominabile. Ebbe un brivido di esitazione, poi scostò faticosamente il pensiero con una mano. Si sentiva male, ma non tanto da trasformare ciò che gli restava da vivere in una lunga meditazione sulla fine. Non ancora, almeno; forse mai. Tutto ciò che aveva disposto era rivolto al fare, a partire da Wilma e dalle ragazze, per poi passare alla famiglia, al paese. Bisognava dare il buon esempio. Non c’era ragione di cambiare orientamento solo perché ora sentiva di avere meno tempo. Quanto meno, poi? Avrebbe continuato a rivolgere ogni sua attenzione nello stesso verso, anzi, con maggior coscienza e senso di responsabilità. Avrebbe continuato ad agire. Per sé e per gli altri. Del resto, perché assolutizzare un episodio che sarebbe potuto capitare a chiunque? Camminava un po’ meglio, portando il passo fino in fondo, usando tutto il piede, come gli aveva raccomandato il fisioterapista. Sentì cadere una lamiera, forse per un colpo di vento. Non era niente di che. Provò ad accelerare: tutto bene. Pensava alla chiesa parrocchiale di San Giuseppe, poco frequentata e bisognosa di restauro. Don Giulio gli aveva mostrato la perizia. Bisognava mediare, sentire la Sovrintendenza, Chioccioli, le Belle Arti. Wilma, le ragazze. Sta di fatto che era toccato a lui.

4.

Sabato 15 marzo alle dieci e trenta, al termine dei lavori, era prevista l’inaugurazione del rinnovato Parco giochi Ferraris. Carlo si era vestito impeccabilmente. Completo grigio scuro, cravatta testa di moro, un’eleganza inconsueta (da qualche mese non lasciava più nulla al caso: Fiorella, la commessa che lo serviva – se con lui non c’era Wilma – sapeva il fatto suo). Sindaco, autorità provinciali. Gli era toccato un posto d’onore.

Aveva quasi concluso, fra applausi tutto sommato più calorosi della media. Settanta presenti. Del resto, si trattava di una risistemazione del parco: avevano cambiato le panchine, il castello per i bambini. Due nuovi alberi, il fondo rimesso a nuovo sotto il castello. Non era il caso di farla lunga. Era stata un’idea sua, però, e aveva voluto ribadirlo:

«Questa volta dalle intenzioni al risultato finale ci è voluto meno del previsto. Non ci volevo credere, ma è andata bene».

Qualche insidia era rientrata.

In Consiglio, si era fatto assegnare il coordinamento di una commissione per lo sviluppo del territorio (in questa, con maggior dinamismo e su una superficie meno estesa, faceva quel che il Comitato da cui si era dimesso – dimissioni non accettate, situazione in stallo – non riusciva a realizzare sull’intero ambito di riferimento: l’idea era appunto di formare un modello in piccolo e poi di prendersi tutto). La stanchezza alla schiena e alle ginocchia era bilanciata da una soddisfazione che dopo sei mesi di rincorsa poteva dirsi ritrovata.

Vedi, aveva detto a Wilma, ciò che conta non è la nostra reazione emotiva, ma la costanza silenziosa del lavoro.

Lei gli aveva sorriso, come gli sorrideva adesso, in un angolo lontano dal palco, sotto un ippocastano. Lo vedeva meglio: forse gli anni incominciavano a pesare, ma si difendeva “con grinta”. Si diceva così una volta, perché ora non lo diceva più nessuno? Alla festa di compleanno, Clara gli aveva annodato una cravatta di seta blu trapuntata di rosso, elegantissima. Si era quasi riconciliata con suo padre, vai a capirla. Non che tutto fosse rientrato, le divergenze rimanevano: ma sì, ora avevano ripreso a parlarsi. Soprattutto, lei aveva ripreso a dare qualche esame. Di quel passo, esclusi nuovi colpi di testa, in un paio d’anni si sarebbe laureata.

«E insomma, per una volta lasciatemelo dire. Sono contento. Siamo stati fortunati a prendere al volo un finanziamento: è stato un po’ come quando si entra in un negozio mentre il titolare sta abbassando la serranda. Ci siamo riusciti per un pelo. Sono entrato e ho detto subito che non me ne sarei andato finché non avessimo portato a casa quello che ci serviva e – direi – quello che ci spettava. Era così poco – e le misure di finanziamento erano ancora aperte – che non riuscivo a capire questa esitazione: oggi i funzionari ti mettono sempre davanti una difficoltà, quando non un rifiuto. Ma dico, per così poco? Eppure è sempre così: tanto o poco per loro non conta. Come se li si dovesse convincere con una persuasione che di per sé dovrebbe sembrare superflua. Ad ogni modo, questo è quanto. Siamo contenti, e i nostri bambini (e le mamme che li sorvegliano) lo saranno anche di più».

Fra ripetuti cenni di consenso, cercò di guadagnare la sedia sul fondo del palco. Voltandosi, si sentì barcollare: come gli era già capitato, sentiva di camminare sul ponte di un traghetto, ma ce la fece. Forse non se ne era accorto nessuno. I dolori cervicali si erano fatti insostenibili; del resto, il dottor Fernandi glielo aveva detto. Qualche passeggiata senza fretta, non «farsi divorare l’ultima parte della vita dalla paura di non arrivare in tempo». Sintesi lodevole. Lorenza, Presidente della Scuola Materna, gli sorrise amabilmente. Non capiva, non aveva mai capito. Forse non capiva niente. Cercò con lo sguardo Wilma e la trovò, infine, più o meno dove si metteva sempre. Gli fece un segnale di approvazione con un pollice alzato.

Ora osservava il salice sulla sinistra, in fondo alla piazza. Dava sul cancello verde dell’orto della parrocchia, un cancello di recupero, troppo alto da terra, con gli elementi verticali in ferro saldati distanti l’uno dall’altro. Non elegante, ma faceva il suo. Ecco, una cosa così.

Anna Maria

0

di Lorenzo Marchese

Anche se è venuta a stare da me pochi giorni dopo il nostro primo incontro, in completo abbandono, ha esitato parecchio a dirmi il suo nome. All’inizio non mi importava: la casa, svuotata di soprammobili e vestiti di mia moglie, aveva ancora meno senso di prima e non riuscivo a smettere di chiedermi perché sentissi la mancanza di qualcosa che negli ultimi anni mi aveva dato per lo più fastidio. Lei invece, insediandosi, non si portava quasi nulla dietro, e confesso che mi è piaciuta solo in un secondo momento per il suo corpo sottile, da ballerina, il volto isoscele e perfetto, la bocca intelligente che captava, prima di me, ogni vibrazione dell’aria. Il primo motore è stata quella totale dipendenza espressa in ogni sua parola, nei gesti, tanto più elementari e meccanici. È stato lì che le ho detto che l’avrei chiamata Anna Maria. In onore della grande scrittrice che è stata la Ortese, certo, e per una certa grazia sguarnita, estinta, che presumevo di ritrovare negli sguardi e nelle parole di entrambe. Anna Maria ha accettato la mia scelta sorridendo, la luce negli occhi verdi-gialli gettava scintille e li faceva sbiancare controluce. Da allora abbiamo imparato a riconoscerci con questo nome, chiamando da un angolo all’altro della casa. Nei momenti migliori, mi trova senza parlare. So sempre dov’è, e per lei è reciproco, pasto e cacciatore, un’intesa chimica che mi ero ridotto solo a teorizzare da lontano, ritrovata parlandoci nel contatto.

Un po’ tardi ma ci sono riuscito a capire che le parole, soprattutto se sono tante, e ponderate, servono solo alla dissimulazione di qualcosa che non puoi spostare. Fuori di casa, in questo periodo, mi dicono che ho l’aria felice e però sono più silenzioso, una somma che non torna. Sorrido, so io perché. Per lo stesso motivo, la lista dei contatti bloccati fra parenti e amici aumenta di settimana in settimana, e ne sto guadagnando, contro ogni previsione psicologica, un sereno insperato e netto. In fin dei conti sono stato fortunato a trovare un’altra presenza giusta, dopo così poco tempo dalla separazione. Solo da poco, non sapere più in che città abita mia moglie ha assunto la sfumatura consolante di un vero e proprio lutto: avendo accettato che dalla morte (anche quella metaforica) non si torna, per strano che sia dirselo (ma Anna Maria concorda con me), sto quaggiù con molta più buona volontà di prima.

C’era come un collante a tenere le sequenze della giornata nella mia vita di prima, i piccoli gesti che dovevo fare insieme per evitare il male: predisporre la moka da quattro per quando mia moglie si sarebbe svegliata, tirare fino alla base del collo la zip delle sue camicette per l’ufficio, davanti allo specchio del bagno darle un ultimo colpo di pettine per allineare il mio gusto e il suo volere in un riflesso, preparare la cena in base al giorno della dieta, aprire la porta con un saluto fatto in una lingua tutta nostra. Anna Maria ci ha messo poco a sintonizzarsi sui miei ricordi, forse mi si leggono in faccia molto meglio di quando provo a farne storie per gli estranei. Non ha chiesto il senso di quelle espressioni che avevo inventato per un’altra, dopo neanche una settimana è entrata nel nostro gioco segreto come fosse una seconda pelle. Anzi, mi sembra diventata più puntuale ed esigente di me nello scambiarsele. È stato facile per lei. In fondo non si portava nessun carico dal passato, la sua famiglia era smembrata da parecchio, padre mai esistito, i fratelli forse morti, la madre buttata a servire in un’altra casa, e comunque non voleva nemmeno avere idea di dove fossero finiti. Abituarla a tutto quello che volevo mi assomigliasse ha cementato la nostra coppia.

Questa adesso è la routine che posso chiamare anche pubblicamente “vita” senza ridere né piangere. Quando torno da lavoro, per le sette al massimo, con una pietà non fraintendibile negli occhi viene verso di me a passi piccoli, mi saluta, meravigliosamente uguale come sarebbe, su un prato lunghissimo, cogliere ogni giorno per un decennio un filo d’erba diverso. Cinque minuti stiamo a parlare sulla porta, prima di spostarci sul divano della sala affioranti l’uno sopra l’altro, senza peso per un’ora scarsa, annegati nel bisogno reciproco scrutando lo stesso vuoto. Per me potremmo passarci la serata, ma lei ha degli orari scanditi. È esigente sulle cose fondamentali. Perciò tocca al cibo, apriamo le nostre scatole monodose di carne verdura gamberi pasta frutta secca e disidratata, ci buttiamo a mangiare tutto mischiato, a tavola, ovvio, ma ammetto che a volte per entusiasmo si fa direttamente da seduti a terra, se non dà fastidio a lei dopotutto che mi importa. Un film davanti al computer, si legge a letto sopra le coperte in modo da non dover rifare mai il letto, e si sta a occhi chiusi fino alla mattina dopo.

