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Diario della baldanza

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Davide Castiglione

Un’oncia di sprezzo sta alla base della grandezza. Da che pulpito: il mio. Solo se alla base dello sprezzo sta un fregio di umiltà tuttavia, quale è inciso nella tavoletta che dice della campana immobile in mostra nello spiazzo mattonellato dove l’aria arriva a fermare le corde vocali della fruttivendola. Perché noto questo? Perché sto camminando e solo per i prossimi ora quindici minuti potrò essere utile.

 

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Voi che siete per lo sbiadito amorfo, vi consiglio un giallo violento, un incendio elementare e primario. A me, qui dal counselling desk, la composizione sembrerà comunque migliorabile.

 

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L’arguzia retorica del controllore (sul treno i biglietti si pagano tre euro più quaranta euro) mi estasiò, ma poi il contenuto giunse in direttissima. La signora rumena seduta accanto a me aveva avanzato una debole obiezione; poi, dignitosamente, aveva lasciato lui solo a godersi quel teatrino, le luci connazionali e conniventi degli sguardi da ogni angolo del vagone su di lui.

 

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Il bimbetto fa una marcetta in cerchio, come se girasse sul triciclo, calcando l’affondo del piede sul parquet, come se facesse fondo in montagna. Mentre la madre esagera nel fingersi indaffarata nella stanza accanto, e io la aspetto per una fattura imprecisata, lui innalza e mantiene una nota quasi di soprano, un filo sonoro neogotico che ha dell’inquietante. What a nice voice dico a un certo punto con una sincerità sinistra. Per tutta risposta lui mi guarda un attimo, poi di scatto si volta seguito dall’onda del caschetto biondo, e riprende la sua nota.

 

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E abbracciala, pezzo di merda… niente di personale, però lei continua a tamburellare le dita sulla tua gamba, e ti cinge il fianco. Mentre più in là nel divano c’è uno con l’espressione simile alla mia, solleva gli occhi, non regge l’intorno, si rituffa nel bicchierino di whisky. Più in là ma ormai giù sul parquet intercetto lo sguardo perso e speranzoso del giovane francese che basta essere lì perché c’è una specie di perfezione in tutto questo. Lei non solo continua il suo contatto a senso unico, ma ti guarda come se fossi un modulo della NASA sceso in terra a miracol mostrare. Per tutta risposta tu fai una smorfia squadrata, ma forse è il tuo modo di volere bene.

 

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Dove è l’implosione non sono io. Mi espando infatti, in gesti ed escrementi disseminati anche nei nodi del virtuale. Ingegnatevi a far sì che sia tutto giuntura, poiché fa paura la carne, cattolici o meno. Lasciati andare, attraversare da tutto mi soffi tu addosso, e cosa ci faccio allora qui ai limiti del passaggio pedonale, ad aspettare che l’omino stilizzato non imploda, diffonda verde.

 

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Mi viene da difendere gli impasti di immagini e speculazioni proprio come tendo a perpetuare i miei geni in molte delle ragazze che fisso. O come un capocuoco sulle sue. Le stelline in brodo non mi recano nessuna affezione ma sì una mitologia ardua da espellere. Venivano in età meno che liceale mischiate ai cartoni animati delle otto, prima della tristezza metafisica di andare a letto senza essersi conosciuti. Dopo ancora la verifica di matematica che si replicava di sogno in sogno con leggere varianti, ma sempre la mia vertiginosa mancanza di preparazione spiazzava me ancora prima dell’insegnante e del foglio protocollo.

 

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Avrà scritto il suo nome una ventina di volte solo negli ultimi due giorni: i moduli, si sa. Democrazia permettendo, li forzerei al Modulo Unico. Non è la prima volta che il tempo impiegato a scriverlo, la spropositata estensione di tutti i suoi caratteri in fila, gli recano una nausea febbricitante, sofisticata. Però non appena il rito serale di Skype prende una piega vivificante, con l’amore ritornato iperbole e rumore e centrifuga dello schermo, ecco che io accampa moduli e link, ripara io dietro barriere di moduli e link. Soppesa un paio di rifiuti a parer suo opinabili, inserisco l’ennesima password ennesima. Il file delle password, i miei organisational skills.

 

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Era da tempo che desideravo comporre un trattatello su questi batteri inesplorati che poi sono i non-tempi (non-minuti, non-ore, ma più sovente non-misurabili). Essi si intersecano nei non-luoghi (che già conosciamo bene) e generano un non inglobante che è sostanza collosa e incolore, un non che anziché lottare contro placidamente impedisce. Una ricognizione affatto pionieristica li definirebbe agguerriti momenti di calo, di (cito) “accorta manutenzione del ridicolo”. Exempla: lo svitamento della moka in solitaria; l’imbambolarsi sulle cifre digitali degli annunci; il coordinamento in simultanea, manageriale, dell’apertura di una porta e dello spegnimento di una luce. Quest’ultimo esempio in particolare è furbissimo perché i non-tempi fingono di dimezzarsi a beneficio di chi compie l’azione, ma poi in realtà raddoppiano la frustrazione, spalleggiandosi a vicenda e facendo posto a ulteriori non-tempi che spingono come forsennati.
Ognuno può produrre i suoi, di esempi, così puoi li mettiamo tutti in un bel mega-database. Però trattasi di impresa non facile. Quelli che ho testé proposto sono infatti batteri macroscopici, mostri che quasi li vedi a occhio nudo. Se fossero meno ovunque, la vita creativa ormai ridotta al lumicino potrebbe inventarsi fluorescenze atte a catturare i non-tempi più subdoli – quelli il cui automatismo non reca irritazione ma solo un consolatorio vanto, per dire. Ma sarebbe come chiedere a Dante di descrivere l’Altissimo. A questo punto il mio gruppo di ricerca si scherma dietro un “ulteriori studi sono necessari ecc” e si rintana in un non-tempo fatto a propria immagine e somiglianza.

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I riflessi del cinema

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di Rossella Catanese

Chiara Nucera, Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma, Edizioni Umanistiche Scientifiche, Roma 2014, 143 pag.

Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma è un libro di Chiara Nucera che propone un percorso interpretativo dei processi rappresentativi e metalinguistici attivati dai film di David Lynch, David Cronenberg e Brian De Palma, tre autori fondamentali nel cinema degli ultimi trent’anni.

Attraverso i film di questi registi, il libro intende approfondire le tecniche di narrazione cinematografica che affrontano una relazione concettuale esplicita con il principio mimetico delle immagini fenomeniche attraverso l’esibizione del meccanismo cinematografico. È proprio questo meccanismo ad esporre la finzione della messinscena, l’artificialità del racconto, nonché la manipolazione esplicita del dispositivo.

Il percorso di lettura delineato dalla ricerca esplora il panorama mediale costituito dalle celebri opere di questi registi partendo da premesse metodologiche eterogenee, tra la gnoseologia platonica, la drammaturgia ellenistica e le teorie psicanalitiche. L’autrice chiama in causa il mito della caverna attraverso cui Platone evoca il processo d’intellezione (nòesis) delle idee nel dialogo Fedone; si ripercorre anche il concetto di mimesis, che dalle opere del commediografo greco Menandro si estende alle forme rappresentative contemporanee, attraverso le forme d’arte e di comunicazione nell’epoca della riproducibilità tecnica, nella prima metà del Novecento, fino ad oggi, nell’era della televisione e dei nuovi media. Dall’idea di perturbante di Sigmund Freud al Doppelgänger di Otto Rank, la psicanalisi ha interloquito con le formule rappresentative che il cinema attiva, ed è stata un prezioso strumento per analizzare i concetti di alterità, di doppio e di scissione interiore, laddove il cinema si offre come una realtà duplice, copia e simulacro, e si ratifica come mutazione, riproduzione e ricostruzione fittizia della realtà. La capacità del cinema di costituire una concrezione dell’intangibile tempo fenomenico (il “complesso della mummia” di cui parlava André Bazin) si allaccia alla visibilità che la società urbana acquisiva a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo con la nascita del cinema. Un’epoca che ha razionalizzato un mondo caratterizzato dallo sviluppo tecnologico e industriale, che ha assimilato il corpo del lavoratore alla macchina. Chiara Nucera estende questa prospettiva al rapporto tra schermo e corpo dello spettatore nello spazio cinematografico e in quello sociale, attraverso l’alterità della “rivalsa sensoriale” del piacere dell’evasione. In questo spazio si colloca l’intervento e la ricerca dei registi Lynch, Cronenberg e De Palma, orientata alla configurazione di tre diversi tipi di doppio e tre tipi di realtà: «la realtà come mutazione corporea per Cronenberg; la realtà come fredda riproducibilità tecnica per De Palma; la realtà come zona oscura, in cui sogno ed esistenza si confondono, per Lynch».

Se per Cronenberg si giunge al concetto di metacinema attraverso una metamorfosi carnale dello spettatore, che si modifica trasformandosi in supporto audiovisivo, per De Palma al centro del discorso metalinguistico sono il punto di vista e l’ossessione oculo-centrica costruiti dal supporto di celluloide, in una differente declinazione della presenza tecnologica; Lynch propone invece la concrezione del doppio facendo emergere zone d’ombra del reale, nello scontro tra i mondi antitetici e i simboli della rêverie.

Il libro di Chiara Nucera analizza i lavori di questi tre registi e la nozione di metacinema in uno stile limpido e scorrevole, definendosi come un canale di divulgazione e riuscendo ad introdurre il lettore nelle questioni della genesi delle immagini, del significato della costruzione narrativa, delle implicazioni psicanalitiche dell’identificazione spettatoriale nel linguaggio cinematografico.

cinéDIMANCHE #25 WERNER HERZOG La grotta dei sogni dimenticati

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Note movie
di
Carlo Grande

Werner Herzog, nello splendido docfilm “Cave of forgotten dreams”, l’ha definita la grotta dei sogni dimenticati, una macchina del tempo, un’istantanea del passato, un viaggio nel cuore dell’umano per scoprire se esiste qualcosa che si dice anima. Immersa in ettari di boschi, nel Sud della Francia (a Pont d’Arc, Ardèche, dipartimento Rhône-Alpes), si inaugura il 25 aprile l’esatta replica della grotta Chauvet, la Cappella Sistina dell’antichità, meraviglia umana che si declina al presente e al passato remoto: l’originale è a pochi chilometri, sigillato da una frana preistorica che creò una perfetta capsula del passato, ora accessibile solo a scienziati, paleontologi, storici, archeologi e geologi e protetta da una pesante porta d’acciaio, come il caveau di una banca.
Fu scoperta nel ’94 e mai aperta al pubblico perché non facesse la fine di Lascaux in Dordogna, altra grotta delle meraviglie alla quale l’eccessivo carico di visitatori rischiava di causare danni irreversibili.

Il nostro sguardo su quei lontani millenni cominciò con il sito di Altamira, in Spagna: “Mira toros, mira!” disse nel 1879 una bambina di quattro anni mostrando al padre esterrefatto grandiosi dipinti rupestri di una grotta. Poi nel 1940 vennero il cagnolino di un ragazzo francese che si  intrufolò in una fenditura del  terreno, sbucando nelle stupefacenti grotte di Lascaux (che si pensavano l’apice dell’arte preistorica) e nell’88 il subacqueo Cosquer, che percorse un cunicolo sommerso fino a un antro coperto da pitture di mani, cavalli, foche e persino pinguini.
Ma il tempio assoluto è qui, non lontano da Montélimar, a Nord di Nimes e Avignone.

L’originale della grotta Chauvet, troppo fragile per resistere alla massa di visitatori (la sola condensa del fiato alimenta le muffe e rovina i dipinti),  è stato mappato con scanner al laser e riprodotto al millimetro: gli 8.500 metri quadrati reali (400 metri di lunghezza), condensati in tremila. Si tratta di dipinti così integri da sembrare inizialmente dei falsi, se le concrezioni e la calcite che li intaccano non potessero crescere che in migliaia di anni.
La grotta contiene un migliaio di disegni, dei quali 425 sono figure d’animali. Un bestiario favoloso di quattordici differenti specie, per lo più predatori: orsi delle caverne, rinoceronti lanosi, mammut, leoni, pantere e grandi felini, stambecchi, lupi, un’aquila reale, molti sono ormai estinti e rappresentati solo qui, nell’unico “fotogramma” trasmesso dai nostri antenati nei più antichi dipinti mai scoperti, vecchi il doppio di Lascaux, ovvero circa 35 mila anni.
La grotta contiene anche centinaia di ossa e scheletri di animali (nessun resto di uomini, che venivano a dipingere e compiere cerimonie), tracce di fuochi e delle torce, graffi di orsi preistorici sulle pareti, forse inferti 5 o 10 mila anni prima. Ci sono le impronte di un ragazzino di circa otto anni e vicino a lui quelle di un lupo: andava a caccia? Camminavano insieme amichevolmente? O ciascuno per conto suo, a migliaia di anni di distanza?

I dipinti sono una delle più vertiginose, straordinarie opere d’arte al mondo: nella penombra appaiono lotte di rinoceronti, un orso delle caverne dipinto di nero e ritratti di cavalli – uno sinuoso e altri con le teste accostate – forse le immagini più belle, intorno a un buco a terra da cui gorgoglia l’acqua dopo ogni pioggia; tutti sono ripresi con movimenti realistici, precisi, in vividi chiaroscuri su pareti rugose – non tele o tavole lisce – con una dinamica tridimensionale: sembra di essere davanti a una caccia preistorica, gli animali sembrano vivere ancora – un bisonte con otto zampe, teste di leoni e leonesse di una bellezza sconcertante – possiedono l’illusione del movimento, suggeriscono, ha detto Herzog quasi una forma di “proto cinema”, come fotogrammi di un film animato.
Una discesa nell’ignoto, nel ventre della terra, che ha qualcosa di uterino. Ma l’incontro, fra stalattiti e stalagmiti prodotte dallo sgocciolare paziente di millenni, è reale, davanti a un’enigmatica figura femminile, una Venere paleolitica, dipinta vicino a una specie di toro-bisonte: l’antichissimo mito del Minotauro.

Forse non potremo ascoltare il magico silenzio della caverna, non sapremo mai realmente cosa pensavano, quali emozioni provavano quegli uomini, chi erano i loro figli e le loro donne. Il passato è perduto, ma rimane questa meraviglia; un universo familiare, magico e distante, una specie di sogno notturno; l’artista ha sognato belve e leoni veri e ora li sogniamo anche noi, ma senza spavento, tanto le immagini sono intense, profonde, potenti. Sono una vita sognata e dipinta sulla roccia, trasmessa da uomini preistorici che al lume delle torce, nel gioco delle luci e delle ombre, disegnarono con i tizzoni spenti e pregarono a modo loro la natura. Lasciarono con grazia l’ombra colorata di sentimenti umani, trasmisero l’emozione primigenia e produssero visioni, come solo un artista sa fare, attraverso gli abissi del tempo.

 

cinéDIMANCHE
 

cdNella pausa delle domeniche, in pomeriggi verso il buio sempre più vicino, fra equinozi e solstizi, mentre avanza Autunno e verrà Inverno, poi “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera“, riscoprire film rari, amati e importanti. Scelti di volta in volta da alcuni di noi, con criteri sempre diversi, trasversali e atemporali.

“In realtà, la poesia”: premio per la critica 2015 (II edizione)

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Il sito In realtà, la poesia ripropone per il secondo anno il premio per un testo inedito di critica letteraria.

Gli obiettivi restano i medesimi:
1. rinvigorire la pratica critica incoraggiando un approccio ermeneutico che – allontanandosi dalla retorica squisitamente accademica così come da quella giornalistica – recuperi un rapporto più intimo e ravvicinato con i testi, tornando ad essere quello strumento in grado di individuare i nessi con la realtà nella quale tali testi vengono scritti o letti; ovvero, quei luoghi in cui nuovi modi di dire indicano nuovi modi dell’agire.
2. promuovere ed incentivare il lavoro in ambito critico attraverso un riconoscimento serio ed esplicito che ne premi l’eccellenza: un contratto editoriale per la pubblicazione di un libro di critica che si avvale dei mezzi, della disponibilità e della professionalità delle Edizioni Prufrock SPA.

Il bando per esteso : qui.

didascalie: Renata Prunas

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MA-DONNA

La seconda pelle

di

Tiziana Gazzini

Smagliate, sbagliate, color carne, colorate, a pois, intere, tagliate, cucite, rovesciate, sovrapposte, strappate, slabbrate, sformate dall’uso e scombinate

le calze sono la seconda pelle delle donne. Resistenti, trasparenti, seducenti, ma anche assassine, preferibilmente nella loro versione collant, sono la materia di lavoro e d’arte di Renata Prunas che dal 9 al 12 maggio presenta a Roma, al Caffè Letterario della Casa Internazionale delle Donne in via della Lungara 19, la mostra La seconda pelle.

Sardo-napoletana – Renata Prunas ama definirsi così – esordisce nei primi anni ‘70 con lavori vicini all’arte povera e all’arte concettuale. La leggerezza e la porosità del sughero delle sue prime opere vengono presto abbandonate per l’irruzione di un altro materiale, più leggero, più povero e duttile: il collant.

Negli anni ‘80 espone anche in una piccola galleria al numero 15 di via della Lungara. Si chiamava il luogo e proponeva una generazione di donne che si esprimevano artisticamente con l’antica arte del filo e del cucito. Nella mostra filo-logia (1981), a cura di Mirella Bentivoglio (15 artiste, tra cui Maria Lai), Renata Prunas era presente con un’opera intitolata Pagine: un libro fatto di collant. Il filo e il logos.

L’ attrazione per la consistenza (e l’in-consistenza) del suo materiale di lavoro preferito è per Renata Prunas ancora irresistibile. Insieme al Grande Collant immagine-manifesto de La seconda pelle, in mostra a Roma, una bicicletta per pedalare tra le nuvole e una sedia a sdraio, dalla seduta che può sostenere solo il peso immateriale della nostalgia: è l’installazione poetica ALTROVE, dedicata al ricordo di Piero Berengo Gardin, il compagno della vita.

Trecce che sembrano appena strappate a giovani ragazze biondo/castane, Prunas le appunta a cascata su una sorta di espositore, come macabri trofei da memoria concentrazionaria. L’eleganza sofisticata dell’oggetto d’arte si scontra con il sentimento di repulsione per l’esperienza – anche solo accennata – del momento più buio dell’umano/non-umano. seconda_pelle

Lontane dall’agiografia vetero-femminista, le opere di Renata Prunas parlano delle donne con una salutare distanza critica. Più rabbia che lacrime. La seconda pelle non ha paura di farsi parola, di farsi logos, e di sfondare un diaframma oltre il quale può corteggiare forme di design criminale (il bellissimo e inquietante Separé). Prunas dissacra anche il dolore e la violenza col sapore dell’ humour noir e dell’ironia, nella logica del rovesciamento dei fini ispirata al luogo che ospita le sue opere, il Palazzo del Buon Pastore, un tempo luogo di contenzione per laiche, poi trasformato in monastero e ora Casa al servizio del mondo femminile.

Un’acquasantiera d’epoca, incastonata nella parete del Caffè Letterario, diventa lo spunto per un angolo da devozione mariana. Un grande olio ottocentesco che rappresenta una MA-DONNA dal cuore trafitto, è velato da calze dai colori quaresimali, intessute nel nobile e sensuale filo della seta. Inutile cercare irriverenze o consolazioni negli interventi di Renata Prunas. E nemmeno tranquillità.

Per nulla tranquillizzanti anche le opere più recenti, che raccontano gli annessi della riproduzione, il trauma della nascita con grucce di ferro, veli di collant, e un trovarobato dadaista che imita potenti cordoni ombelicali per creature che non starebbero a loro agio nemmeno nella culla di Rosmary’s Baby.

