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Overbooking: Carla Stroppa

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Da un mondo mediano

di

Lucio Saviani

Nota su La magia del ritorno. Sulle tracce del Mago di Oz di Frank Baum

 di Carla Stroppa

 

Sono tornato al mio paese abbandonato
dal quale fui lontano otto anni
 Ma chi chiamare?
Con chi dividere la triste gioia
di essere ancora vivo?
Nessuno qui mi conosce
e mi ha dimenticato da tempo chi mi ricordava
*
In ogni cosa viva
c’è un’impronta segnata a fondo
dalla prima infanzia
Sergej  Esenin- Poesie

 

 

La magia, l’astrologia, l’alchimia e la mistica neoplatonica varcano la soglia di quella casa comune che è la cultura del Moderno proprio attraverso la nascita della scienza moderna. Keplero e Copernico erano anche astrologi, così come anche maghi furono Bruno e Campanella. La stessa rinascenza umanistica aveva ripreso molto più l’ermetismo che l’antichità classica.

Come, cinquant’anni fa, già Giorgio Agamben ebbe a segnalare in Infanzia e storia, è solo perché l’astrologia e l’alchimia avevano stretto insieme il “cielo” dell’Intelligenza e la “terra” dell’esperienza individuale e la mistica neoplatonica ed ermetica aveva annullato la separazione aristotelica di noūs e psyché, solo per questo, che la nuova scienza moderna poté porre a proprio fondamento un soggetto unico, quell’ego sostantivato che riuniva in sé l’Intelletto separato e il soggetto dell’esperienza e che avrebbe sostituito l’anima della psicologia cristiana e il noūs della metafisica greca.

Individuo questa questione come centrale nel libro di Carla Stroppa, soprattutto nelle pagine in cui essa emerge in modo tale da poter essere posta nei termini più rigorosi: una critica della Magia (e dell’astrologia) non può che implicare anche una critica della scienza.

Ma è naturalmente uno soltanto dei molteplici temi che Carla Stroppa come sempre lascia emergere dalla sua scrittura, e nelle dense pagine di questo suo ultimo lavoro essi si incrociano in percorsi lineari quanto chiaramente labirintici.

Il mio dialogare con il pensiero di Carla Stroppa (attraverso libri, seminari, dialoghi) e la lettura dei suoi testi sono per me ogni volta esperienza di reticolo e lampeggìo, di rimando e individuazione, di sonda e avanzamento. L’abitare la soglia, il ritorno a casa, o il tornare dell’immagine della casa (la “medesima casa” dell’anima e del cervello, il ritorno alla “casa del Sé”, come già nelle primissime pagine di questo libro), l’essere fuori-posto, i fantasmi all’opera, l’illusione: ritornano e si affacciano i temi di altri lavori di Carla Stroppa, insieme a quello su cui negli ultimi tempi ci confrontiamo con passione e grande vicinanza: il dis-sentire.

Ma qui ho iniziato proprio con la questione della magia, così presente già nel titolo e nel sottotitolo del libro. Continuo dunque con il genitivo presente nel titolo. Un genitivo soggettivo o oggettivo? O entrambi? La magia che è propria del ritorno o il ritorno come oggetto di magia? Qui “magia” per Carla Stroppa (la cui analisi del racconto di Baum è, per me, in tutto solidale con la questione magia/scienza moderna da cui siamo partiti) è un nome par parlare di un particolare quanto preciso mondo ‘mediano’: un “mondo intermedio, a dire quello spazio psichico di continua transizione tra sensibile e intelligibile, immaginazione e realtà” – spazio intermedio dell’anima è, per Henri Corbin, il “magico” – e, scrive ancora Stroppa, “il mondo intermedio, ossia il mondo simbolico”.

Questo mondo intermedio è, come Carla e io abbiamo indagato in altri nostri lavori, il mondo del Gioco, dove realtà e irrealtà trapassano una nell’altra, e dello Pseudos. Quest’ultimo può significare sia “menzogna” che “falsità”, o anche “inganno” e “frode”, così come “invenzione poetica”. È proprio nella complessa dimensione dello pseudologico che si è alle prese con lo sfuggente, reciproco attraversamento di reale e irreale, con lo spostamento ripetuto dei confini tra realtà e apparenza, con incursioni a sorpresa tra il visibile e l’invisibile, e dunque con il mondo del Meraviglioso.

Un mondo mediano fatto di cielo e di terra, carico di sostanze leggere e volatili, abitato da esseri umani e da spiriti, a volte anche da esseri bizzarri caduti dal cielo ma solo perché erano lì sospesi su una mongolfiera.

Alba e crepuscolo insieme, a farsi interprete di questo mondo è Hermes, messaggero ma anche ladro, bugiardo e truffatore (come lo Pseudos). Dio intermedio e sempre transitorio, instabile, Hermes è seduttore in quanto attrae, svia, allontana e confonde. Dio delle soglie, dei margini e dei limiti, non è inflessibile e non è autoritario, bensì giocoso e, unico nel suo genere, non è violento.

Hermes è l’omologo greco del dio egizio Theuth. Nella Farmacia di Platone Derrida parla di Theuth come archetipo di Hermes: “egli non si lascia assegnare un posto fisso nel gioco delle differenze. Astuto, inafferrabile, mascherato, cospiratore, buffone, come Hermes, non è un re né un servo; una specie di joker piuttosto, un significante disponibile, una carta neutra, che dà il gioco al gioco (—) È il dio delle formule magiche che pacificano il mare” (il corsivo è mio).

È infatti Hermes ad essere evocato da Carla Stroppa e ad aleggiare in queste pagine, anche nelle sembianze parodiche del mago/illusionista di Oz: “Mitologicamente il mago è un figlio del dio greco Hermes, il più imprendibile, contraddittorio e inventivo fra gli dèi. Il mito lo evoca come dio della magia nel bene e nel male è il grande mentitore capace di inganni distruttivi o sublimi. Illusionista per antonomasia, grande conoscitore di passaggi segreti, custode di tutte le soglie e delle analogie di senso Hermes si colloca all’origine dell’arte e della poesia che si manifestano sempre sulla soglia tra realtà e finzione. Il Mago di Oz è una sua umile e grottesca raffigurazione”.

È estremamente significativo che Carla Stroppa evochi Hermes proprio nella pagina in cui sta parlando del “meraviglioso” e del fare ritorno a casa, del ritorno a Sé. Ricordiamo qui la sottile ma decisiva differenza tra i significati di “meraviglia” e “stupore”: la meraviglia è una reazione improntata a incredulità, mentre lo stupore è uno stato d’animo provocato da qualcosa di inatteso che lascia increduli e disorientati. Stupore è anche arresto della motilità volontaria, associato a torpore dell’attività ideativa e a distacco dalla realtà esterna. Così, meraviglia fa riferimento al sorprendente, al mirabile e al prodigio, mentre stupore indica sbalordimento e torpore, assenza di capacità ricettiva, quindi stupidità e insensatezza.

“Meraviglioso” è proprio l’aggettivo sparito come d’incanto nelle numerose edizioni e successive trasposizioni ma presente nel titolo originario della fiaba di Baum Il meraviglioso Mago di Oz, aggettivo che Carla Stroppa riporta in primo piano chiamandoci ad interpretare come kairòs da cogliere il fare ritorno a casa e ad esperire, di quel ritorno, la vera e autentica magia.

 

 

Una vita dolce

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Gianni Biondillo intervista Beppe Sebaste

Beppe Sebaste, Una vita dolce, Neri Pozza, 214 pag., 2022

Il tuo romanzo parla di istanti e di eternità, di mistica e metafisica orientale. Sei consapevole della tua atipicità?

Sono piuttosto consapevole che molto di ciò che scrivo è lontanissimo dal trionfalismo della narrazione occidentale… E nel mio libro è citato dall’inizio anche il contrario del romanzo a trama: quella forma lieve con cui lei (poiché c’è una lei), si affaccia a “disturbare” nel primo capitolo con l’inermità dell’haiku, l’attestazione di una definitiva innocenza, quell’epifania poetica di diciassette sillabe chiamata haiku. L’arte di descrivere l’evidenza che è nascosta dall’evidenza stessa.

Il tuo è un libro che vuole rompere il ricatto della trama. E del cronotipo: è un raccontare il raccontare.

“Rompere il ricatto della trama”: credo di non avere mai fatto altro da quando ero un ragazzo. Da una parte perché sono sempre stato dalla parte di chi trasgredisce, e la trama è sempre, anche graficamente, un’uniforme e una messa in ordine, un ordine del discorso. E oggi, ancora di più, si assiste a una progressiva riduzione della letteratura alla narrativa – e della narrativa al genere poliziesco, quest’ultimo ormai solo un abbozzo di telefilm con ambientazione criminale. E tutto il resto? Il resto sarebbe l’esperienza, non solo interiore, che scrivere e raccontare avrebbero il compito di trasmettere. Quello che Amitav Gosh chiama “guardare una tigre negli occhi”. È chiaro che le esperienze possibili sono tante e diverse, e anche quel legame tra il piangere e il dire la verità (avventura ben nota per secoli ai filosofi) che tu chiami “mistica”, e in tutti i casi atipica. (Qualcuno ha detto che Una vita dolce è un romanzo inclassificabile, fuori da ogni genere. Meno male, mi sono detto, ci sono riuscito anche stavolta).

Questo inganno del tempo è forse il tuo modo di non abbandonare “S.”, la tua compagna che per una malattia stava abbandonando il mondo, giorno dopo giorno?

Confesso che con questa scrittura io mi sono curato (ciò avveniva già prima della silenziosa pandemia). E sono stato felice della citazione di un brano di Una vita dolce che su un social un lettore ha proposto a un altro lettore del mio libro, come invito a una lettura condivisa. La frase è la seguente: “Ritrovo la pacatezza di scrivere senza trama, senza oggetto, senza per forza costruire impalcature che trasformino parole e frasi in utensili, mattoni, pezzi di ricambio per costruire chissà cosa, e che comunque sia sbriciolerà in un finale più o meno riuscito Chi mi concede e assegna questa libertà? La mia compagna, affetta da malattia di Alzheimer “precoce”, per la quale i deittici, i punti di riferimento spaziali e temporali, le trame, non hanno più nessun senso…. Senza trama vuol dire che tutto, per noi, è storia e narrazione, tutto è già prologo e finale, tutto è eterno. Non è questa l’essenza della letteratura?”

(pubblicato in forma leggermente differente su Cooperazione, nel 2022)

Personal Jesus

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di Filippo Polenchi

Terra, fuoco, legno, acqua (fluviale, se è di mare è di un mare extra, un Oceano), tempesta. Le myricae di Andrea Dei Castaldi scoppiano nel fragore orchestrale delle sue storie. Sono storie come gherigli di noci, dentro a gusci concavi – ma non vuoti – che descrivono il profilo del cielo, delle eclissi. Ci si perde a guardare dal basso verso l’alto, una forma di vertigine agorafobica – seppure nella misura contenuta delle narrazioni, misurate, classiche – che ti prende quando l’asse di rotazione del proprio corpo è disassato, ebbro. Ci sono segni, nel cielo, grandi transiti di carovane stellari. E poi c’è il mondo terrestre, dove, in maniera democratica dentro a tutto quello che potremmo chiamare l’allestimento della geografia, c’è un altro elemento, decisivo, che gioca la sua partita scissa, la sua lotta (senza però quella retorica sdrucciola dello struggle for life): l’umano.

«Il pensiero che sono scalcia più forte perché ora pensa il cielo».

Ci sono dèi e ci sono demoni: passano dal proprio regno a quello dell’altro, si mescolano, diffrangono la voce, il logos. Nel suo ultimo romanzo Le parole d’ordine (Barta, 2024) si legge «ognuno ha il suo dio personale». Un dio per ogni forma morale con la quale si vuol accompagnare un’esistenza, perché è ovvio che, hemingwayanamente, non abbiamo che la forma morale a condurci. Del Dio maiuscolo: le vociferazioni lontane, ecolalia.

Il demone moltiplica gli spazi di visione, le voci. Il demone parla in una camera ecoica, non si riesce a capire bene da dove proviene la voce. La moltiplicazione dei punti di vista – che è una cifra formale di Dei Castaldi, fin dal suo esordio nel 2013 con Finisterre (Barta) – non produce una sommatoria comprensiva, la soluzione sul piano dell’enigmistica del dramma. L’ampliamento delle voci, in qualche modo, svia, conduce altrove, lascia intendere più che esprimersi con chiarezza. Perché se Dei Castaldi scrive ogni volta una inchiesta mascherata da dramma classico è proprio perché il dramma stesso è, spesso, un romanzo greco e perché la detection che si deve fare (le ragioni di una scomparsa, un piccolo equivoco cimiteriale, cito in ordine sparso tra i romanzi Finisterre, La cesura e Anime brevi) è perché la si è fatta in illo tempore, accade qui e ora perché è accaduta nell’Edipo Re del V secolo a.C.

La forma morale di questa narrativa attraversa la Grecia classica. Ce n’eravamo accorti dieci anni fa, quando in Finisterre faceva la sua apparizione una scena-limite, una svolta nell’intreccio, certo, ma una rivelazione di quelle capaci di cambiare la direzione della storia – e anche in quel caso si era incerti, la parola non poteva essere definitiva, si era nel forse. Lo capivamo anche nella Cesura (2015, Barta): la coabitazione di spoglie diverse è sacrilegio, è sacer appunto, qualcosa che deve rimanere ‘separato’ dalla comunità: e da lì cominciavano le ipotesi, le investigazioni…

Anche in quest’ultimo romanzo le ‘fonti’, per così dire, non potrebbero essere più chiare. La vicenda del libro è molto semplice: nel 1978 Olga, la nipote di Oreste Casaro, un veterano della guerra d’Africa (1941), assediato dalle tragedie dell’esistenza ma inspiegabilmente sempre sorridente, chiama a raccolta alcuni vecchi commilitoni e ‘compagni’ dell’esperienza bellica perché 1) lo zio sta morendo 2) lo zio riceverà una tardiva medaglia al valore. L’assemblea dei testimoni – e dei curatori della memoria – è composta da: Domenico Buzzati (ex giornalista ed ex fascista), Stefano Casadei (nomen-omen: è un prete spretato), John William Abbott (medico inglese della prigionia). Ogni capitolo è affidato a una voce, ogni voce – eccezion fatta per ovvie ragioni per Olga – può spostarsi liberamente a parlare di un periodo compreso appunto fra il 1931 e il ’78. Veglia e incornicia il contrappunto dell’intreccio l’elezione al soglio pontificio di Albino Luciani, che vive e muore nel tempo di questa storia.

Guerra e ritorno a casa. A me pare ovvio che Dei Castaldi, qui, abbia voluto assemblare Iliade (la Libia al posto di Troia, l’assedio, la fuga, i diavoli ubriachi dei soldati scatenati, le mutilazioni, la sofferenza) e Odissea (il nostos dei tre amici intorno al corpo limitare di Oreste). Tuttavia a questa Eneide manca una figura di sintesi, un eroe, Enea giustappunto, perché a presentarsi fin dalla prima scena è semmai un puer, un bambino che «ha dodici anni» e, all’inizio del libro, sembra che li avrà anche domani, che ne avrà dodici per sempre, una figura cristologica che, crescendo, colmerà la distanza fra terra e cielo chiamando a sé, anzitutto sul proprio corpo, il patimento universale del corpo. Oreste (nome da tragedia greca, naturalmente) è una figura di sintesi, certo, ma biblica.

E in fondo il mondo di Dei Castaldi è questo: la drammaturgia attica e l’immaginario biblico: un deserto, il fuoco, la rivelazione, l’innesco di un personaggio catartico. Il mondo di Dei Castaldi, anche per la vocazione alla polifonia e alla struttura che si fa essa stessa storia, è quello di Faulkner. Un mondo pre-contemporaneo, verrebbe da dire, un mondo semplicemente moderno.

Nel 1979 esce La cultura del narcisismo di Christopher Lasch: l’autore americano radiografa la società statunitense all’alba di Reagan, del postfordismo, dell’insistente – e oggi è la quotidianità – guerra di tutti contro tutti. In modo folgorante, nell’introduzione, Lasch scolpisce una formula per determinare la genesi dell’uomo narcisista, il quale «è perseguitato dall’ansia, non dalla colpa». L’ansia di non piacere agli altri, di non essere apprezzati, di non essere amati, di non essere riconosciuti, di non coincidere con l’immagine (grandiosa) che abbiamo di noi, l’ansia di fallire, la performance continua tra vincitori e perdenti: tutto nasce dallo sgretolamento comunitario delle fondamenta tradizionali (per Lasch).

Le parole d’ordine si svolgono nel 1978, un anno prima della Cultura del narcisismo. Nel mondo di questo romanzo – e della narrativa di Dei Castaldi – la colpa, invece, è ancora viva, operante, perché l’autore non vuol raccontare il come siamo, ma il come eravamo, perché solo nell’effetto distanziante della memoria si ha la possibilità di dire qualcosa; lo scriveva anche Giorgio Agamben: per essere davvero contemporanei bisogna posizionare fuori dal tempo.

Le parole d’ordine rivela in maniera più pura – per chi ha letto l’intera opera di Dei Castaldi – il gheriglio tanto duro quanto il guscio che lo contiene e ben poco conciliante: è un nucleo abramitico, remoto, dove la terra e il fuoco parlano agli umani, dove morire è un rito di passaggio. Si respira davvero la graniglia tossica del deserto africano, non come effetto scenografico, ma come impasto delle parole. La storia prima delle storie di Andrea Dei Castaldi viene da queste piane aride, è oltranzista anche nella sua scelta di fare un romanzo faulkneriano oggi, di farlo da sempre e per sempre, perché non è tanto la fede nella parola letteraria, quanto l’impossibilità di fare altrimenti. E come nelle profezie, come negli antichi salmi, nella distorsione della Fata Morgana la parola vacilla, il pensiero di obnubila, la voce trema e diventa un periodare lungo, semi-ipotattico, interminabile.

I Poeti Appartati: Alessio Clinker Mischianti

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Trilogia del Capitale

di

Alessio Clinker Mischianti

Alexa

Nelle didascalie
viviamo
comprando pezzi di esistenza al miglior prezzo possibile
e bestemmiando contro
i dispositivi elettronici
quando non funzionano
contro gli esseri umani
e a volte,
anche contro Dio
(nel sistema di oggi, gli istinti sessuali possono essere molto spesso sostituiti
dalla speculazione finanziaria).

*

Yacht

Le onde
parlano tedesco
e s’infrangono nei pixel
le si può ritrovare serigrafate
lungo le portiere dei furgoni
in un deserto senza sabbia
raccogliamo i frutti, le erbe aromatiche
simbolo di un’indipendenza che dipende
dalle recensioni dei ristoranti
dalle imbarcazioni attraccate
dagli yacht
su cui in cima i ricchi sventolano
così come le loro bandiere
di fronte ai turisti
che li osservano incuriositi
tremendamente ancorati a terra.