I passaggi migliori della convivenza sono quelli in cui mi perdo a osservare di nascosto le reazioni di Anna Maria alla nostra routine: fissa, ininterrottamente, punti sparpagliati, oscillando fra l’indipendenza e il bisogno assoluto di me, e ripesco ogni punto dove lei si sofferma, ogni tanto mormora una o due parole oscure al mio indirizzo, mi sfiora il volto con il suo, rigirandosi tocca le mie mani. Io non faccio alcun gesto di replica se non osservare le sue. L’anno scorso, quando mi spremevo il cervello per convincere mia moglie a non preparare le carte per il giudice, ho riflettuto su tante definizioni possibili di “amore”. Solo adesso, fuori tempo massimo, ne ho trovata una basilare: quando ti stupisci ritrovando la mano dell’altro, e ti perdi a guardarla come se arrivasse da un altro regno, una zona fuori dal presente a cui tu non appartieni. È quello che (presumo) si prova quando si vedono le mani di tuo figlio nella culla appena montata, quello che (ognuno lo sa) si sente stringendo la mano a una persona vecchia in un letto con le sbarre.

Ogni tanto, quando non spazzolo Anna Maria (ne cava un piacere fisico), mi piace guardarla mentre gira per casa, seminuda, con la sua pelle bianca e sfumante sottolineata nei punti dove si protendono i suoi fianchi magri. Mi piace immaginarla innocente, anche se so che non lo è. La cucitura che le dipinge il ventre per lungo parla da sola, e mi lancia anche qualche rassicurazione del tutto fuori posto (io non volevo figli, mia moglie sì). Ma mi impongo di non chiederle nulla. Con gli occhi mi dice che sapere troppo è sbagliato e le sta bene ritrovarci assieme nel letto di quando in quando, sintonizzata soltanto sulle mie esigenze. Il sesso è una delle tante lacune obbligate di questo racconto.

Prima che io la scegliessi di getto come la mia nuova compagna, Anna Maria doveva restare per pochi giorni. Non sapevo dove farla stare. Ho deciso mio malgrado, contro voglia. Mia moglie mi aveva chiesto di uscire assieme, cena, cinema, passeggiata lunga, tuttora mi ribadisco che c’erano dei margini oggettivi per crederci. Ma non sapevo che la separazione l’avrebbe chiesta dopo l’ordinazione degli antipasti, per l’ansia di chiudere il futuro, girarmi le spalle e andare avanti, non ero pronto, neanche a scappare, se pure è già successo da un pezzo e se non devo aspettarmi più nulla io da qualche parte lassù non sono ancora pronto, perciò è proprio quello l’unico gesto che ho fatto, mi sono alzato dal tavolo e sono corso via, ho cominciato una lunga, lentissima fuga fino a casa, in ritardo, perché gli autobus non passano mai in questa città del cazzo, fuori tempo mi sono ricacciato in bocca tutte quelle cose come denti ingoiati durante una rissa, porta di casa sbattuta dentro di me. Sono stato attento a non tradirmi con mia moglie, e la scelta ha pagato. Ora non temo più che Anna Maria mi venga portata via assieme alla casa, l’auto, i soldi di un mantenimento.

Da quella cena, a caldo, mi è rimasto un solo pensiero sensato, la chance di vincere in quella situazione stava nel giocare d’anticipo, andare per primo. Lanciarmi col paracadute è stato uno dei primi studi, tutti pensavano a una crisi dei trent’anni risolta prendendosela bene. Invece volevo prendere le misure, programmare come farlo, lo spazio infinitesimale della caduta, piuttosto lunga dal mio settimo piano, era da studiare. Compostamente, in quei giorni ho iniziato ad accumulare scatole di sonniferi nel cassetto alto in cucina. Non temo la morte, ma esito a servirmi del suo passaggio.

In quel periodo orrendo di pianificazione Anna Maria mi osservava ininterrottamente. All’inizio, confesso che ho provato a nascondere tutto, a difenderla come avrei potuto fare con ogni altra persona amata che ho tagliato fuori. Alla fine, col tempo, ho lasciato perdere i miei pensieri di calamità. Sebbene abbia smesso di parlare, e di uscire se non per il lavoro, non mi perdo più a cercarmi dentro appigli per buttarmi. Se scrivo queste righe, in fondo, non è per descrivere ciò che mi lega ad Anna Maria, e che non ha bisogno di essere spiegato. Lo faccio invece per provare a capire davvero il perché della mia sopravvivenza, dietro le banderuole opposte della paura del nulla e della speranza che tutto quanto si aggiusti, cerco la verità come inseguirei un punto alla fine di una frase raggomitolata che non sto riuscendo a chiudere, ecco: nei tanti momenti ancora bui della giornata, mi blocco e mi immagino dondolare arrestato in piedi sopra il mio divano, e nella fantasia vedo, come l’avessi davanti ora, Anna Maria che, dopo alcune ore spese a chiamarmi con un verso invariabile, mi interroga coi suoi occhi più dorati che mai, mi sale sopra per prendere tempo, ma non piange, non se ne fa una ragione come tutti gli altri, non escludo che dopo avermi perlustrato proverà a divorarmi, ne è capace, per tenermi dentro e trasformarmi in un balzo di energia, ma poi continuerà a girare per l’appartamento a oltranza, non chiamerebbe aiuto, non cercherebbe di farsi aprire, preda indifesa della cognizione di cosa vuol dire non essere mai più esistiti, ecco la biforcazione che mi costringe a restare qui a difenderla – ho paura che lei possa non sopravvivere al contagio del mio terrore, non vado via perché ho paura del suo sguardo, che non somiglia a niente che conosco, sul mio corpo

Immagine di Oberholster Venita da Pixabay

La follia dei numeri #3, però . . .

0

di Antonio Sparzani

“L’italiani sono di simulato sospiro”, dice il Gadda nelle sue fantasmagoriche Favole e aggiunge “L’italiani sono dimolto presti a grattar l’amàndola: e d’interminato leuto”. Bene, l’italiani matematici non son da meno: i nomi di Gerolamo Cardano (pavese, 1501-1576) e di Rafael Bombelli (bolognese, 1526-1572) sono tra quelli più implicati nella ulteriore follia che esaminiamo adesso.
Qual è il problema ? Il problema è che i matematici si rifiutano di ammettere problemi senza soluzione. Adesso che qualsiasi numero, anche con una sfilza di infinite cifre qualsiasi dopo la virgola, è stato fatto esistere, portando all’esistenza così le radici quadrate, cubiche, n-esime di qualsiasi numero, cos’altro si vuole? Si vuole che queste ultime parole “qualsiasi numero” abbiano senso; infatti avrei dovuto scrivere “qualsiasi numero positivo”. La radice quadrata di 1 è 1, e anche –1 , cioè ci sono due radici quadrate di 1, poco male, abbondanza di soluzioni. Ma –1 ce l’ha una radice quadrata? Abbiamo nei nostri scaffali, così accuratamente costruiti (e che contengono quelli che abbiamo chiamato “numeri reali”) uno, o più numeri che abbiano come quadrato –1? Certo che no, perché ognuno dei numeri che finora abbiamo creato, moltiplicato per stesso fornisce un numero positivo, dato che sappiamo che più per più fa più e che meno per meno fa più. Orrore e raccapriccio! Come è mai possibile? Se lasciamo le cose così ci saranno equazioni anche molto semplici senza soluzione, a cominciare da x² + 1 = 0, che diventa x² = –1, dunque irrisolvibile. Ecco dunque l’intollerabile aporia: ci sono equazioni algebriche che non hanno soluzioni.
Qual è il rimedio più semplice a questa “intollerabile aporia”? Semplice: grattiamo, come suggerisce il Gadda, l’amàndola, che metterà in moto la nostra illimitata fantasia matematica, ovvero immaginiamoci un numero il cui quadrato fornisca esattamente –1, per sua definizione! La cosa più importante, per farlo esistere, è dargli un nome: dato che è un numero immaginario lo chiameremo “i”, definito dalla proprietà i² = –1. Dopodiché lo si vuole “mettere assieme” ai numeri reali già noti e si forma così un camppo (parola non casuale in matematica, ma sulla quale qui non insisto) nel quale, se a è un numero reale, ha senso definire sia il prodotto ia che la somma a + ib , con b ancora reale – e tutti i “numeri” di questo tipo, forniti di una parte reale, a, e di una parte immaginaria, quella che “moltiplica” la i, qui indicata con b, vengono detti numeri complessi. Tra essi è “naturalmente” definita una somma:
(a + ib)+(c+id)= (a + c ) + i (b + d)
e un prodotto
(a + ib) (c+id)= ac – bd + i (ad + bc ),
nella quale si è appunto tenuto conto che i² = – 1. Pronto fatto! In questo così allargato insieme numerico, detto campo dei numeri complessi, l’equazione mostrata sopra che non aveva soluzioni nel campo reale, ha due soluzioni: i e –i e ogni equazione di grado n ha esattamente n soluzioni, reali o complesse che siano. Visto che colpo di mano?
Sì, voi direte, va bene, ma lasciamo i matematici farsi le proprie elucubrazioni mentali, per quanto bizzarre siano e stiamo attaccati alla realtà che di immaginario non ha nulla. Eh già, sarebbe bello se ce la si cavasse così, ma c’è un inaspettato ma.
Come raccontavo qui, nel giugno del 1925 (l’anno venturo festeggiamo il centenario) Werner Heisenberg, causa febbre da fieno contratta a Göttingen, andò a Helgoland, isoletta nel Mare del Nord e lì inventò, o intuì, i primi barlumi di quella che poi venne definitivamente chiamata meccanica quantistica e che ancor oggi, con tutti gli opportuni sviluppi e miglioramenti avvenuti in un secolo, è la migliore teoria che possediamo della struttura atomica e delle interazioni tra quei pezzettini di materia piccoli piccoli.
E questa teoria, ormai assai collaudata e potente, necessita assolutamente, per la sua corretta formulazione matematica, del campo dei numeri complessi. Erwin Schrödinger l’anno seguente formulò una versione detta “ondulatoria” della stessa teoria e nell’equazione che la esprime, ormai universalmente nota come “equazione di Schrödinger” compare inevitabilmente la famosa i .Non si può formularla usando soltanto i numeri reali. Non c’è naturalmente alcuna spiegazione “intuitiva” o “comprensibile” di ciò.
È un fatto matematico. È un fatto matematico?
La matematica l’abbiamo creata e costruita noi sapiens, e qui naturalmente si potrebbero porre diverse questioni, di quelle di respiro enorme, tipo: questo strano fatto (insieme con tutti gli altri “strani” fatti delle teorie scientifiche che abbiamo) è insito nella natura delle cose o dipende da come è configurato il cervello dei sapiens? E via così, naturalmente io qui non comincio neanche a parlarne.
Così finisce la serie delle follie, non perché non ce ne siano altre, ma perché richiederebbero conoscenze poco adatte alla divulgazione.