Piccole invettive velenose e trasparenti che mentre strappano un sorriso procurano un brivido. Un modo per rammendare le inevitabili smagliature del logos.Copia di separe

Il canale bracco

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di Marino Magliani

magliani_bracco

(mi è sempre molto difficile scegliere un passo da postare in un testo di Magliani, perché vorrei poterne poi aggiungere anche un altro, e poi un altro ancora … e insomma mettere tutto; e con questo “Il canale bracco” più che mai; sempre i suoi ingredienti minimi, di disarmante pedissequità, e qui forse ancora più titubanti, quasi sfiancati, e più autoironici, ma poi i soliti improvvisi e abissali corti circuiti, gli usuali affondi poetici, quasi dolorosi di bellezza, i suoi distillati di saggezza, quasi messi lì per caso, quasi essi stessi a disagio, desiderosi di farsi dimenticare; perché certo la sua è magnifica scrittura, ma c’è dietro il suo mondo, o insomma un mondo, che spinge e pulsa e alita, misterioso e struggente nella sua maschera di semplicità, che a momenti quasi ci fa dimenticare la scrittura; dove siete seriosi critici militanti, sapete leggere un testo, capite qualcosa, sapete riconoscere la musica di un pensiero, il bisbiglio perentorio e toccante ma anche manigoldo – niente di meno naif – di un’anima?; e voi grandi e medi editori, con le vostre certezze su cosa può piacere ai lettori (li conoscete?), le vostre altezzose e pavide certezze, i vostri colpevoli conformismi?; ma mi scuso per la mia tracotanza, certo fuori luogo, certo ridicola, patetica, trattandosi in sovrappiù di un amico, e ringrazio l’editore per la disponibilità; GS)

Man mano che proseguo sul molo lungo, vado notando due pilastri di ferro e una grata. Si direbbe un cancello. La sabbia che il vento sputava fin sull’asfalto ha lasciato il posto a una schiuma di onde, ma il palmo d’acqua dimenticato dall’alta marea non è ancora mare. Una frontiera segnata da un ostacolo della dimensione di un gradino, il mare vero sta oltre quel dorso.

Il molo si allunga nel vuoto come un dito disteso; s’intravede meglio il cancello pieno di carie, e sul bordo di cemento che delimita il catrame, ogni duecento metri hanno fissato il solito cippo delle quote, come se ne trovano sulla Via Appia.

Oltre la metà (il cippo riporta 2100 m) il molo compie la sua brusca sterzata verso nord. Fin qui, a sfidare gli scrolli, i pescatori non salgono: vento e basta, aria che odora di alga e di isole, che raschia gli scogli, sposta i gabbiani.

Un classico faro bianco con le strisce orizzontali rosse segna una delle due estremità avanzate, l’altra sta di fronte, a circa trecento metri. L’acqua all’interno degli spartivento appare meno selvaggia che in mare aperto. Qui, dove il Mare del Nord fa le sue “prove di sonno”, nasce e muore il Noordzeekanaal.

Ho contato un centinaio di imbarcazioni, ma non saprei dire se ne sono entrate o uscite di più: scafi di ogni dimensione e forma, potenza e eleganza; e poi chiatte, petroliere, mercantili, pescherecci, persino barche a vela, gozzi. Solitarie o accompagnate dai rimorchiatori. Prima entravano nel porto di Amsterdam attraverso lo Zuiderzee, poi è stato utilizzato il canale di Den Helder, ma il progetto di scavare un corridoio che collegasse direttamente Amsterdam al mare aperto era nell’aria da tempo. La sfida venne raccolta da un inglese, un certo signor Lee, che appaltò il lavoro per la buona somma di 27 milioni di fiorini e nel 1876 consegnò l’opera.

L’accesso alla scaletta che dà sul piazzale del faro è sbarrato da una rete. Salto sugli scogli e aggiro il recinto. Mi siedo sul muretto, la schiena appoggiata al faro. L’altezza del sedile è di poco superiore a quella della panchetta ligure, il luogo del carruggio dove a quest’ora, probabilmente, me ne starei seduto a guardare le macchine che passano. Questa strana sensazione di appartenere anche da lontano a qualcosa mi ha sempre impedito di chiedermi What Am I Doing Here? Che ci faccio qui e non in Dancalia? Che ci fa in cima alle dune inzuppate uno come me, per dire, che dalla sua valle, per guardare qualcosa ha sempre alzato gli occhi? O a parlare di mari aperti, io che ho sempre considerato il mare un posto per turisti. Forse si sceglie l’Olanda per una sorta di compensazione, ho detto una volta a Piet. Non ci si arriva per caso in cima a un molo. Stavolta non è una questione di sovrapposizioni… Qui c’è nulla, Piet. E se c’è nulla ti accorgi che non c’è angoscia; un posto che non è un mucchio e non è un vuoto; un molo che non è terra né mare. Questo molo sta al quartiere di Zeewijk come Zeewijk sta alla Liguria. Si parte da una valle dove sei più famoso della Coca-Cola e tutti ti salutano, per giungere dove l’unica cosa che sanno di te è che non hai un cane. È un lavoro di sottrazione, si sparisce piano piano, mica di colpo. Tu ci riesci bene, Piet. Il desiderio di non lasciare nulla è un progetto che io, raccontandoti, potevo solo rovinare… Dovevo venire fin quassù per capire?

Mettila come vuoi, in Olanda la sera finisci per girarti il collo di sciarpe, schiacci berretti sulle orecchie ed esci a conoscere spiagge, stagni, canali, le mani in tasca. In un alternarsi di paludi e pinete, vai per sentieri modellati dalle conchiglie, e forse non ci fai neanche più caso che sparisci.

Nidi di gabbiani e gufi, chiarori a mezz’aria, le prime volte certi colpi d’ala mi spaventavano. E i conigli che scappano, i cervi che saltano il filo spinato, e gli arbusti dai quali all’imbrunire escono le volpi, e i bunker dal cemento granoso spesso due metri, tutti collegati lungo la costa, fino a Hoek van Holland, l’Angolo dell’Olanda. Ma la storia raggiunge anche gli angoli. E Dio mio, quanti partigiani delle dune mandati al massacro…

Dirimpetto al molo c’è Beverwijk. Bever significa castoro. Quartiere del castoro. Pare che qualche secolo fa ci fossero davvero molti castori da queste parti, poi hanno costruito il canale e sono arrivate le acciaierie. Passato Beverwijk c’è Wijk aan Zee, la piccola Svizzera la chiamano, ma è difficile intuirlo.

Mi trovo a sud ovest, spalle al canale, guardo Zandvoort mezzo nascosto nelle nebbie. Dune, vapori, e dietro le dune IJmuiden, Bloemendaal, Zandvoort, Scheveningen e lontanissimo Hoek van Holland. Tutte a rappresentare una scala di valori che parte dal “basso”: acciaierie e pesca a IJmuiden, borghesia a Bloemendaal, turismo a Zandvoort, magia a Scheveningen. I giocatori di scacchi la conoscono anche come una variante della “difesa siciliana”, un’apertura giocata per la prima volta a Scheveningen: il nero imposta la struttura pedonale al centro, come una diga. Sccccchefeningheen. Ma come si pronuncia? I romantici partigiani-fotografi di Hoek van Holland usavano un metodo infallibile per identificare le spie tedesche: far dire loro Scheveningen come parola d’ordine.

Scheveningen è in realtà una spiaggia, la città è Den Haag, la capitale politica dei Paesi Bassi. Poco più di un paesone, formato da due strade e dai quartieri Belgisch Park e Duindorp, Scheveningen è molto più antico di Den Haag. I suoi abitanti dovevano essere vichinghi provenienti dalla penisola danese. Terra da sempre di tempeste e di gente che ha ricostruito ogni volta sul fango, fin quando Constantijn Huijgens non ha inventato la Scheveningseweg, il tratto che ha unito il villaggio a Den Haag. Il vero mutamento, tuttavia, l’ha conosciuto il secolo scorso con la costruzione degli stabilimenti balneari e del pier, il molo passeggiata, luogo di culto per gli olandesi.

Qualche anno fa, in occasione del Vlaggetjesdag, il giorno delle bandiere, sono andato a vedere le SprookjesBeldeen aan Zee, le statue del mare che popolano Scheveningen dal 9 giugno 2004. Si può dire che da quel giorno Scheveningen abbia ventitrè abitanti in più. Ventitrè statue in mezzo alle piazze e al boulevard, ventitre glorie figlie dello scultore Tom Ottorness, artista americano di Wichita, Kansas. Il materiale usato è il bronzo, il tema la lotta tra gli umani e il mondo. Gulliver, alto più di undici metri, Moby Dick, Geppetto e Pinocchio, Tin Soldier Boat, Ballerina, Oh, Lars, My Son, Il Leone e il Topo, Il Pesce e il Soldato.

Quanto buio in cima al molo. I primi tempi venivo qui a tradurre le parole per viverle. Solitudine è eenzaamheid. La pronunciavo male, diventava eindzaamheid. Una parola che qui non esiste. Tradotta alla lettera sarebbe “fine dell’essere”, che in italiano un senso ce l’ha.

Scendendo, rifaccio la conta dei cippi, alcuni mancano, cancellati dalle mareggiate.

Il cancello si trova a quota 1200 metri.

Oltre le sbarre, tra risciacqui e grida rotte e aeree, sento qualcosa. Una musica. Una musica? Una radiolina forse. Qualche pescatore notturno; c’è una bicicletta sul cavalletto, tre canne da pesca. Ma lui dov’è? Sarà nascosto, mi ha sentito arrivare e s’è nascosto tra gli scogli per non restituirmi il saluto. Piet dice che quassù ci vengono i selvatici. Non mi fermo, è notte e fa freddo, l’ora in cui girano solo le luci dei fari e i gabbiani, su questo molo sbilenco e tagliato in due. E poi sono stanco. Non sembra, ma hai camminato più di tre ore, mi dico. E tutto quel sale in faccia, seduto lassù in cima, mi ha dato sui nervi. C’è un odore di alghe grasse tra le dune, e i miei passi sorprendono gli animali, sciami di stornelli, i saltelli di un coniglio. La luce del faro scolpisce il profilo di un bunker. Mi ritorna alla mente Eindzaamheid, la parola nata dal caso e dall’errore: la fine dell’essere… la fine di un luogo.

 

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Scritti dopo gli attentati di Parigi – un e-book di Nazione Indiana

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copertina-charliedi Andrea Inglese

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Proponendo un e-book che raccoglie quanto è stato scritto su questo blog e sul blog amico alfabeta2 dopo gli attentati di Parigi di gennaio , viene subito da chiedersi se tale operazione editoriale abbia minimamente senso. C’è qualcuno a più di tre mesi di distanza da quegli eventi, che ha ancora voglia di rileggere questi testi, o di leggerli, magari, la prima volta? Un fatto è certo, gli attentati di Parigi hanno costituito un trauma per i francesi, ma anche probabilmente per tutti gli europei, e forse addirittura per tutti noi “occidentali”, anche se non mi è poi così chiaro cosa voglia dire “occidentali”. Il trauma in Francia c’è stato: lo conferma la mobilitazione straordinaria di quattro milioni di persone in occasione delle manifestazioni “ufficiali” di domenica 11 gennaio contro il terrorismo. Io ho seguito gli avvenimenti dalla Francia, dove vivo, e il mio coinvolgimento è stato intenso, come quello della maggior parte dei cittadini francesi. Negli altri paesi, come l’Italia ad esempio, l’impatto dell’evento potrebbe essere misurato considerando sia l’attenzione mediatica che gli attentati hanno riscosso nei canali ufficiali d’informazione, sia la quantità di materiali e discussioni in circolazione sui social network e sui blog durante quelle settimane. Si è reso evidente, tra l’altro, un fenomeno che io chiamerei di opportunismo mediale. Di fronte all’irruzione della violenza terroristica nel tessuto familiare della vita ordinaria, non vi è uso pregiudiziale dei media: tutto può servire, tutto può essere utile. Ogni gerarchia si dissolve: le grandi testate giornalistiche sono divorate con altrettanta curiosità del blog minoritario e indipendente, il social network più apolitico veicola dibattiti e materiali altrettanto politici della rivista di studi strategici. Ma questo consumo abnorme d’informazioni, come ci insegna Nietzsche, ha qualcosa dell’esorcismo: la conoscenza è una forma di neutralizzazione dello spavento.

Posto quindi che gli attentati di Parigi hanno probabilmente toccato da vicino anche chi non è francese e non abita in Francia, varrebbe la pena di chiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’urto nelle nostre vite. Potrebbe darsi che l’evento sia stato abbondantemente consumato, che di esso non rimangano più residui, schegge disturbanti, a tenere vive la memoria e l’analisi. Il lavoro di ricerca e riflessione non ci riguarderebbe più in prima persona, e sarebbe stato nuovamente delegato ai media d’informazione di massa, come in genere avviene per le “grandi questioni” che agitano la nostra società. Il carattere traumatico dell’evento è consistito, infatti, non nella semplice scossa emotiva, ma in qualcosa di ben più importante che a questa scossa si accompagnava: l’esigenza di voler capire, e di prendere la parola. Il sentirsi bersaglio quasi in prima persona, confrontati alla violenza indiscriminata fin dentro la dimensione intima, domestica, del vivere, ci ha chiamati in causa tutti in un primo momento e non solo per condannare, ma anche per ragionare. Oggi, forse, si è accettato nuovamente che siano soprattutto gli opinionisti, gli esperti, i capi di stato o dei servizi segreti ad occuparsi di questa faccenda.

In Francia, il vivo dibattito che si era reso visibile sulla stampa durante tutto il mese di gennaio, e che si sforzava di far emergere il contesto più ampio e variegato all’interno del quale situare gli attentati, fa spazio oggi all’iniziativa del governo, che con procedura d’urgenza vuole imporre un disegno di legge sulle attività dei servizi segreti, per rendere più efficaci le procedure di controllo e prevenzione degli atti di terrorismo. Di fatto, questa legge rende legali tutte le attività di sorveglianza informatica generalizzata che erano finora considerate illegali, e amplia i motivi che legittimano l’azione dei servizi segreti nei confronti della vita dei cittadini, inserendo voci estremamente generiche quali “prevenzione di attentati alla forma repubblicana delle istituzioni” o “interessi prioritari della politica estera” (www.lettera43.it/politica/la-francia-verso-una-sorveglianza-di-massa-del-web_43675165388.htm). Contro questa legge si sono già mobilitati in molti, dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani e dai sindacati della magistratura fino agli stessi provider. Essa sancisce comunque la scomparsa del dibattito sulle cause e i motivi degli attentati di Parigi, spostando tutta l’attenzione sulla questione “sicurezza”. Il governo, in questo modo, non è solo l’autore di un disegno di legge liberticida, ma anche colui che definisce le priorità del dibattito pubblico. Il terrorismo da fenomeno ambiguo e complesso, che richiede di essere indagato e chiarito nei suoi molteplici aspetti, diviene un assunto indiscutibile, un semplice dato di fatto, che suscita semmai una discussione sui metodi scelti dallo Stato per combatterlo.

Nel frattempo il rumore di fondo mediatico e politico alimentato dal fantasma dello “scontro di civiltà” è ancora percepibile, e cresce semmai d’intensità. L’idea che sia in atto una sorta di guerra contro l’occidente, e che questa guerra si generi nel seno di un soggetto dai contorni vaghi e ampi, come il mondo arabo-musulmano, è qualcosa che piace sia ai giornalisti sia ai politici, in Italia e altrove. Negli scritti apparsi a caldo su Nazione Indiana e alfabeta2, pur nella diversità di approcci e di posizioni, ci si è tenuti ben lontani da un tale schema interpretativo, non solo perché ritenuto infondato, ma anche perché foriero di ulteriori sofferenze e violenze.

Non si troveranno in questi testi analisi geo-politiche sul Medio Oriente e sul Maghreb, sul bilancio catastrofico delle politiche statunitensi e europee in tali regioni del mondo; neppure studi sulla genesi storica, sociale e politica del jihadismo o sulle guerre intestine che, in nome delle diverse confessioni musulmane, s’innestano su conflitti regionali di origine politica ed economica. Ognuno di questo testi, però, ha colto negli eventi traumatici di Parigi come una cristallizzazione di molteplici realtà, che richiedono di essere pensate assieme, approfonditamente e senza alcuna scorciatoia. Non ha senso, ad esempio, celebrare astrattamente la libertà di espressione, senza considerare ogni contesto determinato in cui tale libertà è esercitata. Non esiste un metro campione di tale libertà, al di fuori della dialettica storica che vede concrete battaglie per salvaguardare tale libertà da minacce di diversa natura. Non ha senso considerare gli attentatori di Parigi come dei puri prodotti della propaganda jihadista internazionale, come se essi non fossero stati dei cittadini “occidentali”, ossia dei francesi nati e vissuti in Francia, e quindi ampiamente impregnati di esperienze fatte in seno alla società francese.

Vorrei, per concludere, aggiungere un paio di considerazioni. La prima riguarda nuovamente l’idea mediaticamente e politicamente prediletta dello scontro di civiltà o di culture. Ora, mi sembra che già da un punto di vista teorico una tale idea sia una completa assurdità. Per avere uno “scontro fra civiltà” bisognerebbe innanzitutto che esistessero due entità sufficientemente omogenee e discrete in grado di opporsi. Dubito che queste “entità” esistano. Qualcuno ha un’idea chiara di cosa sia la civiltà occidentale? E soprattutto questa civiltà occidentale ha una personalità semplice, dai confini precisi e una volontà univoca, a cui potremmo opporre un’altra personalità altrettanto semplice e precisa, dalla volontà anch’essa univoca? E quale sarebbe quest’altra civiltà? Quella araba? O quella musulmana? O quella frutto del mosaico stratificato di culture, regimi politici, identità nazionali, che si snodano dal Maghreb al Mashrek e che hanno intricatissime storie locali, nazionali e internazionali? Uno dei presupposti principali che dovremmo ormai accettare, all’alba del XXI secolo, quando parliamo di civiltà, è che ogni civiltà porta con sé elementi di progresso umano e di barbarie. E che ogni visione manichea, da questo punto di vista, è già un partito preso verso la barbarie.

La seconda considerazione riguarda la giovane età dei jihadisti, e indico con questo termine coloro che, da varie parti del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’Africa all’Asia, cercano di raggiungere la Siria o l’Iraq o qualsiasi altro luogo dove sembra svolgersi la battaglia campale tra i santi valori dell’Islam e le forze della corruzione e del male, siano esse rappresentate da un regime arabo considerato illegittimo o da forze militari e politiche occidentali o filooccidentali. Durante tutte le guerre, ma anche tutte le rivoluzioni, alcune delle cose più straordinarie e generose e molte delle cose più terribili e disumane sono state fatte da ventenni o sono state fatte fare a dei ventenni. Da europei celebriamo ogni giorno con orgoglio la nostra condizione di cittadini di paesi che vivono in pace, che non conoscono la guerra a casa loro. Bisognerà, però, interrogarsi su questo numero, minoritario certo, ma significativo, di giovani e giovanissimi europei pronti a partecipare ad una guerra, a sacrificare le loro vite, e a distruggerne delle altre. Anche in questo caso non ci sono risposte semplici, ma le caratteristiche del Corano non sono di certo sufficienti, ancora una volta, per spiegare questi comportamenti. Nel suo articolo su Le Monde diplomatique di aprile, Pour en finir (vraiment) avec le terrorisme, Alain Gresh cita uno specialista statunitense dell’islam ed ex funzionario della CIA, Graham Fuller. Quest’ultimo scrive: “Anche se non ci fosse una religione chiamata islam o un profeta chiamato Maometto, lo stato delle relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente oggi sarebbe più o meno identico. Ciò può sembrare controintuitivo, ma mette in luce un punto essenziale: esiste almeno una dozzina di buone ragioni per le quali le relazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente siano cattive (…): le crociate (…), l’imperialismo, il colonialismo, il controllo occidentale delle risorse energetiche del Medio Oriente, la promozione di dittature pro-occidentali, gli interventi politici e militari occidentali senza fine, le frontiere ridisegnate, la creazione da parte dell’Occidente dello Stato d’Israele, le invasioni e le guerre americane, le politiche americane (…) riguardanti la questione palestinese, ecc. Nulla di tutto ciò ha alcun rapporto con l’Islam. ” Il fatto che le molteplici ragioni di conflitto tra Medio Oriente e Occidente, pur avendo carattere sociale, economico e politico, siano formulate prevalentemente in termini culturali e religiosi, non ci deve esimere dal compito di identificare lucidamente le cause principali di questo conflitto e di considerare la responsabilità dei dirigenti occidentali, quelli statunitensi in testa, nel perpetrarsi di tale situazione.

