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Metamorfosi del ricordo ai tempi dei social

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La survivance des ombres – Lola Hakimian

 

di Ornella Tajani

Scopro oggi che non esiste più il rinnovo del passaporto: dopo dieci anni lo si cestina e bisogna farne uno nuovo. Sorvolo sulle prevedibili ragioni che nel 2003, due anni dopo l’11 settembre, hanno portato a questa ulteriore «misura di sicurezza». Cerco invece di richiamare alla mente, dato che non ho il documento sottomano, quali visti ho accumulato nel tempo. Del passaporto il visto è la cosa più bella, il timbro-ricordo di un viaggio. Quando l’ho richiesto per la prima volta, dieci anni fa, ed ero convinta che il viaggio fosse il valore esperienziale massimo, pensavo con piacere al momento in cui tutte le pagine sarebbero state piene di visti rigorosamente l’uno diverso dall’altro, e io avrei potuto sfogliarle come un singolare album dei ricordi. In Messico mi sono innervosita perché il timbro non è venuto bene, in Etiopia ho scoperto che l’addetto al visto non usava necessariamente la prima pagina libera, ma apriva il libretto in un punto a caso, in maniera sfacciatamente sciatta, alterando in modo irreversibile quell’ordine di viaggi che io avrei voluto rigorosamente cronologico.
Mi dispiace apprendere adesso che il vecchio passaporto, con sopra una foto bruttina capace di ridestare subito svariati ricordi, e con una serie di visti forse più numerosa di quella che abiterà nel secondo passaporto, non mi apparterrà più, perché dovrò restituirlo al momento della richiesta del nuovo: in quanto forma di archiviazione coatta, per me somiglia al furto di una porzione di passato.
Nell’ultimo anno ho trovato in più di un libro l’idea, espressa con parole diverse, che la memoria sia in fondo una forma di fiction, e il passato un prodotto in buona parte inventato. Forse per molti è un assunto banale; per me è stata una scoperta sensazionale. Così ho iniziato a prestare attenzione, da un lato, ai supporti materiali del ricordo (e ai modi in cui vengono meno, come per il passaporto, mentre proliferano gli strumenti di registrazione); dall’altro, ai procedimenti che provano a regolamentare i flussi della memoria. Il più evidente è fornito da Facebook: parlo naturalmente della funzione «Accadde oggi». Esiste ormai da più di due anni e mi sembra che si sia definitivamente affermata: ogni giorno dell’anno, Facebook ti consente di decidere di rievocare un ricordo, un po’ come si rievoca un’anima in una seduta spiritica, mostrandoti cosa scrivevi in bacheca nella stessa data ma un anno prima, tre anni prima, cinque anni prima. È l’ennesima mossa di Facebook per dare valore alla tua attività sul social, e dunque indirettamente a se stesso: la memoria, naturalmente, comincia al momento dell’iscrizione.
Il ricordo viene acceso a richiesta, assecondando un bisogno nuovo di zecca: «Voglio un ricordo», uno a caso, il che è ben diverso dall’aprire l’album di foto perché si ha nostalgia di quella particolare vacanza in Grecia; voglio un ricordo come posso volere una birra, e accedo a un dispositivo che me ne seleziona uno sulla base di un criterio affatto gratuito come quello della medesima data (per chi non lo sapesse, Facebook, che è sempre molto attento a non urtare la nostra sensibilità, e molto contento di lasciarci giocare per finta al gioco cui il sistema gioca per davvero, consente all’utente di bandire dai propri ricordi una selezione di contatti, in modo da non visualizzare momenti vissuti con l’ex o con l’amico indesiderato). Il tutto è perfettamente kitsch: non richiamo più un ricordo in maniera volontaria, né ritorno a un evento perché la vista di un oggetto o un profumo improvviso mi ci riportano con il pensiero, ma stabilisco di essere in vena di ricordi e ne scelgo uno da quelli in bella mostra sul banco del supermercato.
L’eventuale poesia dell’atto è definitivamente distrutta dalla formula con cui si conclude la quotidiana rassegna «Accadde oggi»: «Grazie di aver controllato i tuoi ricordi!». Di nuovo Facebook gioca a convincere l’utente che sia lui a controllare qualcosa, suggerendo inoltre che il ricordo richieda una sorveglianza speciale: forse per paura di perderlo?
Nel web, ormai, nulla si perde. Nel suo saggio Mobilitazione totale (Laterza, 2015), Maurizio Ferraris scriveva che il web è diventato uno strumento di registrazione prima che di comunicazione, provando a dimostrare come tale registrazione sia alla base della microfisica del potere attualmente dominante. Per Ferraris addirittura «molto più della crescita demografica, il tratto caratteristico degli ultimi due secoli, che ha subito una impressionante accelerazione negli ultimi decenni, è stata la crescita degli apparati di registrazione, e di conseguenza della iterabilità di fatti, oggetti, eventi, atti». La registrazione, come è ormai chiaro, è diventata propedeutica a ogni esperienza e fruizione: non ci si telefona più, ma si lascia un messaggio registrato su Whatsapp; non si guarda più il Van Gogh al Musée d’Orsay, ma se ne archivia una copia fotografica nello smartphone, e questo per limitarmi a due esempi minimi e immediati sulla larga scala disegnata da Ferraris, per il quale