Sulla cultura pop

1

di Enrico Minardi

Quella che segue è la parte iniziale dell’introduzione del libro di Enrico Minardi “L’esperienza del rock, Vasco Rossi”, pubblicato (nel 2023) nella collana digitale ebook di Doppiozero (NdR)

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo libro è il risultato del mio ventennale soggiorno negli Stati Uniti, e della trasformazione mentale (fra altre, di diverso carattere) che mi ha obbligato a compiere. Essa riguarda in sostanza il valore da assegnare alla cultura, e se una gerarchia possa applicarsi fra le varie tipologie culturali esistenti. In altre parole, se un giudizio di valore debba essere espresso in base alla velocità della loro rispettiva fruizione.
In questo paese, rispetto a quello da cui provengo e a quello in cui ho a lungo dimorato e fatto mio, ciò che ancora continua a stupirmi, è la rarefazione dell’offerta culturale, concentrata essenzialmente nella categoria del popular, del pop. Che si tratti di film, libri, programmi televisivi, temi discussi sui media locali e nazionali, così come su podcast e social media, i soggetti principali ruotano costantemente attorno alla cultura popular e alle sue varie espressioni. Nel mondo in cui io sono cresciuto, al contrario, l’idea di una separazione della cultura in almeno due sfere (alta/highbrow vs bassa/lowbrow), dotate di una diversa autorevolezza, così come, in fondo, di una diversa natura, veniva instillata e corroborata a piè sospinto, in tutte le possibili occasioni e salse (dalla scuola ai media, dalla religione finanche alla politica). Quella bassa non poteva, a dire il vero, neppure essere considerata cultura, tanto obbediva ad una forma di usufrutto inconcepibile nell’ambito dell’altra, alla stregua di una mera merce (di cui, infatti, sotto un certo punto di vista, si tratta). Com’è possibile immaginare che una commedia del Goldoni, o un ritratto di Pisanello o una pastorale di Lully, si possano consumare? Queste opere, al contrario, consentono di elevarci, ci fanno attingere ad una forma di serendipità che garantisce l’accesso ad un universo etereo e sublime, denso di significati reconditi che ci lasciano basiti a fronte della manifestazione di tanta bellezza, anzi della Bellezza. Appunto, la bellezza: di cosa si può dire lo che sia, e di cosa invece non lo si possa. La mole di interpretazioni che queste opere hanno generato e continuano a originare, oltre al fatto che esistano istituzioni preposte al loro studio e conservazione, ci fa francamente fremere. Essa ci impone il rispetto per quelle che, pur non avendone la forma, sono in realtà veri e propri monumenti all’ingegno umano, tout court, a cui dobbiamo dunque guardare dal basso verso l’alto, con deferenza. Poco importa se parecchie di queste opere fossero in realtà, nelle epoche che le videro nascere, molto popolari, ed anzi se i loro autori, nel momento di concepirle, avessero proprio mirato al successo, oltre che all’approvazione del mecenate o del signore che ne aveva sostenuto finanziariamente la realizzazione. Il difficile, la cui chiave di accesso è posseduta solo da una cerchia di iniziati, fare parte della quale richiede continui sacrifici e rinunce, è il necessario sigillo che certifica dell’appartenenza alla cultura alta. Il facile, che circola velocemente, e non ha bisogno del previo apprendimento di un codice speciale per accedervi, è invece sinonimo di caduco ed effimero, cioè di qualcosa che si consuma, la cultura bassa.
Arrivare allora in questo mondo ha rappresentato uno shock per qualcuno come me: la presenza di una forma di cultura che io credevo, fino ad allora, la sola legittima, era rapsodica. Vi erano sale cinematografiche ove non facessero che proiettare blockbuster hollywoodiani? Eppure, la città dove mi ero venuto a trovare faceva parte di un enorme agglomerato urbano, in cui mi sembrava naturale che un pubblico più esigente dovesse non solo esistere, ma anche farsi sentire, Per di più, persone che stimavo educate, non si peritavano a esternare il loro interesse e apprezzamento per opere che io, al contrario, giudicavo non poter essere degne di alcuna attenzione (se non periferica). Dovevo giocoforza constatare che perfino nella città di provincia da cui provenivo, l’offerta culturale era, in proporzione (se la consideriamo cioè in base alla popolazione) superiore rispetto a quella dove mi ero venuto a trovare. Insomma, tutto ciò che fino ad allora aveva costituito la mia normalità, veniva a frantumarsi contro un insormontabile muro.
Come fare per orientarsi in questo inedito scenario, che non potevo certo cancellare con un click del mio mouse? Come evitare di rifiutarlo in blocco, ricusando, nella mia condanna, tutta quella gente che, in tutta innocenza, invece, ne godeva, e di cui assistevo all’andirivieni sconclusionato e divertito, per i vialetti e i corridoi dei vari mall, questi non-luoghi dove anch’io, volente o nolente, ero costretto di tanto in tanto a recarmi? Tacciarli tutti di ignoranza e grossolanità, di un’endemica incapacità nell’assegnare il giusto valore ai prodotti culturali? E adottare, dunque, quella medesima attitudine sprezzante e snob di chi consciamente intende far valere il privilegio di cui sa di godere? Era proprio essa di cui avevano reso testimonianza tanti adulti nella mia provincia (che si trattasse di scuola, uffici, sport, chiesa etc.), e di cui avevo avuto un rigetto istintivo e quasi immediato. L’aurorale consapevolezza che un orizzonte altro potesse, da qualche parte, esistere.
È stato infatti una sorta di ritegno etico a prevenire che abbracciassi un tale abietto punto di vista, di cui non saprei esprimere con esattezza né il perché né l’origine. Mi sono probabilmente sempre sentito più simile agli altri che dissimile, malgrado tutto. In ogni caso, a partire da un certo momento, la mia percezione è dovuta cambiare, non potevo più consentire a rimanere in una situazione in tutto simile ad un double bind. Per non rinunciare alla cultura, ero costretto a rinunciare alla gente, e ritirarmi in una dimensione dove l’ossigeno si dirada, e l’aria si fa di un’irrespirabile purezza. Per non rinunciare alla gente, mi dicevo che mi sarei invece dovuto abbassare al livello della folla, fare mie le sue vacue cure, e respirarne l’aria densa di umori, appagandomi così di semplificazioni odiose, di stupidi appiattimenti.
In realtà, la chiave per uscirne si trovava altrove, nell’inderogabile necessità di prendere sul serio la cultura popular, e cessare di denigrarla. Per riuscire a realizzare questa vera e propria inversione di rotta, risiedere negli Stati Uniti è stato essenziale, non ce l’avrei probabilmente mai fatta se fossi rimasto nel mio Paese (o avessi continuato a vivere nell’altro). Non solo, fin da quando ho iniziato a masticarne con una certa fluidità la lingua (che previamente al mio primo trasferimento, appena farfugliavo), mi sono sentito autorizzato a cercare, nelle eccezionali biblioteche di cui avevo la fortuna di poter usufruire, testi a cui, raramente, prima di allora, avevo potuto avere accesso. Dell’esistenza dei quali, a dire il vero, non ero neppure conscio, tanto la loro circolazione era come interdetta, o avveniva in maniera quasi clandestina, destinata a chioschi di giornali o sezioni minoritarie nelle librerie che frequentavo (per non parlare delle biblioteche, pubbliche, dove non se ne trovava alcuna traccia). Poco alla volta, spinto da queste scoperte, ecco aprirsi di fronte a me un vasto orizzonte di ulteriori, ed insospettate, letture, e disegnarsi, nella mia coscienza, la consapevolezza di trovarmi di fronte ad un vero e proprio campo di ricerca. A un tipo di materiale, insomma, non mero oggetto di svago, quanto, al contrario, possibile soggetto di una rigorosa disamina secondo metodologie assodate, come ne testimoniavano i numerosi libri e saggi che, poco alla volta, venivo accumulando sulla mia scrivania. E come anche allora il documento che sembrava meno significativo, potesse invece essere messo a frutto all’interno di quel circolo virtuoso di scholarship, sul quale mi affacciavo.
A partire da questo momento, vera e propria illuminazione, non ho smesso di ragionare sulla cultura popular e di interessarmene in maniera attiva. Sono così, fra l’altro, divenuto più sensibile a temi che vi sono spesso incorporati, benché in maniera non sempre esplicita, come gli studi di genere, o quelli sulle minoranze, o ancora di sociologia della cultura e psicologia sociale. Se correttamente considerata la cultura popular conduce verso direzioni imprevedute, e questo dinamismo intrinseco ne riscatta lo statuto gnoseologico, così come permette di gettare una diversa luce sull’atto della sua fruizione, e dunque su coloro che ne fruiscono.

Negli anni successivi, ho così iniziato a dedicarmici in modo più serio, e prendendo spunto dalla mia annosa passione per il genere giallo, ho per esempio iniziato a lavorare sul femminismo, curando, in inglese, una raccolta di saggi su una eccezionale scrittrice di Chicago come Sara Paretsky. Nel contesto della mia carriera professionale, ho poi avuto l’opportunità di creare un corso vertente su “French & Italian Popular Culture”, che, con un certo successo presso gli studenti, insegno ormai da anni. Infine, con Paolo Desogus, ho approntato un’altra curatela, sempre in inglese, sulla cultura popular italiana post-anni ’70. Se potesse annunciare quello a venire, poco prima di tutto questo avevo ultimato una tesi di dottorato sulla cultura popolare nel Medioevo, di cui portano testimonianza la predicazione dominicana ed alcuni canti centrali del Purgatorio dantesco.

La figura di VR è emersa quasi immediatamente nella prima fase di questa nuova mia ricerca. Ho infatti realizzato molto presto la necessità di dover consacrare un’analisi approfondita ed esclusiva a questo personaggio, la cui importanza per me, negli anni cruciali della prima giovinezza, era stata innegabile, così come continua ad esserlo per la canzone italiana. Mi accinsi dunque a scrivere un testo in inglese, doveva essere attorno al 2016, che, tuttavia, dopo un primo tentativo e la stesura di un’ottantina di pagine, decisi di cestinare, intuendone l’incongruità intrinseca. Essa risiedeva nella mia indecisione quanto al punto di vista da adottare: ricostruzione storica degli eventi (già fatta e rifatta, e dunque da trascrivere, nella nuova lingua, come mera copia)? Valutazione critica della produzione musicale, pur non avendo io alcuna nozione di musicologia (la lettura, in quel torno di tempo, di un eccellente libro sui Led Zeppelin, ricco di analisi di questo tipo, mi mise rapidamente di fronte alla insipienza)? Ricorrere a un approccio mutuato dalla sociologia della cultura, e basato di conseguenza su sondaggi condotti presso fan e forum di discussione (di cui tuttavia non conoscevo nessun esempio a cui ispirarmi, così come non avevo nessuna relazione all’interno di questi gruppi)? Dovevo trovare una strada mia, dopo aver interrotto quella intrapresa. Prima di tutto, avevo bisogno di una più seria attrezzatura di carattere teorico e metodologico sugli studi di cultura popular, e di quelli sulla musica in particolare. E tuttavia, questa semplice constatazione non era sufficiente a spiegare il mio scacco, persisteva un problema più spinoso, strutturale, che mi impediva di avanzare. Me ne si è chiarita la natura solo dopo molto tempo.
Il soggetto osservatore coincideva con l’oggetto osservato, e viceversa. Nell’esaminare la figura di VR, non potevo, in altre parole, fare astrazione da me stesso, io che l’avevo tanto amato, e che ancora amavo. Il legame sentimentale che mi univa a lui, da così tanto tempo, era troppo forte, non c’era niente da fare, mi era impossibile considerarlo come un puro oggetto di analisi, prescindendo da questa profonda implicazione. Affrontarlo significava, allora, mettermi a guardare me stesso, nella speranza che, da questo doppio sguardo, sarebbe risultata la verità che cercavo, la mia interpretazione di lui. Questa era la strada che dovevo percorrere se intendevo interessarmi a VR, un cammino che passava attraverso di me, per poi tornare a lui.
Giungere a questa conclusione non è stato comunque agevole. Dovevo in primis giustificare a me stesso la rilevanza conoscitiva della cultura popular, capire il suo possibile impatto sociale e piscologico, indagandola dal punto filosofico della produzione di virtualità. In sostanza, le domande che incominciavo a pormi riguardavano la possibilità, per la cultura popular, di essere un vero strumento di liberazione e incremento di coscienza critica, e non tanto di mera evasione, secondo un’immagine che non cessava di perdurare e circolare.