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[I testi di Alain Badiou (la traduzione italiana), Andrea Inglese (Note su “Io sono Charlie” e il suo contraltare), Enrico Donaggio, Franco Buffoni, Youssef Rakha, Davide Gallo Lassere sono apparsi sul sito di alfabeta2 nello speciale Toujours Charlie? a cura di Andrea Inglese (impaginazione web Nicolas Martino) il 7 febbraio 2015. Tutti gli altri testi, presentati in ordine cronologico, sono apparsi su Nazione Indiana tra l’8 gennaio e il 27 febbraio 2015.]

Tra gli ingranaggi e gli specchi di Vila-Matas

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di Giovanni Dozzini

Vila-Matas

Enrique Vila-Matas poteva scrivere questo libro in un altro momento della sua vita, uno qualsiasi, purché fosse diverso da quello in cui l’ha scritto, e cioè un paio d’anni fa, il tempo sufficiente perché la sua casa editrice italiana, Feltrinelli, lo pubblicasse proprio adesso, proprio in questi giorni. Mi avrebbe risparmiato un bel po’ di ansia, Vila-Matas, perché la storia che racconta in Kassel non invita alla logica (traduzione di Elena Liverani), almeno nelle sue parti meno profonde e speculative, somiglia non poco alla storia che potrebbe raccontare dopo il suo ritorno da Perugia, dove tra oggi e domani parteciperà alla seconda edizione del festival letterario che contribuisco a organizzare con tanto entusiasmo e tanta fatica. Questo libro, che per inciso a mio avviso è un libro splendido, racconta la storia di uno scrittore, e cioè di Vila-Matas, invitato a trascorrere alcuni giorni all’edizione 2012 di Documenta, manifestazione dedicata all’arte contemporanea che si svolge nella città tedesca di Kassel: racconta i dubbi e le idiosincrasie, gli imbarazzi e il rimuginare che spesso contraddistinguono esperienze del genere: un ospite illustre e la gente che si dovrà occupare del suo soggiorno per conto del festival, o della fiera, o di quel che sia.

Ora, Encuentro non è Documenta, noi abbiamo radunato una decina di scrittori, qualche studioso e un fotografo, là si tratta di nuove frontiere dell’arte, tutta un’altra cosa, per carità. E infatti l’ho detto, il guaio è entrare nella testa di un uomo che a momenti potrà pensare di te e dei tuoi compagni qualcosa di simile a ciò che ha pensato dei tizi di Documenta, anche se noialtri siamo gente molto meno concettuale, va da sé, forse pure più modesta, e di sicuro più cerimoniosa e attenta a mettere i nostri amici a proprio agio. Per cui in fondo non c’è niente di male, nel fatto che Enrique Vila-Matas abbia scritto proprio adesso, ovvero proprio un paio di anni fa, il libro di cui parlerà questa sera a Perugia, e in esclusiva italiana, perché domenica già se ne ritorna a Barcellona, e della faccenda, ci perdonerete, tendiamo a voler farcene un vanto. Niente di male: uno dei soliti scherzi del destino, di quelli che piacciono tanto a lui, e un po’ a tutti, diciamo la verità, le coincidenze piacciono a tutti anche se pochi riescono a giocarci come ci riesce Vila-Matas, con tutto il suo bagaglio di incastri e intrecci e ricami letterari.

E comunque, parlare di un libro come Kassel non invita alla logica è un’impresa pressoché impossibile. Naturalmente so che non potete fidarvi di quel semplice aggettivo (“splendido”), io sono solo uno come gli altri, e le parole che scelgo le scelgo arbitrariamente, come gli altri, e per di più ho anche un’urticante allergia all’Accademia e all’idea che in letteratura esistano più regole di quelle che potrebbe intuire un bambino di tre o quattro anni. Per cui no, non vi fiderete, ed è giusto così. Allora argomento un po’, ma divagando.

Di una cosa sono sicuro: Kassel appartiene al genere di letteratura per cui Enrique Vila-Matas è probabilmente più conosciuto, e che bene o male ci siamo abituati a definire meta-letteratura, costruita come un grande meccanismo disseminato di ingranaggi e specchi e spifferi che funziona più per convinzione che per esattezza. Non è un romanzo, ma allo stesso tempo lo è, non tanto perché potrebbe essere tutto finto quanto perché è dotato di una forza narrativa evidente, un magnetismo che ti porta a chiederti cosa succederà poi, e come andrà a finire – se qualcuno dovesse propormi di buttar giù una definizione di romanzo forse, almeno in questo istante, sarebbe questa.

Io non ho gli elementi per sapere che Vila-Matas abbia effettivamente partecipato a Documenta 13, nel settembre 2012, e pur bastandomi fare qualche ricerca su Google eviterò di sincerarmene, dato che non conta affatto. La descrizione di Kassel e di molte delle opere d’arte messe in rassegna è d’altro canto così precisa e dettagliata che il problema sembrerebbe non porsi neppure. In ogni caso il viaggio del protagonista, scrittore catalano euforico al mattino e depresso all’approssimarsi del buio, va dritto al centro dell’idea di arte contemporanea, ed è un viaggio verniano, tra trabocchetti e scorciatoie e rischi d’ogni sorta, e la percezione fortissima di poter arrivare davvero da qualche parte di incredibile e sbalorditivo, in un modo o nell’altro, anche contro le leggi della scienza, se necessario.

Vila-Matas si interroga sullo stato di salute dell’arte contemporanea, richiama altra arte e altri frammenti della propria vita – la giovinezza, l’avanguardia, i vecchi sodali, l’ossessione per la novità. Si pone anche interrogativi esplicitamente politici, storici, sullo stato di salute dell’Europa, della Germania, della Spagna, e si concede una stilettata, che peraltro ovviamente mette nella bocca del protagonista alter-ego, agli scrittori spagnoli di oggi, per cui è così difficile «concepire l’arte senza un messaggio, accettare una letteratura senza un tocco necessariamente umanista in versione comunista». Un genere di letteratura che, per quel che importi, a me peraltro piace e interessa moltissimo, così come mi piace e mi interessa quel genere di letteratura che pratica Vila-Matas, se è praticata bene come la pratica lui.

Il privilegio del lettore dopotutto è non dover scegliere, e lo sa benissimo anche Enrique Vila-Matas, che alle peregrinazioni reali o sognate o immaginate del suo avatar tre le vie e i boschi di Kassel assegna una funzione quasi catartica quanto illusoria, come si illude chi crede di esser sfiorato da un alito secco e freddo in un vicolo buio o in un’installazione esasperata, come – non è vero? – lo sono tutte le installazioni. Nel vortice di libri – Walser, Sebald, Bellow, Kundera – e di cinema e di pittura e di musica in cui si ritrova il protagonista di Kassel non invita alla logica c’è una riflessione accurata e incerta sulla vita e sull’arte, e alla fine il discorso sembra ricadere sempre lì, dove batteva forte Pirandello cent’anni fa: l’una, l’altra, o entrambe le cose? E ancora, quando cala la sera, chi è veramente così sciocco da non sentire il peso dell’inevitabilità, davanti a sé, e da non capire che l’arte in fondo è capacità di boicottare la ragione, di non invitare alla logica, e suggerire altri mondi e altri capolinea impossibili allo scorrere delle esistenze?

Qui. Salotti, storie e un graphic novel

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di Ornella Tajani

Alcuni anni fa sono andata a visitare la casa di Balzac a Parigi, nel XVI arrondissement. Ci sono andata da sola, mossa da un desiderio appena tiepido, come per una cosa che si deve fare, perché in realtà spesso mi annoio tremendamente in queste case-museo in cui tutto mi sembra così cristallizzato nel tempo da apparire quasi finto. Una casa-museo è una contraddizione in termini, perché priva di ciò che rende un luogo una casa, e io proprio non riesco a emozionarmi per «la tazzina in cui nel 1941 ha bevuto il caffé Benedetto Croce», come tuonava Silvio Orlando contro i malcapitati turisti nel film Il portaborse.

Mentre gironzolavo per le stanze della maison Balzac, quindi, non mi stavo emozionando neanche per la caffettiera in porcellana con le iniziali HB; curiosavo più che altro fra la bellissima galleria dei personaggi della Comédie Humaine e il Fonds Gautier, perché all’epoca progettavo di scrivere qualcosa su Gautier che poi sicuramente non ho scritto, e aspettavo di finire la visita per passare in giardino a fumare, sedendomi magari sulla stessa panchina sulla quale Balzac fumava la pipa. A un certo punto ho notato l’orologio sul camino del salotto: le cinque e un quarto. Sarebbe stato bello immaginare che fosse fermo dalle cinque e un quarto di un pomeriggio del 1847, ultimo anno in cui Balzac aveva vissuto in quella casa, un pomeriggio in cui, mentre lavorava alla scrivania, lo scrittore aveva alzato gli occhi sentendo cessare di colpo il ticchettio delle lancette. Oppure, più rocambolescamente, l’orologio si era rotto cadendo, Balzac l’aveva urtato mentre provava a mettersi in salvo da qualche creditore (era il motivo per il quale aveva scelto proprio quella casa, che presentava il vantaggio di avere due entrate).

Sarebbe stato bello, ma l’orologio non era fermo. Funzionava: in quel momento, mentre io visitavo la maison Balzac, erano davvero le cinque e un quarto. Lo stesso orologio che aveva scandito le sue ore stava adesso segnando il mio tempo.

maison cubes

Questo dettaglio piuttosto banale mi piacque moltissimo, perché era riuscito ad animare il luogo, a farmelo sentire come una vera casa e a collegare cronologicamente il 1847 al XXI secolo. Io non ho buon rapporto con la storia, ma ho un buonissimo rapporto con i luoghi. A scuola, in geografia avevo ottimi voti, in storia riuscivo a racimolare sufficienze con complicate strategie da baro. Per sentire la storia, devo quindi passare quasi sempre per i luoghi, ricreandomi una specie di geografia diacronica.

C’è un bellissimo corto d’animazione di Kunio Katō, dal titolo La maison en petits cubes, che forse si presta a rendere quello che intendo. Il corto inizia mostrando un anziano protagonista che fuma la pipa, da solo, nel suo appartamento dalle pareti ricoperte di ritratti fotografici. Dopo poco l’inquadratura si allarga su una città in gran parte sommersa dall’acqua: dalla superficie spuntano soltanto gli ultimi piani dei palazzi. Il livello dell’acqua sale costantemente; il vecchio, ogni volta che si ritrova con i piedi a bagno, costruisce un nuovo piano sopra la casa nella quale ha vissuto sino ad allora e vi si trasferisce. I vari piani dell’edificio, che sono quindi tutti suoi ex appartamenti, sono collegati tra loro da una botola al centro del pavimento nella quale lui, occasionalmente, pesca il pesce da mangiare a pranzo.

Un giorno gli cade la pipa che, di botola in botola, finisce per posarsi al piano terra, sul fondo dell’acqua. Il vecchio decide di recuperarla: acquista un’attrezzatura da sub e si immerge. Ciò che lo aspetta è naturalmente un viaggio nel passato, di casa in casa: quella in cui viveva quando la moglie era ancora in vita, più giù la casa in cui è nata la figlia, poi la stanza in cui ha chiesto la mano della sua fidanzata e via dicendo. Tutti appartamenti identici, costruiti uno sull’altro, nei quali è contenuta l’esistenza del protagonista. La storia dentro le case e attraverso le case.

Ho ripensato a questo corto ieri, quando ho letto il graphic novel Qui, che parla, ancora una volta, di case e di storia e la cui lettura è un’esperienza molto simile a un viaggio nella macchina del tempo.

McGuire_Here_1915

Ho parlato di case al plurale ma Qui, scritto da Richard McGuire, è ambientato in un’unica casa. Il libro, edito ad aprile da Rizzoli Lizard (trad. it. di Steve Piccolo), è la rivisitazione e l’ampliamento di un’idea concentrata in una striscia che McGuire pubblicò nel 1989 su Raw, storica rivista americana dedicata al fumetto.

Qui inizia nel 1957, anno di nascita dell’autore, e apre il sipario su un salotto: poltrone, tavolo, carta da parati. In alto a sinistra è segnato l’anno in cui ci troviamo, così come, nell’angolo di ognuno dei riquadri che McGuire “ritaglia” all’interno della stanza, è segnato l’anno di riferimento. In una stessa immagine, dunque, succede di trovarsi simultaneamente nel 1970, davanti a una ragazza che legge distesa sul tappeto, e nel 10000 avanti Cristo, dove sullo stesso tappeto riposava un mammut, naturalmente millenni prima che quella casa venisse costruita. Oppure si assiste al pic nic di due aristocratici nel 1870, quando al posto delle pareti c’era ancora un bosco, ma in un rettangolo a sinistra un gruppo di amici gioca a Twister nel 1964. Nel 1984 una ragazza chiede all’amica che sta facendo esercizi ginnici davanti al camino: «Che mi racconti del palazzo di fronte?» e l’altra risponde sciattamente: «Benjamin Franklin viveva lì, o forse ha piantato un ciliegio in giardino. Qualcosa del genere»; dopo poche pagine, superfluo dirlo, siamo nel 1775, al cospetto di Benjamin Franklin che attende l’arrivo del figlio. Quale che sia l’anno in corso, la scena si svolge nello stesso rettangolo di spazio dove nel 1907 è stata costruita la casa che vediamo in quasi tutti i disegni: assistiamo anche alla costruzione delle sue fondamenta e del camino.

«Here è una storia possibile solo a fumetti», ha scritto Marco Apostoli Cappello in una dettagliata recensione che suggerisco ai cultori del genere. È vero che una tale efficacia nella narrazione simultanea di frammenti di storie lontanissime fra loro risulta difficile da restituire in un testo scritto non accompagnato da immagini; ma naturalmente la letteratura ha i suoi prodigi. Woolf cristallizza in poche parole scarti temporali di millenni: quando Mrs Dalloway cammina per le strade di Londra immaginando il nulla che vi regnerà di lì a qualche secolo, ad esempio; o quando in Gli Anni (recentemente ritradotto) Sara pensa ai paleontologi che un giorno rovisteranno disgustati nel salottino di casa. Joyce arriva a descrivere tutto quel che è contenuto in un istante di esistenza: ciò che un personaggio pensa, dice, fa e contemporaneamente tutto ciò che sta accadendo intorno a lui. La narrativa riesce magnificamente a sovrapporre i piani: si pensi anche, con un salto alla fine del secolo, alla scena in Underworld di DeLillo in cui J.E. Hoover guarda la partita di baseball allo stadio e all’interno del proprio quadro visivo vede i dettagli di una scena medioevale come quella del Trionfo della morte di Bruegel (di cui parlo diffusamente qui). Tutti esempi che potrebbero rientrare in quel che R.L. Stevenson definiva, in un suo saggio sul romance, «the plastic part of literature», quella parte in cui ogni cosa ne richiama un’altra («Everything is connected», sempre DeLillo) e in cui «There is a fitness in events and places».

Allora forse quel che c’è di veramente peculiare in questo graphic novel sta nell’atto di lettura. Che non sia più l’autore a decidere in quale ordine somministrarci le varie fasi storiche che riempiono uno stesso spazio, bensì il lettore a stabilire su quale frammento di tempo far rimbalzare l’occhio all’interno della pagina, non è certo una novità narrativa. A questo però si aggiunge il fatto che, mediante l’utilizzo dell’immagine, la narrazione è servita come su un vassoio: si può scegliere di iniziare da un episodio del passato o da un riquadro del futuro, ma la storia è tutta contemporaneamente davanti agli occhi del lettore, dilatata in maniera vertiginosa in entrambi i sensi cronologici. Era questa la «nuova dimensione per la narrativa illustrata» che, come ha scritto Chris Ware in una recensione sul The Guardian, McGuire ha aperto nell’89; e, se il suo libro resta ancora oggi sorprendente, io credo che sia anche perché l’autore ha saputo legare così radicalmente la storia a uno spazio ben circoscritto. All’interno dello stesso contenitore, il fluire degli anni risulta incessante, vorticoso e il lettore lo percepisce in maniera quasi epidermica.

McGuire restituisce il sentimento del tempo senza legarlo a nessuna memoria individuale: in Qui non c’è un protagonista e non c’è neanche una conclusione. Strategicamente, il libro non si ferma al 2015, e dunque a un presente prossimo a scadere, ma al 1957, chiudendo il cerchio ma in realtà facendolo esplodere: nelle trecento pagine del volume il lettore ha viaggiato nel passato, in un futuro prossimo che plausibilmente conoscerà e in futuro remoto cui non assisterà, ad esempio quello in cui si faranno visite guidate attraverso proiezioni istantanee ottenute digitando direttamente nell’aria, senza supporti tecnologici.

Nelle pagine finali, dopo decine di vite raccontate in frammenti, un televisore del ’72 manda in onda il film Casablanca: Dooley Wilson, che interpreta il pianista Sam, sta cantando «It’s still the same old story, a fight for love and glory». Sarebbe stata una bella conclusione per questo romanzo sul tempo e sulle storie, su un luogo che li contiene come per una sorta di singolare metonimia. McGuire opta invece per un vero e proprio sigillo, un po’ didascalico, ma di certo perdonabile: nell’ultimo disegno una donna prende un libro posato sul tavolino e dice «Ora mi ricordo».

Non era un problema di artigianato

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ilbevitoredecurtisgrand di Gherardo Bortolotti / Raosdrome from Ibiza Chillout Soul Remix

Qui l’originale.

Mi trovavo spesso a dichiarare che la letteratura, comunque, non era un problema di artigianato, di maestria tecnica o di stile. E, per come intendevo io la letteratura, questa era un’affermazione ovvia.

La metafora artigiana, tuttavia, era un modo di interpretare la letteratura ancora molto forte. Le ragioni erano varie. Da una parte c’era il fatto che una rappresentazione di questo tipo sottolineava l’investimento in sapere tecnico che la letteratura, per come la conoscevamo, aveva comportato e che ne aveva giustificato, in vari termini, la specificità ed i meccanismi di selezione e di attribuzione di ruolo a cui, come sapere appunto, aveva dato luogo. Da un’altra parte ancora, nella pratica quotidiana, non si poteva non riconoscere che lo scrivere letterario prevedeva tutta una serie di operazioni “manuali”, di limatura, scelta, messa in opera etc. (escludendo, per esempio, la sua continua rigenerazione in seno alla lettura – per non parlare della sua eventuale natura meramente orale) che venivano convenientemente rispecchiate nell’immagine artigiana. Una riduzione che privilegiava la parte “visibile” del testo e che contribuiva a collocare la letteratura nello schema più generale di produzione/consumo in cui praticamente ogni nostra esperienza, ai tempi del capitalismo, veniva inquadrata.