 

la registrazione è il trascendentale (ossia la condizione di possibilità) dell’emersione [che è a sua volta la «linea continua che porta dal mondo naturale al mondo sociale», n.d.r.], in quanto, attraverso la sua funzione fondamentale, che è di tener traccia di una impressione, consente il crearsi di strutture articolate.

 

La registrazione conserva la traccia dell’impressione; dunque, recuperando quella traccia, io posso, in teoria, ricevere nuovamente la medesima impressione: che ne è allora della funzione mentale del ricordo? Con «Accadde oggi» Facebook prova a convincerci di aver registrato anche i nostri ricordi, che sono invece solo la traccia parziale dell’attività compiuta sul social in quel determinato giorno.

 

Di fatto, – prosegue Ferraris – la caratteristica essenziale del web non è la trasparenza ma l’asimmetria tra ciò che sa l’utente e ciò che sanno le compagnie di gestione. La registrazione assicura un sapere su tutte le operazioni compiute in rete, di qui la situazione asimmetrica: l’utente sa molto poco, l’apparato sa tantissimo.

 

L’apparato sa tantissimo, e può decidere in questo caso cosa farci ricordare. L’utente sa molto poco, e sempre di meno, perché i dati forniti sono sempre maggiori e non lasciano traccia, le memorie un tempo archiviate nel pc diventano esterne fino a trasformarsi in cloud fluttuanti nell’etere, e le registrazioni disegnano quella «iterabilità di fatti» così fitta da farsi ingestibile per il singolo. Da un certo punto di vista, sembra quasi che la registrazione si opponga al ricordo, esonerandoci dal dovere di ricordare, perché tanto in una penna usb resterà una copia di quell’esperienza che nel frattempo sparisce dalla memoria: il ricordo, in un certo senso, diventa innecessario, finendo con l’apparire una funzione mentale desueta. La memoria si fa archivio, un archivio a portata di click, consultabile senza sforzi neuronali, senza il bisogno di attivare una qualsiasi connessione cerebrale; se è vero che essa è una forma di fiction, la sua lenta trasformazione in archivio digitale consente di selezionare agevolmente le scene da montare per ricostruire il film di una vita.

Anno nuovo, nuovi italiani

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I nuovi ragazzi dell’Europa

di

Francesco Forlani

 

 

 

Quando Fabio Gambaro, direttore dell’Istituto di Cultura, e che conosco da oltre vent’anni mi ha chiesto se mi andava di accompagnarlo al concerto di Gianna Nannini all’Olympia di Parigi nell’aprile di quest’anno quasi non ci potevo credere, per almeno due ragioni. La prima è che ogni volta che entro in quella sala per me risuona la parola Europa e a cantarla, generalmente, vi sono grandi interpreti. Ma l’immagine che forse la rappresenta di più è Jacques Brel, d’origine belga, francese d’adozione, che piange i suoi marinai di Amsterdam, capitale olandese e di Spinoza. Se c’è una cosa che per noi « millenari » ha sempre raccontato l’Europa, oltre a naturalmente Giochi senza frontiere, è l’Eurovisione, capace di unire con note semplici come quelle di Non ho l’età le genti del sud, del nord, a est e ad ovest del vecchio continente. Ma la canzone Ragazzo dell’Europa per chi come noi è andato via da pane e famiglia negli anni novanta è sempre stato l’inno di una libertà desiderata e da realizzare nel tempo. Ecco perché non senza emozione, e con largo anticipo la sera del 22 aprile ero sul Grand Boulevard a fumare una sigaretta e a pensare a un po’ di cose come quella, che si era a un momento prima delle elezioni presidenziali in Francia, e che all’Olympia di Parigi Gianna Nannini avrebbe cantato il ragazzo\ragazza dell’Europa che è in noi e che qualsiasi cosa potesse succedere, avrebbe resistito. L’Europa siamo noi- ricordo di avere pensato.