L

1

di Francesca Del Moro

È di altri la vita che ci resta.
È per proteggerli.
Lieve cura dire noi.

Noi superstiti.

 

 

Camminando
come con la febbre alta
ogni parola
mi spacca le labbra.

Penso come
la sua vita
si è versata.

Come mi è caduta
la sua vita
fra le mani.

 

 

Non rientro più in casa
ripetevo, mentre prendevano
il polso a mia madre.
Accanto a me, pallidissimo
le labbra dischiuse
era seduto mio padre.
La sua storia felice
la sua vita normale
gli erano scivolate
via dal viso
come il sangue.

 

 

Il suo sparire.

Dallo stato di famiglia
le detrazioni in busta paga
la dichiarazione dei redditi
il conto in banca
il sito dell’università
la rubrica del telefono.

Io che ratifico
firmo, confermo.

Il suo sparire.

 

 

Se davvero fossimo tutti
pensieri che qualcuno pensa
sogni che qualcuno sogna
come scrive il poeta
dell’inquietudine
allora lui vivrebbe ancora
sognato da me ogni notte
amato dell’amore più forte
pensato in ogni mio pensiero.

 

 

Mi riconosce, la commessa della Pam
mi dice non ti vedo da un pezzo
ribatto no son venuta spesso
lei insiste io svicolo e mi affretto.
“Hai figli?” mi chiede. “Prego?”
non capisco. Lo ha chiesto davvero?
“Hai figli?” ripete. “Non più.”
“Come?” è sorpresa. “Non più.”
Ha negli occhi lo spavento.
“Mi dispiace” balbetta.
“Mi dispiace, non sapevo.”
Le ho passato un po’
del mio terrore, lo faccio
sempre volentieri, ne passo
un pochino a tutti, giusto
un pezzetto, che nessuno
se lo merita intero.

 

 

Fosse fatta con le dita
l’arma che si è puntato contro.

L’avessi presa al volo
voltata verso l’alto.

 

 

Non compro più le candeline
nessuna torta dal disegno buffo
gli porto un mazzo di margherite.

Gli anni passano ma lui
ne ha ancora ventuno.

 

 

Mi pungono gli occhi
i loro cinque visi
anche loro conoscono
la lingua dell’indicibile.
C’è chi ci crede forti
chi ci tiene a distanza
chi ci chiede di far finta
che vada tutto bene.
Siamo esseri spezzati
– non abbiamo più l’anima
come qualcuno dice –
tenuti insieme alla meglio
da rimedi chimici.

 

 

Vorrei vederti
gli occhi da vicino
mi ha detto.
Gli occhi
sono lo specchio
dell’anima, si sa.
E lei vuole vedere
se l’anima l’ho ancora.

 

 

Mi piaci
dice lei generosa
sei più dolce, il dolore
ti ha forse cresciuta.
Io so di avere
gli occhi calmi di chi
ha deposto le armi
e non teme più nulla
si rincuora al sapere
che la guerra è finita
anche se l’ha persa.

 

 

Lui mi parla
con una tenerezza
che non gli conoscevo.
Forse la voglia
di un lieto fine dopo
la tragedia, forse i segni
di un amore postumo.
La morte a volte
cambia una vita intera
a qualcuno inventa
dei ricordi buoni
a qualcun altro
glieli toglie tutti.

 

 

Tra tutti noi ha fatto
il percorso più lungo.
Non piange, ha una luce
leggera nel viso
lo sguardo perso
verso l’infinito
sorride quando
parla di suo figlio
dice di aspettare
dalla morte la pace.

 

 

Quando è diventato
un angelo tuo figlio?
Mi chiede, straziante
tenerezza condivisa.
È già passato
un po’ di tempo
ma la parola precisa
insieme al loro nome
fa ancora spavento.

 

 

La signora
che qui fa le pulizie
mi guarda
in cima alla scala
e mi sorride.
Non so perché
ma oggi mi commuovo.
Ricordo
quando sono tornata in ufficio
con lo spavento
di essere ancora al mondo
nessuno al piano di sotto
mi è venuto vicino
a parte un uomo buono
che come me
aveva perso un figlio
e lei.

 

 

Il gruppo è vita.
Due volte al mese
sbendiamo la ferita.
La facciamo respirare
la guardiamo
mentre duole e sanguina
e impercettibilmente
si rimargina.

___________

I testi sono tratti da L di Francesca Del Moro (Gattomerlino, Roma, 2024)

La mantide

0

di Francesca Ranza

Quell’estate una mantide decapitata cadde giù dal cielo. Eravamo in piscina e parlavamo della coscienza, perché parlare della coscienza andava molto di moda. Non eravamo andati da nessuna parte in vacanza. Lui diceva che Milano in agosto era bellissima e io, anche se a Milano in agosto non ci ero mai stata prima, gli avevo creduto. In quel periodo credevo a tutto quello che mi diceva, perché quasi tutto quello che mi diceva era vero. Riuscivamo a uscire di casa solo a pomeriggio inoltrato. Cercavamo un posto nuovo dove andare, per non ritrovarci sempre nel suo letto a scopare o a leggere poesie di Whitman. Non che non ci piacesse, ma a volte avevamo come l’impressione di non essere altro che un cliché ambulante. Così facevamo l’esercizio di pensare dove, se davvero fossimo stati quel cliché e basta, non saremmo mai andati neanche per sbaglio, neanche morti. E poi ci andavamo. Eravamo già stati: al centro commerciale, in due diversi cinema multisala (di cui uno con sala giochi), a mangiare alette di pollo in un fast food a tema western sulla strada statale undici e a Mirabilandia. Tutti questi posti all’inizio sembravano una buona idea ma, una volta arrivati, ci accorgevamo che tanto il cliché ci aveva seguiti anche lì. Allora mollavamo il colpo e parlavamo della coscienza.

Lui diceva che alcuni suoi amici scienziati pensavano ancora di poterla trovare dentro al cervello, scavando e scomponendo in minuscole parti, neuroni, circuiti e chissà cos’altro.

Ma così è impossibile,” diceva.

E perché?” chiedevo io, che non capivo un’acca né di cervello né di coscienza, ma sugli uomini questo mi era stato insegnato: che bisogna compiacerli.

È come dire che se prendi un aeroplano, lo apri in due, stacchi tutte le componenti una per una – bulloni, fili elettrici e tutto – le cataloghi e le impari a memoria, poi sai come funziona un aeroplano. Ma in realtà sai solo cos’è un aeroplano. Neanche, forse. Capito?”

Bisognerebbe farlo volare.”

Cosa?” Si era girato di scatto e un po’ d’acqua di piscina gli era schizzata via dai capelli. Li aveva biondo scuro e un po’ lunghi sulla fronte e le orecchie.

Dico, per capire come funziona, un aeroplano deve volare.”

Esatto! Esatto, deve volare.” Mi guardava misto compiaciuto, intenerito, sorpreso; ma io mica sono scema.

E non si può fare?”

Cosa?”

Farlo volare.”

Un aeroplano?” Lui aveva paura di volare, e anche io avevo paura di volare, ma avevo il sospetto di averne decisamente meno di lui, ma facevo finta di averne molta di più. Così se mai avessimo preso un aereo insieme – non successe – lui avrebbe potuto stringermi un braccio attorno alle spalle, accarezzarmi i capelli, sussurrami all’orecchio “va tutto bene” o “gli aerei sono il mezzo di trasporto più sicuro al mondo”.

No, un cervello.”

Questo. Questo è il problema. Mettiamo che volare sia per l’aeroplano la condizione necessaria per capire come funziona. Qual è la condizione necessaria per capire come funziona la coscienza nel cervello? Potrebbe essere diversa per ogni cervello. E come fai a ricrearla in un laboratorio? Bisognerebbe costruire ogni volta un intero universo. Anzi, proprio l’universo-universo.” Stavo per dire che mi ero persa qualcosa per strada, quando la mantide cadde sui gradoni di cemento rovente a neanche mezzo metro da noi. C’erano dei gradoni di cemento perché avevamo scelto una brutta piscina comunale in periferia, di quelle che in inverno sono coperte da un pallone di plastica tutto sporco di nero e di smog, che da dentro rimbombano di grida di bambini e fischietti di istruttori di nuoto e rumore di ciabatte che si incollano e si scollano dalle piastrelle. Se pagavi il biglietto normale potevi stare solo nell’area attorno alla vasca, che è di cemento. Altrimenti, con un piccolo supplemento, si poteva accedere a un pratino rinsecchito con pochi lettini e ombrelloni altrettanto rinsecchiti. Noi il supplemento non l’avevamo voluto pagare. Solo gli stronzi pagano il supplemento.

All’inizio pensavamo che la mantide fosse una foglia. Ma nessuna foglia si muove così tanto e per giunta quel giorno non tirava neanche una bava di vento. Invece, siccome tutti e due da bambini avevamo amato La mia famiglia e altri animali (poteva benissimo essere uno dei motivi per cui scopavamo così bene) non la scambiammo neanche per un secondo per una cavalletta o per un altro insetto.

È una mantide,” dissi io.

Sì, è una mantide,” disse lui.

Come ragni o rospi ci avvicinammo senza alzarci in piedi, scorrendo col sedere sui gradoni ruvidi. Fu immediatamente chiaro che c’era qualcosa che non andava, e cioè che la mantide non aveva più la testa. E, anche se essere senza testa è meno ‘qualcosa che non va’ per una mantide che per un altro animale o per un essere umano (sarebbe stato ben diverso se a dimenarsi decapitata su quei gradoni ci fosse stata una zebra o una professoressa di filosofia), la scena era lo stesso raccapricciante. Provammo a cercare la testa, guardando più da vicino e da diverse angolazioni, chiedendoci se forse non si trattava di una specie speciale di mantide, una con la testa davvero molto piccola o retrattile o invisibile. Ma la testa non c’era più. Eppure – a questo punto erano già passati almeno due o tre minuti – quell’affare continuava a muoversi. Si muoveva in tondo, spostando le zampe tutte nello stesso verso e nello stesso momento. Ogni tanto, siccome naturalmente non aveva idea di dove diavolo si trovasse o di dove stesse provando ad andare, le zampe si accavallavano una sull’altra e quella inciampava e cadeva da un lato o all’indietro e diventava solo un groviglio verde, brillante. Lui provò a rimetterla in piedi usando una stanghetta dei suoi occhiali da sole. Sapevo che erano vintage perché glielo avevo chiesto. Li aveva trovati sgomberando la vecchia casa in centro dei suoi genitori, dopo che erano morti. Mi aveva raccontato tutte le storie tristi della sua famiglia – ne aveva a bizzeffe – io avevo pianto e gli avevo detto “scusa sono una stupida, non dovrei essere io a piangere”. La mantide si aggrappò alla stanghetta con tutte le sue forze e rimase così, appesa a testa in giù (beh) come un bradipo per qualche secondo. All’improvviso mollò la presa e cadde a peso morto, e infatti pensavamo fosse morta. Invece appena toccato terra, in men che non si dica riprese a girare come una strega.

Come diavolo fa a muoversi ancora?” sussurrai.