*

Proprietà privata

Nuotiamo
sopra una pellicola di plastica bio-compost
che protegge il moto ondulatorio
dei flussi di denaro
In fondo all’ecosistema
liquefatto, subcutaneo, di un blu geologico
scambi economici di rumori,
riverberi di suoni emessi senza antenne
Si combatte e si sopravvive
ci si arrende e si muore
come sempre
come dovunque
Per entrare è obbligatorio indossare delle maschere
così da avere accesso all’atmosfera,
diritto alla respirazione
e test psico-attitudinali per riemergere
Mentre l’ombra morde i sassi
si tenta di rimanere aggrappati
agli ultimi ricordi di riflessi
trapassati in acqua
Avvolti da stracci genuflessi,
con la paura di non poter vedere ad occhi aperti
veniamo buttati in mezzo,
senza dispositivi
Impotenti
è odiando tutto quello che non conosce che l’ignorante impara ad amare
Boccagli dispersi inghiottiti
contengono aliti di niente spezzati
e continuiamo a nuotare su di un letto
la notte si sente l’ecosistema comunicare
E il cielo è iniettato nel mare
a cinque metri dalla riva si resiste
a cinque metri dalla riva
la proprietà privata non sussiste.

Tutto il resto è letteratura

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di Pasquale Vitagliano

La prima domanda che mi faccio accingendomi alla lettura dell’ultima opera di Vittorino Curci, Tutto il resto è letteratura (Musicaos, 2024), è se all’interno troverò questo “resto” o altro. E, dunque, sono anche curioso di sapere cos’è l’altro. Cosa rimane oltre la Letteratura? Si sente allora la formazione musicale dell’autore che scrive poesie come una partitura, che lui saprebbe anche accompagnare col suo sax. Se per Pessoa si scrive quando la vita non basta, per Curci l’una è controcanto dell’altra. Anzi, mi trovo di fronte ad un contrappunto in cui l’una insegue l’altra imitandola. Tuttavia, se l’effetto melodico è musicale, quello armonico è pienamente letterario. Per te, lettore, che resti solo/ con la verità del libro, il senso compiuto/ ha sperato un’altra notte di quiete.

La prima notte di quiete è quella mortale, nella quale si dorme senza sogni. La poesia ci consente di morire più volte? Beneficio, e privilegio, concesso anche all’amore fisico. E perché dobbiamo sperare in un’altra notte senza sogno? Il sogno, forse, ci addolora. Ci priva della consapevolezza della vita reale, quella senza Letteratura. Eternizzare stanca e se non pensi ad altro/ vieni tra queste righe che slegano il ricordo/ qui c’è un teatro di anime morte/ che tramuta in sogno quelle giornate. Sin dal titolo si ha l’impressione che in questa fase l’autore abbia provato ad abdicare alla funzione poetica della parola. Per esempio, come un’onda la prosa rifrange contro i versi che sembrano ritirarsi, ma senza cedere troppo spazio. Resistono, anzi, quasi per sfida, diventano radi, talvolta si spezzano, eppure sopravvengono. Vogliono riprendersi il tono principale dell’opera. La poesia assume il profilo di uno spettro che si aggira per un territorio che l’autore ha provato a liberare dalla Letteratura per (ri)consegnarlo intonso alla vita vera. E come si fa? È un’aporia. Infatti, la poesia si fa sentire come un arto fantasma che continua a dolere per la sua amputazione. In questo supplemento di vita/ sei cieco, ascolti i rumori/ della strada, sai cose/ che prima non sapevi.

Perché Vittorino Curci ha voluto fare questa esperienza? Penso di capirlo, come tutti coloro che non si rassegnano al sentimento di perdita che si prova in un’epoca storica come la nostra affetta da una forma sociale di alzheimer. Le cose che non ricordo non sono mai esistite. È un’affermazione terrificante. Specie se aggiungo il mio corollario che ciò che resta alla fine ne costituisce l’anima. Pertanto, senza memoria non solo perdiamo la nostra coscienza, addirittura, azzeriamo la nostra realtà. Non siamo più nulla, né siamo mai esistiti. Neanche la realtà social ci può salvare, perché nessuno saprà più riconoscere le immagini. Di fronte, a questa perdita la tentazione di chiudere gli occhi è forte. L’orfanezza della parola è inconsolabile.

A questo punto, quello che l’autore ci propone è di azzerare col mezzo della parola. Resettare il peso semantico e il frastuono verbale con la poesia. Emulare il silenzio con l’armonia musicale della scrittura. Credo che ci sia riuscito proprio grazie alla sua vocazione musicale. Infatti, i versi di questo libro sono essenziali senza essere necessari, non più di un gesto, un saluto, un atto della nostra vita. I bambini tracciavano con le braccia/ ampi cerchi nell’aria. era l’estasi/ della loro momentanea immortalità. Parafrasando l’indimenticabile canzone di Ivano Fossati, Una notte in Italia, la lettura dei versi di Vittorino Curci ci motivano a non arrenderci, senza retorica, perché è tutta Letteratura, ma come vedi la dobbiamo cantare; è solo Letteratura, ma la dobbiamo imparare.

 

“Memoria dimenticata”: a 50 anni dalla strage nel carcere di Alessandria

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di Daniele Ruini

Le origini di Alessandria, sonnacchioso capoluogo di provincia che ha dato i natali a Umberto Eco e ai cappelli Borsalino, sono ben iscritte nell’odonomastica del suo centro storico: Piazzetta della Lega Lombarda, via Pontida, via Legnano, via Alessandro III (il papa da cui la città prende il nome); e ancora: via Modena, via Parma, via Bergamo, via Piacenza, via Cremona: località alleate nella Lega lombarda che, come sfida aperta all’imperatore Federico Barbarossa, nel 1168 patrocinarono la fondazione di una nuova città pensata come baluardo contro le forze imperiali.

A custodire invece le tracce di una storia più recente è un quartiere periferico che la ferrovia separa dal centro: è qui, tra i palazzoni costruiti durante l’espansione urbanistica degli anni ’70, che troviamo via Gandolfi, via Pier Luigi Campi, via Vassallo Giarola, via Gaeta e via Cantiello. Sono i nomi di cinque vittime, nomi dimenticati che ci parlano di violenza, di carcere, di anni di piombo, e della decisa fermezza dello Stato a non scendere a compromessi con chi voleva ribellarsi alle istituzioni.

Ma torniamo nei pressi del centro storico, nel luogo in cui il 9 e 10 maggio 1974 la città visse due giorni di ansia e tragedia che lasciarono sul campo 7 morti e decine di ferite. Siamo in piazza don Sorìa (all’epoca piazza Goito), sulla quale si affaccia il carcere cittadino, la casa circondariale oggi intitolata agli agenti di custodia Gennaro Cantiello e Sebastiano Gaeta. Già nei mesi precedenti il carcere alessandrino era stato attraversato da momenti di tensione, con uno sciopero dei detenuti che protestavano per richiedere condizioni di detenzione migliori: in tutta Italia i carcerati si battevano infatti per una riforma in grado di promuovere trattamenti più umani per i prigionieri, speranzosi di trovare un interlocutore nel socialista ed ex partigiano Mario Zagari, da poco nominato Ministro di Grazia e Giustizia.

Fino a quel momento, tuttavia, tali speranze erano state del tutto disattese, come dimostrò la protesta al carcere fiorentino delle Murate del febbraio ’74, durante la quale gli agenti spararono sui detenuti ferendo a morte il ventenne Giancarlo Del Padrone (per l’occasione i detenuti alessandrini organizzarono uno sciopero di due giorni e una raccolta fondi per la famiglia della vittima).

Tali contestazioni s’inseriscono in un più ampio contesto storico nel quale rientrava anche la politicizzazione dei detenuti: un processo maturato in seguito alle proteste studentesche del ’68 e innestato dall’incontro tra gli studenti e il mondo del carcere[1].

E non andrà dimenticato che nella primavera del 1974 l’Italia viveva i momenti febbrili della campagna referendaria sul divorzio, con la forte contrapposizione tra DC e MSI, da un lato, e il resto dell’arco costituzionale, dall’altro. Fu proprio nel pieno di questa campagna che le Brigate Rosse decisero di uscire dall’ambito delle fabbriche e di prendere di mira un esponente dello Stato: il 18 aprile del ’74 a Genova viene infatti rapito Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica dalle note simpatie di destra (e PM nel processo contro il gruppo anarco-comunista “XXII ottobre”, responsabile di una rapina conclusasi, nel marzo ’71, con l’uccisione del portavalori Alessandro Floris)[2].

È al crocevia di questi sommovimenti che i sospetti sull’organizzazione di una possibile rivolta nel carcere di Alessandria diventano realtà nella mattinata di giovedì 9 maggio: alle 9:30 i detenuti Cesare Concu (vicino alla sinistra extraparlamentare), Domenico Di Bona e Everardo Levrero, entrati in possesso di due pistole e quattro coltelli, prendono in ostaggio alcune guardie carcerarie e alcuni insegnanti nelle aule scolastiche del penitenziario. L’obiettivo dei tre è molto concreto: vogliono evadere e, per farlo, approfittano dell’opportunità riservata ai detenuti di frequentare le lezioni per il conseguimento del diploma di geometra[3].

Trasferitisi nell’infermeria, dove si trovano altri detenuti, sequestrano anche il medico del carcere, Roberto Gandolfi. Nel frattempo giungono le autorità locali e si apre la trattativa: a fare da intermediari alcuni giornalisti e l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, la quale per facilitare il dialogo si offre come ostaggio, una scelta coraggiosa che le sarà fatale. I tre detenuti avanzano le loro richieste attraverso un comunicato nel quale, oltre a protestare contro il Governo reo di non aver concesso la riforma del sistema penitenziario e del codice penale, chiedono un pulmino schermato e una scorta che permetta loro di allontanarsi dal carcere.

Mentre la trattativa va avanti, a rompere gli indugi è l’arrivo sul posto del Procuratore generale del Piemonte, Carlo Reviglio della Veneria, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Gli ordini provenienti dal Ministero dell’Interno sono chiari: lo Stato non può accettare nessuna negoziazione e la vertenza dev’essere chiusa al più presto (a maggior ragione a due giorni dal referendum abrogativo sul divorzio). Nonostante la contrarietà del sindaco e di altri esponenti delle istituzioni alessandrine, a prevalere è la linea della fermezza e della forza: la sera del 9 maggio viene deciso un primo assalto, nel quale rimarrà ucciso il dottor Gandolfi e gravemente ferito il professor Pier Luigi Campi (il quale morirà in ospedale dieci giorni dopo). Il giorno seguente, nonostante il tentativo delle autorità locali di riaprire la strada del dialogo per evitare altro spargimento di sangue, ci sarà una seconda offensiva, che avrà conseguenze ancora più gravi: Di Bona sparerà mortalmente a Vassallo Giarola e agli agenti Cantiello e Gaeta, prima di togliersi la vita; Concu rimarrà invece ucciso dalla polizia; Levrero uscirà illeso e 4 anni dopo sarà condannato dalla Corte d’Assise di Genova. Questo l’esecrabile commento del procuratore Carlo Reviglio della Veneria a operazione conclusa: «La nostra è stata un’azione meravigliosa, condotta in modo magistrale».

A seguito di questi fatti la città rimane come stordita: oltre all’immenso dolore dei parenti delle vittime, a dominare è un senso di incredulità per quanto successo e di rabbia per la condotta delle forze dell’ordine comandata dall’alto. È evidente che ogni opzione guidata dal buon senso è stata accantonata in favore di un’iniziativa sciagurata che chiudesse la vicenda nel più breve tempo possibile, in dispregio di ogni costo umano. La giunta comunale, guidata dal giovane sindaco Felice Borgoglio, oltre ad esprimere totale dissenso rispetto al giudizio di Reviglio della Veneria e ad aver ottenuto il trasferimento da Torino a Genova del processo a carico dell’unico rivoltoso sopravvissuto, Everardo Levrero, guidò la costituzione del “Comitato 10 maggio”: l’obiettivo era quello di denunciare in maniera dettagliata il modo in cui era stata gestita la rivolta carceraria e di «arrivare a un accertamento imparziale della verità e delle responsabilità» (iniziativa che porterà ad un esposto che sarà archiviato dalla procura generale di Genova e alla pubblicazione del volume di controinchiesta La strage nel carcere: Alessandria, maggio 1974).

A ripercorrere questa tragedia, a 50 anni di distanza, è oggi la bella docuserie in 6 puntate “Memoria dimenticata”, realizzata da Alessandro Venticinque e prodotta dalla diocesi di Alessandria. Oltre alla ricostruzione dei fatti e alla riproposizione delle tante ombre che avvolgono questa vicenda (dallo scarso livello di controllo nei confronti dei detenuti che facilitò l’ingresso delle armi in carcere, a come le indagini che portarono alla condanna di Levrero non aggiunsero alcun elemento di chiarezza su quanto avvenne davvero in quelle ore concitate), a impreziosire questo lavoro è la testimonianza di alcuni dei protagonisti dell’epoca (compreso lo stesso Levrero, raggiunto telefonicamente) e dei parenti delle vittime.

Il titolo stesso della docuserie vuole valorizzare il ruolo della memoria: se la strage di Alessandria venne avvolta rapidamente da una cappa di silenzio (complice anche l’indolenza della maggior parte della cittadinanza), la ricorrenza del cinquantennale può rappresentare una preziosa occasione per “fare memoria” di fatti che appaiono –anche localmente– quasi del tutto dimenticati.

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[1] Cfr. Cesare Manganelli, La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata e la strategia politica dei Nuclei armati proletari (1975-1975) in «Quaderno di storia contemporanea» LXVI, 2014, pp. 105-115. Come ricorda l’autore, l’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta sulla strage di Alessandria fu una delle richieste contenute nei due volantini del settembre-ottobre ’74 con cui si annunciava la fondazione dei Nuclei armati proletari, la cui nascita è strettamente legata alla politicizzazione dei detenuti.

La vicinanza del mondo operaio ai detenuti è stata immortalata nel film di Marco Bellocchio Sbatti il mostro in prima pagina (1972), in cui sono intercalate immagini del passaggio del corteo degli operai in sciopero di Philips, Alfa Romeo e Pirelli davanti al carcere milanese di San Vittore: alle bandiere dei Cobas si mescolano slogan come «Fuori i compagni, dentro i padroni!» e «Compagni carcerati sarete liberati! L’unica giustizia è quella proletaria!». Nello stesso 1972 Lotta Continua pubblicò il volume Liberare tutti i dannati della terra, una densa inchiesta sulle carceri italiane costruita con le testimonianze e le denunce dei detenuti stessi (tra cui diversi militanti).

[2] Nel volantino di rivendicazione del sequestro le BR parlano della necessità di «portare l’attacco al cuore dello Stato». Sossi verrà liberato il 23 maggio, nell’attesa che lo stesso accada agli 8 detenuti della “XXII ottobre”, ai quali è stata concessa la libertà provvisoria; ma così non sarà, visto che il procuratore generale di Genova Francesco Coco si opporrà al provvedimento, una decisione che porterà le BR a togliergli la vita l’8 giugno 1976: si trattò, come ricorda Giovanni Bianconi (Terrorismo italiano, Roma, Treccani, 2022, p. 67), del «primo omicidio pianificato dell’organizzazione».

[3] La presenza di percorsi di scolarizzazione all’interno di un penitenziario (unitamente a laboratori di meccanica, falegnameria e altre attività professionali), oggigiorno la norma, era invece all’epoca una caratteristica innovativa del carcere alessandrino, introdotta su iniziativa di un sacerdote illuminato, nonché insegnante liceale di Lettere e Religione, Don Amilcare Sorìa (1887-1962): a lui il comune intitolerà nel ’65 la piazza antistante il carcere. Cfr. Andrea Biscàro, Don Amilcare Soria: padre dei carcerati, Torino, 2022.

Il quinto incomodo

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di Tommaso Meldolesi

Con Marco, Oscar e Gigi ci troviamo ogni settimana a cena il mercoledì sera, a turno a casa dell’uno o dell’altro. Da quando abbiamo lasciato le nostre mogli, abbiamo preso quest’abitudine che ormai si è consolidata negli anni. E nessuno di noi quattro saprebbe farne a meno.

Quella sera Gigi ci aveva preparato un pollo alla diavola con contorno di funghi shitaki che era la fine del mondo, Marco aveva portato una bottiglia di Amarone del 2016 ed io una crostata con i frutti rossi. Così, satolli e soddisfatti dalla buona cena, eravamo da poco seduti intorno al camino intenti a bere l’ultimo bicchiere, quando Marco ad un tratto emise un singulto.

– Ragazzi! Chi è quello là? – ci chiese dopo un secondo, visibilmente spaventato.

– Chi?

– Chi?

– Chi?

Ripetemmo noi tre in coro.

– Quello là!

– Ma dove? Chi?

– Guarda Oscar là dietro. Si là, là… Non lo stai vedendo adesso? – esclamò Marco alzando un dito in direzione della finestra.

– Ma dove? Io sto guardando in quella direzione, ma non sto vedendo nulla.

– Là… là… vedi ora si sta muovendo…

– Ma dove? Dio mio!

Marco sembrava posseduto dal sacro fuoco del terrore, al punto che noi tre pensammo che stesse delirando per via dell’alcol quando, osservando meglio, quasi tremando, Gigi si rivolse a noi dicendo:

– Ragazzi, forse Marco ha ragione. Guardate là… guardate là in fondo.

Scrutammo con attenzione il punto che Gigi ci stava indicando e di fianco alla tenda della porta finestra che dava sul giardino scorgemmo in un angolo la sagoma di un uomo.

Gigi abita a pian terreno ma per arrivare al suo appartamento si deve attraversare un cortile interno che non è accessibile dalla strada. Chi l’aveva fatto entrare? Che cosa voleva quell’uomo da noi? Rovinarci la serata? Oppure chissà che cosa… Nessuno di noi lo conosceva né aveva idea di chi fosse.

L’uomo sembrava sorriderci. Che avesse bisogno di aiuto? Aveva il volto spigoloso, un’aria non invitante e un’età indefinita sopra i cinquantacinque anni. Anche quando ci sorrideva sembrava tirare tutti i muscoli con una tensione innaturale. Quel sorriso mise tutti noi molto a disagio.

– Cosa facciamo? – dissi imbarazzato.

– Io a casa mia un estraneo non lo faccio entrare! – esclamò Gigi risoluto.  – Voi fate quello che volete. E se volete invitarlo e andarci a bere una birra sono fatti vostri, ma non mi coinvolgete per favore. Intanto si è fatto abbastanza tardi per cui è meglio che la finiamo qui per stasera perché domani lavoriamo tutti.

Ma quando poco dopo uscimmo per tornarcene a casa, l’uomo dal giardino era sparito.

La settimana successiva, dopo la solita cena, questa volta a casa di Marco che abita al settimo piano di un grande palazzone, udimmo bussare alla porta. Il padrone di casa andò a chiedere chi fosse a bussare ma nessuno rispose. Nello stesso istante a me e a Gigi parve di vedere lo stesso volto dell’uomo che ci aveva sorriso una settimana prima, ma questa volta molto più circospetto e quasi scocciato. Sembrava che ci stesse spiando in ogni nostro minimo movimento. Ci sentimmo controllati e osservati dall’esterno e questo ci diede molto fastidio.

-Ma chi è? – chiese Gigi ad alta voce. – Che cosa chiede? Cosa vuole da noi?

Marco molto timoroso aprì la porta, ma sul pianerottolo non c’era anima viva.

Lo fissammo bene tutti e quattro. L’uomo sembrava essere appeso al vetro non si sa bene come. Chi ce l’aveva portato? E soprattutto cosa avremmo potuto fare per lui? Quel volto così spigoloso e insolito non suscitava in nessuno di noi memorie di amici scomparsi o di antichi rivali in amore o quant’altro. Era soltanto la proiezione di un sentimento comune che tuttavia ci inquietava e non poco.