Nei mesi successivi mi giungeva dal nostro paese l’eco di uno scandalo, il blocco critico ad una legge, detta dello Ius soli che ai muscoli di una vecchia Europa inacidita sostituiva un abbraccio di una mater decisamente mediterranea, ospitale e soprattutto giusta. Eppure la legge non si vota, si ha paura di presentarla in parlamento, di non avere i numeri per farla approvare. Come continuare ad essere “noi ragazzi dell’Europa” senza non dico la vergogna ma l’imbarazzo almeno una volta provato nella nostra vita quando a varcare la soglia della casa familiare fosse stato un amico poco gradito a un parente che di certo non la mandava a dire e a stento diceva buongiorno? L’impasse in cui il mio europeismo si trovava sembrava davvero insuperabile a questo punto se non fosse intervenuto un piccolo fatto, rivelatore di un mondo che di certo avevo intravisto ma mai toccato con mano, provato sulla mia pelle e successo tempo dopo, poche settimane fa, in effetti. E la prima persona a cui l’ho raccontato è stato proprio Fabio. Stessa scena della precedente primavera, stesso giardino, ma ora in un autunno che miracolosamente stava regalando magnifiche giornate assolate, sintomo meteorologico di quella magnifica cosa che qui chiamano Eté indien.

A Fabio racconto del mio nuovo incarico come professore d’italiano in due scuole medie (college) a Dreux e Anet, della fierezza di appartenere con questa missione all’Education Nationale, e insieme a qualche aneddoto picaro che riguarda essenzialmente le soluzioni logistiche da trovare a un problema, il problema che ho, di essere senza patente e dunque senza macchina, rivelo l’arcano. Quando avevo fatto il mio ingresso nel cortile indossavo un vestito chiaro, la cravatta e il cappello. Dal primo piano sento chiaro e forte uno dei ragazzi gridare : ehi, il y a un mariage!! La cosa mi aveva fatto scoppiare in una sonora risata e mio malgrado grazie alla spontaneità del gesto mi ero conquistato almeno l’ala sinistra della palazzina. Mentre le classi si disponevano negli spazi indicati con il nome delle aule, prima uno, poi un gruppo di ragazzi, a seguire tre ragazze m’erano venuti incontro dicendo tutti la stessa frase: io sono italiano! Ne riconoscevo in alcuni l’accento del Nord, l’operoso Nord di Crema o Monza, Bologna o Torino, e in altri della solarità, l’operosa solarità del Centro e del Sud, Brindisi, Palermo, Rieti. Le loro origini si declinavano in nomi di città o paesi che in parte conoscevo ma che per lo più mi erano ignoti per la lingua, per la cultura o per la religione professata. Si chiamavano Duah, Asmaa, Faadi, Dylan, Fatima. Nello strappo che tanti di loro avevano sentito andando via dall’Italia, paese in cui erano nati, per venire a vivere in Francia, la casa dell’origine dei genitori, dei propri avi, era solo un vago miraggio, una ignota silhouette che, fortunatamente aggiungerei, traeva la propria linfa dall’idioma parlato in casa con i propri genitori quando l’italiano, usato intra-muros e durante il corso d’italiano, faceva un passo indietro per lasciare spazio all’arabo, allo swaili, al pakistano.