Lui rispose che non lo sapeva. Poi disse: “Se non ha la testa è chiaro che è un maschio. Sai no? Che le femmine staccano la testa ai maschi durante l’accoppiamento.” Questa è un’informazione talmente basilare che mi sembrava di saperla dalla terza elementare, forse da prima, da quando ero nata o da prima di nascere. “Cerchiamo su internet?” suggerii. Lui annuì e mi fissò per qualche secondo che voleva dire “cerca tu su internet”. Trovai il telefono nella borsa e digitai su Google: mantide – decapitata – si – muove – ancora. C’era un post sul forum degli Entomologi Italiani che recitava così:

Ciao a tutti,

dieci giorni fa nel giardino di casa mia, camminando tra l’erba tagliata, ho visto il corpo di una povera mantide senza testa. L’ho raccolta credendola morta invece muoveva ancora l’addome e le zampe. L’ho lasciata in un posto riparato. Ieri mattina ho controllato per curiosità e, dopo dieciiii giorniiii, la mantide era ancora lì che muoveva! Ma com’è possibile? Qualcuno sa qualcosa del sistema nervoso delle mantidi? Allego una foto.

La sua mantide era identica alla nostra mantide. Scorrendo in giù trovai la risposta di un moderatore:

Ciao FormicaCuriosona79,

le mantidi non presentano un unico centro di controllo, come lo è il nostro cervello, ma ne hanno uno per ogni segmento del corpo. Questo vuol dire che il controllo dei muscoli presenti, ad esempio, a livello dell’addome avverrà a carico di un gruppo di neuroni (scientificamente denominato ganglio) che si trova in quel determinato segmento corporeo. Ogni ganglio è responsabile della contrazione muscolare del segmento di cui fa parte. La rimozione della testa da parte della femmina stimola nel maschio una serie di movimenti, normalmente inibiti dal cervello, che favoriscono l’atto riproduttivo. Possiamo quindi affermare che in questa specie il maschio è disposto a sacrificare la sua vita pur di tramandare i suoi geni. Spero di esserti stato utile.

Lessi domanda e risposta con tono solenne e professionale. Quando finii, lui si alzò in piedi; aveva gambe lunghissime, rosa chiaro, piene di lentiggini. “Lo immaginavo,” disse guardando in terra. Avrei voluto dirgli che non era vero, che non se lo immaginava per niente e che l’unica cosa che sapeva sulle mantidi era quello che sapevano tutti gli esseri umani del mondo, giovani e vecchi, stupidi e no. Risposi con una vocina piccina picciò: “Ah sì? Io proprio non ne avevo idea.”

Beh sì, tutti gli insetti coordinano i loro movimenti attraverso i gangli. Sono come dei mini-cervelli che dirigono le attività.” Mi voltò le spalle e fece per dirigersi verso il suo telo di cotone indiano. Era stato in India dopo la laurea. Era stato in un sacco di posti. Mi aveva raccontato che una volta in Nicaragua aveva rischiato di morire facendo trekking su non so che vulcano. Avevo sgranato gli occhi e mi ero messa una mano sopra la bocca e avevo detto “ma tu sei pazzo” e poi gli avevo chiesto come ci si sente quando si pensa di stare per morire. Non ricordo la risposta, ricordo i suoi occhi mentre parlava: di pirata, di capo indiano. Ancora accucciata a terra – non riuscivo a smettere di guardare quel balletto scombinato e tragico, chiesi: “E adesso cosa facciamo?”

Come cosa facciamo?”

Non possiamo mica lasciarla qui!”

Lasciarlo. È un maschio.” Chiusi gli occhi, respirai a fondo dal naso cercando di non emettere alcun suono. “Ah, già, ah! Non possiamo lasciarlo qui. Hai sentito cosa dicono su quel forum, potrebbe stare qui a dimenarsi per giorni.”

E cosa vorresti fare?”

Non lo so. Forse dovremmo ucciderla.”

Ucciderlo.” Si era steso sul telo e stuzzicava con il pollice l’angolo della copertina del suo libro. “Ucciderlo. Sì, ucciderlo.” Mi guardò come se fossi una bestia anche io. Ma non una schifosa, non un insetto: una bestia tenera, coperta da morbido pelo di cucciolo.

Tanto non sente niente.”

Come sai che non sente niente?”

Non ha più il cervello.”

Ma ne ha altri.”

Con gli altri non sente niente.”

Sì ma come lo sai!?” Senza guardarmi, allungò un braccio verso di me e mi sfiorò un ginocchio. “Ho un dottorato in neurofisiologia.” Non lo disse in tono cattivo, lo disse perché era vero. Restai in silenzio. Guardai la mantide che continuava a girare in tondo. Ero mai stata così triste prima?

Dai vieni qui, lascialo stare. Ha appena finito di scopare, sarà felice.” Sorrise beato.

Se non sente niente come fa a essere felice?” Sperai di aver parlato molto piano, invece aveva sentito. “Non fare sofismi adesso. Comunque, fai quello che ti pare. Ti dico che non cambia niente.” Sapevo cosa avrei dovuto fare. Sarei dovuta tornare sul telo affianco a lui, dire “ma certo, ma certo, hai ragione”, passargli una mano sulla nuca tra i capelli bagnati, chiedergli a che punto era arrivato del libro VII del Seminario di Lacan, ascoltare, annuire. Così lo feci.

Il giorno dopo gli dissi che volevo andare ai Giardini Pubblici. Comprai dieci gettoni per la giostra coi cavalli. Ne scelsi uno lilla, lucido, con la sella tutta decorata a specchietti e ghirigori argentati. Lui mi guardò girare per tutto il pomeriggio.

Centomila tulipani di Elisabetta Giromini

1

Daria è una giovane universitaria incerta sul suo futuro e in perenne conflitto con la madre, anche a causa dell’abbandono del padre quando era solo una bambina. L’archeologia le cambia la vita. Parte per una missione archeologi-ca a Persepoli e lì incontra Payam, con cui il rapporto è da subito intenso. Gli scontri in vista delle elezioni in Iran si inaspriscono e Daria è costretta a tornare in Italia, perdendo ogni traccia di lui. Il rientro è traumatico, Daria non riesce a trovare un equilibrio. Il tempo scorre lento tra relazioni fugaci. Le uniche costanti sono lo smarrimento esistenziale e il vuoto incolmabile dell’assenza di Payam. Quando dopo sei anni Daria torna in Iran lui è lì che la aspetta. Tranquillo, come se niente fosse cambiato. Ma tutto è cambiato. Non c’è più idillio, solo conflitti e divergenze.

È possibile dimenticare il passato? Possono due culture così diverse fondersi in un’unione profonda? Centomila tulipani è un romanzo delicato e violento. La voce di Daria esprime l’atavicità e l’universalità della sofferenza umana. Ma affrontare e superare questo dolore è forse possibile. Ognuno è artefice del proprio destino.

Il grand tour militante di Ferdinando Tricarico

2

di Daniele Ventre

Usi ordinari di un linguaggio straordinario: il Grand Tour  militante di Ferdinando Tricarico

Nel quinquennio culmine delle neo-destre globali, delle sinistre “destreggianti” e delle ritornate pesti-guerre-carestie, in tempi di neo-strapaese, strapaesologie, consolazioni, orientamenti, orientazioni, consolamenti, di lockdown e di poeti e poetiche mobile-friendly, la  poesia militante di Ferdinando Tricarico è stata uno dei pochi autentici compagni di viaggio, una delle poche forme espressive del panorama nazionale in cui il lettore di versi meno hypocrite abbia potuto ascoltare un richiamo davvero fraterno, e godere di una vera e propria boccata d’aria fresca, nel quadro generale di malmostosa stagnazione, incastellato infeudamento e irrigidimento para-dogmatico delle troppe cittadelle sub-micenee in cui si parcellizzano le provincie critico-letterarie nostrane.

In uno dei frutti più vivaci della poetica di Tricarico, nella raccolta Grand Tour, uscita per i tipi di Zona, nel 2019, con postfazione di Guido Caserza, l’evoluzione di un poeta militante che di fatto si configura come un vero e proprio caposcuola, per l’ambito non solo campano, ha segnato un momento cruciale. A ormai cinque anni di distanza dalla nascita di questo sorprendente libretto, la cui lettura abbiamo dovuto metabolizzare nel tempo, l’idea di tappa e di viaggio, con tanto di esergo necessario tratto dalle calviniane Città invisibili, la cui aura narrativa si mescola con la tradizione del grand tour italiano di goethiana e sterniana memoria, assume oggi un sapore ambivalente e straniante, se consideriamo che è bastato all’epoca forse meno di un anno perché la civiltà globale dei viaggiatori interconnessi, dell’etica del viandante fraintesa e violata, dell’informazione e della disinformazione, delle città aperte per alcuni pochi e per troppi altri chiuse, si trasformasse nel mondo distopico della quarantena pandemica, fatta di silenzi, di serrate, di serrande, di occhi chiusi sui centri urbani muti, di occhi aperti su panorami cittadini la cui vita è divenuta latente, clandestina, sgusciante, contaminata dalla viralità infestante delle fake news e da un’infezione virale, big one biologico annunciato, con cui l’umanità è rientata in un’epoca di riemerse e frustranti precarietà sanitarie, un triste risveglio a cui è seguito quello ancor più amaro della Broad War centrata sulla guerra russo-ucraina, con le sue minacce incombenti di escalation globale.

Anima Grand Tour soprattutto la contemplazione, sul bordo dell’apocalisse, dello spappolamento dello spazio politico (nel senso originario di “cittadino”). Le parole dell’esergo calviniano illuminano la dimensione più intima di questo Einblick, che inquadra storicamente la realtà urbana come centrale della civiltà (per ovvia ragione etimologica, ma non solo), ma al tempo stesso la rappresenta, sul piano della forma poetica come entità discontinua al suo interno e disseminata nello spazio e nel tempo. Di qui la ripresa della tecnica dell’altergiunzione, combinata con uno stile cumulativo polimorfo e ircocervico, che ricorda in parte la forma della Passeggiata del Palazzeschi in odore di futurismo. Nell’andamento ondulatorio e sussultorio della descrittione del gran Paese, che viene così dipanandosi, ogni città è evocata a partire dai nomi della sua periferia in degrado o del suo centro nevralgico o di entrambi. Ma si tratta di una struttura esteriore, in cui si viene progressivamente definendo una sorta di mappatura-referto dei frammenti disseminati di polis che le diverse città italiote compongono, senza vera e sostanziale unificazione pur nel rispetto della bio-diversità antropologica e storica. Non è un caso che le diverse lasse urbane di quello che va considerato a tutti gli effetti un unico poema, siano spesso incentrate sulla giustapposizione caotica dei non-luoghi (intesi alla Marc Augé) di cui le città contemporanee sono crivellate, per quanto antica possa esserne la data di fondazione: non-luoghi, a-topie, in cui si è nei decenni celebrata e sanrtificata la morte, per non salvifica crocefissione, delle utopie e delle idee, bandite dal civile divorzio come capri espiatori del fallimento del concreto.