Un mese dopo eravamo tutti a casa mia. Stavamo per iniziare una cena a base di specialità della cucina asiatica che sono da sempre la mia passione, quando udimmo suonare il campanello. Da sempre interessato agli incontri, anche ai più stravaganti, decisi che sarei andato ad aprire.

– Ma sei matto Andrea! Magari è sempre quello!

– Vuoi metterci tutti in difficoltà?

– Ma cosa ti salta per la testa?

Mi dissero i miei amici terrorizzati. Ma io, fermo nella mia decisione, mi diressi verso la porta d’entrata ed aprii.

L’uomo entrò. Era altissimo e molto magro. Aveva i capelli grigi corti ed era tutto vestito di grigio.

Mi ringraziò per l’ospitalità e si sedette a tavola con noi. Superando i nostri timori iniziali, ci accorgemmo che sembrava molto affabile. In fondo questo quinto incomodo non era poi tanto male. Quell’incontro così insolito e inatteso finì per trasmetterci una strana allegria. Il problema era che l’uomo non parlava la nostra lingua per cui non potevamo sapere nulla di lui. Lo sconosciuto cominciò a mangiare con voracità tutto quello che si trovava davanti e parlò ad ognuno di noi in un idioma straniero molto buffo che nessuno di noi aveva mai udito. Parole simpatiche, sicuramente affettuose, ma chi di noi quattro poteva afferrarle e capirle fino in fondo? Avremmo voluto conoscerlo meglio, invitarlo ad altre nostre cene ma la sua non fu altro che un’apparizione.

All’improvviso si alzò da tavola, rivolse un grande sorriso a tutti noi, uscì dalla porta di casa mia e sparì.

 

Lo stato dell’Arte: Antonio Raucci

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Dente di topo

Giuseppe Cerrone dialoga con Antonio Raucci

 

Caivano dista una manciata di chilometri da Succivo. I due paesi sono collegati da una piccola e tortuosa arteria che mette in fila, uno dietro l’altro, tutti i centri dell’area atellana fino ad Aversa. Per chi come me arriva dalla provincia di Napoli, è sufficiente non perdersi per le vie dell’interno dopo il bivio di Frattaminore. Il rischio è quello di vagare tra i sentieri capricciosi di un agro famoso per le sue alberate alte dieci metri. Bastioni dove la vite convola a nozze insieme a grandi arbusti da frutto. Vado a trovare Antonio Raucci. Avere un amico così interessante non molto lontano da casa, è una fortuna da cogliere al volo. Al diavolo Google Maps. Conosco la strada. Durante il percorso torno sulle domande senza il disturbo del navigatore. Guido con attenzione, gustando l’attesa. L’intervista è una eccentrica forma d’arte che oscilla tra la confessione e lo studio. Un po’ teatro, un po’ filosofia, ha spesso il merito di dire la verità. Un motivo in più per praticarla. Parcheggio l’auto in garage. Il buio. Poi squarci di luce dai pannelli in alto. Cammino mirando esiti che il catalogo “Spazio per acrobati” illustra con dovizia. Comincio da lì mentre alcune donne coi tacchi portano a spasso i ricordi. Le risposte dell’artista[1] appaiono in grassetto.   

 

1) Il tempo. Quando cessiamo di scandirne le fasi, sedotti dalle cose e dai viventi, entriamo forse in una zona di beato splendore. Si può sfuggire alle fredde meccaniche dei giorni e delle ore? O è un sogno impossibile da realizzare?

Il tempo è ciò che mi prendo e di cui dispongo. Una torta fatta di tante fette che poi finiranno. La sua dimensione è squisitamente esistenziale. Io rincorro il tempo, anzi provvedo alle lancette che mi spingono alla corsa contro le ore e i minuti che trascorrono inesorabili. Si ha sempre bisogno del tempo, perché gli obiettivi e gli scopi che ognuno si pone, vanno inseguiti scandendo i giorni, misurando la propria forza attraverso i calendari. L’unico modo per non subire il tempo, è attuarlo, coronando processi creativi soggettivi. In ultima analisi, il tempo è una risorsa individuale. A me serve per creare e progettare.

2) Nei tuoi lavori emergono figure sconcertanti, esseri antropoidi, forme occipitali che non sempre emanano un buon odore. Sono gli uomini-cyborg del futuro o le maschere contemporanee che invadono lo spazio dei nostri schermi abituali? Sembrano scappati da un demiurgo cattivo che li teneva in gabbia senza la consolazione di una ricreazione.

Sono i miei simili, esaminati con spirito nuovo. È come se mostrassi il loro interno, avvalendomi di sonde e dinamo di precisione. “A forza di vedere immagini attraverso le radiografie, il nostro modo di [riproporle] è cambiato” (Francis Bacon). Quanto all’essere sempre in fuga, la velocità affannosa con cui ci si rincorre, rimanda a delle prigioni esistenziali che noi stessi abbiamo costruito.

3) In bilico accanto al simile in una strana prossimità con ingranaggi e ruote, in un mondo feroce capace di funeste espulsioni. Eppure i tuoi modelli, che ricordano gli attori di Bresson, irrompono sulla scena come “revenant”, prelevati da un oblio profondissimo. Cos’è per te la morte e cosa può esserci dopo? Esiste un riscatto per i defunti? E, se sì, quale?

La morte è la scadenza del mio tempo. Non so nulla su quello che ci aspetta dopo. Il riscatto per i defunti consiste nel lavoro lasciato ai posteri. Loro ne avranno cura e memoria. L’uomo è nato per fare. Quello che di lui rimane, dopo la morte, è il suo fare. Il suo fare è il dono che resta quando non ci sarà più.

4) Sulla scia del grande Mario Persico, tua indiscussa influenza, ravviso una straordinaria vitalità nei tuoi lavori, una fortissima carica biologica. Per quanto paradossale possa sembrare, è possibile parlare di uomo e donna, con il primo intento a spendere tutto il suo fascino e le sue abilità, non ancora prescritte, in manovre di corteggiamento, e la seconda, incuriosita da tanto ardore mascolino, che mostra invece la sua di “mercanzia”. Le avances sono rinnovate e aggiornate da innesti meccanici e circuiti nascosti sottopelle. Muscoli, polmoni, ossa paiono fuori posizione, tuttavia daranno il loro contributo all’estasi amatoria, cui la donna non si sottrae. Vi è una cura del sé che conosce metodi bizzarri in un contesto da romanzo pruriginoso. Il dettaglio delle gambe, la femminilità degli arti ad esempio. Dico bene?

Vedo l’amore come il gioco fondamentale dei viventi. Ci si scruta e ci si annusa in forza di oscure leggi. Chimica e desiderio determinano incontri e dettano scelte, a volte anche singolari. I condizionamenti delle chiese e delle fedi perdono di valore se solo apriamo gli occhi su quello che abbiamo intorno. Una moltitudine di corpi in transito verso l’altro. Forma di relazione squisitamente terrena. Qui il premio è la persona che ho di fronte, la figura intera, il piacere che procura. Così l’esplorazione e la gioia vengono a noi naturalmente, e le critiche e le imperfezioni non hanno voce in merito. Si annullano nell’orgasmo. Mario Persico è stato il cibo e l’acqua nei giorni dell’apprendistato. Un grande artista, un grande uomo, un mirabile educatore. Mirava al primato dell’estetica senza calcoli egoistici. Non si risparmiava, dava sé stesso alla causa, mettendo da parte qualsiasi tornaconto privato.

5) Festa, condivisione, gioco, acrobazie sul posto, lezioni dissennate all’aperto senza un utile, è questo l’esorcismo per il cappio che tiene legati gli umani alle logiche inesorabili del lavoro e del mercato. Il “Leviatano” delle multinazionali soffoca il vivente, stritolandone l’immaginazione. La tua arte è un grido di protesta, silente e disperato, che però recupera la gioia, la gioia del fare. Un esercizio strenuo, quotidiano di rivalutazione della materia, e dei giorni passati a sfuggire all’annientamento. Che ne pensi?

Credo che l’arte sia gioco. Spazio ludico in primis. Le drammatiche contraddizioni della società contemporanea vanno affrontate con soluzioni diverse, strambe che richiamano i comportamenti del fanciullo alle prese con il mondo e i suoi paradossi. A me piace occupare il posto che scelgono i bambini quando vengono feriti dalla vita o da altro assurdo. L’analisi esistenziale delle loro risposte al dolore diventa Patafisica, «scienza» per nuovi immaginari. Gareggio da outsider nella speranza di accendere entusiasmi ed infatuazioni in un pubblico che potrebbe col tempo aumentare considerevolmente. Anche se non sono nel mainstream, i miei lavori parlano a gente interessata senza erigere torri d’avorio.

6) Vorrei che dicessi qualcosa su Stelio Maria Martini, colui che più di tutti ha preparato e favorito la svolta nelle tue strategie estetiche. È davvero esaltante per l’artista incontrare un grande maestro. Che tipo di rapporto era il vostro?

1988. Ero giovane ed ambizioso. Facevo cose nel campo dell’Informale ma tentavo incursioni nel Materico. Su Martini aleggiava un alone da leggenda. Ventinove anni sono pochi quando si affronta un titano del genere. La mia impreparazione emerse evidente come la lana che si attacca al velcro. E, tuttavia, il maestro accolse con favore quelle operine, scrivendone anche. L’iniziale soggezione sparì piano piano. Diventammo amici e sodali. Dal 1994 le visite si intensificano e la confidenza aumenta. Arrivano i primi benefici. Vivo al suo cospetto una svolta mentale e attitudinale senza precedenti. Scopro un mondo sconosciuto. Esploro una dimensione, quella del fare, che si allontana volutamente dalla convenzione. Sotto la sua ala e la sua guida, cambio pelle, sfoggiando progressi importanti. Partecipo a mostre di rilievo. Io stesso ne presento di mie, incoraggiato dal suo apprezzamento. Cercavo, nella prassi e nel gesto, di lambire, quantomeno, le sue aree di influenza e il suo sapere, vastissimo, sterminato, spalancato sul cosmo e sul caos. Diceva con affetto che lui era la mente ed io il braccio. Lo seguivo in punta di piedi, rispettandolo e venerandolo. Presto però cadde tra noi ogni tipo di inibizione. I discorsi cominciavano così a prendere risvolti molto intimi. Divenni il suo tuttofare, in virtù di un rapporto leale, privo di secondi fini. Provo per lui una riconoscenza infinita. Mi ha messo sulla via attraverso stroncature e incitamenti. Martini non aveva peli sulla lingua. Fotografava sempre con esattezza la situazione. Una lucidità spietata messa al servizio di tanti artisti, che andavano da lui in pellegrinaggio a riceverne conforto e rassicurazione ma pure qualche schiaffo. Metaforico s’intende e, comunque, indispensabile per la crescita personale. Ci vedevamo il martedì, qualche volta la domenica dopo le 11. L’immancabile caffè si accompagnava ad elaborate prove gastronomiche, nelle quali eccelleva. Verdure, patate, ròsbif con vino. Si misurava in cucina con qualsiasi pietanza, riuscendo bene. Poi ha cominciato a star male, allora ho curato di persona la sua produzione. C’era materiale di valore inestimabile, pubblicato su antologie e periodici, che doveva tornare a casa. Ricordo un suo intervento, apparso su «Levania», rivista del poeta e critico Eugenio Lucrezi. In quel frangente, fui proprio io a procurare la pubblicazione a Martini. Vi teneva in modo particolare, e voleva, assolutamente, entrarne in possesso. Ha lasciato tesori su isole ancora sconosciute. Un’immensa fortuna al servizio di pochi coraggiosi. Con grande lungimiranza e saggezza, aveva ampiamente previsto i problemi e le resistenze che avrebbe fatalmente incontrato a Napoli, qualora si fosse optato per la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, come luogo dove aprire un fondo ed un archivio dedicati alla sua opera. Martini scelse il Mart di Rovereto, agendo in modo ineccepibile e salvando dall’ineluttabile scempio una mole capitale di scritti e lavori visivi che, spiace dirlo, in qualsiasi sito campano, sarebbero finiti “nel cesso” [parole sue che riporto con orgoglio]. Gli sono stato vicino fino all’ultimo come conviene ai discepoli che non dimenticano il loro debito di gratitudine e hanno sempre davanti la lezione del maestro. Imperitura.

7) Come cominci le giornate? Cosa fai appena sveglio? Qual’è il metodo? Da un lato la scelta di oggetti, oltraggiati dagli anni, nei mercatini dell’usato, roba vile, affascinante perché vissuta, dall’altro l’utilizzo sapiente del colore, al quale non rinunci, che stendi su tavole per enfatizzare volti e corpi di vecchie foto che, scattate una volta, riproponi con gran divertimento in pose surreali e suggestive combinazioni. Parlaci un po’ della routine che ogni creatore inventa e subisce contemporaneamente.

Scendo nello studio e scavo tra le cose rinvenute nei mercatini. Mi piace abbinare l’oggetto ad un pensiero. La funzione della mente, nel mio caso, è quella di trovare una nuova realtà attraverso il materiale recuperato. Ciò che viene rifiutato e scartato, consegue una forma più autentica. L’arte riscatta così cumuli di rovine in ariosi collage a tema (Il mare e gli abissi, ad esempio). Ecco che un allargascarpe, con l’aiuto di un supporto in legno e di una buona dose di vernice, diventa un transatlantico. Lavoro soprattutto di mattina, dedicando il pomeriggio agli affari personali. La sera, tuttavia, dopocena, ritorno sulle intuizioni sviluppate ad inizio giornata. La ricerca nei mercatini avviene nei fine-settimana. Guidato da impulsi e fantasmi di provenienza incerta, vago tra rigattieri e professionisti, anche loro, come me, in cerca di qualcosa che possa colmare i nostri vuoti. La differenza è che, col mio lavoro, l’oggetto acquista una nuova funzione in una cornice diversa.

8) Sei nato nel 1959. La tua generazione ha accolto la transavanguardia e i New media. Hai assorbito tutto in modo personalissimo. In questo contesto di riferimenti e influenze, avviene l’incontro con Domenico Mennillo, scrittore – performer – poeta visivo – autore di installazioni sovversive, almeno per il senso comune. Certi legami cementano vocazioni e dissodano il terreno. Lo puliscono dalle erbacce. Un’altra amicizia importante.

Con Domenico ho scoperto di avere tanto in comune. Ci unisce il chiacchiericcio e lo schiamazzo dei mercatini, quando si patteggia e discute insieme ai lavoratori di frodo per arrivare ad un prezzo che soddisfi entrambi i contraenti. Ecco, per sommi capi, come inventiamo e rinnoviamo il quotidiano, io e lui. All’inizio ci tuffiamo nelle strade. Lo facciamo da ascetici flâner. Siamo sempre in cerca di qualcosa. Un oggetto è in grado di suscitare un mondo, un pensiero, una traccia sulla quale lavorare sodo. Sogniamo nuovi linguaggi, ognuno a modo suo. Nella vaghezza, accogliamo tutto, anche la distrazione. In passato ci siamo scambiati filmini amatoriali, quaderni intimi, strani congegni, reperiti un po’ ovunque. Abbiamo avviato un vero e proprio flusso di opere. Non poteva essere diversamente. Coltiviamo gli stessi interessi. Questo ci ha portato a collaborare alla realizzazione di alcune cartoline d’artista che mettevano in comunicazione Napoli e Parigi, i loro rispettivi milieu sperimentali. Se la vocazione è la stessa, gli obiettivi però divergono. In lui riscontro una maggiore propensione al pensiero, alla ricostruzione, all’archivio. Vi è in Domenico un anelito performativo che si nutre di cornici, strutture, ambienti, una certa tendenza, quasi barocca direi, alla grandeur, che in fondo non mi appartiene. Del resto il suo retaggio di attore la dice lunga in merito, mentre io esco dalle accademie d’arte. Su una cosa non ci sono dubbi: frequentandolo, ho chiuso con le fisime da romantico bohémien. La gramigna andava estirpata. Gli amici, dicevi, vengono a dissodare il giardino di casa. Vero, assolutamente.

9) Le tue opere dicono anche questo: non avremo mai il dono di vederci come ci vedono gli altri. Gli altri hanno su di noi una prospettiva privilegiata che non possiamo replicare in alcun modo, per quanti sforzi si faccia. Lo sguardo di chi mi fissa e mi scruta è la verità alla quale, io, oggetto indagato, osservato speciale, non posso avere accesso. Siamo dentro un gioco che sorveglia e punisce. I tuoi gesti, il tuo assemblare e fondere Bios e Polis, arpiona il mistero dello sguardo altrui, così potente da consegnarci alla resa. È così?

Siamo pedine gestite da qualcuno che ha uno sguardo privilegiato e più lungo del nostro. In alcuni casi, estremi, il mio occhio, allenato dal mestiere, coincide alla perfezione con quello dei grandi burattinai. Allora preparo fondamenta e architetture che si rivelano strutture di accoglienza dove il vissuto viene cinicamente disposto e spiato.

10) La parola d’ordine per l’interpretazione del lavoro di Antonio Raucci è “costrizione”. L’Homo Sapiens ridotto a Homo Stultus, ingabbiato in recipienti, anfore, elettrodomestici, strumenti musicali, mezzi di locomozione, incapace di muoversi a piacimento, “costretto”, appunto, in strutture espanse. Parlo di memoria, linguaggio, scienza medica, organizzazione del lavoro e della ricchezza, produzione industriale. Sei d’accordo? Siamo “costretti” perché finiti, destinati a deperire.

Veniamo alla luce per godere. Tutto l’universo è un invito al godimento. Penso ai fili d’erba dietro l’angolo, vicino alle auto. Sono lì per noi. Purtroppo, intrappolati in schemi che riformuliamo di continuo a velocità folle, abbiamo perso la capacità di saper riconoscere ed evocare la bellezza. Non vediamo più, accecati da numeri, diagrammi, tavole, gradienti, spartiti, manuali, indicatori di rendimento. Quando, maturi per la pensione, desideriamo riprenderci ciò che ci è stato sottratto, constatiamo delusi che acciacchi, malattie, logorio, atrofia dei sensi ostacolano qualsiasi disegno. L’arte, il gioco, un certo modo di provocare accadimenti e cose, possono tuttavia fare molto. Sono un antidoto alla stoltezza. Un esorcismo collettivo che spegne la frenesia dei tempi, un tentativo di ascesa verso la sapienza.

11) Venendo da te ho incontrato un tirannosauro. Andava in banca con suo figlio. Voleva aprirgli un conto e intestargli un libretto per assegni. È stato così affabile e cortese che ci ho scambiato qualche osservazione. Io in auto che mi fermo e dò strada, lui che ne approfitta, si avvicina e saluta. Dopo, sulla soglia, trovo un acquario abitato da un axolotl, che ti somiglia tanto. Infine, faccio le scale che portano in bottega. Prima di entrare, lancio un’occhiata alla pianta carnivora sistemata di fronte, regalo, dichiari, di un’ex fidanzata. Ebbene, mi tocca la guancia senza astio, anzi risparmia una zanzara che si posa sul braccio e non punge. Antonio, devo preoccuparmi?

No. L’inaspettato è per noi, e non da ieri, spunto e forza. Grazie, Giuseppe.                          