Tra i bicchieri del Boccaccio. L’invenzione borghese del vino di qualità

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di Giovanni Palmieri

Nel giugno del 1300 papa Bonifacio VIII invia a Firenze un’ambasceria guidata dal cardinale Matteo d’Acquasparta con lo scopo ufficiale di pacificare le fazioni rivali dei Bianchi (Cerchi) e dei Neri (Donati), i cui esponenti di spicco saranno di lì a poco esiliati. Tra questi, com’è noto, vi sarà anche Guido Cavalcanti. L’ambasceria aveva in realtà il vero scopo di favorire occultamente la fazione dei Neri, cercando una strada per l’annessione di tutta la Tuscia al Patrimonio di San Pietro, grazie anche a sapienti maneggi imperiali e ad alleanze economico-politiche in Firenze.[1]

Gli ambasciatori sono ospitati da messer Geri Spina, uno dei capi neri. Ruggero Spini[2] (? – morto già nel 1332), legato da lontana parentela coi Caetani, fu un nobile cavaliere fiorentino nonché ricchissimo banchiere al servizio di Bonifacio VIII. Che caso!

Un anno dopo (nell’ottobre del 1301) Dante partirà per Roma, per sondare i veri scopi dell’ultima missione del papa: quella militare di Carlo di Valois, il “paciaro”… Non tornerà più e nel 1302 sarà condannato all’esilio perpetuo e al rogo qualora fosse capitato tra le mani del governo cittadino ormai guidato dai Neri.

Questo l’importantissmo contesto storico della nostra novella intenzionalmente accennato dal Boccaccio per pochi tratti al solito eufemistici, sornioni e del tutto complici col lettore del tempo che (a circa sessant’anni di distanza) doveva certo conoscere la storia politica di Firenze in tutta la sua drammaticità.

 

   Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva.[3]

 

Su questo scenario storico, dovremmo tornare… Per ora mi limito a dire che Palazzo Spini (1289), un vero fortino blindato, si trovava e si trova a Firenze all’imbocco di via Tornabuoni presso il ponte di Santa Trìnita. Nel 1300 un “Cisti fornaio” (Bencivenisti) figurava tra gli elenchi dei confratelli della chiesa di Santa Maria Ughi.

Cisti è un fornaio diventato ricchissimo che vive splendidamente bevendo sempre “i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado”.[4] Un giorno ha l’idea di offrire “un suo buon vino bianco”[5] a Geri Spina e al suo seguito. Perché? Il testo non lo dice ma lo lascia intuire…

Non potendo per questioni di casta invitare direttamente alla degustazione Geri e gli ambasciatori, organizza una suggestiva operazione promozionale che nasconde una precisa strategia di marketing di lungo periodo. Nei pressi della sua bottega, dove passavano tutti i giorni i dignitari della legazione papale, davanti al suo uscio, fa portare un secchio d’acqua freschissima, delle belle panche, dei bicchieri di peltro lucidato (e non di terracotta) che parevano d’argento e “un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vino bianco”.[6] Messosi poi a sedere in vista di Geri Spina e del suo seguito, dopo essersi spurgato la bocca rumorosamente, vestito con un bellissimo farsetto bianco e con un grembuilino di bucato, Cisti comincia a bere il suo vino sì ch’egli “ne avrebbe fatto venir voglia a’ morti”.[7]

La scena si ripete sino a quando, il terzo giorno, Geri non resiste e chiede  a Cisti se il vino è buono e questi glielo offre. Trovatolo ottimo, l’illustre bevitore lo raccomanda ai suoi ospiti ma quando i servi fanno per lavare i bicchieri, il nostro fornaio interviene dicendo che solo a lui tocca la mescita e che essi non devono sperare di poter assaggiare il suo vino… Come a dire che il vino in questione non è un “vino da famiglia” ma un vino d’élite.

Dopo di che, lavati quattro bicchieri, Cisti dà da bere a Geri e ai suoi compagni. Il vino avendo avuto gran successo, la bevuta si ripete quasi ogni mattina.

Un bel giorno, finita la missione, Geri fa invitare Cisti al suo magnifico convito di commiato. Avendo quest’ultimo rifiutato, il signorotto nero chiede a un suo servo di andare dal fornaio per chiedere del suo vino nella misura di un solo fiasco e in ragione di un “mezzo bicchiere per uomo alle prime mense”.[8] Il servo, invece, va da Cisti con un “gran fiasco” forse “sdegnato” – come precisa il testo – “perché niuna volta bere aveva potuto del vino”.[9] A questo punto Cisti si rifiuta di dare la sua merce affermando che non poteva certo essere messer Geri il mandante d’una tale richiesta. Riferito ciò a quest’ultimo, il servo torna da Cisti con le istruzioni del suo padrone il quale gli ha detto che se il fornaio avesse ancora affermato che non era Geri a mandarlo a lui gli domandasse a chi lo mandava… Tornato da Cisti, il servo si vede nuovamente rifiutata la richiesta con la spiegazione ironica che evidentemente Geri non mandava il suo servo a lui ma al fiume Arno.

A questo punto, fattosi mostrare dal famiglio il grande fiasco da questi scelto, Geri capisce… e affida al servo un fiasco di misura “convenevole”.[10] Solo allora Cisti lo riempie di vino e lo stesso giorno si reca al palazzo di Geri. Dice infatti il testo in sede conclusiva:

 

   E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:

– Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.

Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico.[11]

 

Considerazioni decisive

 

Diventato ricchissimo, Cisti, che continua a fare il fornaio e non diventa certo vignaiolo, decide di investire il suo capitale in un mercato che ancora non esisteva ma che cominciava ad avere una sua ragion d’essere: quello del mercante di vini e in particolare di vini di pregio che potevano provenire anche da posti lontani dalla città in cui sarebbero stati venduti.

Che Cisti si proponga a Geri Spina come mercante di vino è un dato oggettivo dato che, alla fine della novella, egli si premura di dire al suo futuro cliente che se non aveva riempito il grande fiasco non era certo perché si era spaventato per la quantità… Come a dire che lui di vino ne aveva eccome… E infatti gli porta in regalo un’intera botticella d’un altro suo vino “simile” a quello già offerto… Ed è significativo, dal nostro punto di vista, che si tratti d’un altro vino anche se, supponiamo, sempre di grande qualità.

Lo spazio commerciale specifico del mercante di vini non esisteva ancora. Non contando i doni occasionali, anche i magnati ricorrevano, infatti, o al proprio vino o a quello del monastero vicino o a quello dozzinale delle vigne di città. Insomma dal produttore al consumatore ma con tutti i vincoli e i limiti del mondo medioevale.

Grazie dunque ad una sapiente strategia di marketing, fatta di spettacolini promozionali e di riti enologici adeguati (bicchieri puliti, orcioletti nuovi di fabbricazione bolognese, mescita ecc.), Cisti propone se stesso come mercante di vini di pregio, come intermediario cioè d’una merce difficilmente raggiungibile anche dai potenti. E vince!

Vince perché c’è da supporre che dopo le varie promozioni gratuite, dopo i vari doni, la prossima volta che Geri chiederà del vino all’ “amico” Cisti lo pagherà, e lo pagherà molto salato. Insomma dietro al valore simbolico del dono, tipico dell’ideologia feudale, si sta prepotentemente affacciando nella società trecentesca il valore economico dello scambio tipico dell’ideologia moderna. I doni nascondono e preparano gli scambi.

È inutile che dica che il target di tale commercio è quello dei magnati o del populus grassus, cioè un target alto, perché ciò risulta evidente considerando le persone che Cisti sceglie per la sua efficace dimostrazione promozionale.

   È questa l’invenzione borghese del vino di qualità in contrapposizione al “vino da famiglia”(cioè per la servitù), che poi sarebbe il nostro vino da pasto. Una contrapposizione esplicitamente segnalata per ben tre volte proprio dal testo. Inoltre – come dice giustamente Savelli[12] – il vino di Cisti non è più quello, tipico in Boccaccio, della festa popolare, del Carnevale o della Cuccagna… Non è più il vino col quale ubriacare gli altri e ubriacarsi per divertimento. È un vino da intenditori, da gente che sa sorseggiare orazianamente. È un vino, insomma, in cui la qualità deve prevalere sulla quantità.

Ma c’è di più. C’è sempre di più in Boccaccio: il mercante, il futuro mercante, anche se è diventato ricchissimo, rispetta ancora le forme di reverenza nei confronti dei nobili magnati, ma morde il freno e, con l’arma arguta dell’ironia, comincia a rifiutare la mediazione dei servi, imponendo di fatto trattative e rapporti diretti tra lui e il compratore. Cisti non accetta infatti l’invito al convito di Geri soltanto perché questi non lo invita direttamente ma lo fa invitare dai servi (“fecevi invitare”,[13] non lo “invitò”).

Insomma, il borghese, arricchitosi, non solo vuole contare di più nella rappresentanza politica (cosa che gli riesce già), ma vuole anche essere socialmente riconosciuto. Cosa che ancora non gli riesce. È vero che i Bianchi sono l’espressione politica degli interessi dei nascenti borghesi, gelosissimi politicamente delle autonomie comunali e avversi al potere temporale della Chiesa… Ma lo sono ancora in prospettiva e gli interessi economici della nuova classe rimangono subordinati ai valori culturali della vecchia nobiltà feudale. Cisti, che politico non è né vuole essere, desidera innanzitutto essere socialmente riconosciuto da gente come Geri Spina… gente da cui è invidiato per la ricchezza ma disprezzato per lo status.

E Boccaccio, per bocca di Pampinea, ce lo dice affermando nella moraluzza introduttiva che spesso nelle arti e nei mestieri, reputati “più vili”, si nascondono “le cose più care”.[14] Sotto al velame di questa ennesima esaltazione dei valori della nobilitas animi in opposizione a quelli della nobilitas generi si trova proprio il discorso politico del riconoscimento sociale. Del resto, la diffusissima e stucchevole rivalutazione della nobilitas animi serve solo, a parer mio, a celare il vero problema che è il riconoscimento sociale e politico delle classi non nobiliari che sono in ascesa. Non quello di una loro generica rivalutazione letteraria e morale.

 

Dobbiamo ora tornare per un attimo al contesto storico della missione del cardinale Matteo d’Acquasparta: Boccaccio accenna, come s’è detto, ma suggerisce anche qualcosa. Qualcosa che non deve sfuggire al lettore attento. Scrive infatti ad un certo punto che Geri Spina cede alle lusinghe bacchiche ordite da Cisti o perché vinto dalla “qualità del tempo” (cioè dal caldo) o perché il “saporito bere” di Cisti aveva ingenerato in lui per suggestione la sete. Oppure perché (badate bene) Geri “affanno più che l’usato [aveva] avuto”.[15] Già… Come andava infatti la missione di Bonifacio VIII? Andava male… molto male. La nostra fonte è al solito Dino Compagni.[16]

Il legato pontificio arriva in città ai primissimi di giugno, dopo gli scontri di Calendimaggio nei quali i Neri avevano attaccato e ferito i Bianchi. Tra gli assalitori v’era anche il figlio di Geri Spina. Qualche mese prima i Priori avevano condannato alcuni banchieri neri, accusandoli di tramare contro gli interessi del comune. Tra questi figurava anche Simone Gherardi del banco Spini. La cosa aveva fatto infuriare Bonifacio che inutilmente aveva chiesto la revoca della condanna.

I Priori bianchi del governo cittadino, giustamente sospettosi, non conferiscono al legato pontificio alcuna delega per prendere decisioni operative. Il 23 giugno, però, alla vigilia di San Giovanni scoppiano violenti tumulti, a seguito dei quali i Priori decidono di inviare al confino i capi più facinorosi delle fazioni. Tra questi per parte nera vi era anche Geri Spini che come i suoi non si recò al confino. Forse anche da qui il suo affanno…

Giova a questo punto ricordare che Boccaccio[17] aveva commentato il canto VI dell’Inferno dove si trova la famosa profezia di Ciacco (vv. 64-66): “Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la parte selvaggia/ caccerà l’altra con molta offensione”. Con “verranno al sangue” Dante si riferisce agli scontri armati tra Bianchi e Neri cominciati presso la Chiesa di Santa Trìnita a Calendimaggio del 1300; scontri nei quali Ricoverino de’ Cerchi ebbe a spregio il naso tagliato dai Neri, pare proprio dal figlio di Geri Spina durante una scorribanda a cavallo. Altri scontri armati poi avverranno il 23 giugno durante la festa di San Giovanni. Quanto alla “cacciata” dei soli Neri da parte dei Bianchi (“la parte selvaggia”), Dante si riferisce al giugno del 1301 quando i Bianchi, avendo scoperto l’ennesima congiura dei Neri contro i Cerchi e i loro seguaci, bandiranno i Neri più faziosi dalla città; tra questi Corso Donati, Geri Spini, Pazzino de’ Pazzi, e Rosso della Tosa.

Proprio in seguito agli scontri di San Giovanni, il 27 giugno, Matteo ottiene dal Consiglio dei Cento la “balìa” con poteri però depotenziati. Ogni “atto” da lui deciso doveva ricevere infatti l’approvazione del Consiglio. Seccante….

Non ottiene successo neanche il suo tentativo di imporre una legge elettorale che avrebbe favorito l’ingresso al governo dei Neri.

Ormai la missione di Matteo d’Acquasparta, che ha scontentato tutti, è fallita. In queste circostanze, tra il 15 e il 18 luglio, un popolano con poco cervello scaglia una freccia di balestra contro la finestra del Palazzo vescovile dove risiedeva il legato pontificio. I priori cercano di sopire le ire del cardinale, offrendogli una coppa d’argento ripiena di duemila fiorini d’oro, ma Matteo rifiuta.

Scrive velenosamente Dino Compagni da testimone diretto e riferendosi al cardinale: “I Signori, per rimediare allo sdegno che  avea ricevuto, gli presentarono fiorini nuovi. E io gliel portai in una coppa d’ariento e dissi: ‘Messere, non li dísdegnate perché siano pochi, perché sanza i Consigli palesi non si può dare più moneta’. Rispose gli avea cari; e molto li guardò, e non li volle” (Cronica, I, XXI).

La reazione di Bonifacio è furiosa: egli ordina in pratica al suo delegato l’arresto di tutti i reggitori del comune con ogni mezzo possibile. Matteo si appella allora a Lucchesi, ostili a Firenze, cercando di ottenere milizie armate… I Priori, tra cui Dante, reagiscono chiamando in soccorso Bologna e si assicurano l’appoggio di Pistoia. Scongiurato lo scontro armato, l’iniziativa del cardinale non va in porto ed egli lascia la città tra il 28 e il 29 di settembre, non senza aver prima lanciato la scomunica su Firenze e “l’interdetto”.[18]

Alla scomunica, Bonifacio aggiunse inoltre la confisca dei beni di tutti i reggitori del comune. Va infine ricordato che, con ogni probabilità, l’attentato a Matteo d’Acquasparta, come anche i tumulti precedenti, furono organizzati ad arte solo per dare il pretesto a Bonifacio VIII di colpire ancora una volta i Bianchi.

 

Quale vino bianco?

 

Boccaccio non lo dice intenzionalmente ma si possono comunque fare delle ipotesi. Certamente un bianco secco, vista la stagione e il fatto che nel testo si fa espressamente riferimento alla sete. Ma quale tipo di bianco?

Nella seconda  novella della decima giornata del Decameron, Ghino di Tacco, come medicamento per il mal di stomaco, serve all’abate di Cluny “un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia”[19] (nelle Cinque Terre).

Anche nella celebre novella di Calandrino e l’elitropia (terza dell’ottava giornata), Maso, descrivendo il paese del Bengodi, afferma che “ ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”.[20]  La “vernaccia” è citata infine anche nella sesta novella dell’ottava giornata.[21]

Questo vino, d’ascendenza ligure ma tanto celebre da essere diventato sinomimo d’un qualsiasi bianco, era del resto già stato ricordato da Dante (Pg, XXIV, 24) e sarà poi menzionato anche da Cecco Angiolieri, da Folgòre da San Giminiano, dal Buonarroti, dal Redi ecc.

Che la provenienza ligure della Vernaccia fosse conosciuta è testimoniato anche da Salimbene da Parma (1221-1288) nella sua Chronica, dove infatti possiamo leggere che “vinum de Vernacia […] nascitur in quadam contrata quae Vernatia appellatur” (‘il vino Vernaccia nasce in quel territorio ch’è chiamato Vernazza’).[22] Anche il Buti, l’importante glossatore di Dante Francesco di Bartolo da Buti (ca. 1324-1406), nel suo commento alla Commedia asserisce che la “Vernaccia è vino che nasce ne la riviera di Genova, millior vino bianco che si trovi”.[23] Negli Ordinamenti della Gabella del Comune di San Gimignano del XIII secolo, si trova l’imposizione di una tassa di “tre soldi” per ogni “soma” di Vernaccia fuori Comune e l’istituzione di un registro dei Provveditori comunali di quel vino, che dovevano sovraintendere alle gabelle e alla selezione delle migliori Vernacce.[24] Quindi almeno fin dal Duecento la Vernaccia aveva acquistato grande notorietà e valore presso le tavole dei nobili e dei magnati. Quelli che – appunto – riuscivano a procurarsela.

Mi piace dunque immaginare in sede conclusiva che il buon vino bianco di Cisti fosse proprio la Vernaccia ligure o quella di San Giminiano, trapiantata in terra toscana sin dal XIII secolo. Un’altra opzione? Il Trebbiano… ma è tardi e il discorso si farebbe troppo lungo.

testo dell’intervento tenuto il 28 marzo 2015 nell’ambito del primo bookpride di Milano)

 

[1] Tutti i dati storici del presente studio provengono dalle fonti primarie di Dino Compagni (Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di Gino Luzzato, Einaudi, Torino 1968, c. I, 21; c. III, 19-sgg) e di Giovanni Villani (Nuova cronica, a cura di Giovanni Porta, Fond. Pietro Bembo, Guanda, Parma 1990-91, VIII, 43). Mi sono utilmente avvalso anche dello studio di Federico Canaccini, Bonifacio VIII e il tentativo di annessione della Tuscia, in “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo”, n. 112, 2010, pp. 477-501. Sulla novella boccacciana di Cisti, vd. Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, in Soavi sapori della cultura italiana (Atti del Convegno dell’AIPI, Verona-Soave 27-29 agosto 1998), a cura di Bart Van den Bossche, Michel Bastiansen e Corinna Salvadori Lonergan, F. Cesati ed., Firenze 2000, pp. 189-195.

[2] Spini è il vero nome del casato di Geri. Non sappiamo perché Boccaccio lo chiami invece Spina.

[3] Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Cesare Segre, Mursia 1987, p. 386-387. Da questa ed. tutte le citazioni del Decameron.

[4] Ivi, p. 387.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 388.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, pp. 388-389.

[12] Giulio Savelli, La misura del privilegio: il vino di Cisti fornaio, cit., pp. 190-191.

[13] Decameron, cit., p. 388.

[14] Ivi, p. 386.

[15] Ivi, p. 387.

[16] Vd. qui n. 1.

[17] Vd. le boccacciane Esposizioni sulla Comedia, a cura di Giorgio Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano 1967, vol. VI, 1965.

[18] L’interdetto era una misura ecclesiastica che impediva a coloro che ne erano colpiti la partecipazione alla Messa e ai sacramenti. Impediva però (e ciò scontentava i banchieri, anche quelli neri) di riscuotere i debiti.