Quando alla fine del primo corso in una quinta, prima media, una ragazza minuta e dolce dai tratti orientali mi ha sussurrato che era felice perché solo quando sentiva parlare italiano si sentiva a casa, vi confesserò che le avrei regalato tutto, il Colosseo, la Torre di Pisa, dieci cento mille gondole veneziane, tutta la neve delle Alpi e ogni colonna dei templi greci siciliani e campani, il Vesuvio e l’Etna, le isole grandi e piccole, i laghi, i fiumi, nome dopo nome, paesaggio dopo paesaggio, la pizza, sì tutti i tipi di pizza, pizza fritta, pizza pane, pizza al forno o al padellino, salvo poi realizzare, in un tempo fortunatamente rapido, che lei tutte queste cose le aveva già, lei, come gli altri incontrati prima, le sapeva perché lei era italiana. Così, dopo la chiacchierata con il direttore, mi sono limitato a farmi dare da Francesco Scaglione, il mio storico amico bibliotecario, l’affiche che Lorenzo Mattotti aveva realizzato per quelle magnifiche grotte in cui sono custoditi i migliori libri della nostra tradizione, la Italo Calvino.

Nel manifesto il pastello tenue, delicato del nostro più famoso fumettista qui oltralpe, tratteggia la penisola da un’angolatura particolare come in una vista dall’alto a bordo di un velivolo che planasse a pochi metri da terra, su un fianco, mostrando il paese nel suo allungarsi verso altri mondi. Non si scorgono frontiere e, dove il tratto sfuma, lì si sa, che l’Europa, l’orizzonte Europa continua, senza confini, né valichi, senza dogane né blocchi, nel naturale susseguirsi delle stagioni e delle generazioni. Questo numero di Sud celebra i settant’anni dall’ultimo numero della storica rivista diretta da Pasquale Prunas e lo fa pubblicando grazie a Renata Prunas e Giuseppe Catenacci materiali di quello che sarebbe stato il sèguito non seguito dell’avventura ma lo fa anche mettendo in risalto la parola forse tra le più care alla storica redazione di stanza alla Nunziatella: Europa. Come nella canzone di Brel dedicata alla birra, che unisce tutte le capitali europee, de Londres à Berlin, che scorre lungo le strade della vita dei ragazzi di oggi e di ieri, senza fermarsi mai, così la meglio gioventù d’Europa, oggi tenta di fare lo stesso. Allora corri, ragazzo dell’Europa, corri e non fermarti perché nessuno e niente ti fermerà, curre curre guagliò!

Anche le storie piccole fanno rumore. La scuolina di Santomoro

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Anticipo subito ai lettori di Nazione Indiana che questo è un pezzo legato a una realtà locale, minuscola, quasi microscopica – la mia, sulle colline del comune di Pistoia, nella Valle delle Buri. Certamente scopro l’acqua calda, ma sto maturando sempre più in questi anni la convinzione che se artisti e intellettuali non torneranno a conoscere bene i loro territori,  a interagire e impegnarsi con essi,  una certa idea bellissima in cui molti di noi credono è destinata a scomparire. Quest’idea è la comunità accogliente. Favorirla, difenderla, raccontarla, immaginarla è un nostro dovere, perché ne siamo capaci, forse più di altri. Buon Anno a chi resiste, a chi lotta, a chi spera, a chi sa che “me stessa, me stesso” sono parole che si perdono in tanto altro per restare vive. Non sempre le storie piccole non fanno rumore. (F.M.)

Articolo già apparso su ReportPistoia a questo link:

http://www.reportpistoia.com/agora/item/54894-la-bella-fiaba-dello-scoiattolo-di-santomoro-che-rischia-di-essere-cancellata.html

Fotografi e collage di Chiara Vitali, una della tante anime attive de Lo Scoiattolo e di Santomoro.