 

 

[1] Antonio Raucci nasce a Caivano nel 1959. Frequenta alcuni corsi in Accademia a Napoli nel biennio 1988-89. Le sue prime prove in chiesa, su restauri di affreschi commissionati dalla Soprintendenza ai Beni Culturali. Temi e momenti del Vangelo costituiscono il suo apprendistato unitamente a studi di natura morta e di nudo. Presto il passaggio ad un’espressività informe e povera che ottiene buoni consensi. Decisivi gli incontri con grandi personalità come Stelio Maria Martini e Mario Persico, quest’ultimo lo nomina assistente negli anni conclusivi. Emerge progressivamente una nuova sensibilità, influenzata dal surrealismo e dalle avanguardie. Torna la figura ma in modi singolari, secondo strategie fluide e inattese che vedono i viventi interagire con innesti fisici e supporti organici. In omaggio all’astrazione postpittorica statunitense, scompare la prospettiva. Fanno capolino invece segni e forze irrazionali che invadono la scena e danno mistero e sostanza all’oggetto. Tra le mostre di spicco, si ricordano: “Simulacri” (2014), a cura di Martini e Dario Giugliano, “La silenziosa risposta” (2017), “Spazio per acrobati” (2023).

L’attualità di Alexander Langer

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di Marco Boato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A 29 anni della sua scomparsa, pubblichiamo questa introduzione di Marco Boato a Alexander Langer, apparsa con il titolo “Chi era Alexander Langer, l’uomo delle virtù verdi”, il 09.08.2023 su l’Unità (NdR)

Alexander Langer è morto per scelta volontaria il 3 luglio 1995. Oltre un quarto di secolo dopo, la sua figura continua a segnare in modo emblematico la storia dell’ecologismo politico italiano ed europeo, ma non solo. Scomparso a 49 anni, molte sue intuizioni sono rimaste di una attualità sorprendente, molte sue iniziative sono ancora oggi vive e vitali, la sua eredità spirituale, culturale e politica è ormai patrimonio comune di intere generazioni, anche di quelle più giovani, che non l’hanno conosciuto di persona, ma ora stanno imparando a conoscerlo attraverso i suoi innumerevoli scritti e le sue testimonianze. Ne ho dato conto nel mio libro Alexander Langer. Costruttore di ponti (La Scuola-Morcelliana, Brescia, 2015).

“Ecopax”
Alexander Langer è stato davvero un “costruttore di ponti”: tra etnie e gruppi linguistici, tra identità ideologiche diverse, tra le differenze di genere, tra partiti e società, tra Nord e Sud e tra Est e Ovest del mondo, tra gli umani e la natura, tra la pace e l’ecologia (Ecopax, appunto). In alternativa agli ideologismi astratti si è fatto promotore di “utopie concrete”; rifiutando ogni forma di fondamentalismo si è fatto sostenitore della “conversione ecologica”; superando i muri delle barriere etniche si è fatto protagonista e artefice della “convivenza”; di fronte alla disperazione e al catastrofismo ha cercato di essere “portatore di speranza” ed anche “costruttore di pace”.
Nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica ha scritto “dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”: la sintesi migliore di come Langer concepiva il suo rapporto con i conflitti e con le barriere etniche, politiche e ideologiche.
Nel suo testo più sistematico sulla “conversione ecologica”, ha affermato in particolare: “La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? Lentius, profundius, suavius, al posto di citius, altius, fortius. La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta”. Una correzione di rotta oggi più attuale e necessaria che mai, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici.

Conversione ecologica
Dopo la “consapevolezza del limite” e quindi l’“auto-limitazione”, Langer aggiunge un’altra riflessione: “Credo che una delle virtù «verdi» praticabili possa essere quella del pentimento, dove per pentimento intendo l’atteggiamento di chi ha sperimentato l’eccesso, la trasgressione, la violazione e se ne rende conto”. Langer non ha in proposito un approccio fondamentalista, ed è consapevole della complessità di questo monito: “Da questo punto di vista, la nostra civiltà (in particolare l’Europa, l’America, il Giappone, l’industrialismo trionfante e imperante oggi) non può far finta semplicemente di tornare alla natura e sicuramente non può neanche arrestare di colpo la logica di sviluppo e di crescita”. Tuttavia aggiunge: “Ma è possibile forse un atterraggio morbido, rispetto al quale c’è molto da lavorare”.A questo punto Langer introduce un tema, quello della “conversione ecologica”, che poi ritornerà in molti altri suoi scritti degli anni successivi, e che, quasi trent’anni dopo, troveremo ripreso esplicitamente nella Laudato si’ di papa Francesco del 2015: “Questo atteggiamento che chiamavo di pentimento, o forse di tendenziale conversione ecologica, è sicuramente una virtù «verde» importante. La conversione non è solo un termine spirituale (lo è sicuramente in modo molto forte), ma è anche un termine produttivo, un termine economico”.
Langer a questo proposito mette in connessione l’aspetto culturale, etico ed anche spirituale, con la dimensione economica e sociale: “Riconvertire o convertire la nostra economia, la nostra organizzazione sociale verso rapporti di maggiore compatibilità ecologica e di maggiore compatibilità sociale, di minore ingiustizia, di minore divaricazione sociale, di minore distanza tra privilegi da una parte e privazioni dall’altra, è certamente una virtù «verde»”.
Obiezione di coscienza
Anche ispirandosi alla lezione drammatica del gruppo giovanile della “Rosa Bianca” nella lotta nonviolenta contro il nazismo (che costò la vita ad alcuni di loro), a quelle già richiamate Langer aggiunge una ulteriore proposta: “Un’altra virtù «verde» che vorrei richiamare è l’obiezione di coscienza. Lo faccio con particolare convinzione ed emozione in un ambiente che si richiama alla «Rosa Bianca».
Nella riflessione di Langer è sempre presente il richiamo non solo alla responsabilità collettiva, delle forze politiche e dei movimenti, ma anche a quella personale, di ciascun individuo chiamato in causa direttamente: “Sempre più oggi ci troviamo di fronte, per esperienza quotidiana di tanti, a dei meccanismi talmente perfezionati, talmente onnicomprensivi e totalitari, che effettivamente non basta lottare perché cambi il sistema (cosa di cui non disconosceremo l’importanza fondamentale), ma occorre anche rifiutare di apportare il proprio contributo anche coattivo, anche estorto con la legge e a volte anche con la violenza un po’ oltre la legge, che ci farebbe essere dei pezzetti di un ingranaggio”. In queste sue parole si ascolta l’eco lontana della lezione di Gandhi ed anche, in Italia, di Aldo Capitini e del movimento nonviolento, a cui Langer si è sempre più ispirato a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso.
Una forte spinta etica
Ma già nel 1987 Langer anticipava questa sua convinzione in questi termini: “Da questo punto di vista, credo che occorra una forte spinta etica in positivo, non solo la paura di non farcela a sopravvivere, ed anche una dimensione percepibile, una dimensione visibile, entro la quale l’equilibrio ecologico ha un senso che un po’ tutti possono condividere e verificare”. In questa prospettiva della responsabilità ecologica e della partecipazione democratica, si collocano le riflessioni conclusive di Langer nella relazione del 1987: “Se non si trova una dimensione in cui la ragione ecologica possa coniugarsi con la democrazia, allora probabilmente le virtù di cui parlavo prima rischiano di essere un nobile e minoritario esercizio di ascesi ecologica, un nobile esercizio di solidarietà, ma un esercizio probabilmente non in grado di invertire la tendenza, o per lo meno di rallentare o arrestare il degrado, cosa che d’altra parte vorremmo tentare di fare”.
È questo un monito verso un futuro sostenibile che vale pienamente ancora oggi, a tanti anni di distanza da quando fu formulato per la prima volta. La lezione di Alexander Langer è ancora pienamente attuale, anche per affrontare la crisi climatica e l’emergenza economico-sociale, che attraversano su scala planetaria la drammatica realtà attuale.

 

I disegni di Picasso

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di Max Mauro

I disegni di Picasso sono tenuti in una stanza a temperatura controllata, massimo 21 gradi celsius, e umidità tra i 55 e i 56 punti percentuali. I gradi sono importanti, così come il livello di umidità. Altrimenti i disegni muoiono.

Sono preziosi, i disegni di Picasso. Non c’è in tutta l’America Latina una collezione simile. Non ce l’hanno nemmeno a New York, nell’America del nord, quella che impunemente reclama il nome del continente solo per sé. La collezione di Picasso è costata settecentomila dollari negli anni Ottanta del secolo scorso.

La sala dei disegni di Picasso è un sollievo dall’afa della strada, che qui non può arrivare. Anche il rumore, il costante assordante avvolgente rumore delle strade di Caracas, qui non arriva. I disegni rappresentano corpi nudi, forme essenziali, tratti volatili. Sono nudi i corpi come è nudo il grattacielo nudo.

I disegni di Picasso, tenuti a temperatura e umidità controllate, occupano una sala del museo di arte contemporanea, inaugurato nel 1973. Altre sale sono occupate da opere di Kandinski, Rodin, Monet, Francis Bacon, Mirò, Henry Moore, Duchamp, Fontana. Il sogno della fondatrice del museo, Sofía Ímber, era di creare qui il museo di arte contemporanea più spettacolare del Sud America. Nell’anno 2006 è a undici forse dodici minuti di cammino dal grattacielo occupato.

Si dice che doña Sofía Ímber fosse una signora combattiva e determinata, che non si fermava davanti a nulla. Era nata in una cittadina dell’odierna Moldavia, nel 1924. Al tempo era territorio conteso fra l’Unione Sovietica e il regno di Romania e accoglieva nobili russi, borghesi ed imprenditori ebrei fuggiti dalla Rivoluzione russa. Doña Sofía dipingeva quel passato a questo modo: “Essendo ebrei, si comprenderà molto bene che dovemmo scappare da quella parte di mondo quando cominciò l’assedio alla nostra razza”. La famiglia arrivò in Venezuela nel 1930. Doña Sofía disse sempre di non essere interessata a rivedere quei luoghi, si sentiva solo venezuelana. Nella vita scelse di fare la giornalista; per le famiglie bianche europee scegliere era un diritto. Lavorò prima nei quotidiani e poi alla radio e alla tv. La televisione le diede la fama.

Ogni domenica teneva un programma televisivo di interviste a protagonisti della politica e della cultura. Lo conduceva con il marito, anche lui celebrato giornalista e scrittore, che aveva abbandonato moglie e figli per unirsi a questa donna che qualcuno aveva definito straordinaria, finendo pure per sposarla. Strani intrecci. Anche lei aveva abbandonato il primo marito e i figli per convolare in quella che sembrava un’unione di eccellenze, almeno per quella porzione di società che dettava i tempi della Storia.

Il giorno seguente in cui il secondo marito morì, sparandosi un colpo in testa con una semplice pistola, nel gennaio del 1988, era in scaletta una delle loro molto attese trasmissioni televisive. Doña Ímber, riferisce una biografa che finì emarginata e forse pazza dopo aver visto il suo libro ritirato dagli scaffali il giorno stesso della pubblicazione, andò in onda, puntualmente, come ogni settimana. The show must go on. Lo show non si interruppe. Come poteva interrompersi? Mica le pompe petrolifere fermano di spillare oro nero se muore un operatore. Qualche anno dopo, in un’intervista, spiegò: “Io elaboro il mio dolore a modo mio, lavorando…”.

L’inopportuna biografa di Sofía Ímber si chiamava Manón Kübler, e con Sofía aveva in comune l’ascendenza europea, la pelle chiara e un cognome che suona tedesco. Il suo libro, Sofía Ímber: la intransigente, venne pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Grijalbo, di proprietà del gruppo Mondadori. Un libro oggi introvabile.

Prima di essere una giornalista e una biografa Manón era una poetessa. Forse il suo problema è stato quello di voler scrivere una biografia senza voler scrivere una biografia. Cercava una storia meritevole per esplorare la sua passione per la scrittura e conquistare quella porzione di attenzione a cui ogni scrittore vero anela. Quale miglior soggetto per una giovane scrittrice ambiziosa se non la storia della donna più potente del Venezuela?

Pochi anni prima della biografia di doña Sofía Ímber, Manón Kübler aveva pubblicato una raccolta di poesie intitolata Olympia. Nei versi di Olympia Manón Kübler ammette il suo dialogo con un’umanità inaccettabile perché troppo profondamente umana. Parla di sé, un sé che sfugge ai grandi poteri molari: famiglia, matrimonio, carriera. Come altrimenti spiegare l’ambizione a scrivere – e pubblicare! – la biografia non autorizzata della donna più temuta del paese?

he sido arrolada por la presencia por la visita de un estraño que desata su terribles sin permiso. a ratos percibo que una loca e arriesgada invitacion, uno des esos juegos donde el peligro puede tocarse lo dejó aquí, entre mis sábanas, entre mi voz, sobre mi cama. ahora, posesionado de mis ámbitos, comodo huesped que abusa, pretende para siempre dominar en mis entornos, ayuentar a mis otros e hacer de mi delgadez su inextirpable nido.

Perché Manón Kübler ha voluto scrivere la biografia di doña Sofía Ímber invece di continuare a creare poesie che trasudano lacrime di vita? E’ un mistero che probabilmente rimarrà tale. Perché proprio lei si è cimentata in questa operazione rischiosa come nessun’altra nel mondo dell’editoria venezuelana? Però scrivendo un libro abbandonato ha offerto una metafora del sogno petrolifero del Venezuela, soggiogato allo zio nord-americano: la tua voce è ammessa, ma rimossa.

Doña Sofía non aveva tempo per agiografie malintese, la sua era un’incessante rincorsa al successo nel paese dei sogni permanenti, per chi se li poteva permettere. Erano gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta del Novecento. Fino al Caracaso: la prima resa dei conti dell’incubo neoliberista. La fine e un inizio. O un inizio di una diversa fine? L’oro nero è giudice imprevedibile.

Dopo aver coccolato l’idea del museo come un figlio unico, lei che di figli ne aveva avuti alcuni, doña Sofía ricevette un regalo non del tutto inatteso dal presidente della repubblica, uno degli ospiti più regolari del suo programma televisivo. Il presidente della repubblica disse: il museo porterà il suo nome, si chiamerà “Museo Sofía Ímber”, e così per l’eternità. Era il 1974, il 20 febbraio di quell’anno, per la precisione.

L’eternità del museo si rivelò un’entità transeunte, come tutte le eternità umane. Venne interrotta nel 2001 da un altro presidente della repubblica, casualmente o forse no dagli schermi televisivi. Proprio il mezzo che aveva dato tanto potere a doña Sofía portò la fine di quell’audace sogno caraibico. Basta, d’ora in poi il museo si chiamerà semplicemente “museo”, come è giusto che sia, disse Hugo Chavez durante il suo programma Alò Presidente in un giorno di fine gennaio. E così fu. Una tabella all’ingresso del museo ricorda il passato e segnala il presente. Il museo di arte contemporanea è oggi, anno 2006, “Il Museo di Arte Contemporanea di Caracas”.

I disegni di Picasso non hanno colpa dei millecinquecento passi. Non hanno colpa di trovarsi a rappresentare gli estremi della modernità. Però, intendiamoci, sono incredibilmente belli da dire, i disegni di Picasso. Rendono immediatamente importante chi li nomina e li possiede. Picasso. La Storia, quella del mondo che conta, viene inscritta sulla porta principale grazie a un semplice nome: Picasso.

Anche il camminatore al margine ha un suo piccolo sogno. Vorrei portare i disegni di Picasso nel palazzo nudo. In fondo cosa sono millecinquecento passi? Cento disegni, uno per ogni famiglia alloggiata nel grattacielo occupato.

Ecco il programma del sogno: i disegni di Picasso escono dal luogo cassaforte infilati nello zaino di un bambino, ché nessuno è così innocuo e invisibile come un bambino che sogna ad occhi aperti. Percorsi i millecinquecento passi i disegni vanno incontro alla vita nuda degli abitanti del grattacielo nudo. Non c’è prescrizione sul loro uso, sulla loro destinazione d’uso. Proprio qui, dove milioni di dollari sono passati di mano per santificare il valore di scambio, ecco una possibilità salvifica. I disegni ricevono nuova vita. Chi li otterrà potrà appenderli alle pareti assolate del grattacielo nudo, oppure decidere di venderli in strada, nelle bancarelle, accanto ai CD copia dei Red Hot Chilli Peppers, magari come copertina alternativa, ripiegando il foglio in quattro parti per farlo stare dentro la custodia del CD.

Ma il gesto irriverente del bambino potrebbe essere anche il giusto premio alla memoria di un uomo che alla sua arte ha sacrificato la vita di chi gli è stato vicino. La tua arte la regaliamo, piccolo uomo Pablo, e tu non puoi farci nulla!

Ma questo è solo un sogno, un sogno meno corazzato di quelli di Sofía Ímber. Forse un sogno malandato come quello di Manón Kübler.

Foto di Margaret8 da Pixabay

Le stanze del tempo

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Gianni Biondillo intervista Piera Ventre

Piera Ventre, Le stanze del tempo, Neri Pozza, 2021

 

Le stanze del tempo è un libro “architettonico” ma non “urbanistico”. Le città si intuiscono senza essere mai dichiarate. Non è il fuori, ma il dentro quello che ti interessa. Case come correlativo oggettivo delle anime?

La casa è un magnifico correlativo, assai simbolico, così come lo è il concetto di abitare. Ciò che mi interessava esplorare è la relazione di interdipendenza che si crea tra chi abita e l’entità casa, che viene abitata, e quindi anche delle anime dei personaggi i quali, seppure protetti da mura, in quelle mura appaiono più nudi che mai. Esiste tutta una letteratura sulla simbologia della casa e sulle correlazioni tra il corpo e la mente degli esseri umani che mi ha sempre affascinato. Ho cercato di sviluppare questo tema privilegiando le abitazioni e lasciando irrisolti i luoghi che le ospitano.

Ho provato una forte sensazione di claustrofobia, persino nelle descrizioni degli esterni. Ricorrente, ad esempio, è il giardino, come stanza aperta, ma pur sempre stanza.

Immagino, purtroppo, che questa sensazione emerga giacché ho sentito, e sento, la claustrofobia dei tempi che stiamo vivendo. Il nostro “fuori” si è giocoforza ristretto. Anche i nostri giardini, in fin dei conti, per alcuni mesi si sono rivelati nient’altro che spazi che ci hanno relegati in confini costretti.

Quello che descrivi è un mondo abitato da donne. Rari gli uomini, e non ci fanno quasi mai bella figura.

Mi è venuto naturale narrare di donne in quanto, da donna, mi accorgo di avere con la casa un rapporto molto viscerale, quasi fisico. Non penso che il mio mondo abitato da donne sia venuto fuori per omaggiare il leggendario “angelo del focolare”, che temo non esista, ma è stato di sicuro ispirato dalla narrazione del rapporto che molte mie amiche hanno con i luoghi che abitano – e che è un rapporto molto simile a quello mio. In quanto agli uomini, di certo in giro ce ne sono di migliori rispetto a quelli che racconto in queste storie e che ho dovuto maltrattare un po’ per necessità di copione. Magari mi farò perdonare nei prossimi lavori.

Ed è, anche, un mondo abitato da gatti. C’è una ragione specifica?