[19] Decameron, cit., p. 598.

[20] Ivi, p. 480.

[21] Ivi, p. 493.

[22] Salimbene da Parma, Chronica, a cura di Federico Bernini, Laterza Bari 1942.

[23] Commento di Francesco da Buti sopra la Divina commedia di Dante Allighieri, Fratelli Nistri in Pisa 1860, 2 vol., p. 537.

[24] Cfr. Orazio Bacci, La vernaccia dell’abate di Clignì, in “La Fanfulla della Domenica”, a. XXIX, n. 30, 1907.

Didascalie: Salvador Dalì

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Reminiscenza archeologica dell'Angelus di Millet (1936) S. Dalì

Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet (1936), S. Dalì

di

Agnese Azzarelli

 

 

Maybe there’s a God above
And all I ever learned from love
Was how to shoot at someone who outdrew you
It’s not a cry you can hear at night
It’s not somebody who’s seen the light
it’s a cold and it’s a broken Hallelujah.

 Leonard Cohen

Una gelida sera ad attendere che lui arrivasse sul sagrato del duomo. “Fiat mihi secundum Verbum tuum”, parole pronunciate volgendo lo sguardo alle ardite guglie che si stagliavano su quel grigio cielo. Gelso e garofano, ardore e cimento, il tutto accompagnato da uno strenuo Hallelujah di Leonard Cohen. Era arrivato.

Non ci occorsero preamboli.

Ancora ignoro a quale assurda legge ci si debba appellare per mutare verso e direzione del percorso. A che pro adombrare il cielo di cuspidi, archi e pilastri, quando la verticalità non ci appartiene?

Ma allora, fervore e immaginazione, non mi impedirono di inoltrarmi in coda alla sequela delle possibilità.

Tu fosti sempre più accorto, salvo in principio, ancor prima che avesse inizio la nostra lunga corsa. Ma non ebbi molto tempo per assaporare i momenti in cui, impavido, lasciavi che le emozioni facessero il suo corso. Pensa: sarebbe scoppiato non so quale finimondo!

Offrimmo la nostra tenera scoperta in pasto alle teorie e alle loro confutazioni, lasciammo il nostro amore alla mercé dei fraintendimenti e di un errore di valutazione.

Che ogni linea retta sia delimitata da due punti è cosa nota, si sa, e questo vale sia che la retta sia tracciata sulla sabbia, sia che questa altro non sia se non il tracciato percorso da un uomo e da una donna. Ebbe inizio il nostro viaggio, al riparo dagli “scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, per citare un poeta a noi caro.

Lasciasti che fossi io a precederti. Fu a quel punto che intorno a noi presero a discettare sul chi sarebbe arrivato per primo e noi prendemmo presto ad interpretare il nostro viaggio come una competizione. Sarebbe bastato uno sguardo, ma da allora io presi a correre e la distanza tra me e te divenne incolmabile… O meglio, divenne incolmabile allorché qualcuno ti convinse che obiettivo sarebbe stato raggiungere l’altro capo della retta.

Ma che una retta sia un insieme infinito di punti è cosa altrettanto nota. Per quanto io mi attardassi, prendendo tempo, l’intervallo tra me e te sembrava farsi sempre più ampio e questo a dispetto di ogni previsione.

Ricordi? Esordisti una sera dichiarando che la distruzione sarebbe stata lecita a condizione di non confonderla con l’opposto dell’azione. Capivo poco, ma mi pareva che tra le parole che eri uso pronunciare, l’una di seguito all’altra – abolire, eliminare, salvare – intercorresse un fil rouge di cui eri estremamente competente, mi pareva facessero un tutt’uno.

Ora vorrei distruggere ciò che mi lega al percorso intrapreso e ripeto, tra me e me, queste tre parole – abolire, eliminare, salvare. Ne ho scoperto il segreto.

Ho dimenticato la ragione per la quale abbiamo intrapreso questo nostro viaggio, ma abolire il mio movimento decreterebbe l’impossibilità di giungere a destinazione. Eliminare ciò che a te mi lega sarebbe impossibile. Non mi resta che salvare questa nostra traccia, abolendo ed eliminando la destinazione a cui gli altri pensano sia consacrata, farne tesoro e sperare – forse questa era la quarta parola che allora ti rifiutavi di pronunciare – di incontrarti al capo opposto del mondo, quando la distanza incolmabile tra me e te sarà arrivata ad abbracciare, nello spazio di una circonferenza, l’intero globo.

 

 

«Il paradosso del controllore». Il romanzo metafisico di Hidalgo Bayal

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di Mario Sammarone

paradosso-del-controllore“Il paradosso del controllore” (ed. Socrates, 2014) è un romanzo di Gonzalo Hidalgo Bayal, filologo e scrittore spagnolo, pubblicato in Spagna nel 2006 e recentemente anche in Italia – grazie all’ottima traduzione di Simonetta Nove e Daniela Simula. Un’opera metafisica, costruita su una storia non storia, dalla trama pressoché inesistente ma dalla prosa colta, lenta, perfettamente ricercata e al tempo stesso condensata in fulminanti ed algide immagini.

È una sera di novembre, una stazione senza nome, il cielo freddo di una città di frontiera. Approfittando della fermata del treno, un uomo scende sulla banchina per comprare una bottiglia d’acqua. Gesto semplice, banale, su cui non si è meditato troppo, ma che proprio per questo nasconde un pericolo oscuro e quasi mortale. La breve fila davanti alla cassa del bar, un inutile sguardo al titolo di un giornale, una parola di troppo con un forestiero, l’uomo si attarda e il treno riparte senza di lui, lasciandolo solo, senza bagaglio, senza soldi e soprattutto senza la sua identità.

E allora nella vita di quest’uomo, che si intende come fosse stata banale, monotona e sbiadita fino ad allora, irrompe un’altra vita, aliena, maligna, in cui egli si trova come imprigionato e da cui non può più uscirne. E adesso cosa potrà fare quest’uomo che è rimasto senza il suo treno? Mettersi alla ricerca del controllore che gli possa dare le informazioni su come e quando ripartire. Ma il controllore è anch’esso misteriosamente sparito: l’uomo non riesce a trovarlo, nessuno glielo sa indicare e c’è addirittura chi nega la sua esistenza.

Inizia così la peregrinatio tra la stazione e la città vicina, misteriosamente anch’essa senza nome (nulla e nessuno ha un nome in questo libro), somigliante alle nostre città ma immersa in una estraniante realtà, probabilmente simbolo della vita decaduta del nostro Occidente. Come un eroe tragico, ma che a differenza di ogni buon eroe tragico è completamente immemore del suo Eden dal quale è stato estromesso, l’eroe-antieroe di Bayal, nella sua identità diluita, amebica tra l’essere viaggiatore, forestiero e controllore ad un tempo – per ironia della sorte, proprio il controllore, deus ex machina senza volto, definirà la nuova identità di quest’uomo – è “gettato” dentro una nuova vita in cui tutto sembra senza senso. Come in una letteraria e spiazzante Via Crucis, questo povero Ecce Homo tocca tutte le stazioni della sofferenza, bussando a ogni porta in cerca di aiuto, ma ottenendo solo cinico rifiuto o, al massimo, spocchiosa futilità.

Divenuto quasi un barbone, intesse relazioni con emarginati e personaggi di vario tipo, come il venditore di cialde, una specie di mago-principe, padrone per diritto acquisito della colonna della piazza, sotto la quale vende la merce ai passanti (uno stilita del V secolo sui generis creato dalla finzione letteraria), o ancora il giovane barista della stazione, un giovane compassionevole – il solo – che offre all’uomo caffè e brioche con cui si possa sfamare.

In una realtà occulta e sotterranea, separata dalla sua vecchia vita, il presunto controllore girovaga nell’abbandono, sopportando con stoica sopportazione ogni avversità tra personaggi che inaspettatamente sembrano tutte figure tragiche, sbalzate dentro un’esistenza che scorre in un mare che va controcorrente, ma che proprio per questo Bayal riesce a imprimere loro una solennità di carattere, tipicamente spagnolo, come il mondatore di frutta che, chiuso nelle sue ossessioni, ha i tratti di un nobile Hidalgo.

Il bisogno di stabilità e ordine nel tempo quotidiano, che pareva essere smarrito dopo la perdita del treno, è comunque cercato dal controllore ripristinando nuove abitudini, come la quotidiana passeggiata verso la stazione nella eterna e beckettiana speranza di trovare un treno sul quale partire, l’incontro mattiniero con il guardiano del casello del quale diventa amico, i giri per le osterie con un ciarlatano-predicatore perso anche lui in questa città fuori dal tempo. Perché in fondo ciascuno di noi è fatto della stessa sostanza delle proprie abitudini, e cerca di ancorarsi ad esse come a uno scoglio, prima che il disordine e il caos arrivino distruggendo quella parvenza di illusioni dietro cui ci siamo trincerati con tanta fatica.

La lettura è ipnotica e ci fa aggirare in atmosfere oniriche ed iper-realiste, con questa figura del protagonista che è un esiliato, vittima e capro espiatorio. Il controllore che sceglie sempre di non scegliere, di non essere nessuno e, per questo, di volere essere il nulla e, dunque, di essere-per-il-non-essere, variazione dell’essere-per-la-morte heideggeriano, ci affascina perché non è chiuso in alcuna identità e fa provare in noi la vertigine di chi non ha nessun abito mentale.

Eppure una traccia di luce, di speranza c’è, quando alla fine lo si sente pronunciare le parole “io credo nella bontà”. Questa è la sua sentenza (e la sua condanna), estrema prova di sventurata pazienza alle prove avverse che accetta, mentre decide di continuare a vivere – ed è questa una forma, anche se non desiderata, di immortalità. Poiché, recita un detto evangelico, chi vuole salvare la propria vita la perderà, e chi vuole perderla la salverà.

Tirando le conclusioni, cosa ci racconta questo romanzo metafisico di Gonzalo Hidalgo Bayal? Che forse quest’uomo, e la città cinica e decadente in cui vive, è immagine riflessa di quell’esistenza a cui tutti noi arriviamo da una stazione senza nome, quasi per caso, ma a cui restiamo attaccati, tenacemente e fino all’ultimo giorno, cercando quel senso che talvolta sembra non esserci.

(articolo già pubblicato su La Città, il 17 marzo 2015)

Esce L’Ulisse n.18. Poetiche per il XXI secolo.

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Doug Aitken New opposition  II - 2001

L’ULISSE n. 18. Poetiche per il XXI secolo.

 

INDICE

 

Editoriale, di Stefano Salvi

 

IL DIBATTITO

IDEE DI POETICA

Fabiano Alborghetti

Gian Maria Annovi

Vincenzo Bagnoli

Restare rinchiusi, i cattivi di Maurizio Torchio

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di Matteo Moca

Dal punto di vista etimologico, la parola “cattivo” viene dal latino captivus, parola che assumeva il significato di prigioniero. Poi la lingua con il suo corso ne ha mutuato pian piano la definizione, facendole assumere il significato morale di “malvagio, perverso e disposto al male”. Si può parlare appunto di sfumature di significato, perché prigioniero diviene chi è cattivo e chi è cattivo è giusto che diventi un prigioniero. Ecco dove questo collegamento semantico trova la sua ragione di essere ed ecco da dove può quindi essere interessante partire per una riflessione su tali argomenti.

È questo quello che fa Torchio e sembra infatti questa una delle domande che la lettura si trascina: chi sono veramente i cattivi?

La storia di “Cattivi” di Maurizio Torchio è la storia di un ergastolano, un carcerato che, inizialmente condannato ad una reclusione di due anni e due mesi per il rapimento della “principessa del caffè”, durante un trasferimento uccide in cortile con trentacinque coltellate la guardia che lo sta trasferendo, trasformando la sua pena nell’ergastolo, nel “fine pena mai” rappresentato dall’inserimento nei computer della metafisica data di fine pena “99/99/9999”. Questa finta eternità sarà trascorsa dal condannato in isolamento, la prigione della prigione “perché ogni posto deve avere una prigione. Se sei già all’ospedale e ti senti male, cosa fanno? Ti mettono in terapia intensiva, che è l’ospedale dell’ospedale. Se sei in prigione e vogliono punirti è uguale: dev’esserci qualcosa. Dev’esserci sempre qualcosa da togliere, altrimenti tutto si ferma”. E una delle tante declinazioni che assume la vita in carcere è proprio quella della privazione, una privazione che però presenta una forma del tutto particolare. Quando non si ha nulla, qualsiasi cosa diviene un tesoro ed è per questo che “a volte ti danno delle cose perché ti venga paura di perderle”. È la constatazione che nulla è scontato, tutto può essere tolto (e il prigioniero di Torchio fa l’esempio dell’acqua prima delle perquisizioni, “non la comandi più della pioggia che cade fuori”) perché bisogna sempre ricordare che la vita scorre dietro una saracinesca e tra mura alte e invalicabili, non c’è libertà se non quella concessa da altri, “in un carcere che funziona, i detenuti non decidono niente”.

In esergo al testo Torchio pone una citazione tratta da “Sogno sul monte della scimmia” di Derek Walcott che recita: “Gli storpi, gli storpi. Sono gli storpi a credere nei miracoli. Sono gli schiavi a credere nella libertà”. Ma come possono i carcerati, e in particolar modo un ergastolano come il protagonista, pensare alla libertà? Fin dove si può spingere una riflessione in tal senso e a quali conclusioni può arrivare? La grandezza del libro di Torchio sta nella capacità di raccontare in maniera corale la storia di un singolo, un singolo che rappresenta tutti i prigionieri delle carceri. Il racconto di chi è in fondo, di chi vive in isolamento con la sola compagnia dei suoni che vengono dall’esterno, in un posto dove non c’è più neanche la luce (ma quando poi si vive nel buio e gli occhi sognano attraverso i colori che dietro le palpebre colano, “quando arrivano le cascate di colori, loro accendono la luce. E la lasciano accesa per sempre. Le cascate spariscono. Emerge il vuoto nella tua cella, con la lampadina blindata”); è un racconto che prende vita da una capacità di osservazione che si sublima, che porta a riconoscere i passi di chiunque cammini nel carcere, a riconoscere dall’atmosfera l’arrivo di una perquisizione o di una punizione delle guardie e che permette di riconoscere il passo dei cani nel cortile. Si crea un potenziamento dei sensi che porta a vivere in simbiosi con il carcere che sembra assumere una forma umana. Ed è grazie a tutto questo che si diventa conoscitori di tutto quello che succede e l’isolamento, nel fondo del carcere, dà la paradossale possibilità di vedere tutto quello che succede fuori da quella stanza. Così il narratore può raccontare tutto: le gerarchie e le pratiche sadiche che si svolgono tra quelle mura, le storie di Piscio e di Toro e la nuova corrente criminale rappresentata dagli Enne (“gli Enne hanno continuo bisogno di ammazzare e venire ammazzati”).

Questo diario di un prigioniero condannato all’ergastolo vive di un paradosso avvertibile alla semplice lettura: nonostante la sicurezza di una condanna al carcere fino alla morte, la prigione, con le sue dinamiche e il suo annientamento che non diviene mai totale ma che si spinge comunque fino alla sua soglia, porta sempre a pensare ad un dopo. Il pensiero, nonostante la morte del corpo fisico dei carcerati, poveri di allenamenti se non i fanatici Enne descritti dal narratore, continua a lavorare, a riscattare l’immobilità del corpo. Ed è la struttura stessa del carcere che ha bisogno di questo moto del pensiero; per continuare ad esistere il carcere deve dare la possibilità di poter pensare ad uscire ed è per questo che, seppure nella realtà non ci sono possibilità di lasciare il carcere, esso “ti costringe a continuare a pensare al dopo”. Questa fuga in avanti del cogito è ciò che porta poi il narratore a dimenticare la vita precedente, inesistente quasi del tutto all’interno del suo racconto se non per quei frangenti che riguardano il rapimento che lo ha portato in questa situazione. La mancanza di un’innocenza precedente al reato, è chiaro simbolo di un’assenza, o meglio di una

rimozione: la vita è nel carcere, non esiste nulla se non collegato ad esso e al pensiero, un giorno, di lasciarlo. In questo diario intimo l’infanzia non è mai richiamata (se non per un brevissimo accenno), né l’atmosfera di quell’età della vita. Eppure, raccogliendo il carcere tutta la vita e rinchiudendola tra quattro mura, dall’isolamento lo studio dei reclusi mostra che esiste anche un ritorno all’infanzia, nell’assurda dimensione di privilegio che si vede per esempio nei regalini, che fanno letteralmente impazzire i prigionieri: “In carcere ho visto rivolte sventate distribuendo caramelle. Giuro, caramelle: Da prigioniero hai gli sbalzi di umore dei bambini, perché qualsiasi cosa, anche la più piccola, ti occupa subito tutto il campo visivo”.

“Le persone sono fatte così. Tenere qualcuno chiuso in un posto, anche solo per un paio di mesi, colpisce la loro immaginazione. Soprattutto i poveri. Ci sono poveri che se sanno che un ricco è costretto a fare una brutta vita per un paio di mesi piangono, perché pensano che non è abituato. Piangono per le principesse. Piangono perché pensano sia importante che qualcuno viva bene dall’inizio alla fine”. Questo racconta il protagonista del romanzo di Torchio quando ricorda il rapimento ai danni del re del caffè, illustrando il suo ruolo di carceriere e il cedimento umano, di fronte ad una vita rinchiusa. Leggendo tra le righe di questa citazione, è come se l’ergastolano inserisse un messaggio dentro una bottiglia, chissà se arriverà, eppure il tentativo necessita di essere fatto: l’immaginazione di tutti viene colpita pensando a persone rinchiuse in un posto, “anche solo se per un paio di mesi”, e per chi lo è per sempre?

Questo è uno dei motivi che rende il libro di Torchio uno dei più belli mai scritti sulla condizione carceraria; con il suo stile scarno e asciutto, a tratti anche disturbante per il suo realismo, Torchio crea una narrazione che, partendo dall’osservazione di un prigioniero speciale verso gli altri prigionieri ordinari, tratteggia dall’interno un mondo intero, mostrando tutto il uso dolore e la sua incapacità di guarire.

Miti Moderni/14: esposizione

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Rinko Kawauchi
Rinko Kawauchi
Rinko Kawauchi

di Francesca Fiorletta

La devastazione che si posa, con calma, davanti. Prendi sotto braccio gli idranti e sguinzaglia i cani da alleggerimento, sono già scattate le manette, mentre fervono gli ultimi preparativi per la festa, restano blindati gli ingressi, la regressione è stupefacente, che sia chiara la nostra determinazione, nel cuore degli scontri si scambiano di fretta i vestiti, abbandonano il campo di battaglia, i giovanili concorrenti, ma la replica arriva celere, a mezzo stampa: sei uno sciacallo!

Apriti sesamo

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Musica e poesia nei luoghi d’arte della Provincia di Ancona

sesamo

Sabato 9 Maggio\ Arcevia
Galleria d’arte contemporanea

“La ricerca della bellezza”

– Cristiano Godano (Marlene Kuntz)

– Giancarlo Onorato

con Luigi Socci

Le interviste possibili: Raul Montanari

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MONTANARI

di

Bernardo Zannoni

Ho iniziato a leggere il Regno degli Amici che avevo poco da fare; tenevo il telefono staccato, non avevo appuntamenti, non volevo sentire nessuno, tantomeno me stesso.

Siccome fuori c’era anche un ottimo sole, ho pensato bene di lasciarlo a chi avesse il sorriso abbastanza facile da festeggiarlo, il silenzio di casa mia era il più bello degli amanti.