A costellare le città invivibili di Tricarico non sono pertanto solo i non-luoghi architettonicamente e fisicamente identificabili come tali, ma soprattutto i non-luoghi del linguaggio che si dissemina nello spazio urbano, sui muri calcinati, in una sorta di inopinato e volgare erlebte Rede, o si realizza in una parodia del vivere associato che si trasforma in gesto di follia stereotipica auto-parodiante. Così per esempio Napoli, la città d’origine dell’autore, città-universo disgregata che si inizia con la frattura di un atomo primordiale: “Spaccanapoli”. Segue, come da big bang di cosmicomica, l’eruzione esistenziale dei Realien malamente agglomerati dalla caoslandia urbana e sapidamente caratterizzati dalle risorse inesauste di un plurilinguismo funambolico, in cui si intersecano registro ordinario, aulico, plebeo, tecnico, dialetto, italiano regionale creolizzato dal basso, anglismi da scemenzaio tecnologico per selvaggi con al collo le sveglie non regolate dell’èra della dis-informazione. In mezzo a questo caos emergono, come pointes di coralità degradata, scritte che si possono immaginare depositate sui muri (“Genny ti amo”, “Lota!” “Davide vive”) o su insegne (“pizzeria tal dei tali, unica sede”), citazioni dalla cultura e dal cinema pop (“Maradona e San Gennaro squagliano il sangue nelle vene”), o dalla saggistica riecheggiata per assonanza (“Piedigrotta casatiello e sorca” il cui ipogramma, suggerito per rima e parisosi, è ovviamente “festa farina e forca”), o dal gergo para-politichese dell’associazionismo ritualizzato al calor vuoto (“assemblea sulla sanità… assemblea sull’arte… assemble di assemblee”). Così Roma, l’inesorabile capitale “scolorita”, si popola di bandiere logorate dall’abuso ideologico, marcisce nel verminaio di aggregazioni e consorterie di ogni tipo (“Opere congregazioni ordini deputazioni benemerite istituti case di cura…” “un’associazione culturale per ogni abitante ignorante”), con i loro fascismi allusi e annidati ma mai troppo scoperti, benché non meno inesorabili e inevitabili (“la dolce vita in bianco e nero ha una macchia di pomodoro sul dolcevita nero”), si voltola in un quotidiano asfittico tormentato da prezzi fuori mercato per beni di prima necessità che al mercato non dovrebbero consegnarsi (l’acqua: “animali antropomorfi sputano acqua marmorea, puttini la pisciano santa, fedeli la intingono sulla fronte calda, chioschi la vendono a prezzi di deserto”), con il fantasma di Trilussa che affiora a retro del palcoscenico urbano largamente post-imperiale (“Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri Poeta …”), con i rigurgiti inconsulti di un nazionalismo spiccio in salsa di nullismo mediatico (“Liberiamo i nostri marò è il massimo dell’italianità”), strenua inerzia e incomunicabilità-omertà (il tombale explicit, fra Luciano e Orazio: “tra una scena e l’altra ci si affanna di lentezza/ nel frastuono del magna magna tutto il resto è silenzio!). Così la Milano tossica da non bere, e da tenere rigorosamente lontana dalla portata degli esseri ancora umani, la capitale amorale, si presenta a sua volta come struttura proliferativa di corruzione ammantata di iper-normatività, fatta di indicazioni sovrabbondanti, pleonastiche, chiassose, creatrici di disorientamento, in una cumulazione di cartelli a metà fra le villule gaddiane e l’antifrasi dei monti “sorgenti dall’acque ed elevati al cielo” (Frecce freccette semafori strisce cartelli info/ segnali stradali verticali orizzontali obliqui propinqui lontani/ proni a pecorina carponi/ lei sopra lui sotto/ spiaccicati al suolo/ e ad un certo punto c’è sempre un point/ la pelle meneghina è un pannello disciplinativo). L’inganno finale del miracolo new-economico milanese superato da mille catastrofi, fra 2009 e 2024, è simboleggiato dalla descrizione ilaro-triste (e tristica) del “quartiere rosso dove non si scopa”; è una città di normative barriere, di cui la cifra identitaria è l’estraneo (“il milanese milanese è pugliese”): la Milano che ne emerge è una città che non può fare a meno dell’altro ma ne nega l’esistenza e i diritti in nome di una presunta precedenza da accordare agli autoctoni nazionali, in specie di stirpe lombarda (“almeno i taxi regolari sono bianchi/prima gli itagliani cazzo!”); sullo sfondo un pianeta para-umano di relazioni posticce, mercato truffato e taroccato, pseudo-sesso da commedia pecoreccia all’italiana anni ’70-’80, pseudo-cultura degradata a commercio (“la cultura milanese è una multinazionale travestita da Mecenate”). Così i versi di Palermo evocano immagini candite in una sorta di lentezza meridiana, in cui le componenti eterogenee della storia siciliana convivono in modo paradossale (di questa molteplice stratigrafia è emblema la natura stessa del palermitano palermitano: “una sbriciolata di stili/ porti e regni sono contro le nazioni e i campanili”) in una vertigine del sensorio che invade ciascuno dei momenti percettivi stordendo l’intelletto (“gli occhi naufragano nelle volte celestiali, le orecchie nella musica sacra la bocca nei paradismi naturali…”).

Appare evidente, da questi pochi esempi tratti dalle prime lasse dell’opera, fino a che segno questa poesia si faccia portavoce della condition postmoderne intesa iuxta propria principia, vale a dire secondo i principi di denuncia del degrado che erano propri dell’ottica, tutta marxiana, del suo primo indagatore, Lyotard. Questo connotato è a nostro avviso il primum movens di una poetica “forte” (nel senso filosofico del termine), che si distingue in modo peculiare nel panorama delle poetiche “liquide”, in cui il processo dissipativo e disgregativo del tardo-moderno, visto come radice storica di pensiero (e poetare) “debole”, che si presumerebbe liberatorio, è invece a vario titolo, in modo più o meno consapevole, benedetto. Ed è questa in definitiva la linea di demarcazione fra il nucleo della poetica di Tricarico e una vasta area delle linee di tendenza attuali che con la condizione postmoderna (come che la si intenda) convivono, ma senza davvero comprenderla.

Dei troppi germi di crisi sotterranea, che il nuovo scenario pandemico e pre-bellico ha esacerbato, trasformandoli talvolta in pantomima, talvolta in dramma, talvolta in piccola epopea quotidiana di eroismi stereotipi rivitalizzati, il libro di Tricarico costituisce, sin dal primo momento del suo nascere, una scanzonata e corrosiva diagnosi. Strumento di tale diagnosi è anzitutto il linguaggio ironizzante a cui il poeta ha da lunga stagione resi avvezzi i suoi ascoltatori; tale articolata persona loquens ha senz’altro dietro di sé una tradizione composita, radicata nel Novecento profondo, dalla passeggiata palazzeschiana di cui si è già detto, alle neoavanguardie, e in particolare a un Balestrini, alle poetiche del non-sense, alle invenzioni ircocerviche di un Villa, al gruppo ’93. La trama di tali referenti, e del fil rouge che li connette, è di assoluta trasparenza, né mette conto di farne menzione se non per atto dovuto di completezza informativa. Dietro questo linguaggio della performance estrema, in tempo di contenzioso ozioso e para-logico fra momenti installativi e performativi dell’ars verbalis, Tricarico ripropone con virulenza al suo interlocutore un’antropologia estrema della dimensione poetica come strategia di espressione-ascolto: il lettore-ascoltatore-spettatore della performance non può essere freddo recettore di messaggi, ma è chiamato a essere co-autore dell’opera, mimo compartecipe di ogni tic esistenziale che l’inventio perlocutoria (e persecutoria) di Ferdinando Tricarico evoca, in base a un’onnipervasiva magheía e goezia dei fantasmi quotidiani. Così le definizioni identitarie, che abbiamo in precedenza richiamate, si trasformano in apodissi frammentarie del paradosso geografico o sociale; il Volkgeist si degrada a espressione emotiva murale da maceria del post-cataclisma anticipato (per quanto ovviamente il poeta non ne divini l’occasione storica evenemenziale, ma solo il processo latente); l’intero tessuto urbano si trasforma in idolum theatri del modo di produzione, come percezione esoetnica ed endoetnica; il naufragio dell’ente locale si manifesta in gliommeri neo-gaddiani di slogan, insegne, descrizioni e discorsi rivissuti, foreste di simboli delle città mercato, visibilità dell’indifferente differenza.

In questo work in regress del reale, dove a regredire è non il work inteso come operare poetico in quanto tale, quanto piuttosto il reale stesso, in senso di slittamento di prospettive come in senso storico-sociale, la trama ontologica dilaccata ed esplosa si ricondensa in catene cumulative abnormi e grumose. La cumulazione si squaderna in Tricarico senza latenti gerarchie fra gli enti intramondani che si presentano alla passionale neutralità di visione della voce poetante, tesa fra la liturgia della parola laica e la poesia catalogica arcaica. Ogni singolo oggetto depositato dalla fluviale deriva delle cose porta con sé un’infrastoria debordante, atteggiata secondo due tipici snodi stilistici: anzitutto la gemmazione lessicale di paronomasie, assonanze, allitterazioni, rime, paretimologie, figurae etymologicae, (“saponi e saponari”, in Napoli; “Cicche salsicce e grattachecche” in Roma; “guglie e capitelli/capezzoli e cappelle” in Milano –con gioco sotteso di allusione fra capitello e capezzolo, espressione di un sostrato dialettale partenopeo fuori sede); in secondo luogo l’antitesi, l’ossimoro, la strutturale contradictio in adiecto, per cui ogni frantume di realtà catalogato e archiviato, tolto e conservato, diventa modus tollens di sé stesso nel momento in cui se ne afferma la presenza (ancora in Milano: “Si va piano di fretta/ tutto fila tutto fibra/ … semafori volubili/ automobili implacabili/ pedoni centometristi o inabili”). Dietro l’esplosione verbale palese dei giochi linguistici e degli idioms destrutturati si cela il tesoro aberrante dei sovrasensi, delle connotazioni, delle accezioni, in un rimpallo di richiami fra il gingle pubblicitario d’antan e gli usi straordinari del linguaggio ordinario (et vice versa): così in Milano “fila e fibra” evoca il “tutto fila liscio” e il “filano e fondono” del discorso di consumo dei consumi alimentari e comunicativi; in Palermo l’intreccio di sublime e degrado, piano regolatore e sregolatezza, si traduce in una contorsione evocativa viaria, sociale e monumentale (“l’isola pedonale è il check point/ per l’ascensore sociale che al Monte Pellegrino sale/ tra palazzine liberty perinde ac cadaver”). La trama dell’alter-giunzione travolge cose persone memorie scrittori glorie cittadine dimensione culturale incultura insegne scritte di tifosi rutti eruzioni vulcaniche e cutanee e rumori di tubi di scarico in un gorgo di crescendo e minuendo, climax e anticlimax in cui progressivamente la voce dell’autore si materializza nella sostanza grafica delle parole, fra gli spazi bianchi, e fora il silenzio assordante della corolla di tenebre in cui ora la mediocrazia dilagante, ora la pandemia dilagata, ora il frastuono della grancassa militare, ora le incerte linee di confinamento e controllo, hanno ormai gettato l’uomo non immune del gregge postmoderno senza comunità.