La ragione è semplice: amo profondamente i gatti. Provo trasporto per tutti gli animali, tuttavia reputo i gatti creature speciali, compagni di cui non potrei fare a meno e che mi custodiscono da quand’ero ragazzina. Mi hanno insegnato moltissimo. Non hanno mai smesso di farlo. E, per restare in tema di case, per me una casa non è davvero casa, senza un gatto.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

Perché i salmoni abboccano?

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di Nathan Wolf

Qualche giorno fa sonnecchiavo sul divano mentre in TV passava un documentario sui salmoni. Niente di nuovo, la loro odissea riproduttiva la conoscono tutti: migliaia di chilometri di risalita, controcorrente (ho dimenticato la velocità dell’acqua di quei torrenti) le sfide faticosissime eccetera. La natura è piena di iperboli, a pensarci bene. Comunque, la solita banalità della lotta per la vita. Un orso addenta un salmone in slow motion; un altro si arrende alla corrente, sparisce, muore (?) – una femmina si contorce, raggiunto il suo alveo di fiume prediletto dove, stando all’onnisciente voiceover, è nata, per creare un avvallamento sul fondale in cui depositare/deporre le uova.

Mentre i salmoni anelano a trasmettere la proprie genia, io galleggio nel dormiveglia. Certe informazioni interessanti lanciano un salvagente alla ragione, il tono petulante del narratore invece la affonda. I maschi di salmone arrivano dopo – blub, blub, blub. I fiumi rinsecchiti dal clima devastato mi provocano una drammatica linea piatta. Un suono lungo, spastico. Sono quasi affondato. Poi, all’improvviso, la luce: i salmoni durante la risalita non mangiano, sento. È per deporre più uova (continua il fantasma narrante) stomaco vuoto, spazio maggiore. L’associazione non mi conquista, ma la voce rilancia: visto questo forzoso sciopero della fame, rimane tutt’oggi un mistero perché abbocchino all’esca dei pescatori.

Non dormo più. Penso alla deontologia salmonica, quasi salomonica, che immola il nutrimento sull’altare della prosecuzione della specie. Lo capisco. L’evoluzione è stupendamente ragionevole, quindi illogica. La natura prevede che i salmoni non consumino cibo durante il ciclo riproduttivo (che dura mesi) allora perché un sapiens con stivali e bretelle riesce a stornarli dal loro intento? Cos’ha quel cibo sintetico rispetto a quello naturale, come può una semplice esca distrarli dalla loro missione millenaria e millenaristica, definitiva, universale?

I salmoni non mangiano, però abboccano. Sono forti, nella loro biosfera persino intelligenti, affrontano sfide estenuanti per poi, alla fine, abbandonarsi alla corrente per tornare in mare, accettando una vasta possibilità di morte. In effetti non sembra troppo seducente, vista così. Pochi secondi di soddisfazione riproduttiva sono seguiti da abbandono, oscurità, privazione sensoriale, dissoluzione, paura, orrore. Morire per continuare la vita, sopravvivere, ma solo nei propri geni – e, in tal modo, eternizzarsi.

L’alternativa è un’esca, un’illusione. Cascarci, insomma. Dove va, dopotutto, il salmone che abbocca? I suoi consimili lo vedono piegarsi, sollevarsi e schizzare fuori dal loro sistema di riferimento biologico verso l’universo asciutto noto solo collateralmente, per contrasto. Un luogo popolato da predatori in cui la loro specie non può sopravvivere. Eppure lo fanno, eppur si muove il salmone. È l’uscita di emergenza, direbbe Cartarescu.

Nel limbo ipnopompico la Voce mi arpiona verso la realtà: è uno dei misteri della biologia. Ma come! (mi oppongo) la virile scienza delle cose viventi è incapace di decifrare un atto di ribellione così semplice, davvero è cieca fino a questo punto? Alveari di ricercanziati si sono spremuti le meningi e hanno colmato pagine su pagine di diarree alfanumeriche solo per lasciarsi sbigottire da una cosa tanto sciocca e bella, meravigliosamente anarchica come l’ostinazione di un girasole fiorito in autostrada. L’insostenibile, incomprensibile leggerezza del salmone.

Sarebbe forse appetibile, viene da pensare, un universo einsteniano e rispettoso, ma la verità è che quel salmone disertore, quel soldatino dell’illogico che lotta con pervicacia da schiaccianoci contro l’orrore della biologia preordinata, mi affascina e se ne fotte; tifo per lui col cuore gonfio della commozione di chi guarda un debole affrontare un titano. Mi mancherebbe, e se non ci fosse andrebbe inventato, perché da che mondo è mondo sono i pazzi a profetizzare la sanità del futuro.

Ammettiamolo: è filosofico. Anziché pronarsi all’implicita teleologia insita nella propria specie, il salmone-pensatore decide per un’altra strada, romantico e inaudito: perderà e, in quanto sconfitto, diverrà invincibile. Cambierà gioco, trascenderà la sua natura, diverrà altro. I salmoni lo sanno. La biologia sussurra “nuota”, la filosofia grida “vola!” – e il salmone, ben consapevole dello spauracchio sospeso nella corrente davanti a lui, così sfacciatamente dissimile dal suo abituale nutrimento da risultare inappetibile, ci casca, si avventa sulla cordicella e abbocca. Non dovrebbe farlo, non è deontologico, ma lo fa.

E chissà che ne racconteranno i suoi simili, lasciandosi trasportare di nuovo a mare dopo la turpe agonia riproduttiva; chissà che ricordo avranno, cosa diranno, se avranno visto oppure no il miracolo e se alla loro successiva spedizione su per le rapidi, attraverso le fauci degli orsi, proprio lì, nel miasma dell’imperativo istintuale, non vedranno anche loro una funicella aliena venuta da un altro mondo penzolargli di fronte alle branchie, e a quel punto saranno loro quelli chiamati a decidere tra il mos salmonorum e un’avventura allogena.

Il sonno ritorna, parte la pubblicità. Quel ragionamento sfuma così come si è palesato, con un guizzo di pensiero. Un refolo di illazione. Cerco di vedere un’analogia ma continua a tornarmi in mente il teatrino delle marionette col cielo di carta bucato di Anselmo Paleari, e tutto si ferma lì. Il salmone eroe tragico che sfreccia attraverso le stelle d’un presepe. Forse è felice, forse gli basta così, come alternativa al gorgo della biologia non sembra male.

Alla fine, i salmoni, perché non dovrebbero abboccare?

Mots-clés__Casa

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Casa
di Paola Ivaldi

Giorgio Gaber, C’è solo la strada -> play

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Da: Insetti senza frontiere di Guido Ceronetti, Adelphi (2009), pag. 36.

E la casa è galera a vita, pensa dunque che vita! Condiziona il pensare. Offre all’angelo della morte indirizzi sicuri. Attira il crimine, la rissa, il lutto. Gente impazzisce per brama di bagni e cucine. La coppia giovane ci fa naufragio. La Fuga è dappertutto, ma la sua impossibilità culmina in tortura mentale. La casa ti abbranca e ti tiene. La odii, la faresti esplodere quando si svuota d’amore. Ma bisogna odiarle sempre, e mai cercarle, mai desiderarle, queste dannate case.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Acanto

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di Lorenzo De Rose

Le voleva gialle. Gialle con la scritta a pennarello blu. Era stato piuttosto chiaro e glielo aveva specificato più d’una volta, onde evitare che le comprasse di altri colori. I fogli che si trovava in mano erano con le etichette adesive bianche. Li stava soppesando da una trentina di secondi quando li ripose sullo scaffale in ferro del garage e prese il telefono. Il messaggio che le scrisse era il messaggio di un nevrotico, ma non se ne rese conto subito. Dovettero passare un paio di minuti, spesi nel dubbio se quello fosse, come poi aveva capito essere, il messaggio di un nevrotico. Non lo inviò: ripose il telefono dopo aver cancellato le parole di rimostranza. I barattolini che aveva diviso in due scatole erano 22. Quella di limoni era la più facile da riconoscere, ché di giallo c’era soltanto lei; lo stesso quella di fragoline e more; difficile invece era discernere tra pesca e albicocca, stessa sostanza e stessa cromìa: arancio tenue una e arancio tenue l’altra. Si decise a lasciarle per ultime e a iniziare dalle distinguibili. Si accovacciò dinanzi alle due scatole quasi inpreghiera. Dava le spalle al cortile e l’aria di inizio giugno gli impastellava già di calore i pori della nuca.

A un programma di cucina, tempo addietro, aveva sentito della differenza tra ‘marmellata’ e ‘confettura’, ma non se la ricordava: una d’agrumi l’altra di tutto il resto della frutta. C’entravano gli inglesi e la Comunità europea. Sua madre le aveva sempre chiamate ‘marmellata’ entrambe. Anche lui. Probabilmente anche le sue sorelle, sebbene non avesse mai sentito pronunciare la parola ‘marmellata’ dalle sorelle. O forse sì. Ma in epoche che il suo ricordo non lambiva. Quindi fu dai limoni che prese avvio l’iniziativa di catalogazione. Erano in tutto sette, quelle coi limoni; per trovarli non trattati aveva assecondato la sfiducia nella grande distribuzione ed era andato a comperarli a un mercato biologico appena fuori la città, da un contadino sulla quarantina, vestito in camicia rosa e bermuda azzurri che per dimostrargli che non erano trattati gli chiese semplicemente un atto di fede, dicendo Io non posso farle vedere che non sono trattati, si deve fidare e basta.

Dopo esser andato via dal magazzino aveva cominciato a fidarsi di più. Maggiore fiducia nelle persone, conosciute e non conosciute, tra cui l’uomo dei limoni; maggiore fiducia nella avversità degli eventi della vita – a suo dire, prove di resistenza; maggiore fiducia nell’osservazione dei fatti per come venivano, nudi e neutri e senza rimpinzarli di retoriche o emotività del momento. Ché lui i fatti li enfatizzava e li esagerava, glielo dicevano tutti, a partire dalla madre, quando era ragazzo.

Sono in cassa integrazione, Lara. La moglie era crollata sul divano, lui non ritenne di dover aggiungere niente che non fosse un minimo di consolazione per lei ma non per sé stesso. Si era poi fidato anche di lei per le etichette, ma quello era stato un passo falso e ripensandoci un’altra volta si morsicò un angolo di palato destro. Si alzò per prendere i fogli eil pennarello dal ripiano: conveniva che scrivesse tutte le etichette prima di incollarle. Così col pennarello appose la parola Limone susette etichette bianche. Le guardò tenendo il foglio con due mani a una distanza di una cinquantina di centimetri e glisembrò che fosse macabra, in qualche modo funerea la staticità e la regolarità con cui quei caratteri affondavano nella carta. Aveva avuto una sensazione simile quando, anni prima, sette mesi dopo l’inizio dell’impiego in magazzino, il suo avambraccio caricatore e scaricatore di colli non pareva più molliccio, ma vivo di un turgore che non aveva mai appartenutogli e le vene si irraggiavano in modo più plastico e definito sulla pelle e aveva quindi preso a indossare maniche lunghe anche d’estate per cacciare la vista di quei serpenti. Sull’etichetta intorno alla scritta Limone disegnò una foglia di acanto che la conteneva.

A cena, la sera prima, passavano un documentario sull’arte e i templi del mondo antico. Lara guardava e diceva Sì… sì, le poche cose che ricordo di arte del liceo: i capitelli corinzi dorici ecc. Dopo averla disegnata cercò su Google qualche immagine per vedere se gli fosse venuta accettabile. Elegante, pensò. E rimpianse di non avere il pennarello verde da cui la foglia avrebbe beneficiato verosimiglianza e brio. Fu anche sul puntodi rientrare in casa e cercare un pennarello verde, ma ormai aveva iniziato col blu e avrebbe continuato col blu. Attaccò l’etichetta sul vetro. Ripetuta l’operazione per tutti i limoni, passò a fragoline e more. Il pennarello aveva la punta piuttosto grossa: avesse scritto fragoline e more non ci sarebbe stato spazio per la foglia intorno.

Così scelse delle due lapiù breve e scrisse more col contorno fogliato per tutti e 5 i barattoli. Si sarebbe ricordato che c’erano anche le fragoline oltre alle more. Quel fruttame di bosco era stato il suo passatempo per due giorni: risalendo un greppo che costeggiava per un tratto la provinciale vicino casa – si era infatti deciso a fare lunghe camminate cercando, non sapeva perché, dievitare quanto più possibile i marciapiedi e dunque privilegiando strade non urbane e residenziali – aveva trovato una boscaglia, rada il giusto per ospitare dei roveti trapuntati di viola e rossiccio. Se ne era messo una manciata in tasca, invitando, una volta a casa, Lara a guardare da vicino la perfezione di quelle more trovate per caso, facendole toccare ogni drupa come fossero pepite d’oro. Poi c’era tornato l’indomani, con una sporta e una cesoia per meglio recidere quei tesori. Ma anche se non se ne fosse ricordato lui, se la memoria lo avesse da lì a poco privato del ricordo di quei giorni di caccia grossa, ci sarebbe stata Lara.

Tua moglie si ricorda tutto, la madre glielo diceva sempre. L’ultima volta glielo aveva detto quando lui a pranzo, la domenica precedente, Lara dai genitori fuori città, si era lamentato della vischiosità delle date di compleanno dei suoi amici: una scivolava nell’altra e non si facevano tenere a mente, quelle date di merda,che era il 2 di aprile il compleanno di Vittorio o il 3 dicembre? Forse il 3 dicembre Margherita e non Vittorio. Mentre Alfredo il 15 di luglio, che poteva essere anche Margherita però. E si lagnava a questa maniera per la durata del pranzo, finché la madre non lo mise a tacere, mentre sbucciavano le mele, dandogli dell’inutile querulo, rassicurandolo però in un secondo momento che c’era Lara che tanto si ricordava tutto, compleanni degli amici inclusi. Albicocche e pesche era stata proprio sua madre a dargliele. Gliele portava la signora delle pulizie che le aveva piluccate dagli alberi suoi. Attenzione che le devi mangiare, queste, non è che sono quelle della Conad. Perentoria. Lui annuì, come annuiva sempre alle raccomandazioni della donna, che volta per volta erano una celebrazione del giustocome dell’ovvio, di ciò che va fatto nel modo in cui va fatto e nel momento in cui va fatto, concatenazione non sempre a lui chiara, ma sì alla madre, e sì a Lara pure, ragione per la quale la moglie confliggeva con la vecchia e potendo non si sarebbero mai viste e mai parlate e difatti così era, fatta eccezione per natale e compleanni, laddove festeggiati.

Aveva acantato ed etichettato tutte le more e le fragoline. Adesso veniva il momento in cui raccogliersi in tutte le sue meningi membrane cellule epiteliali e farsi uomo. Uomo tra i barattoli, nel garage, tra le pareti scaffalate e un vecchioPackard-Bell che lo fissava all’altezza della bici di Lara, appesa tramite due ganci all’unica parete, quella frontale all’uscio sul lato corto, che non era scaffalata. Guardò prima il vecchio computer e poi il biciclo e si chiese come avesse potuto essere così stupido da non prevenire il problema, distinguendo subito le pesche dalle albicocche. Aveva messo tutti i vasetti insieme nell’acqua bollente per sterilizzarli, nel fusto che Iacopo gli aveva prestato. Era andato due mattine prima al negozietto di vino sfuso del cognato, il quale da settimane andava ribadendogli come vi fosse posto per lui, di come avesse bisogno di una mano dopo che quella bastarda di una moldava, una ventisettenne che aveva tormentato sessualmente fino a farla cedere e subito dopo scappare, l’aveva piantato, lasciando tutta l’attività sulle sue spalle. Le spalle di un viscido. Come viscido era il tono con cui gli diceva quelle cose, che era plausibile venissero dietro insistenze della sorella più che da un suo reale pensiero.

Aveva preso il contenitore e aveva declinato l’offerta, ancora una volta, rispondendo che stava studiando per fare il battitore d’aste. Pigliano soldi a pacchi, i battitori, non lo sai?. Ovviamente una cazzata, una risposta da stronzi a una richiesta stronza. Nemmeno sapeva che faceva, un battitore d’asta; non c’era mai stato, a un’asta; né tantomeno sapeva se si doveva studiare per farlo o quale altra qualifica serviva. L’aveva buttata lì sull’istante dopo che la radio in macchina aveva dato la notizia di un Bacon, un noto pittore irlandese, era stato venduto all’asta a una cifra enorme. Nel fusto i barattoli erano tutti uguali, li si vedeva nell’unica forma tondeggiante del tappo rosso, ogni tanto lo apriva e li guardava sobbollire per alcuni minuti. Cercò su internet le conseguenze di un’apertura di un barattolo sterilizzato: andavano consumati, non sarebbero stati più considerabili conserve. Si scrutò gli avambracci: il tono muscolare era calato, le vene non più serpi, meno plastiche, meno macabre. Non poteva aprire i vasetti e assaggiare per capire. Né avrebbe potuto scrivere Pesche o albicocche.

Maledisse la madre, che avrebbe di certo agito con saggezza e preveggenza ed evitato quell’errore. Maledisse Lara, che avrebbe, come la madre, saputo distinguere al momento giusto e che avrebbe anche saputo come risolvere in quel momento. Maledisse anche la moldava del negozio del cognato, che aveva preso la decisione giusta liberandosi di quell’imbecille e andando via. Era seduto davanti agli scatoloni: uno vuoto, l’altro ingombro di 10 barattolini. Le ginocchia sollevate da terra, le braccia ad esse appoggiate, penzolanti sul vuoto, sul pavimento che gli raffreddava il culo sotto al jeans, dietro il sole che scendeva tra i palazzi antistanti il suo e la brezza serale che iniziava il giro, alzandogli ogni tanto la pelle dalla carne. Alzò lo sguardo verso il telefono, lo riportò sui barattoli. Lara lo trovò in quella posizione rincasando prima di cena. Nemmeno l’aveva sentita arrivare, o l’aveva sentita ma non si era voltato. Fu lei a girargli intorno. Lui sollevò lo sguardo. Aveva gli occhi rossi e in mano il cellulare con lo schermo acceso, retto nel cavo della mano, e una ricerca per immagini di Francis Bacon.