di Francesca Matteoni

Non tutte le scuole sono uguali, alcune sono grandi, altre piccole, alcune si trovano in pianura e altre in collina o in montagna, alcune hanno vicino un torrente, altre delle strade antiche – alcune, infine, sono il fulcro di una comunità intera, che le protegge. Conosco molto bene uno di questi casi – è la Scuola dell’Infanzia Lo Scoiattolo a Santomoro, il paese dove sono tornata a vivere e dove è nato il mio compagno. Ho scelto da quando ero bambina di essere vicina ai piccoli e credo che sia proprio quando ho scoperto questa scuola, grazie a mia nipote Marta, che ho iniziato a comprendere e amare questo paese. Ci vuole pazienza, quanto scrivo non è un semplice appello ed è più di un articolo e io sento di dover dire a tutti la preziosità di questo luogo per far capire il rischio che stiamo correndo.  Allora era Natale proprio come ora. Dovevano consegnare i regali ai bambini e fu idea della maestra Laura di far apparire un’aiutante di Babbo Natale… fu deciso che fosse una fata (o mezza strega) con campanellini alle caviglie e quella fata ero io. Non era la prima volta che raccontavo fiabe ai ragazzi, ma era la prima volta che entravo lì dentro, di rosso vestita, mentre fuori fioccava un po’ di neve. Tornata a casa da mia suocera, mi raccontarono che quando Tiziano aveva cinque anni e sua sorella tre si prendevano per mano e andavano da soli alla scuolina, scendendo le scalette e attraversando la strada, vegliati da tutto il paese. Perché quando si arriva a quella scuola non si va semplicemente in un posto bello, da qualche parte sulle colline, ma si entra nel vivo di Santomoro e tutti hanno una parte – bambini, genitori, paesani, anziani. Come mai? Cosa succede lì?

Onan, le Alpi e Pirandello

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[Questo testo fa parte di un dossier curato dal Cartello (Forlani, Inglese, Sartori e il sottoscritto) uscito nella rivista francese “La Revue Littéraire” e più recentemente nel numero 68 di “Nuova Prosa” col titolo Esercizi di sopravvivenza dello scrittore italiano.]

Onan, le Alpi e Pirandello

di Giuseppe Schillaci

 

Si scrive per essere amati, diceva Roland Barhes.

E si sbagliava. Non si scrive per essere amati, ma per il piacere di farlo.

Scrivere è innanzitutto una pratica onanistica. Se poi questa masturbazione procura piacere al lettore, allora ecco la magia dell’amplesso. Ma di tale incontro, l’autore non può aver certezza, perché anche la lettura è una pratica solitaria.

Scrivere per essere amati è dunque una frustrazione; si deve scrivere per quell’atavico, consolatorio, mistico piacere che procura la creazione di un mondo, lo slancio lirico e il dipanarsi delle parole. Figuriamoci poi quanto inutile sia scrivere per fare soldi o addirittura per costruire una carriera da scrittore.

E dunque se scrivere non è un mestiere, allora tanto vale, per quello che mi riguarda, declinare la questione in un altro modo: scrivere mi procura ancora piacere ?

Da un po’ di tempo mi faccio questa domanda. In realtà, se devo essere sincero, mi sembra d’aver perso questo piacere, e di averlo perso per un motivo preciso: il mio trasferimento oltralpe e il passaggio dalla lingua italiana a quella francese.

Di questo trauma ero ovviamente consapevole anche qualche anno fa, quando decisi di trasferirmi in Francia per il mio lavoro di regista, ma non credevo mi provocasse una tale crisi creativa. Abbandonare la « madrepatria », per me, ha significato innanzitutto abbandonare la « madrelingua », e con la lingua sono cambiati anche i riferimenti culturali e lo sguardo sulle cose, ovvero tutto quello che entra in contatto con la materia profonda della scrittura, di cui inevitabilmente si nutre il piacere di raccontare, e prima ancora il desiderio di farlo.

In Francia, negli ultimi anni, ho pubblicato un romanzo in italiano ambientato principalmente a Palermo e realizzato un documentario sul mito della mafia e il suo rapporto con la Sicilia, come se non ci fosse modo d’emanciparsi dalla mia identità, come se fossi condannato a scrivere sempre di Sicilia, in italiano. Questa condizione mi si presenta oggi come insostenibile, o comunque sterile, prevedibile come il coito di una coppia stanca.

E non perché il desiderio di scrivere debba nascere necessariamente dalla voglia di raccontare ciò che si vive nel presente, nel luogo in cui si svolge la propria vita quotidiana. Anzi, è vero piuttosto il contrario: perché, come sosteneva Roberto Bolaño, « la scrittura è esilio ». E Bolaño aveva ragione.

La scrittura si nutre dell’assenza, del silenzio, nel buio.

Il desiderio di letteratura nasce appunto dal distacco, da un isolamento (volontario o meno), da una mancanza che cerca nella lingua l’oggetto amato, una tensione erotica per il suono delle parole, la carezza degli accenti, il respiro delle frasi.