È un libro che non si perde in fronzoli, in arcuati giri di parole, dopo due pagine si viene scaraventati nella già scialba Milano degli anni ottanta e nell’arsura della sua estate, le facce dei protagonisti emergono dalle parole e ti si incollano agli occhi così come le situazioni a cui si prestano.

Ha un ritmo veloce, compatto, regolato da una punteggiatura ferrea; ogni frase lascia posto all’altra così come un capitolo incalza il seguente, si viene costretti su due binari che non possono finire che nella riga successiva e in quella dopo ancora.

Se all’inizio si vive l’esperienza dell’amicizia tra un semplice gruppo di ragazzi, il ritorno a quel mondo segreto e pieno di scoperte che è l’adolescenza, la vera polveriera del romanzo è data dal personaggio di una ragazzina. Se infatti in un primo momento mi ero trovato più tra i vortici delle mie memorie giovanili che sulla storia in sé , il libro si riprende l’attenzione del lettore con un personaggio vivo, autentico, talmente genuino per come viene descritto, per come viene fatto parlare, muovere, agire all’interno della storia, che non si può non provare le stesse emozioni dei protagonisti. Lo stesso personaggio poi sarà il medesimo che spezzerà l’equilibrio della storia, che farà precipitare la trama in una lenta e dolorosa serie di eventi, che porterà ad un finale inatteso, clamoroso, ai limiti del surreale. Montanari con questo libro si dedica per la prima volta al mondo della pubertà, e se non in maniera delicata, lo fa in un modo tutt’altro che banale.

Rispetto ai tuoi libri precedenti, nel Regno degli Amici ti dedichi interamente al mondo dell’adolescenza. Perché hai scelto di far muovere dei ragazzi nella tua storia?

 Anzitutto perché considero l’adolescenza l’età decisiva per la formazione dell’identità personale; penso che durante la pubertà ci si incontri con se stessi una volta per tutte, nasce il nostro vero Io, lo identifichiamo per la prima volta.

In secondo luogo perché è l’età metafisica: in nessun’altra stagione della vita ci poniamo domande così radicali su noi stessi, sul destino, sulla vita. Quando si è più piccoli non si ha la lucidità necessaria, mentre da adulti il nostro rapporto con il mondo è scandito da una molteplicità di minuzie che ci distraggono dal porci delle questioni fondamentali.

Per finire, l’adolescenza è anche il terreno di scontro fra l’amicizia e l’amore; la prima è basata sulla condivisione e sull’equità, il secondo invece ha una forza dirompente e si propone come sentimento di possesso esclusivo. Nel romanzo infatti, Demo vive l’amore per Valli clandestinamente, come un tradimento verso il gruppo, e questo porterà ad un evento traumatico che cambierà il tono della narrazione.

Rispetto ai personaggi e alla trama, appunto, si potrebbe definire il tuo libro come un’opera post-noir, ovvero il distaccarsi dalle figure tipiche del giallo per far vivere la storia a personaggi più ordinari. Quali sono i vantaggi di uscire da certi schemi?

 Non sento un particolare bisogno di staccarmi dalle figure del giallo, perché dopo aver pubblicato qualche romanzo noir negli anni novanta, mi sono dedicato a tutt’altro. La critica però ha insistito a definirmi sotto quest’etichetta, e allora ho coniato il termine post-noir proprio per indicare un superamento del genere.

Il giallo, come tutta la narrativa del genere, presuppone l’eccezionalità già nei personaggi (detective, assassini…) oltre a seguire schemi ben fissati (enigma-indagine-soluzione…); io racconto storie di persone normali che si ritrovano a vivere situazioni d’eccezione, dove la violenza fisica è uno dei possibili sbocchi a rapporti che oltre un certo limite diventano ingestibili. Cosa rimane del noir? Quello che storicamente l’ha preceduto: la tensione narrativa, il gusto di incollare il lettore alla pagina.

Ecco, a proposito della violenza fisica, della tensione crescente nei tuoi racconti: perché fare sfociare una trama che si evolve sulle note di un amore giovane in tragedia? Perché hai scelto di far perdere l’innocenza di Demo con il sangue, piuttosto che con la scoperta del sesso?

 Mi interessava che questa perdita dell’innocenza fosse collettiva e non individuale. Data la sua inesperienza e insicurezza, Demo vive la sessualità come qualcosa di attraente e al contempo di minaccioso, e sulla pagina il risultato di questo atteggiamento è una scrittura che rasenta il comico pur essendo legata a sentimenti profondamente personali del protagonista. Quando invece avviene il trauma è affascinante vedere la reazione del gruppo, il suo ricompattarsi intorno a quello che in fondo è il tradimento di uno di loro verso tutti gli altri. Oltre a questo ci sono dimensioni della maschilità e dell’adolescenza che sentivo il bisogno di mettere in scena: la violenza, la rabbia, il desiderio di vendetta che supera ogni calcolo delle conseguenze. Sono meccanismi narrativi che potevano scattare solo nel modo in cui ho raccontato gli eventi.

Il personaggio della ragazzina, Valli, ribalta completamente il senso dl romanzo. È una figura palpabile, viva, ammalia tanto i protagonisti quanto il lettore. Si nota che, rispetto alle descrizioni degli altri, non ti soffermi solo ai connotati e al carattere, scendi molto più in profondità. Ti sei ispirato a qualcuno? Magari ad un amore passato…

 Per la verità mi sono ispirato ad un amore presente, Valli infatti è la mia fidanzata. Naturalmente non ha l’età del personaggio del libro, anche se la prima volta che l’ho vista aveva giusto un anno di più della ninfa della Martesana; ancora oggi il suo aspetto fisico ha dei tratti adolescenziali per cui non si fa nessuna fatica ad immaginarla pescare le tinche con la rete come nel romanzo. Come dice Stevenson, è rarissimo creare un personaggio dal nulla: di solito si copia dal vero oppure si combinano elementi di più persone reali. Un’eccezione a questa regola invece è Ric Velardi, figura decisiva comparsa anche in due miei libri precedenti; non ho idea da dove sia uscito, non assomiglia a nessuno che io conosca.

Un ultima domanda allora, Raul: nei tuoi racconti ci si imbatte spesso nella tematica del destino, nel dilemma della fede e sulla probabilità dell’esistenza di un disegno superiore dal quale è impossibile sottrarsi. Qual è il tuo rapporto con questi elementi?

 Se ti riferisci a Dio, un sentimento di nostalgia. Per me, come del resto per la maggior parte delle persone, era molto più facile vivere quando avevo quella fede ingenua da bambino, che proprio all’affacciarsi nell’età di cui abbiamo parlato è crollata sotto l’attacco simultaneo dei primi dubbi intellettuali e delle tempeste ormonali. Io ho nostalgia di Dio, è un dolore indimenticabile arrivare a credere che non esista, un danno atroce. Per questo, fra l’altro, ho una speciale simpatia per chi è riuscito a mantenere questa fede anche nel mondo problematico dell’età adulta, sempre l’abbia fatto con intelligenza.

Se invece ti riferisci al destino in senso proprio, penso che lo scontrarsi del libero arbitrio con il fato sia una grande tematica narrativa, il tema topico della tragedia greca. Trovo che la narrativa sia molto superstiziosa: perfino quando il narratore, come persona, è devoto al rapporto causa effetto dell’universo newtoniano, spesso non può fare a meno di inserire nella storia anticipazioni, presagi destinati ad avverarsi, divieti la cui trasgressione conseguirà una punizione inevitabile. È normale per uno scrittore credere che esista un copione già scritto a lato delle nostre vite, perché è esattamente quello che lui crea per i suoi personaggi; non a caso in una pagina del romanzo Demo osserva: “anche i personaggi di un libro credono di essere liberi, in fondo”.

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Notebook

di

Francesco Forlani

Due tre cose che mi piacerebbe dire a proposito dell’ultimo libro di Raul Montanari

Ci sono dei libri da camera da letto, da leggere al chiuso e altri da panchina, assolutamente da sfogliare all’aperto. La cosa non dipende tanto dal contenuto, né tanto meno dalla voluminosità, quanto dal ritmo, dal passo che lo stile dell’autore porta sulla pagina. Tale andatura si associa, nella maggior parte dei casi, a una vera e propria “diagnostica” del lettore. Se alla lettura al chiuso corrisponde il campo della malattia, senza fare distinguo tra anima e corpo, dando per scontato quanto tutti sanno già della loro assoluta adesione ad una sola e unica natura, a quella all’aperto direi che si lega il terreno della convalescenza.
Ho appena finito di leggere l’ottimo romanzo, il regno degli amici, su una panchina di fronte alla Dora, e quasi immediatamente mi si sono poste due domande. La prima, da cosa derivasse una così forte attenzione da parte dei romanzieri al tema dell’adolescenza e dall’altra se si potesse definire quell’età come “dell’eterna convalescenza”. Non voglio qui riprendere le magnifiche considerazioni di “baffone” Niietzsche sul tema, ma lasciare parlare i personaggi del romanzo, intervistarli quasi, inventando domande cui gli stessi rispondessero attraverso i tic, le fobie, le ossessioni di una consorteria tutta adolescenziale. Che cosa ci raccontano loro, senza dire, nella loro mutezza e mutevolezza dei corpi di fronte ai grandi cambiamenti della storia, a una mutazione antropologica tanto inarrestabile quanto inevitabile?

Molte, tantissime cose che la sincerità della narrazione, il rigore mimetico dell’autore, offrono al lettore attraverso un uso intelligente della composizione, l’alternarsi dei fatti con la loro elaborazione che l’io narrante inscena senza mai cadere nella tentazione dell’onnipotenza di tanti narratori odierni. C’è un luogo, la casa abbandonata, un tempo, l’estate dell’82, una storia che è quella di un ristretto circolo di sognatori costretti al risveglio da incubi che l’irrazionale violenza del male riserva loro mettendo a dura prova ogni più autentica purezza. Perfino l’anima sanguina in queste pagine, nelle rêverie dei protagonisti, come quando ai ragazzi sanguina spesso il naso, ma si diverte anche, inventa ipotesi di cielo pure quando tutto sembra avvolto nel mistero, nel buio senza stelle. Nella convalescenza c’è innanzitutto il ricordo della malattia, la paura delle ricadute, la ripetizione dell’esperienza del dolore e come ognuno di noi sa, la trappola mortale è non capire fino in fondo quanto l’epoca della malattia possa alla fine rivelarsi come la più breve e intensa parentesi di autentica felicità.

 

Al lavoro

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La mappa

di Davide Orecchio

I – RICORDARE IL LAVORO

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi. Insomma nel 2003. Mi trovavo in Molise. Nelle campagne di quella regione piccola. A poca distanza da Campobasso. Condotto a borghi terremotati da strade avvolte come cime. Sorvegliato da eserciti di pale eoliche. Spinto verso storie escoriate, crepe sulle mura delle chiese, campanili in frantumi, case butterate; a comunità sfollate e in lutto. Pochi mesi prima, nel sisma del 2002, era crollata persino una scuola. Decine di ragazzi erano morti.

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Non sembrava un’epoca felice. Eppure indossavo le scarpe da ginnastica! E la felpa comoda, ed ero leggero, perché avevo dodici anni di meno. Questo lo penso adesso che sono pesante, che ero leggero. Invece allora non so cosa pensavo. Non so chi pensavo di essere, né quale peso mi attribuissi. Forse non mi attribuivo una consistenza ma un movimento. Non ero mica tanto giovane. Non ero mica tanto vecchio. Però andavo.

Avevo carta, penne, un registratore. Il sindacato di là mi aveva assegnato l’agiografia di un vecchio dirigente locale, Nicola Crapsi (1899-1965), così amato dalla sua gente da sopravvivere in un quadro: lo espongono come un santo laico ogni Primo di maggio nel corteo che attraversa il suo paese di origine, Santa Croce di Magliano. Lo portavano, lo portano, lo porteranno per sempre lungo le strade del paese, quand’è il Primo maggio.

1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)
1 maggio 2003 a Santa Croce. Quello nel cerchio giallo sono io (foto di Giacomo Barberio, santacroceonline.com)

Che storia incredibile. Nicola Crapsi come un santo! Io poi la sua vita non l’ho scritta proprio come mi avevano chiesto di scriverla. Ma questa è un’altra storia. Qui invece la storia è che quella primavera del moltissimo – dall’odierno me – lontano 2003 incontrai un grappolo accorante, coriaceo, moribondo e vitale di vecchi vecchissimi. Contadini, braccianti, ottuagenari, centenari: i testimoni; custodi di scioperi alla rovescia, occupazioni di feudi e latifondi, scaramucce coi fascisti…

Ometterò nomi e cognomi, con una sola eccezione. Temo che siano tutti morti. Spero di no. Erano malati nelle loro scoppole, sui loro bastoni, tra le flanelle che li coprivano e io ad adorarli, assai conquistato dalla vita, mi deprimevo pure, però, al pensiero che stessero finendo, questi partecipi della legione che mi si mostrava, gli ometti del Novecento, il popolo di ieri.

Il primo che mi parlò, e l’unico che nomino, era stato sindaco di Santa Croce. Aveva 93 anni. Flaviano Iantomasi.

Dai miei appunti di allora:

«È il più vecchio di tutti. Il viso più bello di tutti: radioso, tra le rughe, e gli occhi sempre lucidi (nel senso di coscienti). Mi offre un ovetto di cioccolata e succo di frutta. Sediamo al tavolo. La moglie, minuscola e vestita di nero, circola attorno. Iantomasi mi mostra la sua “biblioteca”. Sale al piano di sopra per prendere il libro di D’Ambrosio. Piange al ricordo del funerale di Crapsi: la donna che venne da Casacalenda per piangere Crapsi».

Iantomasi aveva dettato un manoscritto di memorie: Il mercato della carne umana. Ricostruiva la vita bracciantile e i rapporti di forza nella campagna di Santa Croce del primo Novecento. Qui ne allego qualche immagine:

I braccianti: un mercato di carne umana si allestisce a Santa Croce ogni otto di settembre, dove in piazze e «bettole» «tra un bicchiere di vino e l’altro» padroni e chi si offre raggiungono «il costo di una vita per un anno di lavoro». «Lamerce che stava invendita erano uomini adulti tutti qualificati per ogni specie di lavoro in agricoltura e pastorizia» e poi ragazzi dai sette ai sedici, «mercia messa sul mercato» dal prezzo stabilito a strette di mano. «Chi comprava la mercia messa sulmercato per un anno erano i proprietari terriere opure gli affittuarie di terreni seminativi e pascoli. Per stabbilire il prezzo di una vita umana per un anno intero 24 ore su 24 […] avveniva un faccia a faccia […] Non si facevano scritture bastava la presenza di uno o due testimoni […] La sunzione effettiva si faceva il giorno nove settembre alle ore 6 si presentavano per prendere consegna del proprio lavoro che avevano trattati per poi raggiungere la zienta in campagna…»

Ma i diritti erano pochi:

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***

Poi Iantomasi mi raccontò del Secondo dopoguerra (questa e altre trascrizioni sono grezze):
D: Mi hanno parlato dei cantieri-scuola. Cos’erano?
Iantomasi: Sempre una cosa che solo i mesi di inverno…
D: Ah, i cantieri-scuola erano una forma di sopravvivenza durante l’inverno!
Iantomasi: Sì.
D: E furono ottenuti dopo gli scioperi alla rovescia?
Iantomasi: Sì. Poi siamo passati a costruire delle strade interpoderali con quel lavoro del cantiere.
D: Cioè tra un podere e l’altro?
Iantomasi: La contrada che aveva una strada di campagna e si cercava di… bianca si faceva allora, con la breccia.
D: Grazie al cantiere-scuola.
Iantomasi: Sì. E proprio in quello di Melanico che è stato portato dal bivio di Piana Moscato fino alla proprietà di Piccirilli, proprietario che non era di Santa Croce ma foggiano.

***

Un’altra testimonianza

X: Sì, sì, figurati. Nel dopoguerra lavoro non ce ne stava, la fame ci stava, gente che aveva mogli e figli e non aveva lavoro, un macello. E dietro le lotte che abbiamo condotto noi, sai quante volte sono venuti a Roma con le corriere? Scioperi per tante cose. Io facevo due corriere per venire a Roma per fare le manifestazioni. Quindi non è che siamo stati fermi qua, siamo stati sempre scioperanti. Di Santa Croce avevano paura. Basta che dicevi Santa Croce e avevano paura.

***

Ancora dai miei appunti:

«V.: Influenzato. Sordo. Seduto al tavolo del tinello. La paura di non comprendere le mie domande. Mi si è avvicinato più volte. Ma le risposte, e i racconti, le rivolgeva al mio accompagnatore, non a me: timido, intimidito. Tocca il registratore (anche altri l’hanno fatto). Vive in un edificio moderno, molto alto, più alto della media a S.Croce. I bambini di là che studiano. La figlia e la moglie insieme a noi nel tinello».

«M.: un viaggio nella deprivazione della vecchiaia. Deprivazione di arti: entrambe le gambe amputate da 15 giorni (diabete, problemi di circolazione). La moglie anche a letto non si può muovere. Ma è lucido. Socialista da sempre, ha una copia dell’Avanti sul tavolo, quella del Primo maggio (30 aprile). Ha preso appunti sul Primo maggio. Mi offre un caffè e parla dei suoi mali».

«C.: il più intelligente e cattivo di tutti. “Non può registrare, deve scrivere”. Ha capito fino in fondo la storia del partito. Divora noccioline mentre racconta. “Faccia altre domande, abbiamo tempo”. “Funziono dall’ombelico in su”: gli hanno messo un bypass all’altezza del bacino».

***

Cosa mi disse M.

M: Io ho sempre un po’ lamentato veramente, anche quando stavo in attività, che di questo benedetto Primo maggio tutto si sa fuorché che cosa rappresenti. Per esempio, se io vado a chiedere a un giovane, i miei nipoti per esempio, figli di mio figlio, ditemi qualcosa del Primo maggio. Nonno, che ne sapete te e il Primo maggio. Non so se ho reso l’idea. E secondo me non va bene perché la storia è storia, la storia deve avere una continuità anche se aggiornata perché certo non possiamo rifarci all’epoca dei martiri di Chicago che hanno creato il Primo maggio, però io credo che parte di quel Primo maggio deve esistere nella continuità della storia. Adesso è proprio completamente dimenticata, non se ne parla più per niente.
D: Ai giovani non interessa?
M: Assolutamente no. Io veramente l’ho sempre lamentato, e io credo che siano inutili le feste e le festarelle. Sì, le feste e le festarelle vanno bene, però fin quando non creiamo sul vero senso della parola un sistema di sicurezza sociale che va, come diceva Pietro Nenni, dalla culla alla tomba, noi non abbiamo risolto i problemi sociali nel nostro paese perché ci troviamo sempre di fronte la disoccupazione, l’occupazione fittizia, il precariato, ma non abbiamo una stabilità…

***

Qualche anno fa. Anzi molti anni fa. Anzi moltissimi.

Il corteo del Primo maggio uscì da Santa Croce e prese la strada per San Giuliano di Puglia: lì, nel baraccamento, dopo la forra, dopo i licustri, dopo la morte di ventisei bambini e una maestra, si tenne il comizio e il pranzo della festa. In un prato conversai con una giovane donna. Parlammo di Roma, dove lei aveva studiato. Parlammo del terremoto. Mi sembrò che il terremoto le avesse lasciato sulla gota un solco simile agli squarci che non riuscivano a deturpare la bellezza di chiese antiche, edifici rustici, municipi. Una ruga che avrebbe voluto essere uno sfregio, e aveva fallito. Quella bella giovane donna mi disse che uno dei ventisei bambini morti era suo figlio.