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

CATALOGO DEGLI ARGOMENTI MAGGIORI E MINORI, DIFFICILI E ECCEZIONALI, IMPORTANTI E PERICOLOSI

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mi rimangono 2

di Andrea Inglese

 

Mi rimangono poche cose da dire**

 

ovvero gli argomenti ultimi:

 

i reticoli dei condizionamenti

le visuali implicite

le strutture che stringono

il sistema morfologico dell’indoeuropeo

la visione bioculare

l’idrogeno nel corpo umano

i presupposti che guidano

le materie d’indirizzo

l’attrito per passeggiare

le paure interiorizzate

l’uomo col cucchiaio e col coltello

i passi nel corridoio

il grattare notturno dietro l’armadio di noce

la sintassi innata

la mano di sole cinque dita

la dominanza del sonno

la centralità della veglia

la donna con il fazzoletto sollevato

il persuasore dichiarato

il suggeritore elusivo

l’angoscia del tutto

*

Sono rimaste le cose più importanti

Le cose ultime da dire

 

ovvero gli argomenti principali:

 

le vacanze in un posto dove non c’è nessuno

il trionfo del lavoro sottopagato

l’amore senza il pericolo di devastazione

la salita in cima alla montagna

la trasparenza dei sentimenti

la cancellazione dei rapporti di parentela

la donna senza preoccupazioni

la possibilità mai esclusa del salto dal balcone

la difesa dei vecchi mai esistiti valori

la responsabilità diluita della massa

l’io come puntello della massa

le allucinazioni facilitanti

la chiaroveggenza infantile

chi passa per la cruna di un ago

la mente fragile sempre sul punto di rompersi

l’enigma del tempo che non passa

perché la notte fa paura anziché il giorno

se la prepotenza sia la soluzione finale

i fondamenti della matematica

i fondamenti della montagna

*

La società in cui viviamo

Di questo bisognerebbe parlare

 

ovvero degli argomenti umani:

 

cataclismi o rivoluzioni

la vita migliore o la bella vita

macchine desideranti o annullamento del desiderio

introduzione della civiltà o completamento della barbarie

fare tutto a piedi o sorvolare gli ostacoli

mangiare polvere o carne di cervo

servitù volontaria o libertà inconsapevole

intelligenza artificiale o demenza innata

seguire qualcuno o essere inseguiti

filantropia o tortura

familismo amorale o partito unico

ginnastica dolce o competizione amara

vecchi tabù o invenzioni criminali

sanzioni economiche o napalm

terra piatta o cervelli in provetta

il giusto mezzo o nessun limite

l’importanza del radicamento o la vita in orbita

le ciabatte o i piedi nudi

virginità prematrimoniale o pedofilia

cucchiaio o forchetta

*

Perché non riesce a capirle le cose

È semplice

Quelle stesse che deve dire da anni

 

ovvero gli argomenti taciuti:

 

la lunghezza del mio sesso

la durezza del mio sesso

la forma dei miei seni

la curva del mio naso

la quantità dei mie capelli

la centralità del mio ombelico

la compattezza delle mie natiche

la maternità di mia madre

la fraternità dei miei fratelli

la visibilità di mio padre

la pericolosità della famiglia

la follia della vita associata

l’incompetenza dell’essere supremo

la mia irrilevanza

la fragilità del sistema finanziario

l’inaffidabilità della teoria

l’incorreggibilità della prassi

la mia morte

l’inutilità delle misure d’urgenza

*

Non riesce mai nonostante gli sforzi

A dire cose così grandi

Più grandi di colui stesso che le dice

 

 

ovvero degli argomenti magnifici:

 

la metropoli di merda

la montagna di cadaveri

la capienza del nulla

la generosità della morte

l’efficacia dell’estinzione

la pandemia interstellare

l’eterno ritorno del fascismo

l’uomo come amministratore delegato dell’universo

le celebrazioni del buco nero

la bancarotta terrestre

il capitalismo come condizione umana

l’uomo bianco come educatore dell’umanità

l’oceano di detriti

la solidità dell’allucinazione

l’iperattivismo dell’ignoranza

l’estrazione del caos

la trasmissione infallibile degli errori

l’incompetenza dei centri nevralgici

l’inno mondiale degli uomini provvidenziali

*

Perché le cose più facili sono anche le cose più inutili

Perché le cose più inutili sono anche quelle più piccole

Quelle meno vere

Quelle che sentite ovunque

 

ovvero degli argomenti inconsistenti:

 

le baldorie in automobile

le conversazioni notturne sui treni

bere dalla borraccia

l’immobilità del gatto

mordere la pelle per scherzo

le nervature della foglia

trovare il cacciavite adatto

buttare via i giornali vecchi

il suono delle gazze

le urla dei giovani che rientrano

mettere una mano in acqua

dormire quando si ha sonno

le chiome elastiche dei pioppi

le grandi nuvole che non oscurano l’azzurro

una frase che nessuno capisce

un verso che scioglie alcuni nodi mentali

leccare l’intimità altrui

fingere di strangolare chi ami

*

**

Questo è un lavoro di “espansione” di un testo già pubblicato in Il rumore è il messaggio ([diaforia 2023), dal titolo Mi rimangono poche cose da dire, e di un progetto musicale e artistico (con lo stesso titolo) in collaborazione con Gianluca Codeghini.

 

Dentro le scene dell’altrove

0

di Gabriella Cinti

 

“UNA FUGA PLURIPROSPETTICA DENTRO LE SCENE DELL’ALTROVE”.  Lettura di “L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini”, di Davide Susanetti, Carocci Editore, 2023.

 

“Incontro meditante” è la definizione con cui giustamente Davide Susanetti consacra l’unico e più autentico approccio alla tragedia greca, in cui coglie la decisa convergenza con la dimensione di Dioniso. Molti sono in realtà i temi trattati nel libro, dall’identità, al dolore, al tema del corpo, ma il Dioniso euripideo spicca qui con quella forza dirompente di una verità profonda, metamorfica, cangiante e provocatoria che spiazza le finte verità della doxa, della opinione corrente. Un dio totale, DIONISO, espressione dello slancio gioioso come della più assoluta distruzione, ma soprattutto il più sovversivo degli dèi, che sgretola le certezze, le convinzioni assodate, fino alla turbinosa messa in crisi del piano identitario. Un dio dei prodigi e delle apparizioni, un dio che addita l’abisso, eppure proprio nell’estasi si inarca verso l’Assoluto che egli stesso impersona. Rappresenta appunto quella “vita assoluta in cui tutti gli opposti si congiungono e si sciolgono”, perché appunto Dioniso ci scioglie e ci sceglie, senza giochi di parole, per quella carica destinica potentissima che egli incarna. Dioniso dio del Tutto e dell’istante prodigioso, del kairòs . “Vita” come leggiamo nel libro, in cui l’ “altro” è il cuore pulsante dello stesso. Come afferma Susanetti, “estraneo e alieno, eppure così intimamente intimo e proprio, come è sempre intima e propria la vita, anche quando non lo si sa e non lo si vede.”  E ancora, nel suo straordinario potere metamorfico, Dioniso, come ci dice l’autore: “apre la dimensione in cui natura, umano e divino fanno uno, comunicandosi e reciprocamente trasformandosi [… ]. Miracolo stupendo e  spaventoso, di un’unità profonda, dove ogni barriera si allontana e un potere inusitato si sprigiona, attraversando ogni cosa. Tutto allora si fa prossimità e magia, comunicazione intima e forza traboccante”.

Susanetti ci restituisce per intero l’energia elettrizzante e misteriosa del potere di Dioniso, la sua unicità, scava nel linguaggio dionisiaco portando alla luce le sfumature semantiche più sottili e più in ombra, il segreto nascosto nella letteralità di alcuni termini, centrali nel vocabolario tragico, come, ad esempio, “authadìa”, il cui significato è oscillante tra “ostinazione” e “arroganza”, fino alla sfida violenta di chi è autoreferenziale, per quell’autòs che ne costituisce l’imprinting semantico.

Se il sapere è solo ricerca, investigazione fino agli estremi limiti, dove tutte le antinomie possono convivere, questa è davvero un’opera di “sapere” rivoluzionario che inaugura un corso di ricerche “altro”, in cui si dispiega uno slancio epistemologico che non mira al possesso compiuto ma si realizza piuttosto in un coraggioso e audace attraversamento psichico. La tragedia per Susanetti dunque si pone come un theorein le sofferenze e gli strazi dei drammi umani, una visione che accoglie vastamente senza pretesa di comporre i dissidi. I vari riferimenti presenti nel saggio, a Euripide come a Eschilo, vedono questa consapevolezza di forze terribili – per esempio la categoria del deinotatos – che incombono sulla razionalità armonica della polis, a riprova di quanto il mondo greco sia profondamente antinomico, come la sua lingua, che conserva tutte le impronte della polarità dei significati, i quali spesso si ribaltano nei loro opposti.

E lo scavo linguistico mi sembra proprio uno dei grandi punti di forza di quest’opera perché le parole sono le idee e l’interrogarsi su di esse non rappresenta solo una esegesi filologica ma si pone come un’operazione squisitamente filosofica.

Pensiamo per esempio al concetto di “proseikasai”, “l’operazione con cui si elabora un eikon, un’immagine […] costituendo al contempo un termine di paragone tra il noto e l’ignoto: per somiglianza e per confronto s’interpreta, attraverso l’immagine, quanto non si conosce e turba per la sua oscurità”. Quindi la parola greca è pensiero in sé, è viaggio mentale come ci illumina Susanetti, in cui ogni termine apre a numerosi orizzonti e tutti li contiene. O pensiamo al più cogente ancora phrontìs, quel pensiero che è al contempo “riflessione ben meditata” e

all’opposto”, preoccupazione e pura ansia quando il pensiero stesso oscilla, incerto e sgomento, schiacciato dalla violenza e dalla tenebra del reale, trascinato dagli eventi e insieme dalle emozioni che esso suscita, lacerato dalle contraddizioni, senza poter trovare un punto fermo in cui stare e riposare.  (p. 28)

La tragedia porta il dolore sulla scena, ne fa suoni oltre che corpi. Anzi per Susanetti “il corpo come pura phoné, come strumento del dolore, che si trasfigura in melos, in canto” (p. 94). Comprendiamo quanto i suoni pronunciati nella tragedia espandano a ventaglio l’intera gamma del dolore sonorizzato, con le infinite sfumature anche delle espressioni sofferenti interiettive, fino ad un lamento che si affianca al verso animale (come Ecuba che si paragona proprio a un uccello.)

Suoni del dolore che sono movimento corporeo, suoni della carne gemente, “drammaturgia del corpo piegato dal dolore”, una potente elegia del dolore che realizza quello che S. definisce “il sacrificio supremo della poesia bagnata nel sangue”.

 

La tragedia attua il necessario confronto con la forza totalizzante e tridimensionale del theaomai, che è la visione contemplativa, necessaria per la formazione della coscienza umana, ancor prima della catarsi. Perché è il dolore la strada maestra della conoscenza, “dono prezioso” lo definisce l’autore, in quanto esperienza dell’estremo.

La catarsi porta in qualche modo a superare il dramma, ad evolverlo, Susanetti invece ci presenta il dramma del dolore infinito, senza alcun linimento di possibile purificazione, ci invita a non distogliere gli occhi dalla impasse suprema, ma ad accettarla senza riserve per divenire più profondamente umani, per divenire così “belli”, come Nietsche aveva formulato per quella armonia greca che gli Elleni avrebbero raggiunto a prezzo di sofferenze sovrumane.

Teatro di Dioniso e teatro della parola, la tragedia greca per Susanetti è “drama”, azione, in cui la parola è prevalente, non è solo strumento, veicolo delle azioni, ma protagonista, è “un orizzonte in cui è il linguaggio stesso a essere interrogato e messo in causa nelle sue dinamiche e nei suoi effetti”, una funzione causale dunque ma anche anima protagonista, al pari dei personaggi.

Le parole sono tuttavia, come in modo originale ci illumina Susanetti,  anche un terreno di scontro oltre che di incontro, perché rinviano a una zona mobile di interpretazione, a quel proliferare ermeneutico che rimanda alle soggettività individuali: un esempio per tutti il nomos, cui ognuno , nell’Antigone, attribuisce significati diversi che portano a scelte anche del tutto conflittuali a seconda che, come in Creonte, il nomos appartenga alla legge della città o come per Antigone alla famiglia e al regno ultraterreno.

La parola dunque è un luogo di confronto e di scontro, e soprattutto, come dice S. l’agon logon è una occasione di pensiero.

Di particolare rilevanza concettuale mi pare l’approfondimento compiuto sul concetto di caso e di arbitrio divino nell’evoluzione che si compie in Euripide rispetto ad Eschilo, in cui le volontà celesti paiono assolute, indiscutibili, mai messe in dubbio, pur nella loro crudeltà. Euripide mette in crisi tale assetto divino per introdurre il dubbio critico sulla fondatezza di un potere divino che è del tutto indifferente alle vicende umane, “pura autosufficienza” come la definisce l’autore. Susanetti ci indica un concetto fondamentale che riconnette pienamente la tragedia (euripidea) alla dimensione dionisiaca,  idea per dar voce alla quale intendo citarla letteralmente, anche per far risuonare uno stile filosofico icastico e di travolgente intensità.

Ascoltiamo:

La decostruzione è radicale. Euripide spinge la tragedia al non senso corrodendo e smantellando la materia su cui si è fondata sin dal suo primo sorgere. In ciò che pare una contraddizione assoluta vi è, tuttavia, un’altrettanto assoluta fedeltà a Dioniso. Il signore del teatro non è forse colui che distrugge ogni forma cristallizzata e ogni senso consolidato, costringendo lo sguardo fin dentro l’abisso? Non è colui che liquida ogni certezza cui i mortali vanamente si aggrappano? Colui che esaurisce tutti i discorsi, quando essi non hanno più rapporto e significato rispetto al nucleo pulsante della vita e alla verità – qualunque cosa essa sia – che sta al di là delle parvenze fenomeniche?

 

Con Euripide giunge dunque a compimento quella progressiva divaricazione tra gli dei e gli uomini, accentuata anche dalla crisi storica che il mondo greco attraversava in quei secoli. Dalla fiducia che in qualche maniera gli eroi eschilei potevano nutrire su un eventuale intervento divino, alla consapevolezza della insensatezza delle sciagure umane e alla sostanziale solitudine ontologica dell’uomo. Dioniso mette l’uomo davanti al nulla, gli intima di fissare quel vuoto senza infingimenti ma al contempo lo pone pienamente nella condizione di avvertire “la necessità di trovare la propria possibile perfezione”, una dimensione di nuovo ed intrepido eroismo che consiste appunto nel coraggio di affrontare l’ignoto, l’altrove.  L’ “altrove” di cui ci parla Susanetti ha tanti volti, che in questo libro vengono puntualmente indagati: si declina anche nel “perturbante” di un passato che incombe con la sua forza distruttiva sugli equilibri del presente garantiti dal “crescente e positivo miglioramento del mondo umano”, introdotto ad esempio da Prometeo. La dialettica tra progresso e regresso mette in luce la fallacia della condizione umana e la fragilità del patto di alleanza con gli dei.

Nelle Trachinie di Sofocle il tema della catastrofe, ad esempio, è connesso al ritorno di un “mostruoso” che si credeva di aver accantonato o di tenere a bada: diremmo con Freud “il ritorno del rimosso”, “Illusione credere che i mostri siano debellati per sempre”, “illusione credere che il caos sia superato una volta per sempre” e questo accade sia per i destini individuali sia per l’armonia della polis.

Ma vi è una suprema incarnazione di questa assoluta alterità, secondo S. ed è ravvisabile nella emblematica figura di Medea, personaggio euripideo che condensa le caratteristiche dell’estremo di violenza, di cui pure anche altre eroine greche danno prova.

Medea incarna il massimo dell’ “Altrove” con la sua personalità composita (tra l’altro anche di stirpe straniera), sapiente, maga, intellettuale “essere umano, ma anche belva e mostro”, fiera selvaggia scatenata. . Creatura mortale e insieme potente figura di natura divina”, solare per la precisione. Lei rappresenta appunto l’ “alterità assoluta che tutto mette in causa e tutto sovverte, dissolvendo ogni confine e ogni paradigma altrimenti assunto”.  Susanetti ci fa vedere il Dioniso che è in lei, “sempre straniero ma anche profondamente intimo e greco” che agisce come lei, in modo del tutto spiazzante. Se il caso di Medea è “eclatante ed estremo”, le tante donne vendicatrici e violente della tragedia greca si costituiscono come un grande “altro che interroga e inquieta la città degli uomini”. E ritraggono un “altro” recondito, non solo quello del loro genere ma tutto quanto vi è di alieno e umbratile negli esseri umani: nella realtà pubblica “il negativo della città” dice Susanetti, come negli individui, nelle proprie più inconfessabili incoerenze e nei lati più oscuri.

Queste donne ci riportano dunque ancora una volta a Dioniso, che non a caso è il Dio delle donne, oltre che essere “il signore del teatro e della tragedia, il dio dell’alterità”. Dice S.: “Dioniso e le donne non fanno forse un tutt’uno? Dioniso e le sue Baccanti, Dioniso, Medea e le altre.”

L’altrove può anche essere colto nella singolare vicenda della Elena euripidea cui Susanetti dedica qui un capitolo e la sua intera curatela e traduzione nel testo apparso a gennaio 2023 per Feltrinelli. Elena infatti secondo questa versione non sarebbe mai andata a Troia ma solo il suo fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo e del tutto simile a lei, lo sarebbe stato, mentre essa sarebbe nascosta grazie ad Hermes in Egitto, ospite del re Protéo. Qui, in seguito a varie peripezie, si sarebbe ricongiunta a Menelao.

Come incisivamente mette in luce Susanetti “la favola di Elena e del suo aereo doppio non è anche la lacerazione estrema che si produce ogni volta che è impossibile ritrovarsi e coincidere con sé? Ogni volta che, raccontandosi dinanzi a se stessi e ad altri, non si trova più il filo della propria stessa storia e delle proprie azioni?”

Ed è ancora questa una chiave dell’altrove, il perdersi che è tipicamente misterico, come spesso ci richiama Susanetti, quel “ terribile in cui ci si perde e ci si cancella per poi diversamente ritrovarsi. In questo consiste, alla radice, ogni percorso di iniziazione, in cui ci si inabissa per poter risalire con la diversa consapevolezza dell’esperienza intensamente subita e vissuta”. La morte dell’ identità (“quando si scende ritualmente nella tenebra della propria fine per poi riconquistare la luce”) richiama quella vissuta nelle iniziazioni misteriche, le telatai appunto, con il nome che richiama anche al morire, mentre contiene in sé il telos, il fine iniziatico.

E singolare è che proprio la poesia possa ricomporre le lacerazioni degli opposti, le ambivalenze del vivere nell’etere di Elena, nel grande cielo dell’arte, perché come ci dice Susanetti: “La materia impalpabile della poesia è anch’essa fatta di aria e di cielo, di luce e di etere”.

Certamente le opposizioni permangono, come pure le aporie e le contraddizioni che si ritrovano in personaggi di varie tragedie da lui analizzate, come l’Agamennone di Euripide o la sua Ifigenia, esempi di quella metabolé, quella trasformazione psicologica critica e complessa che il drammaturgo mette in scena, quei cambiamenti  pure repentini delle sorti, segno anche di tempi di crisi profonda dell’animo greco, di crollo di ogni certezza.

Sullo sfondo dunque tragico e fondamentalmente disperante del teatro greco analizzato da Susanetti, l’autore sembra proporci una soluzione all’insegna della filosofia e in particolare del messaggio di Socrate, un solido invito al recupero dell’anima in senso salvifico. Questo orienta l’uomo – oltre la vita – alla riconquista della sua dimensione di eternità, “indistruttibile ed eterna”, oltre le effimere sembianze delle vite terrene e delle umane esperienze. Esse infatti sono limitate e chiuse nella costrizione della synetheia, l’ “abitudineche si impadronisce delle varie incarnazioni, come il mito di Er illumina e in cui sembra consistere la grande lezione socratica. Dedicarsi dunque alla philosophia e all’amore della sapienza, ancoraggio etico prima ancora che valore intellettuale, pare il supremo compito umano.  Di fronte a questo orizzonte, il mondo caotico e impuro della tragedia può collocarsi tuttavia non agli antipodi, bensì può costituire, nelle intenzioni concettuali di Susanetti, una tappa di apprendimento delle necessità terrene, da cui sciogliersi proprio grazie a  Dioniso, ho lysios, lo scioglitore di un cammino contingente ma teso all’oltre, alla elevazione.

 

Questo viaggio antropologico tuttavia non può prescindere dall’attraversamento pieno e sofferto delle antinomie del mondo in quel vero teatro dell’essere che rappresenta la tragedia greca, una fuga pluriprospettica dentro le scene dell’altrove.