Nella liquida fuga dei tempi di dizione, nell’arte della fuga delle cumulazioni, le cose parlate e le parole cose (le scritte le insegne le pubblicità i  destini manifesti le derive destinali le manifestazioni dell’essere alla deriva i tic verbali gli stereotipi motorii immobilizzati nello snapshot) sfuggono e afferrano istanti di attenzione catturati per un attimo e l’attimo dopo perduti. In tale processo affabulativo, la poesia militante di Ferdinando Tricarico restituisce la presenza-assenza, lutto rielaborato, delle cose e delle persone svanenti, agli abitatori forzati della distanza in cui ci siamo da tempo trasformati, anche se a metterci davanti alla rivelazione-apokálypsis di questo stato di perdita permanente è dovuto intervenire, a suo tempo, uno stato di eccezione di natura biologica, minaccia esistenziale diretta a cui solo la fuga immobile delle quarantene ci ha per alcun tempo sottratti, prima che fossimo consegnati all’impossibilità di fuggire dalla dimensione totalizzante di un conflitto definitivo che può ormai scatenarsi dovunque, in qualunque momento.

Viene così a verificarsi nell’opera un ulteriore effetto paradosso: l’ironizzazione, il comico e l’umorismo, il teatro dell’assurdo delle cose rappresentate e dei luoghi deformi evocati guarisce, in questo tempo, tramite una buona vecchia immedesimazione empatica da sciamanesimo ritrovato, l’isolamento cieco e idiota in cui l’età della disattenzione e della disinformazione ci ha depositati, giunti al capolinea della storia: ed è forse questo il senso più profondo, terapeutico non per l’autore, che da questa somministrazione di cura d’urto esce generosamente stremato (come sa e constata chi ha avuto modo di assistere in diretta all’esecuzione verbo-motoria dei testi da parte del poeta), quanto per l’ascoltatore, che da quel capolinea storico riparte, rigenerato, pronto, se ha ascoltato davvero, a riappropriarsi di un’esistenza autentica e di una storia che per inerzia e vizio di mercimonio gli si è fatta aliena. Anche perché in questa rappresentazione genuina della condizione postmoderna come degrado sociale, le diverse città e i loro non-luoghi finiscono poco a poco per delinearsi come tappe costitutive di una fenomenologia impropria del soggetto strorico, e del suo spirito assente da ricostruire, tessera dopo tessera, frantume per frantume: una delle vie più originali, e a nostro giudizio più feconde, dell’abbandono o del depotenziamento dell’egoitas lirica tradizionale. Una cura dell’uomo è il fine e il punto d’arrivo più essenziale e compiuto del Grand tour militante di Ferdinando Tricarico.

Carmelo Bene:«“togliere” Leopardi dalla sua poesia.»

0

di Andrea Balietti

«L’unica promessa che posso fare è di tentare, questa sera, di
“togliere” Leopardi dalla sua poesia.» C.B

12 Settembre 1987: Invitato dal comune di Recanati a recitare i Canti di Giacomo Leopardi in piena piazza, Carmelo Bene accetta di buon grado tuttavia col “rifiuto del portar la voce”, declinando cioè la recita, il recital, l’asciutta parte di “cantor vago”, con la premessa di dare corpo piuttosto che voce e vocalizzo ai versi del poeta.
Questa netta posizione, espressa chiaramente dal critico Maurizio Grande in un fondante preludio che ebbe luogo nel salone di Casa Leopardi, volse e valse a «scagionare l’equivoco di un evento della cosiddetta ‘poesia civile’», quella poesia sempre ‘al servizio’ che può essere soltanto rappresentata (mai incorporata) da una voce serva, cantante, da un attore impegnato a «riferire» e capace solo di recitare.
La ricerca in senso archeologico che ha portato alla riscoperta del materiale esposto in mostra nasce proprio dall’esigenza, basata su questa premessa o promessa, di recuperare le immagini dell’evento, prima ancora che la sua ‘voce’.

Le fotografie del tutto inedite qui presentate, provengono dall’archivio privato dei fratelli Buschi e sono state stampate partendo dai provini e dai negativi originali di cui i due fotografi sono stati autori, su committenza del Comune, nel 1987 e custodi fino ad oggi.

Luogo eletto ad ospitare l’esposizione, la Torre civica di Recanati, immota testimone e protagonista assoluta tra i centinaia di spettatori che allora invasero la piazza; specchio prossemico, prossimo al Carmelo Bene della Divina Commedia, che nel 1981 diffondeva Dante a Bologna, dall’alto della Torre degli Asinelli.
Se l’intento di Bene fu quello di “deteatralizzare” la lettura dei Canti, quello dei curatori è invece quello di evidenziare il potere cinematografico della mostra e delle immagini viventi che in essa muovono, come uscite dal film-evento della serata che andò trasmesso in diretta Rai da Recanati alla televisione di tutto il Paese.

«Che sia stasera, proprio Recanati, il luogo giusto per la rivelazione». C.B.

A distanza di trentacinque anni da quella che riconosciamo come una tra le più eclatanti apparizioni pubbliche di Carmelo Bene, va considerato che ogni traccia di tipo filmico, fotografico o comunque documentario, relativa all’evento, sembrava fino ad oggi essere andata perduta o quantomeno dimenticata.
Questo strano sviluppo intensifica precisamente l’idea di una “rivelazione” di Bene, della sua immagine, di quanto ebbe a comparire per poi scomparire.

Ecco così una mostra su quanto è ricomparso, su ciò che non si mostra, ma si rivela.

Andrea Balietti

 

 

 

I millecinquecento passi

0

di Max Mauro

Foto di Jorge Soto Farias

Millecinquecento passi separano il grattacielo nudo di Parque Central dai cento disegni di Pablo Picasso. Millecinquecento passi, un chilometro e centoquaranta metri. Li percorro con la mente sospesa, un po’ perché non sono sicuro di sapere dove sto andando, un po’ perché incredulo della semplice possibilità che poco distante dal grattacielo nudo, il rascacielo occupato, vi sia il più importante museo di arte contemporanea dell’America Latina.

È l’estate del 2006. Hugo Chavez è al potere da sette anni e io vivo a Caracas da quattro mesi.

Eccomi qua, arrivato nei Caraibi per cercare un uomo sparito, anzi volontariamente allontanatosi durante la mia tarda infanzia, la mia infanzia compromessa, inchiavardata nel dubbio, nell’assenza. Quindi eccomi qua, uomo di quasi mezz età, a cercare un uomo ormai vecchio, forse troppo vecchio per essere ancora vivo, e quindi morto. E mentre cerco, mi perdo. Forse era proprio quello che andavo cercando, non Artemio Jus, ma il perdermi. Facile perdersi, per l’uomo occidentale, il padrone del mondo, quello che ha deciso e decide. Io mi perdo. Bravo. Son tutti bravi a perdersi quelli come te. Per come è stato fatto il mondo qualcuno è libero di decidere, di perdersi o cercarsi, altri no, altri no.

Allora esploro la città. Conto i passi, un’illusione di tracciato; questa città è troppo grande per me. Le mie esplorazioni hanno vari punti di inizio e nessun punto di fine. Contando i passi mi illudo di raccogliere storie compiute.

Il grattacielo è alto, molto alto ai miei occhi. Sarà alto cinquanta piani. Ma a chi importa quanto è alto esattamente un edificio nudo? È nudo perché incompiuto.

Doveva essere la sede di un grande gruppo finanziario, uno dei più imponenti edifici di Caracas, l’ultimo nella serie dei monumenti alla modernità che hanno reso famosa questa città. Ma non è andata così. Il grattacielo nudo è la faccia insonne di una ricchezza impudente. Incuriosisce e inquieta, perché l’esposizione urbana di una vita nuda inquieta.

Anche la mia, è ovvio, è una vita nuda, me ne rendo conto. È già qualcosa. Sapere di essere nudi al mondo è già qualcosa.

Le sembianze del grattacielo nudo sono scheletri di metallo avvolti in brandelli di calce. Spuntoni di metallo si allungano arrugginiti verso il cielo. Una recinzione alta circonda il pianoterra dell’edificio nudo e non si vede un ingresso, ma certamente c’è, un modo per entrarci da qualche parte c’è. Non mi avvicino per verificare. Osservo come un passante non invadente. Un camminatore al margine.

Poco lontano dal grattacielo, lasciandosi alle spalle la fermata della metro Bellas Artes, vi sono delle bancarelle che vendono mercanzia varia. Ne affianco una e prendo in mano un CD copia e copertina sfocata in bianco e nero dell’ultimo album dei Red Hot Chili Peppers. Lo tengo in mano per non farmi vedere a guardare il grattacielo come farebbe un qualsiasi turista curioso. Alzo lo sguardo in alto, fino a dove può arrivare, e fisso il grattacielo nudo, scrutando l’umanità che lo abita.

Foto di Maria Rodriguez da Pixabay

Fino al decimo piano gli abitanti possono salire in motocicletta (son tutti parcheggi), poi ci sono solo le scale. La figura di un bambino sale le scale tra il dodicesimo e il tredicesimo piano, o forse è tra il tredicesimo e il quattordicesimo, difficile saperlo con certezza. Le scale non hanno pareti, solo scale, scale nude di cemento che lasciano vedere tutto come in un teatro all’aperto, un teatro della vita nuda. Forse il bambino è così abituato a salirle che non gli fa alcun effetto. Per lui è normale come è normale entrare a casa sua.

I bambini sono imprevedibili. Troppo grande l’eccitazione per le scale di cemento nude ed esposte al cielo, alla città, al parco che non c’è ma che del parco porta il nome. Le scale si percorrono a balzi, e sempre di corsa, altrimenti che scale sono? Che ne sa un bambino che forse non ha ancora imparato ad avere paura del vuoto, del volo, della corrente, della gente. Che ne sa quel bambino. Percorre a balzi le scale nude del grattacielo nudo. Ecco l’angolo al piano dodici, quello dove l’atterraggio è più facile perché qualcuno ha lasciato un pezzo di divano, come ci è arrivato qui un divano chi lo sa. Salta sul pezzo di divano e di lì un altro salto verso il pianerottolo. Che bisogno c’è degli scalini se c’è il pezzo di divano o una valigia o uno sgabello o un copertone di motocicletta?

Ma ecco che la polvere bagnata della notte, perché nelle scale nude di un palazzo nudo la polvere si deposita e si lascia bagnare dalla pioggia, non offre un saldo atterraggio alle gambe del bambino che non ha idea della paura. Quel bambino scivola, come è possibile scivolare sulla polvere bagnata delle scale di cemento nude. Un volo di molti piani, molti metri che non si possono contare. Una piccola vita così scompare nello spazio dei piani, velocissima, tutti i piani fino a terra, così veloce che l’occhio non la può nemmeno seguire.

Ma il bambino non cade, non vola, è solo l’immaginazione del camminatore al margine. La mia intima paura del vuoto. Il bambino scompare dietro una parete nuda, dentro una stanza visibile, ma da un’altra angolatura.

Quanta gente vive nel grattacielo nudo? Forse qualche decina, forse qualche centinaio. Quelli che vivono dentro il grattacielo nudo di Parque Central sono dei privilegiati tra gli sfortunati. Nella città ci sono molti anfratti dove qualcuno cerca ricetto ma solo qui si può credere di abitare uno spazio nuovo, così vergine e nuovo da non essere nemmeno completato.