***

II – TROVARE UN LAVORO

Trovare, offrire, cercare un lavoro. Tutti verbi legati al desiderio. O al bisogno. Ma oggi cosa desideriamo? Di cosa abbiamo bisogno? Quel viaggio molisano nel ricordo del Lavoro, quella rammemorazione del Novecento, fu anche un tour tra assi cartesiani, nello strumentario: conflitto, associazione, partito, sindacato, liderazgo, pensioni, direzione, progresso.

Qui lo strumentario è appassito. Ma davanti non c’è nulla. Oggi in Italia il 40% dei giovani non lavora. E chi lavora, come Giulia (neolaureata al Dams, inserita nel progetto europeo Garanzia Giovani, una sorta di apprendistato e avviamento al mondo del lavoro), è piuttosto una vittima:

«Lavoro 8 ore al giorno – racconta a rassegna.it (qui l’articolo integrale) –, sto in ufficio dalle 9 alle 17, vengo pagata 500 euro al mese. Il pagamento però arriva ogni due mesi. Dicono che il mio è un tirocinio formativo: ma lavoro dalla mattina alla sera, non ho tempo per fare altro. A me sembra un lavoro vero. […] A ottobre ho avuto un colloquio con una cooperativa di Roma che si occupa di turismo. Poi mi hanno richiamato: ‘Ti prendiamo ma devi iscriverti a Garanzia giovani’, hanno detto. Così la Regione Lazio paga 400 euro al mese, l’azienda ci mette 100 euro e ricevo il mio stipendio. […] Lo stipendio ufficialmente viene pagato ogni due mesi dalla Regione, tramite l’Inps. Io lavoro due mesi, finito il bimestre mando per raccomandata alla Regione una serie di documenti, in cui certifico che ho svolto quel monte di ore. Poi aspetto che mi arrivi a casa un assegno postale. Questo ci mette un’altra ventina di giorni. Infine devo andare alle Poste per incassare l’assegno. […] Pago l’abbonamento dell’autobus, mi preparo il pranzo a casa per non comprarlo fuori. Sto spendendo molti più soldi di quando non lavoravo, ne ho di meno visto che non sono passati 80 giorni e ancora non mi hanno pagato. Per ora lavorare è solo un costo».

Questo post esce il Primo maggio. Che non si dovrebbe lavorare. Questo post è a modo suo uno sciopero alla rovescia. E, come tutti gli scioperi, esprime un desiderio: reddito minimo di cittadinanza.

Un'offerta di lavoro nell'ambito di Garanzia Giovani
Un’offerta di lavoro nell’ambito di Garanzia Giovani

Qualche settimana fa sono tornato nel mio ex liceo, dove c’era da spiegare il “mestiere di scrivere” agli studenti del penultimo anno, quelli che devono orientarsi al “dopo di qui” per l’università. Un’intera mattinata nell’aula magna. Ha parlato una giornalista, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere. Poi ha parlato uno sceneggiatore, e ha spiegato il suo mestiere di scrivere: per gli sceneggiatori è un momento buono – ha detto –, si producono molte serie tv, la qualità aumenta, gli investimenti anche.

Quand’è toccato a me, io non sono stato bravo. Cioè, io lo sapevo che non potevo essere bravo. Cioè, io non volevo neppure essere bravo. Insomma, quale mestiere? Le attività degli altri due “docenti” hanno una dimensione economica; la mia no (non abbastanza). Scrivo questo e quest’altro, ho fatto un po’ di questo e un po’ di quest’altro, ma alla fin fine, cari ragazzi, se proprio v’interessa il mio sentiero, la prima cosa da fare è:

TROVARE UN LAVORO
CERCARE UN LAVORO
trovare un Lavoro qualsiasi
sì, Cercare, e troVare, un LaVoRo.
[e se vi dicono che il lavoro non c’è, sputategli nell’occhio]

Mentre parlavo mi deprimevo perché li deprimevo, e scoraggiandoli mi scoraggiavo. Ma vacci tu a raccontare cazzate ai ragazzi di 16 anni. Come fai a raccontare cazzate a uno studente? Bisogna essere proprio cinici, no? Dunque non ero positivo, non ero ottimista. A un certo punto (il più basso) gli ho anche detto che Carver faceva il taglialegna in un posto che si chiama Eureka.

Allora uno studente s’è alzato e m’ha rimproverato:

«Io non capisco. Lei non è stato incoraggiante. Noi abbiamo bisogno di fiducia. Dobbiamo scegliere. Lei non ci dà fiducia».

Aveva individuato l’anello debole. Questo era OK. Questo vuol dire che io ero stato OK. Perché il mio compito era proprio mostrare l’anello debole, cioè io [sic], che ero lì per non diseducare, per non illudere.

A casa mi chiesero: beh, com’è andata?

E io [sic]: ho fatto schifo.

Poi il tempo è passato; e si dimentica.

Fino a oggi.

Oggi m’è arrivata questa notizia: il figlio di una conoscente frequenta il mio ex liceo, e ha raccontato alla madre di aver partecipato con la sua classe a un incontro sul mestiere di scrivere, qualche settimana fa. C’erano uno sceneggiatore, una giornalista e uno scrittore. Sostiene il ragazzo che lo scrittore gli è piaciuto:

«Ci ha detto che dobbiamo trovare un lavoro».

Il solito dittatore
Il solito dittatore

III – UN SOGNO DI PASQUA

Questa notte, dalla quale apro gli occhi, ho sognato che una sedicente regista filmava un documentario sui miei luoghi; mostrava un bosco ripariale lungo l’ansa di un fiume; sabbia, ghiaia e depositi di argilla denunciavano una valle fluviale; un sentiero era contornato da pioppi bianchi, roverelle, cerri, alberi di Giuda dalle fioriture violacee. Lungo il sentiero passa una carrozza. È lentissima e il suo portamento ricorda la discesa del secchio in un pozzo. Dondola in silenzio. Tardi raggiungerà la prossima stazione, dove ci si confronta col dolore. Nelle sue tappe colleziona giorni di pioggia, bare, smacchi, malattie, divorzi, fallimenti. Ha ruote di legno cigolante, solo tre: una davanti e due dietro. Il cocchiere è un manichino nudo nel legno con la testa calva e forata sulla teca e l’onda dei seni visibile. Il cavallo non c’è, le briglie strisciano per terra davanti al cocchio e lo tirano. Mai stato laggiù, dove non c’era nulla di mio. Eppure la regista veniva a incassare. Inviava un contratto sulle cui pagine, molte, leggevo le mie firme, e nel quale m’impegnavo a versare novecentomila euro in mille rate da novecento.

Quel bosco era forse il Novecento?

Chiedo consiglio a mia madre, opportunamente resuscitata per il sogno di Pasqua: «Che faccio? È un furto. Non dovrò mica pagare?». E lei, già arresa: «Paga le prime rate, poi vedremo». «Ma come? Ma cosa dici!» «Devi pagare, Davide, è la tua vita».

Poi il sogno deviò in questioni di rabbia presente, nella veglia della contingenza e la coscienza era uno scivolo, oppure scivolavo verso la coscienza e affiorava una protesta ad alta voce e solo la fata del rispetto notturno, della pastiera infornata, della pioggia sussurrata, del letto incorniciato, del cuscino saldato, della veilleuse fredda, del libro chiuso, dell’acqua immobile, dell’armadio sedato, del bambù assopito, fu in grado di pronunciare le parole giuste per chiudere.

***

IV – LETTERA DI PRESENTAZIONE

Gentile Dottore,

voglia prendere in esame la mia offerta di collaborazione. Come potrà leggere nel curriculum Europass che Le allego, al momento esercito nel settore dei peraccotai. Sì, c’è scritto “peracottaro” (al Settore). Tuttavia l’attività che più amo e so svolgere è vendere il ghiaccio, che smercio in primavera e d’estate. Ma quando viene l’autunno, e poi l’inverno, a nessuno più serve il mio ghiaccio; per questo nei mesi freddi io vendo le pere cotte e le mele. Ad ogni modo col primo caldo o tepore io torno al ghiaccio, che è la mia vera passione; difatti ho condotto per anni un esercizio, anche, di grattacheccaro (veda sempre il curriculum alla pagina due). Ora però – e vengo alla ragione del mio scriverLe – sento crescere in me un desiderio di cambiamento. Lei penserà: «Non è ragionevole! Se ama tanto il ghiaccio, perché cambiare mestiere o anche solo desiderarlo?». Il fatto è che la realtà non solo circonda come una cornice me e Lei, gentile Dottore, ma ci modifica e bagna come un mare forte e profondo; e ne veniamo su umidi, asciutti mai più.

Così mi succede di voler cambiare, seppure io ami il ghiaccio e non odii le pere, gentile Dottore, perché il tempo mio e Suo è di innovazioni e rottamazioni. Mi spinge il vento del modificarsi, più forte di me, con le sue leggi che il Governo impone e le Camere approvano (m’informo anch’io) e che non m’ispirano alcuna fiducia (al contrario, diffidenza e terrore) e assieme m’ipnotizzano e costringono a essere nuovo, forse diverso, meno felice. Ma no, cosa c’entra l’infelicità? Non cancello la riga soprascritta giusto per la schiettezza e sincerità che Le voglio, Dottore; ma io sarò felice, non ho dubbi, e sono ben consapevole d’essere felice di voler cambiare, al di là della legge, non ostanti le norme. Dunque eccomi a Lei col mio desiderio di lasciarmi il ghiaccio alle spalle, e la frutta matura. Spero che Lei saprà cogliere, gentile Dottore, una scintilla delle mie capacità, un piccolo lampo delle possibilità mie nel CV Europass che Le allego.

Con stima e cordialità, e in attesa di un riscontro Suo, La saluto (per questa sera e per sempre).

Le belle di Maggio

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L’Abécédaire de Gilles Deleuze: E comme Enfance

“A proposito di ferie pagate mi ricordo la spiaggia di Deauville il primo anno delle ferie pagate. Uno spettacolo che per un regista di cinema doveva essere un capolavoro, con tutta questa gente che vedeva il mare per la prima volta, è prodigioso. Ho visto qualcuno che vedeva il mare per la prima volta nella sua vita. È splendido. Era una ragazzina della regione di Limousin, era con noi. Se c’è una cosa di inimmaginabile quando non la si è vista è proprio il mare. Si può dire il mare è qualcosa di grandioso, di infinito, e non vuol dire niente. Ma quando vedi il mare… e quella ragazza è rimasta 4 o 5 ore davanti al mare, completamente inebetita come un’idiota dalla nascita, e non smetteva di guardare uno spettacolo così sublime e così grandioso.

La spiaggia di Deauville era sempre stata riservata ai borghesi, era loro proprietà. Quando sono arrivate le ferie pagate e la gente che non aveva mai visto il mare… è stato grandioso. Se l’odio di classe vuol dire qualcosa… mia madre che pure era la migliore delle donne parlava dell’impossibilità di stare su una spiaggia con della gente così. Era dura. Il maggio ’68 non è stato niente in confronto!

La paura, non si poteva fermare tutto questo. Se si davano le vacanze agli operai scomparivano tutti i privilegi borghesi. Un manovale che veniva sulla spiaggia era come il ritorno dei dinosauri. Come un’aggressione. Era peggio dei tedeschi.

Quello che succedeva nelle fabbriche i padroni non lo hanno mai dimenticato. Credo che abbiano ancora una paura ereditaria. Più spaventoso del ’68 che pure ha fatto paura e ancora ne fa.

Quindi dicevo siamo rimasti con mio fratello a Deauville ed è allora che ho smesso d’essere un idiota.”

 

https://youtu.be/DR7lYynyCDA

Le culture del precariato

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di Silvia Contarini

“Pensare il precariato e le differenze nell’Italia della globalizzazione”9788897522973

L’articolo è incluso nel volume Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefania Ricciardi, Verona, ombre corte, 2015.

 

Questo nostro saggio intende contribuire a pensare l’interazione tra precariato e differenze, con riferimento specifico alla situazione italiana attuale. Procederemo per giustapposizione di problematiche allo scopo di mostrare come una riflessione sul precariato non possa ignorare fattori quali l’appartenenza sessuale, la questione razziale e il fenomeno migratorio: “La precarietà della condizione salariale riguarda alcuni gruppi sociali più di altri: le donne e gli immigrati, a cui generalmente erano riservati settori specifici nel mercato del lavoro, sono generalmente i più colpiti. Sessismo e razzismo si combinano infatti […] per mantenere una parte della popolazione in posizioni subordinate nel mercato del lavoro”[1].

Premettiamo che su questi temi si interrogano da anni femministe di orientamenti diversi, tra cui quelle che fanno capo al cosiddetto femminismo postcoloniale, come Talpade Mohanti, che riflette sulle “connessioni esistenti tra strutture sessiste, razziste e classiste a livello internazionale” nonché sul “lavoro da donne”[2]. Anche il femminismo italiano si interessa alle nuove configurazioni e accezioni del “lavoro femminile” in connessione con precariato e migrazioni, nel più generale contesto della globalizzazione e della decolonizzazione[3].

  1. Somali a Roma

Nel suo romanzo Madre piccola, Cristina Ali Farah, scrittrice di madre italiana e padre somalo, vissuta fino a diciotto anni a Mogadiscio poi fuggita in Italia a causa della guerra civile, racconta le vicissitudini della diaspora somala, in particolare della comunità romana. Una delle protagoniste, Barni, da anni immigrata a Roma e piuttosto felice di viverci, di professione ostetrica, così commenta la situazione: “In fondo per noi donne è molto più semplice, non è forse vero che facciamo la stessa vita ovunque ci troviamo? Non continuiamo forse a occuparci, a prenderci cura di qualcuno?”[4]. Barni afferma insomma che uomini e donne non vivono l’e/im/migrazione nello stesso modo, le donne si adattano meglio grazie a un’atavica abitudine al sacrificio di sé e alla dedizione; inoltre, il tipo di attività che esse svolgevano in patria (lavori domestici o di cura) è lo stesso nel nuovo paese di residenza. Questo succede nella fiction romanzesca[5], come nella realtà: Nuruddin Farah, scrittore somalo di lingua inglese, descrive una situazione simile in Rifugiati, Voci della diaspora somala[6], un libro composto da riflessioni personali e interviste a somali in diaspora. Come un leit motif, le donne somale intervistate gli raccontano che sono costrette a lavorare per mantenere mariti, figli, fratelli, cugini; tuttavia così si emancipano e si integrano e perciò “se la passano meglio degli uomini” o addirittura “stanno godendo di un certo successo economico”[7]; gli uomini, invece, non si abbassano a fare lavori umilianti, e bighellonano nei luoghi di ritrovo comunitari, restano tra loro, e “per sopravvivere, contano esclusivamente sul sudore delle donne, piuttosto che su quello della propria fronte”[8]. C’è di più: benché alla fine dipendano dalle donne, gli uomini continuano a considerarle loro subordinate e pretendono di essere serviti. Dice una somala che ospita numerosi “ragazzi” della sua famiglia:

“Pur essendo padrona di me stessa, non sempre riesco a mantenere il controllo sulle cose […]. Io indosso la veste di donna di servizio sei giorni a settimana, per guadagnare da vivere, e il mio stipendio mi serve per dare da mangiare a degli uomini che pretenderebbero fossi io a mettere in ordine il loro caos, dopo che ritorno a casa mia. In quanto donna, sono perennemente soggetta a recriminazioni e rimproveri, se non servo gli uomini in tutto e per tutto”[9].

 

Va subito osservato che questi comportamenti maschili e femminili, lungi dall’essere imputabili a una cultura specifica somala, riproducono strutture patriarcali dominanti su scala transnazionale. Ma va osservato anche che alle donne immigrate, doppiamente subordinate, vengono doppiamente assegnati lavori di domesticità, di cura. Il cosiddetto fenomeno delle domestiche della globalizzazione, già oggetto di studi[10], assume particolare rilievo in Italia[11] dove l’immigrazione fin dagli anni Novanta è caratterizzata da una forte presenza femminile, spiegabile in gran parte con l’invecchiamento della popolazione e le carenze del welfare[12]. Le donne immigrate sono dedite in grandissima maggioranza a tre attività: lavori domestici o di assistenza familiare (colf, badanti, infermiere, etc.), lavoro casalingo (donne arrivate per ricongiungimento familiare), lavoro nell’industria del sesso (il commercio sessuale è svolto in percentuali superiori all’ottanta per cento da immigrate)[13]. Le immigrate rimangono quindi confinate a lavori di cura e di prostituzione, ossia attività convenzionalmente femminili. Si osservi anche il divario che si instaura tra le donne italiane, che svolgono fuori casa attività socialmente riconosciute, e le donne immigrate, che le sostituiscono nei lavori domestici: l’emancipazione delle une si fa grazie al mantenimento delle altre in ruoli subordinati[14]. Secondo i punti di vista, alcuni notano che in questo modo due donne lavorano, altri che due madri non si occupano dei propri figli…

Un’ulteriore osservazione va a rimarcare che il lavoro di cura diventa fonte di reddito: se tra le immigrate si perpetuano ruoli di genere tradizionali, il lavoro, sia pure quello domestico, umile e precario, rappresenta un momento di autodeterminazione e uno strumento di autonomia economica; di conseguenza, l’immigrazione crea una possibilità di svincolo dalle strutture familiari e dalla cerchia comunitaria, crea una possibilità di transizione da una condizione, certo stabile ma ancestrale e fissa, a un’altra certo precaria ma autonoma e in movimento. E, come nota Campani, “il cambiamento di ruoli tra uomini e donne, nei più recenti flussi migratori, è percepito all’interno dei gruppi immigrati e non manca di provocare tensioni, crisi, difficoltà”[15].

Un’ultima osservazione, trattandosi nel caso preso in esame di immigrazione dalla Somalia, riguarda il fattore postcoloniale, poiché le eredità del colonialismo “hanno giocato un ruolo fondamentale nel controllo, nella etnicizzazione e nella discriminazione delle donne migranti nell’Italia contemporanea”, afferma Sabrina Marchetti nel suo recente Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale[16], libro dedicato all’immigrazione femminile in provenienza da un’altra ex-colonia, l’Eritrea. Marchetti si interroga sulle relazioni tra soggettività migrante postcoloniale, lavoro domestico e di cura, e storia del colonialismo e della decolonizzazione; come suggerisce, si potrebbe vedere nelle colf e badanti del corno d’Africa oggi in Italia una variante neo-coloniale delle donne a servizio nelle famiglie italiani ai tempi del colonialismo. Anche su questo punto, la fiction fornisce rappresentazioni suggestive; basti pensare al romanzo Regina di fiori e di perle, dell’italo-etiope Gabriella Ghermandi, nel quale leggiamo la storia di Woizero Bekelech: era meno sfruttata quando lavorava come domestica in una famiglia italiana di Addis Abeba, di quanto lo sia ora che fa la badante in un paesino emiliano, presso una famiglia che le fa subire anche umiliazioni di stampo razzista e colonialista[17].