 

Sopra (e sotto) Il tempo ammutinato

0

(Lettera a Silvia Comoglio)

di Marco Balducci

Silvia è un’estremista”. Questo volevo dire, a Ferrara, come battuta a commento delle poesie del Tempo ammutinato.
Poi sarebbe servito spiegarsi, perciò ho preferito non dirlo (non essendomi preparato a farlo). Questa idea però si sta consolidando e dall’intuizione potrei trovare le impressioni che sotterraneamente l’hanno costruita, lettura dopo lettura.

Di sicuro l’estremismo della tua poetica è molteplice e la definizione di estremismo può riguardare più di un aspetto. La prima evidenza è sulla pagina: le parole dominano il senso, singolarmente, evocandolo non attraverso costruzioni sintattiche ma in forza di un’autonomia espressiva declinata in metamorfiche accentazioni, spezzature, assonanze… già lì si “ascoltano” i suoni delle parole: nella lettura mentale. Questo non esclude la significanza, ma questa a me appare l’aspetto in ombra rispetto la luce del suono: la parola detta significa dentro il dettato, alla maniera in cui l’ipnosi procede attraverso una precisa intonazione della voce a dare forza alle parole che diventano imperative, significanti dunque al sommo grado (dato che determinano degli atti). Ma qui il motore delle parole serve a raccontare per lampi, in una maniera quasi imagista, non delle storie ma eventi.

E l’alternarsi nella prima sezione del Tempo ammutinato (che in realtà comincia con il 2.) di scrittura in corsivo a quella in tondo suggerisce un dialogo tra due voci che interrogandosi a vicenda costantemente rilanciano con domande su domande (enigmi su enigmi?) l’attesa di risposte che chi legge/ascolta è chiamato a cercare.
Ma l’estremismo di questa forma di poesia forse non è neppure tale, dato che é quasi un unicum nella sua formulazione: dunque estrema rispetto a quali modelli? A questa domanda forse potresti rispondere tu stessa e te la giro volentieri…  nella mia ignoranza non trovo analogie con altre scritture poetiche quanto piuttosto con qualche pratica rituale, sacerdotale, dove l’evocazione è forse equivocata non altro essendo che un’intima liturgia ad uso personale di interrogazione del sé recondito da parte di un sé medianico.
(Una tua risposta intanto l’avrei trovata, rileggendo dal blog di Marco Ercolani di una tua dichiarazione di poetica dove escludi intenzioni sperimentali, seppure l’estetica dell’avanguardia possa essere stata da te conosciuta e interiorizzata…) Comunque l’aspetto performativo che è peculiare e rivelatore della tua poetica non è riconducibile ad altri poeti/e performatori/trici, mentre trovo interessante qualche analogia con l’attitudine interpretativa di un duo di cantanti (e autori) inglesi che hanno messo in musica le Elegie Duinesi di Rilke, in un album del 1998, Just After Sunset: Anne Clark e Martyn Bates declamano, (soprattutto la prima, l’altro vocalizza più melodicamente), dando ai testi un’atmosfera aurorale…    
Tornando al Tempo ammutinato: la terza sezione inizia con una quartina scioglilingua che solo a vederla attiva la salivazione del piacere: che sia  di terra parlata / la barca  a molo di mondo, / la spiga, di bruma bruciata, / senza sponda di stella. La rima alternata parlata/bruciata è annegata nelle allitterazioni delle dentali, labiali, nell’accelerazione finale delle sibilanti. Il senso è trasfigurato, eppure è detto: ma infine, quand’anche lo si legga l’ennesima volta, ancora sfugge, rifulgendo in chiusura la stella che lo evade nel lampo: il lampo che ammalia e stordisce.
Leggere queste pagine-partiture è in realtà un perdersi nei suoni: suonano nel ritmo delle sillabazioni, nelle pause degli spazi bianchi che sono le sospensioni gestuali del direttore d’orchestra tra un movimento e l’altro o tra dei pianissimo e momenti briosi o meditativi.
Poi leggo: ì-mmortale  proclamo te  / nel tempo ammù-tinato.
Estremismo della Chiaroveggenza1 : tu, con mandato che viene da sfere a me non visibili, con parole divinatorie sciogli il mio destino fatale…
Perché non sono forse io, il tuo lettore, il tuo specchio, il tuo orecchio, a dover vivere per sempre?
Questo infine mi sono chiesto per un momento, incantato da questa investitura che riservi probabilmente a un tu reale o ideale cui concedi il tempo ammutinato (come quello dell’orologio di Apollinaire le cui lancette girano a rovescio2 ?)  perché il suo amore possa sopravviverti e perché possa celebrare per sempre la tua memoria.
O semplicemente, la parola.
Chiudo il libro, ti abbraccio.

Note:

1. Chiaroveggenza è il titolo di una sezione di Afasia di Silvia Comoglio (Anterem, 2021)

2. Allusione all’orologio del ghetto di Praga in Zona, di Guillaume Apollinaire

***

come se una fosse la rupe,
l’offerta chiusa di fiore
in altra fascia di mondo
é-retta a materia

e sia carta di mondo
la terra ―
nata a bisbiglio in á-
bisso di sogno ―

e dite, raddoppia, forse raddoppia?,
il lato dei dissi a taci di tempo dove ―
dove la terra è l’eco di un’ombra á-
mata a ritroso?

e l’eco, dite, á-mata a ritroso
è dove a Est del giar-dino di Eden
all’indietro cercano cielo u-
signoli stupendi

In la diesis


ebbra voce a taglio è il molto che sovrasta
il limite a roveto di contratta lingua nella bocca,
la musica di piume resa, resa estrema, estrema ―
nello spazio, alto, di cicogna

(… un giorno saremo strani ordini predetti
in asse alle finestre – chiuse – per la notte,
scure effigi scure a gote píccole di mondi dove ―
dove dire: qui-è-il-cielo e questo, di recente,
appena respirato il pruno scuro nell’ansa ―
dell’inverno …)

In sol maggiore


stanotte sono chi racconto : pausa
disgiunta da memoria : vera rosa ―
ricurva di follia ―

(generarti a nome del mio tempo fu l’unico segreto,
del labbro, appena, fessurato …

allora, fu detto, è acuta forma di radice
lo sguardo appena srotolato in sillabe di nomi
incessanti e già caduti

rose, ritorte di sibille, di mondi ―
a voci irregolari, leggermente, negl’occhi, arti-
colate …

… la distanza tra sillaba e sibilla è allora ―
mantice di casa a luce soffiata inter-mittente?

fui qualsivoglia-tuo-reame terríbile e vivente,
l’urgenza che prego di guardare nel dono del suo peso …)

In do minore

tutto fu misura di conscio crepitare a terre di boscaglia,
álbe rese alte! da incógnite tue rose, “fíbule del tempo,
di guardia, alla fontana

(fino a questo dire è salita con l’argano la voce …
… tremito che nuota, stretto, al dormiveglia

… cima di montagna – informe e sprofondata –
nell’idea, incessante, di presenza)

In la diesis

… e cresce – a galla sopra al limo – cresce
a orbita di luna l’al-bero sul limo …

(… e a sedurci qui rimase il prodigio di sapersi ó-
rizzonte seminato nel buio della terra …

… una scala di mí-
nima misura …

… la lácrima svegliata stornando ―
terra dalla terra, l’ómbra ―
dall’albero fantasma …)

In mi settima diminuita

e, poi, fu detto infine:

e tu dórmimi nana ai piedi del re sí-
lhouette di rosa non rosa, fischio,
scosceso, del tempo che accende
lúne forti nel Sempre, nell’onda stu-
penda di rena

* * *

í-mmortale proclamo te
nel tempo ammú-tinato?

*

(ma): fu nitore —
áppiccato nudo
dove, iddio, discese —
a nodo appena sciolto?

*

e dove fu nitore —


(á-ppiccato nudo!)

fu tempo, dite, ammutinato?
iddio disceso a dono
fin dove, in apice di sete,
la térra tu síllabi a deriva?

*

e dove —
fu tempo ammutinato
esiste, dite, l’universo?
o è vasto —
ordine di terra
solo —
una candela?

*

(e): la grazia del tempo ammutinato
è il fiore spaccato a vita?

*

(ma, allora): dove fu nitore á-
ppiccato nudo il tempo,
si vide, mondo senza abisso,
iddio disceso a dono
fin dove, in apice di sete,
si spacca il fiore a vita
perché sia il tempo ammutinato
l’eterno mirácolo di vita

 

Lingua letteraria e lingua dell’uso

1

di Gualberto Alvino

È a dir poco singolare che non a un linguista né a un letterato di professione, ma a un modesto funzionario del MinCulPop, tal Mario Alighiero Meschini, spetti il merito d’aver acceso — in un momento cruciale nella storia d’Italia e dei suoi mezzi di comunicazione, ossia poco prima della caduta del fascismo, «dopo una settantina d’anni di tranquillità» (Migliorini) — uno dei dibattiti più animati dell’altro secolo: la verifica dei rapporti tra lingua letteraria e lingua d’uso (Aa.Vv., Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori [«La ruota» 1941-42], a cura di G. Polimeni, Firenze, Accademia della Crusca, 2013).

 

Nel numero di giugno-settembre 1941 della rivista «La ruota» da lui diretta, il Meschini pubblica una piccante e acuta recensione, dal secco titolo Un dizionario nuovo e un metodo vecchio, del primo e ultimo volume del Vocabolario della lingua italiana, edito dalla Reale Accademia d’Italia e fortemente voluto da Mussolini, nella quale accusa senza mezzi termini il coordinatore dell’impresa Giulio Bertoni di aver «voluto fare il vocabolario […] della lingua viva con la lingua morta» ricorrendo nelle esemplificazioni ai testi tradizionali e alla lingua poetica anziché indicare — dovere d’ogni strumento di consultazione — pratiche possibilità d’uso con dovizia fraseologica:

 

Ciò che manca nel nuovo vocabolario, e che se ci fosse farebbe perdonar tutto, è la locuzione. La locuzione è la vita della parola, la vita fluida, vera. Al contrario, la citazione di un verso per esemplificare l’uso di un vocabolo, chiama subito alla mente il ricordo di insetti imprigionati in scaglie d’ambra; memoria di musei di storia naturale.

     Il vero lavoro di chi forma un dizionario non è soltanto quello di raggiungere la definizione perspicua e meno che mai quello dello spoglio degli autori (se non per cercarvi una conferma autorevole), ma è proprio quello della ricerca delle locuzioni che conducono «all’esercizio vivo della lingua».

 

Nel numero seguente della rivista appare un articolo di Bruno Migliorini (Lingua letteraria e lingua dell’uso) nel quale si distingue la lingua letteraria sia dalla lingua che si scrive correntemente sia da quella che correntemente si parla. Mentre la lingua quotidiana parlata e scritta, che il linguista accoglie sotto la definizione di «lingua dell’uso», si basa su costrutti e termini vivi di marca essenzialmente utilitaria, la lingua letteraria resta nell’alveo della tradizione e si propone fini principalmente estetici.

 

Il numero di gennaio-febbraio 1942 ospita contributi sul tema di scrittori, poeti, critici letterarî e linguisti.

 

Giacomo Devoto identifica quattro poli: oltre al letterario e dell’uso, il tecnico e il familiare,

 

che può trovare espressione nel dialetto [e conclude che la questione della lingua] nella sua forma tradizionale è morta. I modelli rigidi fra i quali bisognava optare si sono dissolti, i loro numi Manzoni e Ascoli, dopo un dialogo durato un secolo, non fanno sentire più la loro voce. […] Invece delle teorie, si richiede oggi la possibilità di dialoghi continuati fra autori e repertorî (grammaticali e lessicali e stilistici) non asserviti a dogmi. Solo questi, con sigle, con esempi intelligenti, con definizioni degne di questo nome, possono permettere all’Ispirazione di specchiarsi in modo agile e istruttivo con la Tradizione.

 

Per Gianfranco Contini la lingua è «atto umano, dunque atto personale», e perciò stesso esige d’essere osservata nella sua «validità espressiva»: «Il linguista, nel senso concreto, è appunto il critico letterario (il linguista della lingua di tutti suole astrarre dai sentimenti dell’identificazione umana). E il critico è forse negato a una parte comunque attiva nella lizza letteraria; condannato all’agnosticismo? L’estetica impone forse l’abbandono d’ogni poetica?». Alla rappresentazione miglioriniana degli «stati (traduco: Stimmungen) di chi fa la lingua» Contini oppone la polarità tra dialetto («lingua di natura») e lingua («di cultura»). «La riflessione di Contini — chiosa il curatore nella sua densa Introduzione — storicizza i termini della ‘questione’, così come era stata discussa dall’Ottocento, e invita a una lettura non più normativa del rapporto tra codici linguistici, pronta finalmente a collegare l’espressività a una ‘linea’ in cui ciascun autore si dimostra legato al sostrato di cultura e di parole che gli appartiene per nascita e per formazione».

 

Astratta e puramente teorica, secondo Mario Luzi, la distinzione tra lingua letteraria e dell’uso, giacché

 

non esistono frontiere tra di esse, ogni termine e ogni locuzione dell’uso essendo suscettibile di oggettivazione letteraria e potendo concorrere al linguaggio di uno scrittore. […] Dico dunque che la distinzione non mi sembra probabile in sé e non riguarda l’attività dell’artista il quale è poi il vero e l’unico responsabile della lingua. Alla formazione del suo linguaggio, della lingua cioè particolare dell’espressione sua, non può presiedere un criterio come quello considerato dal Migliorini. Traverso il linguaggio dell’opera d’arte la lingua dell’uso potrebbe in tutto e per tutto divenire letteraria nel significato legittimo che spetta a questa parola. Che le innovazioni letterarie (lessicali, sintattiche) resistano o siano espulse dal tempo e dall’uso letterario conseguente, dipende dalla vitalità dell’opera e del suo linguaggio, nonché dal grado di repetibilità che questo possiede: esse sono comunque inserite nella letteratura.

 

Giulio Bertoni interviene nel dibattito con una breve ma significativa precisazione: la distinzione cade «nell’atto in cui si parla e si scrive», poiché «la lingua è il corpo stesso della nostra cultura, e questa è la nostra integrale esperienza insofferente di schemi». Il linguista passa quindi al tema del linguaggio tecnico distinguendo «una lingua tecnica o pseudo-tecnica ‘letteraria e dell’uso’ e una lingua tecnica ‘scientifica’ per le stesse idee e gli stessi concetti». Se talvolta la prima è adattamento della seconda, più spesso si verifica il contrario.

 

Gadda respinge l’idea d’uso tardottocentesca e il relativo mito di una teoria manzoniana tendente — come aveva rammentato Migliorini — a imporre di «potare come rami secchi l’inutile ricchezza costituita dai doppioni» lasciando cadere «le numerose parole appartenenti al lessico letterario e non all’uso vivo»:

 

I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo. Sicché do palla nera alla proposta del sommo e venerato Alessandro, che vorrebbe nientedimeno potare, ecc. ecc.: per unificare e codificare: «d’entro le leggi, trassi il troppo e ʼl vano». Non esistono il troppo né il vano per una lingua.

 

Il punto cruciale del lungo e tortuoso contributo di Oreste Macrì è che «esiste una sola lingua, ed è la lingua poetica come purissima figura del sentimento, emblema della verità attiva dell’uomo». «La lingua poetica non può rientrare, secondo il critico, né nello schema di Migliorini né in quello di Devoto, ma è opportuno che diventi criterio di analisi e cartina di tornasole per l’esercizio e la ricerca dei critici di una nuova generazione» (così il curatore).

 

Per Luciano Anceschi «la lingua letteraria sta alla lingua poetica, come la lingua dell’uso sta alla prosa. La lingua letteraria è la lingua dell’uso letterario».

 

Telegrafico quanto discutibile il contributo di Alfonso Gatto, secondo il quale la differenza o l’identità tra lingua d’uso e letteraria non può riguardare che la sintassi, «l’unico modo cioè che dia tempo, resistenza storica a termini o a locuzioni altrimenti improvvisi e approssimativi».

 

In appendice al volume si riproduce opportunamente «il confronto di opinioni tra Paolo Monelli e Giovanni Battista Angioletti ospitato da “Primato” nel 1942: lo scambio di pareri, relativo all’apporto dei dialetti alla lingua nazionale e alla possibilità che le parole dialettali sostituiscano i forestierismi, è sinteticamente evocato da Bruno Migliorini nell’articolo in cui il linguista offre un bilancio finale del dibattito “lingua letteraria e lingua dell’uso”. Ai tre interventi del 1942 si fa precedere il contributo di Paolo Monelli, Ammoìna (“Corriere della Sera”, 27 ottobre 1938), che rappresenta il prodromo della discussione, in più occasioni richiamato dai due autori» (Polimeni).

Le magnifiche invenzioni

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Gianni Biondillo intervista Mara Fortuna

Mara Fortuna, Le magnifiche invenzioni, Giunti , 2021

La Storia come una “magnifica invenzione”. Storie inventate che inventano la Storia. Come hai fatto a calartici dentro?

In quegli anni di fine 800 si respirava un’atmosfera effervescente, c’era molta fiducia nel futuro, nelle possibilità dell’umanità. Le storie di questo romanzo sono inventate, ma ruotano intorno a personaggi realmente esistiti. Il più importante è Marey, precursore del cinema. I suoi progressi, gli strumenti che costruiva (veri) e quelli per il volo del personaggio di Tunino (inventati), rappresentano questa grande tensione dell’epoca verso il futuro. È stato entusiasmante scrivere di un tempo così diverso dal nostro. La fascinazione che ha esercitato su di me è stata la strada per “calarmi” nella storia.

Il tuo è un romanzo “duale”: l’alto e il basso, la ricchezza e la povertà, due città, Gaetano e Tunino, due modi d’intendere l’amore, due ossessioni. Sbaglio?

Si può leggere anche così. Aggiungerei “successo e sconfitta”, ma la soluzione è sempre la trasformazione, l’uscita dal dualismo. È solo accettando gli insuccessi e correggendo la mira che i personaggi trovano una via d’uscita e riescono a realizzare le proprie visioni. Quelli che restano fissi, rigidi nei loro propositi o nel loro conformismo vanno incontro al disastro.

Quanta Parigi c’è a Napoli, e quanta Napoli a Parigi? Quanto sono profondi i legami e, come dici tu stessa nel romanzo, le distanze?

Napoli all’epoca era una capitale europea, venivano qui a studiare e lavorare artisti e scienziati, e aveva poco da invidiare a Parigi. Col tempo le distanze si sono molto accentuate, ma credo che le risorse umane in questa città siano sempre presenti ora come allora.

Arte e scienza (le due ossessioni) calate in un tempo, la fine dell’Ottocento, che guardava alla modernità con gli occhi del mito. Abbiamo perduto per sempre quell’innocenza? È forse questo il più intimo dei messaggi del romanzo?

Abbiamo sicuramente perso l’innocenza. Ci siamo accorti che il nostro progresso non migliorava, ma anzi peggiorava le condizioni di vita di altri paesi e inoltre non aveva solo conseguenze positive sulla nostra vita, basti pensare all’inquinamento. Tuttavia, gli unici strumenti che abbiamo per cercare di migliorare sono ancora quelli: la scienza, l’arte, la politica. Dalla scrittura di questo romanzo mi è rimasta la convinzione che quella fiducia, quel sogno di giustizia e di riscatto andrebbero recuperati.