La città è rumorosa, è imprevedibile, è pericolosa, ma tutti sentono il destino di andarci. Anche io, anche io, ma questa non è la mia storia, mi faccio da parte. Lontano dalla città la vita sembra sfuggire di mano. Ma in questa città c’è dell’altro. Il denaro dell’oro nero arriva qui, e qui si ferma, nelle mani di pochi. Così è stato per tanti, troppi anni, e l’uomo di provincia, Hugo Chavez, ha promesso di invertire la rotta. Il grattacielo nudo ospita le vite di esseri umani che resistono perché sperano, e sperano resistendo. Nel corpo dell’uomo di provincia vedono una speranza che non deve più chiedere permesso.

I millecinquecento passi che separano il grattacielo nudo dai disegni di Picasso sono una linea di fuga. È una questione di immaginazione, direbbe Picasso (forse).

From the river to the sea

2

di Yael Merlini

From the river to the sea

I do not wish to speak about our blood-stained houses

nor do I wish to speak about your streets filled with shards of glass and exploded furniture, empty of breath

and I do not wish to speak about the doll holding your lifeless hand

because I need to talk about the deep love we both have for this land

because I need to caress our homes’ carpets embroidered with hopes

because I need to hear the song of the olive pickers in harvest season

because I need to breathe in the scent of orange fields in which we lose ourselves in lovemaking

because I need to remember the whiskers of milk on your little mouths without patience

because I need to listen to the samovar bubbles on the living room table between feet marked by tongue-less wrinkles

I do not wish to speak about the blown up dreams

nor do I wish to speak aloud my anger for your indifference

because I need to feel the Shabbat bringing silence into my body

because I need you to hear the call to the prayer

I do not wish to speak about the lies we have been told by our peoples nor I do wish to speak about the grief we are stealing from each other

because I need to listen to the sand that holds ancestral stories

because I need to nurture the resilience we both need to dissolve fears and walls

because I need to make space for my and your right to return

because I need to believe in that moment when my child and your child will only be busy with love troubles.

 

 

*

 

Sono pronta a perdere la vostra approvazione
piuttosto che perdere la mia compassione

Sono pronta a raggiungere il fondo delle mie viscere
piuttosto che rimanere dimezzata

Sono pronta a setacciare i miei occhi
piuttosto che indagare occhi altrui

Sono pronta a perdere le mie sicurezze
piuttosto che sostenere uno status quo insicuro

Sono pronta a rinunciare al mio diritto al ritorno
piuttosto che perdere i miei figli

Sono pronta a perdere la mia comunità
se stanno perdendo la loro umanità

Sono pronto a perdere la mia estetica in amore
piuttosto che perdere la mia resilienza

 

*

 

it’s time to make our way home
my and your eyes under the floor

it’s time to find home
in the dry water of grape leaves

it’s time to re-imagine home
the coffee grounds have warned us

it’s time to understand home
in the memories glass waiting on the night table

it’s time to bite our home
nourishment

it’s time to say home
we without tongues

 

*

 

quando scoprii il velo
del silenzio
camminai
a porte aperte
ed è esilio
la crosta cremosa del latte bollito esilio
pane abbrustolito l’esilio
morso freddo in esilio
mia madre è un esilio
esilio del loft, dello specchio appannato, esilio in una stanza

i marciapiedi affollati d’esilio
di notte mi copro d’esilio
in una terrazza dormo l’esilio
la borsa è piena di viaggi d’esilio
senza meta è l’esilio
acqua fresca l’esilio
il vagone letto l’esilio
scorre senza battute l’esilio
scarpe bagnate d’esilio
a tasti trovo l’esilio
la brama d’esilio
resistenza è esilio
nella dimenticanza l’esilio
acerbo esilio
la sabbia d’esilio
stazioni d’esilio
attese in esilio
parole d’esilio
lingua in esilio
corpo come
esilio
io sono esilio

 

*

 

se ci bendiamo 	il pensiero

scorre a fiotti  
questa		
         commedia          dis/		
umana 	
questo		 mare 
di cappotti 
a buchi 
      le menzogne che ci prudono 

e il frutto acerbo	 intarsiato 

nel ventre

se ci bendiamo           il pensiero

 

*

 

let us assume
we are good guys

our media are objective
we are not familists

we have a moral army
and no displacement plan

let us assume
there is no occupation
neither land expropriation
nor resource exploitation

let us assume
we are not apologists
we have never lied
nor been deceived

let us assume
it’s nothing serious
only the consequence of trauma
the price of war

let us assume

a child
is a child
is a child
is a child

 

*

 

oggi brucio

nell’incavo delle tempie
mentre le crespe
del tempo mi ombreggiano
le labbra

oggi brucio

– a onde –
mi bagno di lingua
affilata
tra le gambe

oggi brucio

nelle punte dei respiri
il tremito avvelenato
del corpo
brama di sapere

chi sei

(- aspetto -)

c’è ancora domani
siamo in tempo
a bruciarti

 

*

 

esodo

variabili corporee nella marea
sfumano tra le smagliature
della sabbia
andamento del riflusso

nel raggio di un abbraccio
nella ruota dentata del migrare
la strada
mi si sfalda tra le mani

polvere l’esodo
tempo tra le costole

 

*

 

manifesto per una non-estetica dell’amore*

insorgerò al crepuscolo
dove sfuma la ragione

sarò una voce che ascolta
il silenzio

reincanterò le tavole
incrostate di consueto

insegnerò ad apprendere
a disapprendere

cercherò le strade
per perdermi

combatterò l’epistemicidio
con la giustizia

danzerò nel mio corpo
finché sia complice

sarò la memoria
di un futuro in attesa

decolonizzerò la lingua
per incontrarti

 

*The “Manifesto for a Non-Aesthetics of Love” boldly challenges the status quo of conventional perceptions of love, urging resistance against its typical aesthetic representations. It advocates for a departure from the mundane and a journey towards self-discovery and understanding of others. By calling for solidarity and decolonization on various fronts, including territorial, linguistic, and personal, the manifesto presents an audacious vision of love’s potential. It envisions love as a transformative force capable of defying norms and conventions, offering a radical pathway towards liberation and salvation.

 

 

____________

Yael Merlini, nata a Firenze nel 1968, è poetessa, studiosa, educatrice e madre di tre figli. Ha studiato Lingue e Letterature Classiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica semitica presso la Hebrew University, dove ha lavorato come ricercatrice nel progetto del Prof. Avi Hurvitz “The Semantics of Purity in Biblical Hebrew”. Attualmente vive e lavora a Berlino.Tra le sue pubblicazioni recenti: il libro di poesie bilingue Di casa in casa – From home to home, che esplora il tema della casa come “condizione esistenziale”, e i contributi all’antologia Yours, Yehuda – יהודה, שלך – Dein, Yehuda, con una serie di poesie multilingue (italiano, ebraico, inglese, yiddish, tedesco) sull’identità dispersa. Tra le prossime uscite: la raccolta bilingue La lingua divisa – Fractured tongue per Terra d’ulivi, e alcune raccolte di poesie in yiddish nelle riviste ‘אױפֿן שװעל’ “Aufn shvel” e ידישלאַנד “Yiddishland”.

 

 

Ultime luci a Palermo, la storia della principessa Beatrice Tasca di Cutò

1

 

 

di Valeria Nicoletti

Ruggero Cappuccio ha avuto il privilegio di leggere i diari della principessa di Lampedusa, madre di Giuseppe Tomasi, donna poliedrica, appassionata, indomita, e ci regala un ritratto intenso, dove l’invenzione letteraria si fa tensione desiderante che completa, e amplifica, i fatti storici.

“Che fa una donna che si trova nell’occhio di una guerra terribile, organizzata e condotta dagli uomini, una guerra che ha bruciato tutti gli spazi del confronto civile e non lascia aperto che il confronto delle armi, nell’alternativa tra la complicità e la lotta, tra la schiavitù e la vita?”, si chiedeva Joyce Lussu, ai tempi della resistenza e delle staffette partigiane. Ruggero Cappuccio, scrittore e uomo di teatro, risponde scrivendo l’incredibile storia de “La principessa di Lampedusa”, ovvero l’esistenza, ma soprattutto i sogni, i desideri e le “ultime luci” di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò.

La scena si apre il 9 maggio del 1943, con lo strascico aristocratico del suo vestito che si trascina tra le rovine e i detriti provocati dai bombardamenti nella città di Palermo straziata dal secondo conflitto mondiale. La principessa arriva a palazzo Lanza, residenza di famiglia ormai crivellata dalle bombe alleate, e decide di non andarsene mai più. “Finiscono tutti così gli imperi”, pensa Beatrice guardando dall’alto del suo balcone una città in ginocchio, “certi uomini amano perversamente la morte. La amano sopra ogni cosa, e la tragedia è che sono sempre loro a comandare”. Comincia qui, da un’amara presa di coscienza, tra i drappeggi laceri e i salotti imbiancati di calce, una storia di guerra tutta al femminile, dove le donne si rivelano, anche in tempi di morte, in grado di dare la vita.

È un racconto del nascere, anzi del generare, quello di Cappuccio, dove il mettere al mondo non è solo l’atto del parto, ma un dare alla luce che dura tutta la vita. “Il bambino non si forma soltanto nel corpo della madre, il bambino si forma nel sogno della madre, si forma nei suoi desideri”, afferma la principessa e spesso proprio questo generare non coincide con la maternità biologica, bensì è una predisposizione dell’animo, un’attitudine alla lotta, un voler sconfiggere il tempo, costringersi a “dare un calcio allo steccato a spaccarlo”.

Per sopravvivere alla decadenza della sua città, della sua persona, della sua famiglia e dell’intera classe sociale, la principessa si dedica a piccoli grandi atti d’eroismo quotidiani, e soprattutto a ultimare le opere incompiute. Come la bella Eugenia, che la guarda dal balcone del palazzo di fronte, sperando di sfuggire a un matrimonio combinato e di imparare la nobile e degna arte della solitudine. E ancora, opera eterna e mai più ritrovata, Beatrice si vota a quella “Eclissi”, titolo del romanzo a cui lavora segretamente, che racconta l’andare in frantumi di una nobiltà che ormai si regge solo sulle apparenze. Una scrittura che, probabilmente, confluirà in quel superbo affresco che è stato “Il Gattopardo”, romanzo dapprima intitolato proprio “Ultime luci”, scritto dal figlio della principessa, un giovane Giuseppe Tomasi, che qui recita un elegante cammeo.

“Credevamo che Palermo fosse eterna e ci credevamo eterni pure noi”, si legge in un sospiro. Cappuccio ci conduce per mano tra sonate di Schumann, giri di valzer sotto le bombe, villini sperduti tra i Nebrodi e profumo di cipria, ma apre uno squarcio anche sulla terribile miseria di una guerra dove periscono vite bambine, si spengono esistenze semplici di cui nessuno mai ricorderà il nome, si muore banalmente di fame e di stenti, si consumano ingiustizie sottovoce, di cui nessuno oserà parlare.

Una storia scritta magistralmente dove a intrigare non sono solo i segreti di famiglia e il coraggio di una donna straordinaria ma anche una lingua sontuosa, che mescola gli idiomi del Sud all’italiano più aulico, uno stile “incantesimato”, che ha il merito di elevare e di far sentire a casa, di portare altrove e, al contempo, di riportare alle origini. Un libro che soprattutto invita a compiere la più meravigliosa delle avventure, quella di smarrirsi per trovare se stessi, anche se questo significa perdere tutti gli altri.

Ruggero Cappuccio, La principessa di Lampedusa, Feltrinelli, Milano, marzo 2024, 368 pp., 20 euro.