  1. Femminilizzazione del lavoro

Queste osservazioni, che pertengono alla questione del precariato in rapporto a immigrazione e genere, ci hanno permesso di entrare in materia. In una prospettiva diversa, focalizzata sulla valorizzazione del care, si situa invece il recente saggio di Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, pubblicato con una prefazione di Judith Revel nella collana UniNomade di ombre corte[18]. Morini sviluppa diverse osservazioni sulle donne e il care labour, i lavori di cura alle persone, formulando la proposta originale di incrociare i due concetti di differenza e precarietà, per definire la condizione del soggetto precario-differente, un soggetto multiplo, dice, senza identità fissa né sostanza stabile, soggetto transitorio e in trasformazione[19]. Nel primo capitolo intitolato Razza precaria, Morini spiega che la transizione è lo status comune del soggetto contemporaneo, e perciò occorre far leva sull’alterità piuttosto che sull’identità[20]. Precisa però che il concetto di differenza è di per sé insufficiente per spiegare le trasformazioni del mondo del lavoro, in particolare la sua femminilizzazione. Nel secondo capitolo, intitolato appunto La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo, Morini precisa che per femminilizzazione intende non tanto un aumento quantitativo della popolazione attiva femminile[21], quanto piuttosto una modificazione qualitativa del lavoro contemporaneo, di cui il lavoro femminile diventa paradigma: le condizioni normalmente riservate alle donne (assoggettamento, precarietà, bassi livelli salariali, disvalore sociale) si estendono agli uomini; nel contempo, la manodopera a basso costo, flessibile, ricattabile, ricercata a livello mondiale con le delocalizzazioni, si trova anche in loco, in Occidente, grazie alla presenza sul mercato di donne e immigrati. Infine, per femminilizzazione del lavoro intende anche l’estensione del care labour, concetto inclusivo del cognitive labour, in correlazione al disfacimento di un sistema welfare che assicura sempre meno prestazioni sociali.

Nel seguito del saggio, Morini riporta una sua inchiesta di terreno, condotta a Milano, tra lavoratori della conoscenza precari (giornalisti free lance). Ora, a nostra sorpresa, le interviste di Morini danno risultati curiosamente simili a quelli delle interviste alla comunità somala condotte da Nuruddin Farah. Le giornaliste italiane free lance, come le immigrate somale, confrontate a una nuova situazione, hanno maggiore capacità di adattamento degli uomini, i quali “mostrano più difficoltà ad adattarsi alle nuove dimensioni polivalenti e qualitative richieste dalla nuova impresa nel nuovo mondo”[22]. Questa dimensione polivalente e qualitativa introdotta dalla femminilizzazione del lavoro includerebbe una generalizzazione dell’oblatività, ossia la richiesta di totale disponibilità e dedizione da parte del soggetto. Ne traiamo la seguente conclusione: proprio la capacità di adeguarsi e consacrare se stesse che rende le donne appetibili per il mercato del lavoro, rende il lavoro non più appetibile a chi non voglia adattarsi e dedicarsi, ossia femminilizzarsi… Insomma, il mondo del lavoro attuale richiede requisiti (sacrificio di sé, disponibilità totale, predisposizione alla cura) di cui le donne si avvarrebbero senza sentirsi svalorizzate, o perché già tali.

Il saggio di Morini indurrebbe a osservare che la precarietà sembra contribuire alla de/ricostruzione identitaria, degenerizzando il lavoro; in altri termini, la precarietà andrebbe contro la dicotomia, anche fordista, uomo/donna, produzione/riproduzione; il lavoro oggi andrebbe “oltre il genere”, oltre la classica divisione sessuale del lavoro[23]. Ne consegue, per Morini, che uomini e donne, entrambi precarizzati nel mondo globalizzato, subiscono le stesse condizioni e devono portare avanti la stessa lotta e le stesse rivendicazioni; per esempio, nell’immediato, la richiesta di un basic income (reddito garantito), il quale permetterebbe il recupero dell’autonomia del soggetto, l’autodeterminazione, il diritto alla scelta del lavoro. Un’ulteriore affermazione di Morini si pone sotto il segno della volontà di cambiamento: rivalutare e riappropriarsi del care può indicare “un fare comune”, la costruzione di un modo diverso di pensare e vivere nel mondo[24].

Sebbene le analisi proposte da Morini siano stimolanti e individuino con precisione molti nodi problematici, né l’una né l’altra delle conseguenze che ne trae sono del tutto convincenti, e anzi sollevano perplessità. Nell’affermare che nel mondo globalizzato e precarizzato donne e uomini, italiani e immigrati, bianchi e neri, subiscono le stesse condizioni, si appiattiscono proprio quelle differenze poste inizialmente alla base della riflessione sul soggetto precario-differente; e l’invito di unirsi rivolto ai precari rischia di riattualizzare la vecchia diatriba sulla priorità della rivoluzione di classe rispetto ai movimenti di liberazione. Ma le maggiori perplessità vengono dall’altra conclusione di Morini, l’incoraggiamento a rivalutare il care, ossia il prendersi cura degli altri, prerogativa culturalmente e storicamente assegnata al genere femminile, per farne la base di un nuovo modo di vivere comune, senza interrogarsi sul fatto che così si estenderebbero agli uomini (o piuttosto, a certi uomini, disoccupati, immigrati) i valori su cui si è costruita nei secoli la condizione di assoggettamento e sottomissione delle donne. Noi non saremmo così sicuri che il sacrificio di sé, l’oblatività, la domesticità, il curare anziani, malati e bambini, la mutua assistenza siano le migliori fondamenta per un cambiamento positivo.

  1. Connessioni precarie

Alle lotte contro il precariato sono dedicati diversi siti e progetti[25], ma di connessione tra differenze e precariato, con attenzione specifica ai fenomeni migratori e alle problematiche di genere, si parla soprattutto su connessioniprecarie.org, un sito fondato da precari e migranti, ricco di materiali a carattere politico, sociale e culturale, condivisibili o meno. La dichiarazione di intenti che figura in home page è particolarmente interessante; leggiamo: “∫connessioni precarie è un’area di uomini e donne, precari e non, migranti e italiani che hanno assunto come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e complessiva del lavoro contemporaneo. La nostra scommessa è quella di rompere l’isolamento dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dalle differenze che li dividono. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà”. Un “legame globale” personificato dai migranti, “il pezzo di globalizzazione soggettivamente presente in Italia e in Europa”[26], così definiti in un altro articolo, dedicato al basic income, la cui attribuzione, secondo gli autori, vedrebbe opposti lavoratori precari italiani e immigrati con difficoltà di regolarizzazione.

I fondatori e animatori di questo sito ritengono quindi che le diverse forme di precarietà e le diverse lotte non vadano pensate al di là delle specificità, ma proprio a partire da queste. Leggiamo, in un altro editoriale, che “il lavoro è sempre più frammentato, solcato da differenze e gerarchie che sono contrattuali, sessuali, razziali, di cittadinanza”[27]. Le connessioni tra migrazione, precarietà e genere, sono ribadite anche nel testo-manifesto, I diritti e qualcosa di più: Verso una Precarious’ Charter, diviso in dieci “comandamenti”. Recita il quinto comandamento: “Precario ricorda che sei migrante. Il lavoro migrante è una forma paradigmatica di precarietà”, insistendo sulla ricattabilità del precario, sulla precarietà del permesso di soggiorno, e sul razzismo istituzionalizzato.

Recita il sesto comandamento:

“Precaria ricorda che sei donna […]. La femminilizzazione del lavoro non riconosce alcuna qualità specificamente femminile, ma è una modalità di messa al lavoro e di sfruttamento di tutti i precari e ancor più delle donne. Nel privato le donne pagano – spesso con il proprio salario – altre donne perché svolgano il lavoro domestico e di cura; nel pubblico, il welfare che ancora sopravvive fornisce contributi monetari perché si paghi – ancora privatamente – lavoro domestico e di cura. Le donne non sono solo un segmento del lavoro tra gli altri, ma occupano una posizione che permette di mostrare i modi specifici attraverso i quali la precarietà diventa la forma contemporanea di tutto il lavoro”[28].

Insomma, le due categorie che più subiscono il precariato e lo sfruttamento sono gli immigrati e le donne[29]; gli uni perché ricattabili e oggetto di disprezzo a connotazione razziale, le altre perché storicamente confinate a lavori di cura. L’analisi qui sopra, vicina a quella di Morini, se ne distingue per due sfumature che teniamo a sottolineare e sviluppare: la prima è che la cosiddetta femminilizzazione del lavoro non rimanda a qualità specificamente femminili, col rischio di naturalizzarle, è una modalità di sfruttamento radicata in secolari rapporti di dominazione. La seconda è che riflettere sulla posizione delle donne (ovvero: la sedicente predisposizione femminile alla cura, al dono e al sacrificio, sfruttata dalla società patriarcale) permette di pensare la posizione attuale del precario, sfruttato dalla società neoliberale.

  1. Connettere le disconnessioni

Nel presentare in un primo capitoletto, attraverso un romanzo e un libro di interviste, la situazione delle donne somale in Italia e più in generale la situazione delle domestiche della globalizzazione tra emancipazione e precariato; in un secondo capitoletto, lo studio di Cristina Morini sulla femminilizzazione del lavoro e sull’influenza e la diffusione del care; e in un terzo, un sito web di lavoratori precari dall’emblematico nome connessioni precarie, in cui si afferma l’importanza delle differenze per affrontare la riflessione sulla precarietà, abbiamo operato anche noi un collegamento, forse temerario, di problematiche e materiali disparati, con l’intento di “attraversare” le differenze, farle dialogare. Così operando abbiamo voluto soprattutto mettere in rilievo non tanto l’evoluzione del mercato del lavoro e della precarizzazione nello specifico italiano, quanto lo stretto legame su scala mondiale tra migrazione, femminilizzazione, precariato, e quindi affermare la necessità – quando si vogliano pensare le trasformazioni in corso nel mondo globale attuale, e quindi in Italia – di non sottovalutare le interazioni tra fattori di differenti soggettività.

Per concludere, vorremmo citare ancora Morini, quando afferma che “il potere non disdegna di ‘femminilizzare’ anche gli uomini, se questo significa abbassarne le condizioni e ridurne i diritti. Li femminilizza anche nella richiesta di partecipazione e di oblatività”[30]. Leggendo questa giusta osservazione, ci siamo chiesti: allora, hanno ragione gli uomini somali quando rifiutano di accettare la condizione di migranti e precari, rigettando lavori di cura o schiavizzanti (come la raccolta di pomodori), perché così esprimono il rifiuto di una condizione degradante, quella riservata alla donna e al servo, una condizione di doppia sottomissione? Il loro rifiuto della femminilizzazione di sé, in questo senso, è rifiuto della subalternità nella sua forma neocoloniale. Ma ci si può chiedere anche se non abbiano ragione le donne (somale, eritree, italiane, etc.) che, accettando la disponibilità e l’abnegazione insite nel care, accettano anche la transitorietà e il cambiamento, facendo propria una nuova condizione in cui vedono l’opportunità di autodeterminazione e autonomia.

Una prima risposta la possiamo dare insistendo sulla necessità di non semplificare la complessa articolazione dei rapporti di dominazione, in particolare l’interazione dei fattori di genere, etnia, classe, rinviando al dibattito, tuttora in corso in ambito femminista, sul concetto metodologico di intersezionalità, che permette di pensare la difficoltà dell’articolazione dei rapporti di discriminazione ed esclusione[31].

Una seconda risposta ci permette di tornare su una precedente considerazione. Quando si propone di rivalutare il care per farne la base della costruzione di un “fare comune”, o quando si parla di degenerizzazione del lavoro come superamento positivo della divisione sessuale del lavoro, si rischia di sottovalutare il radicamento della polarizzazione femminile/maschile, la determinazione di prerogative che culture secolari hanno assegnato a donne e uomini: perché di fatto il femminile resta fortemente ancorato alla negatività (degrado, subordinazione, passività) squalificando qualunque soggetto ne porti il segno, sia esso donna o uomo; mentre il maschile resta il polo positivo, che implica affermazione, forza, intelletto, dominio. Vogliamo dire, ricordando queste ovvietà, che il fattore di genere come quello di razza rinviano – oltre a divisioni di ruoli sociali – anche a categorie ideologiche (e non naturali), a interiorizzazioni di valori; e queste sono molto più insidiose, molto più profonde di quanto si pensi, e perciò molto più difficili da scardinare.

In altri termini, una riflessione sul precariato che ignori l’impatto delle differenze è inevitabilmente parziale, nel duplice senso di incompleta e di parte. Come ricorda Talpade Mohanty, “Proprio come le idee di ‘maternità’ e di ‘domesticità’ sono costrutti storici e ideologici piuttosto che ‘naturali, l’idea di un ‘lavoro tipico da donne del Terzo mondo’, in questo contesto particolare trova il proprio fondamento nelle gerarchie sociali strutturate da sesso/genere, dalla razza e dalla classe”; e ancora: “Le ideologie della clausura e della domesticità delle donne sono di chiara natura sessuale, essendo la derivazione diretta delle nozioni maschili e femminili di protezione e proprietà. Si tratta anche di ideologie eterosessuali, basate sulla definizione normativa delle donne in quanto mogli, sorelle e madri – mai slegate dalla relazione matrimoniale e dalla ‘famiglia’”[32].

[1] Giovanna Campani, Genere, etnia e classe. Migrazioni al femminile tra esclusione e identità, ETS, Pisa 2005, p. 136.

[2] Chandra Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere. Teoria, differenze, conflitti, trad. it. di G. Giuliani, ombre corte, Verona 2012, p. 102. Ai fini del presente studio, si rimanda soprattutto ai capitoli Cartografie della lotta, pp. 63-114, e Lavoratrici e politica della solidarietà, pp. 137-175.

[3] Menzioniamo almeno: Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della ri-produzione, Rubettino, Roma 2001; Beatrice Busi, Il lavoro sessuale nell’economia della (ri)produzione globale, in Teresa Bertilotti, Cristina Galasso, Alessandra Gissi, Francesca Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi, culture, lavoro, manifestolibri, Roma 2006, pp. 69-83; Alice Mattoni, La questione femminile nelle lotte contro la precarietà in Italia, in “Inchiesta”, luglio-settembre 2008, pp. 102-115; Laura Fantone (a cura di), Genere e precarietà, Scriptaweb, Napoli, 2011, scaricabile in formato PDF su https://www.academia.edu/7204504/Genere_e_Precarieta. Benché non riguardi direttamente la situazione italiana, si veda anche Silvia Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, trad. it. di A. Curcio, ombre corte, Verona 2014.

[4] Cristina Ali Farah, Madre piccola, Frassinelli, Milano 2007, p. 264.

[5] Vedi anche il romanzo di Igiaba Scego, Rhoda, Sinnos, Roma 2004, in cui una delle tre protagoniste, Barni, “faceva la domestica a ore e si doveva scapicollare per diverse zone di Roma a lavare cessi rosa molto sudici” (p. 21).

[6] Nurrudin Farah, Rifugiati. Voci della diaspora somala, Meltemi, Roma 2003, trad. e intr. di A. Di Maio.

[7] Ivi, p. 212 e p. 238.

[8] Ivi, p. 105.

[9] Ivi, pp. 108-109.

[10] Vedi per esempio Rhacel Salazar Parreñas, Servants of Globalization Women. Migration, and Domestic Work, Stanford University Press, Stanford 2001; Ruba Salih, Mobilità transnazionali e cittadinanza. Per una geografia di genere dei confini, in Silvia Salvatici (a cura di), Confini: costruzioni, attraversamenti, rappresentazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 153-166; Silvia Cavallini, Il lavoro domestico delle donne immigrate in Italia, in Maria I. Macioti, Vitantonio Gioia, Katia Scannavini (a cura di), Migrazioni al femminile. Protagoniste di inediti percorsi, EUM, Macerata 2007, pp. 65-86.

[11] Tuttavia, anche in altri paesi, si assiste a fenomeni simili; si veda per esempio Maria Kontos, Donne migranti in Germania e mercato globale del lavoro domestico, in Giovanna Campani (a cura di), Genere e globalizzazione, ETS, Pisa 2010, pp.159-175.

[12] I dati Istat aggiornati al primo gennaio 2013, confermano la tendenza: le straniere residenti sono 2.327.968, gli stranieri 2.059.753 (http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_POPSTRRES1&Lang=). Cfr. anche Antonio Ricci e Franco Pittau, La presenza femminile nella immigrazione: famiglia, matrimoni e coppie miste, in Migrazioni al femminile, cit., pp. 17-63; Asher Colombo e Giuseppe Sciortino, Gli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, p. 20.

[13] Sui settori di attività delle donne immigrate, rinviamo a Campani, Genere, etnia, cit., pp. 112-146. Sul lavoro sessuale, rinviamo a Busi, Il lavoro sessuale, cit.

[14] Non è questa la sede per attardarsi sul punto, ma vorremmo attirare l’attenzione sul pericolo insito nell’idea di una di emancipazione “colpevole” delle donne occidentali, quale emerge, per esempio, dalla Presentazione di Renate Siebert al volume di Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., pp. vi-vii.

[15] Ivi, p. 141. A cura della stessa Campani, meno incentrato sulla situazione italiana e sul mercato del lavoro, si veda anche Genere e globalizzazione, cit.

[16] Sabrina Marchetti, Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, Ediesse, Roma 2011, p. 26.

[17] Gabriella Ghermandi, Regina di fiori e di perle, Donzelli, Roma 2007. La Storia di Woizero Bekelech e del signor Antonio è alle pp. 243-277.

[18] Ricordiamo anche il precedente: Cristina Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, DeriveApprodi, Roma 2001.

[19] Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010, p. 38.

[20] Ivi, p. 48.

[21] Sul punto, ma con prospettive diverse, si veda Ongaro, Le donne e la globalizzazione, cit., la quale analizza il “processo di femminilizzazione della produzione sia a livello concreto che metaforico” (p. 47) nei mutamenti globali in corso. E si veda anche Judith Revel, Féminisation du travail et précarisation de l’existence: deux paradigmes superposés, in Silvia Contarini e Luca Marsi (a cura di), Précariat. Pour une critique de la société de la précarité, Presses Universitaires de Paris Ouest, Nanterre 2014, pp. 125-136; Revel osserva anche che nel processo di femminilizzazione delle condizioni di lavoro (ossia di degrado) le donne, inizialmente preposte a questo genere di lavori, vengono sostituite da immigrati e precari. Si veda infine Gruppo Sconvegno, Un’istantanea della precarietà: voci prospettive dialoghi. Focus group su Donne, Lavoro e Precarietà, in Fantone (a cura di), Genere e precarietà, cit., pp. 117-133.

[22] Ivi, p. 70.

[23] Ivi, p. 124.

[24] Ivi, pp. 20-21.

[25] Cfr., per esempio, http://www.precaria.org/ e http://www.universitadelledonne.it/precas.htm.

[26] Costellazione precaria: riflessioni minime sul reddito garantito, 12 gennaio 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/01/12/costellazione-precaria-riflessioni-minime-sul-reddito-garantito/ (senza firma).

[27] Dai precari alla precarietà: per dire addio a entrambi, 22 settembre 2011, in http://www.connessioniprecarie.org/2011/09/22/dai-precari-alla-precarieta-per-dire-addio-a-entrambi/ (senza firma).

[28] I diritti e qualcosa di più: verso una Precarious’ Charter, 19 marzo 2012, in http://www.connessioniprecarie.org/2012/03/29/i-diritti-e-qualcosa-di-piu-verso-una-precarious-charter/.

[29] Sulla precarietà lavorativa e esistenziale delle donne, cfr. anche saggi e testimonianze raccolti da Clotilde Barbarulli e Liana Borghi (a cura di), Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, CUEC, Cagliari 2006.

[30] Morini, Per amore, cit., p. 125

[31] Cfr. tra i vari studi, in lingua italiana, Sabrina Marchetti, Intersezionalità, in Caterina Botti (a cura di), Le etiche della diversità culturale, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 133-148. Si veda anche Elsa Dorlin, “Sexe” “race” et “classe”: comment penser la domination?, in Sexe, genre et sexualités, PUF, Paris 2008, pp. 79-88.

[32] Talpade Mohanti, Femminismo senza frontiere, cit., p. 102, la prima citazione, p. 152 la seconda.