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(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

I figli sono finiti. Intervista a Walter Siti

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a cura di Andrea Carloni

Walter Siti, nato a Modena nel 1947, vive a Milano. Ha insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila. È il curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini. Attualmente collabora con “La Stampa” e “Domani”. Con Resistere non serve a niente è stato vincitore del Premio Strega 2013. Tra i suoi libri ricordiamo Scuola di nudo, Un dolore normale, Troppi paradisi, Il contagio, Autopsia dell’ossessione, Bruciare tutto, La natura è innocente, Tutti i nomi di Ercole, tutti disponibili in BUR, e Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini (Rizzoli 2022).
In questa intervista che ha voluto gentilmente concedermi ho avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande sul suo recente romanzo I figli sono finiti (Rizzoli 2024), che lui stesso ha dichiarato essere il suo ultimo.

 

I due protagonisti del romanzo, separati da cinquant’anni di divario anagrafico, sono ravvicinati dallo stesso pianerottolo e dallo stesso isolamento misantropico fra le rispettive mura domestiche; il vecchio Augusto per vicende sanitarie e sentimentali, il giovane Astore per l’inadeguatezza della realtà a ogni suo desiderio. Tutto ciò in cui credevano si è quindi dissolto in un vuoto di senso?

Augusto si è isolato nel suo appartamento per cautelarsi dalle deboli difese immunitarie causate dai farmaci assunti per un trapianto di cuore e per l’elaborazione del lutto del suo compagno. È una persona sconfitta dalla vita e non realizzata nel suo lavoro: avrebbe voluto essere un pittore ma si è ritrovato a insegnare francese in un liceo senza riuscire a divenire professore universitario. Astore ha avuto invece un’infanzia molto complicata da enfant prodige che lo ha portato a scoprire delle vicende sui propri genitori che lo hanno traumatizzato. Mi interessava far incontrare due personaggi che dal punto di vista psicologico non appartenessero alla media e capire come avrebbero potuto reagire a un’apparente mancanza di senso nei confronti del futuro. Augusto vi rinuncia rimanendo legato al vecchio umanesimo della gioventù, mentre Astore immagina il futuro di una post-umanità aumentata dall’unione fra uomo e macchina. Due opposte reazioni che portano entrambe al rifiuto del presente; l’uno aggrappandosi troppo al passato, l’altro proiettandosi troppo al futuro.

«Sai, io non ci credo nel tuo futuro… nel futuro che immagini per tutti e nemmeno nel futuro che avrai, personale.»
Astore stritola tra i denti una frase che a chi avesse un udito finissimo (non è il caso di Augusto) suonerebbe “tanto tu muori presto”.

 

Fra il vecchio Augusto e il giovane Astore, si avverte la distanza e l’idiosincrasia della generazione di mezzo: Astore infatti è orfano di madre e il padre è pressoché relegato a mera fonte economica. Quali conseguenze attendono le nuove generazioni se vengono progressivamente dispensate dal confronto e dal conflitto con i genitori? 

Il padre di Astore, pur essendo fra i meno calcolati del libro, è stato uno dei personaggi a cui mi sono più affezionato. Si tratta di un padre molto accogliente, che rifiuta il conflitto in ogni situazione e che è convinto che tutto si possa risolvere con un abbraccio. Di conseguenza possiamo dire che Astore non abbia sviluppato il complesso di Edipo, preferendo infatti rifugiarsi nel corpo del padre piuttosto che in quello della madre, più dura, razionale e conflittuale, dalla quale ha ricevuto il suo modo troppo intelligente di affrontare i problemi della vita. Al di là del semplice rapporto generazionale, io temo che oggi in tutta la cultura contemporanea occidentale si osservi una fuga dalle contrapposizioni e un’eccessiva paura della violenza e dell’offesa, che portano a nasconderci da una realtà di vita che invece è fatta di conflitti molto aspri, come ad esempio le guerre, che ci colgono infine sempre impreparati. A differenza, ad esempio, dei giovani del Risorgimento, che preferivano morire in battaglia piuttosto che vedere la propria patria distrutta, quelli di oggi non hanno alcuna intenzione di essere coinvolti in una guerra, essendo abituati da una cultura post-capitalista e post-consumista a pensare che ogni forma di conflitto e violenza possa essere risolto con il progresso.

Nella loro capsula al centro di Milano, bolla dentro una bolla, vecchio e giovane si trovano d’accordo su una cosa: se tutti i ragazzi si lasciassero morire di fame per protesta contro i disastri climatici, forse i genitori si darebbero una mossa. Ma ormai sui genitori non ci si può contare.

 

Il giovane si rapporta al sesso virtualmente, il vecchio ritrova la sua ultima sessualità nell’incontro con un corpo – quello di un body builder – che a sua volta è magnificato dalla sua stessa immagine. Quale può essere l’evoluzione della sessualità se il desiderio tende a dirigersi sempre più verso la rappresentazione del corpo, anziché il contatto con il corpo stesso?

Anche in questo caso mi sono divertito a giocare con i contrasti fra i protagonisti: il fatto che l’innamoramento presente nel libro fosse del vecchio, e non del giovane, rappresenta il rovesciamento di un luogo comune. Augusto non riesce a rinunciare alla materialità dei corpi (l’odore, il sapore, il contatto, la penetrazione), mentre Astore, così come dimostra la tendenza nei ventenni di oggi, preferisce un sesso mentale, immaginario e virtuale rispetto a quello carnale. Sicuramente è un effetto del fatto che le ultime generazioni entrano in contatto con la pornografia molto facilmente e molto precocemente grazie all’uso dei telefonini. Un sesso praticato portato all’eccesso ed esibito in modo così teatrale, che dei ragazzi troppo giovani percepiscono come irreale, li porterà sempre più a convincersi che ciò che visionano su un display sarà sempre migliore di quello che si possa sperimentare nella realtà. Stiamo assistendo dunque a un fenomeno di esaurimento della carne e di vaporizzazione del sesso. In piattaforme come OnlyFans si paga per fruire solo di immagini: abituandosi a far derivare la propria gioia sessuale da un’immagine, il fatto che questa corrisponda a una persona realmente esistente o generata invece dall’intelligenza artificiale diventa di secondaria importanza. C’è anche da dire che paradossalmente nel libro, rispetto al giovane Astore che finge di avere impiantata una calotta cranica biocompatibile con una rete neurale collegata a un pc, è il vecchio Augusto a essere in realtà maggiormente in contatto con l’artificialità del corpo, per via del suo cuore artificiale e di una protesi peniena. Anche l’enorme corpo del culturista di cui Augusto è innamorato, ma corrisposto solo sessualmente, è sua volta artificiale e di natura sostanzialmente chimica, necessitando dell’assunzione di ingenti quantità di sostanze anabolizzanti. Il sesso di conseguenza risulta falsato sia dalla parte del vecchio che dalla parte del giovane i quali, ognuno a suo modo, puntano verso una dimensione della sessualità sempre più distante dal reale.

Augusto si lascia sommergere da questa massa di disperazione, chiedendosi se è proprio finita l’era in cui il desiderio te lo andavi a cercare dal vivo, pedinando e rischiando sputi in faccia; ma nemmeno lui si sente immune dal meccanismo derealizzante – confrontandoli con le antiche foto (e disegni), i corpi delle sue brame si sono progressivamente espansi, gonfiati – il più recente sempre il più grosso.

 

La figura di Astore è alquanto complessa: un ragazzo prodigio, estremamente acuto e disilluso, che nei suoi vent’anni pensa e vive fuori dalla sua età e dal suo tempo. In che modo è riuscito a dare forma e materia all’atipicità di questo personaggio?

Astore è un ventenne e il suo personaggio mi ha portato per la prima volta a trattare il periodo dell’adolescenza, in quanto nei miei libri i giovani erano sempre stati dei bambini iper-intelligenti di massimo 8 o 9 anni. La questione più complicata è stata quella del linguaggio, in quanto nella prima stesura il vecchio e il giovane parlavano in modo troppo simile, per quanto Astore possa considerarsi un giovane vecchio in ragione della sua intelligenza superiore alla media. Ho dovuto documentarmi, ho parlato per molto tempo con i figli di miei conoscenti e con i loro amici, ho ascoltato le loro playlist musicali, ho imparato a giocare con un giovane gamer… La cosa che mi ha colpito è la rapidità con cui le generazioni si succedono: per questi ventenni, i trentenni sono già vecchi e tutto ciò che per me rappresentava il non plus ultra della novità e della modernità, per loro sono già cose passate. 

Ersilia mormora come tra sé “la ragazza è molto giovane” ma Astore le risponde per consolarla: «Mica tanto giovane, nonna… usa ancora le faccine su WhatsApp… per dirmi che s’era scordata il mio regalo m’ha mandato (mimando) quella con gli occhietti e la bocca all’ingiù… e poi dice “cringe” credendo che sia una roba da pischelli, secondo me è sui trenta, almeno».

 

In questo romanzo il linguaggio si dirige verso una forma colloquiale, loquace, veloce, attuale, spiccatamente antiletteraria e antipoetica. Lo richiedeva questa narrazione in particolare o sente questo risultato più ampiamente come una ricerca affinata in anni di esperienza come scrittore?

Forse sono gli effetti di una scrittura senile e della mancanza di voglia di dimostrare ancora di sapere scrivere. Ma anche di osservazioni fatte come uditore, fra cui la grande quantità di termini inglesi a cui non ero abituato vent’anni fa, ma che oggi ormai sono talmente entrati nell’italiano corrente che vale la pena riprodurli, adottando la lingua usata nel tempo in cui si scrive. Infine ho l’impressione che tutti i ritmi si siano ormai velocizzati e quindi utilizzo frasi meno lunghe e meno poetiche, riducendo la quantità del lirismo e delle metafore a cui ricorrevo nei miei romanzi precedenti, rispetto ai quali ho quindi adottato un linguaggio più parlato.

«Se voi siete riusciti a liberarvi dalla fede in Dio, noi riusciremo a liberarci dalla fede nella realtà.»
«Noi a vent’anni…»
«Cheppalle!»
«A vent’anni volevamo cambiarla, la realtà… poi a trenta abbiamo capito che la rivoluzione non si poteva fare.»
«Noi l’abbiamo capito a cinque, di anni… della rivoluzione alla vostra maniera, frankly I don’t give a shit.»

 

Riferendomi al titolo del suo romanzo, I figli sono finiti, cosa pensa del fatto che i profondi e rapidi progressi della tecnologia contribuiscano a mettere in discussione la genitorialità non solo per la crescita e l’educazione, ma anche per la generazione stessa dei figli?

Dopo una serie di titoli sperimentali, quello definitivo è arrivato da una scena a cui ho assistito, poi riprodotta nel romanzo, nella quale un vecchio in un supermercato, accusato da una donna incinta di avergli rubato il posto in fila, la rimprovera rispondendole: “Lei pensa di avere dei diritti perché aspetta un figlio, ma non lo sa che i figli sono finiti?”. C’è inoltre la questione della popolazione dell’occidente in cui i figli stanno diminuendo e del progressivo appiattimento delle curve di crescita demografiche: più le società sono benestanti, meno bisogno c’è di far figli. Infine mi hanno colpito le recenti novità tecnico-scientifiche tramite cui si possono produrre ovociti e spermatozoi dalle cellule staminali rendendo tecnicamente possibile ottenere bambini; inoltre dalle cellule staminali femminili sembra si possano ottenere anche degli spermatozoi, dando così alla donna la possibilità di autofecondazione, senza più alcuna necessità della presenza del maschio per la generazione. Tutto ciò potrebbe non solo permettere di ottenere dei bambini senza bisogno che siano anche dei figli, ma anche potenzialmente condurci verso una sorta di scenario di eugenetica quasi para-nazista dove si possano decidere preventivamente le caratteristiche somatiche di ciascun bambino. Non è una bella prospettiva.

[…]la fecondazione tecnologica abolirà qualunque forma di razzismo sistemico; nessun diritto di sangue, nessun orgoglio di madre per il maschietto home made, al Gurdon Institute di Cambridge sono già molto avanti con gli ovuli e gli spermatozoi ottenuti da cellule staminali, solo nei Paesi sottosviluppati si faranno ancora bambini col vecchio sistema; quelli artificiali verranno immessi sul mercato da società private o pubbliche.

 

Persone che hanno nomi di morti

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di Lorenzo Barberis

Qual era il nome di quel pesce corazzato del Devoniano? Quello che chiesi a mia madre per il compleanno, quello per cui piansi quando mi rispose che era estinto da duecentosessantacinque milioni di anni? Quale pensi che sia il motivo per cui non riesco a ricordarlo? Ha a che fare con quella sera in cui bevemmo un’intera bottiglia di Famous Grouse? È plausibile che io in quel momento ti avessi detto il nome esatto? Genere, specie, epoca geologica? O avevo già bevuto troppo per dire qualcosa di sensato? Avevi l’impressione che stessi cercando di fare colpo? Che forse in realtà non si trattava nemmeno del Devoniano, ma del Siluriano? Del Carbonifero? Stai parlando di quella sera alle autorità? Stai facendo il mio nome alla Corte Internazionale di Giustizia? Hai intenzione di esporre la leggenda diffusa dai miei compagni di dormitorio sull’odore dei miei piedi? Credi che io avessi già capito che ti piacevano i narcisisti? O puntavo invece sul tuo amore per la natura? Quanto dovevamo aver bevuto al nostro primo appuntamento per parlare di esoscheletri e di pesci paleozoici? Una sola bottiglia di Famous Grouse, magari due? Ti immagini se avessimo scolato due intere bottiglie, e invece di inciampare e trascinarci a vicenda giù dal pendio erboso, non ci fossimo mai alzati? Se a quel punto fossimo svenuti – come in un profondo coma etilico – per svegliarci la mattina dopo con un carlino che ci leccava la faccia, con un vecchio che portava fuori il sacco del vetro? Non sarebbe stato più facile? Che giorno era? Quanti preservativi avevi nella borsa? Avevi scrutato la luna? Quale pensi che fosse la relazione tra il whisky e tutto il resto? Sarebbe stato lo stesso da sobri? Avrei avuto l’accortezza di non venirti dentro? In quale fase lunare ci trovavamo? Crescente? Calante? Stabile? Sei sicura che quei preservativi non fossero scaduti? Con che cosa li fanno oggi? Li hai usati molte volte in quella settimana? A quanti seminari avevi partecipato? Perché avevi deciso di non tornare a casa? Di vederci direttamente nel campus? Non avevi paura che – attratto dal prato – mi sarei tolto le scarpe? E i calzini? Che avresti pensato che i miei colleghi avevano ragione? Che l’odore dei miei piedi sembra venire da un altro mondo? Dall’aldilà? Perché non hai detto niente? Sei stata educata a non badare ai difetti altrui? Tuo padre ti ha dato uno schiaffo quando hai detto che la signora grassa che passeggiava davanti a voi, in spiaggia, era una cicciona? È grazie a quella cicciona che sei stata gentile con me? Che hai fatto finta di interessarti ai miei fossili? Lo sai che ascoltiamo sempre un podcast sui dinosauri? Che quando June vede la carcassa di un gatto lungo la strada, mi chiede se è un branchiosauro? Mi chiede proprio: è uno pterodattilo? È un velociraptor, papà? Tu lo diresti alla piccola June che abbiamo ucciso noi quel gattino? Tutti quei gattini? Che nonostante tre dottorati in due, rotolavamo giù dalla collina come una coppia di cuginetti incestuosi, che ridevamo per il trifoglio che ti si era infilato in una narice? Te la sentiresti di spiegarle che anche uno specializzando in osteologia archeologica può avere un’erezione? Per così poco poi? Ti ricordi cosa dicesti? Ti porti il lavoro nei pantaloni, doc? Ero già scalzo in quel momento? Non avevi paura che il Magnifico Rettore potesse vederti così? Era lecito introdurre alcolici nel campus? Ti avevano già beccata prima? A fumare da una bottiglia di plastica? A frugare nelle mutande di una studentessa in Erasmus? Come è possibile che la più grande virologa della costa orientale non conoscesse il nome del più grande pesce corazzato del Devoniano? Non ti sembra strano? Non dovrebbero almeno nominarlo in questo vecchio podcast sui dinosauri? Perché mi sembra di essere l’unico interessato a questo argomento? Pensi che due disgrazie accadute in uno stesso istante equivalgano a un miracolo? Che meno per meno, più? Per quale motivo volevi mostrarmi il padiglione di ricerca? Non potevi semplicemente slacciarmi i pantaloni e cavalcarmi sul prato? Che cosa avrei dovuto dire di tutte quelle celle frigorifere?  Di tutti quei “non aprire”? Di tutti quei teschi stilizzati dentro triangoli gialli? Cosa se ne fa uno che vive di ossa e polvere di tutti quei liquidi e tessuti? Non avevi freddo? È possibile che le basse temperature congelino il lubrificante? E che una volta trasformato in brina, questo buchi il lattice? Quale pensi che sia il rapporto tra la termodinamica e quello che è venuto dopo? Non sei nemmeno un po’ stupita che io stia guidando una macchina? Che tua figlia, qui dietro, stia sonnecchiando mentre ascolta un podcast sui dinosauri? Chi ha chiamato quel padiglione Padiglione June Almeida? Te li fanno ascoltare i podcast in prigione? O ti tocca ascoltare tutto il giorno le tue compagne che trattano il prezzo delle sigarette? Qual è il tasso di mortalità nella nazione dove ti hanno esiliata? La curva di contagio è alta? Non ti pare ridicolo che io, scalzo e sudato in quel laboratorio, non abbia preso nemmeno un raffreddore? Pensi che io avessi abbandonato le mie scarpe sulla collina del campus? Le “bare”, come le chiamavano i miei colleghi? Ti piaceva l’idea di scopare guardando quella moltitudine di fluorescenze? È per questo che non hai acceso la luce? È per questo che facevamo l’amore a tre gradi sotto zero? Per evitare che l’odore cadaverico dei miei piedi ti uccidesse la voglia? Non pensi sia un falso mito questo del freddo che attutisce gli odori? Secondo te la piccola qua dietro lo ha capito che tutti quei gattini non sono morti investiti da un camion? Che non li ha rincorsi un cane cattivo? Hanno già fatto un podcast su di te? Dove lo trovo? Hai già raccontato di come ti dimenavi, e spaccavi le fiale, e rovesciavi le provette? Di come ti leccavi le dita prima e dopo? I tuoi interrogatori hanno già portato a definire un rapporto tra coito e strage? Tra sperma e genocidio? Siamo sicuri che sia proprio io il padre di June? Quanto pensi che dovrò andare avanti con questa storia che quelli lì lungo la strada, cotti dal sole e diminuiti nei loro stessi vestiti, sono dei micetti? A che velocità dovrei andare per evitare con prudenza tutte queste auto abbandonate sulla superstrada? Pensi che June sarà più da ossa, o più da microrganismi? Mi chiederà mai di te? Hai mai realizzato che tutti noi, esclusi gli animali, anche quelli scomparsi da millenni come il pesce dotato di esoscheletro del Devoniano, ed escluse le figlie delle pop-star americane che vengono battezzate con strane combinazioni di piante e costellazione, tutti noi altri che si scopa quando si può e si scappa quando si deve siamo nati con già addosso il nome impronunciabile di un morto?