Ma per me, a differenza di Bolaño che visse il suo esilio in Paesi in cui si parlava la sua stessa madrelingua, la situazione è diversa, perchè io ho dovuto cambiare lingua, e questo implica un risentimento nei confronti della vecchia e un’inadeguatezza rispetto alla nuova. Per di più, quella tra l’italiano e il francese è una frontiera ambigua, piena di « falsi amici », di modi di dire analoghi ma diversi, di costruzioni sintattiche simili ma dalle connotazioni differenti, insomma : un confine montagnoso pieno di trappole e vicoli ciechi.

Forse dovrei semplicemente arrendermi alla schizzofrenia, rassegnarmi a scrivere in italiano, pur vivendo in Francia, e continuare a scrivere della Sicilia, corroborando la tesi del siciliano Luigi Pirandello, secondo cui si scrive sempre e comunque sui primi dieci anni di vita. O potrei accettare il cambiamento con liberatorio piacere, mimetizzandomi nella lingua francese, facendola in qualche modo mia, da emigrato, da straniero, come ha fatto la scrittrice ungherese Agotha Kristof o l’argentino Copi.

Continuando il ragionamento di Pirandello, dovrei accettare che il mutamento d’identità generi una ferita che porta con sé il germe della perdita di senso, della follia. Eccomi dunque davanti a un bivio: da un lato, rimanere ancorati alla propria identità e alla madrelingua, all’unità originaria, vivendo in una sorta di nostalgia ; e dall’altro, concedersi totalmente alla nuova lingua, tagliando le radici con il passato e rischiando una liberazione impossibile, la sensazione di non riconoscersi più.

Sinceramente, nessuna delle due opzioni mi soddisfa. Forse, allora, la soluzione sta nel porsi la questione in modo diverso. Forse la felicità sta in un cambiamento di paradigma, nel rifiuto dell’unità, nell’abbandono del monoteismo che esige la fedeltà al totem o la sostituzione del feticcio con un nuovo feticcio. La felicità potrebbe essere altrove: non nella rimozione o nella sostituzione, ma semmai nella giustapposizione, nella molteplicità, nell’accumulazione delle identità. Citando ancora Pirandello : né uno, né nessuno, ma centomila.

Ecco che si apre una via di fuga. Sia per lo scrittore, che smetterebbe di idolatrare narcisisticamente il proprio unico « io », che per l’uomo tout court, che non sarebbe più ossessionato da ideologie monoteistiche che covano il germe del totalitarismo e del fanatismo, siano esse di natura religiosa o economico-politica (Allah, Jehova, il mercato unico, il pensiero unico). Ma è possibile ritornare al politeismo o praticare il culto della diversità ? O, tornando alla letteratura, può uno scrittore esprimersi in diverse lingue con la stessa maestria rispetto alla propria madrelingua?

Restando in ambito religioso, eluderei la domanda con una digressione biblica. Nel Nuovo Testamento, il talento che consentiva agli apostoli di esprimersi perfettamente in molteplici lingue veniva definito « polilaia ». Questa dote, ricevuta per grazia dello Spirito Santo, era cosa assai diversa, e semmai opposta, rispetto a un altro virtuosismo linguistico citato nelle Sacre Scritture, la « glossolalia » : capacità di parlare differenti lingue senza sapere, in realtà, cosa si dicesse. La glossolalia, infatti, non era dono dello Spirito Santo, ma semmai del Diavolo, perché erano gli indemoniati a esser preda di questi incantesimi maligni. Ecco dunque che bene e male, santità e possessione diabolica, si presentano come due facce della stessa medaglia, in un sistema monoteistico e duale dove non è data salvezza senza condanna, ma dove tutto è doppio a sé stesso, luce e ombra, verità e impostura.

A pensarci bene, mi sembra piuttosto che l’inganno consista proprio nel credere in questo sistema unico e binario, nel bene e dunque nel suo opposto, in un’identità definitiva, originaria e ultima che divide il mondo in due categorie primitive : « noi » e « gli altri » ; mentre la salvezza va cercata altrove, al di là del bene e del male.

Come sosteneva Pirandello,  la vita è movimento, e per vivere senza impazzire bisogna accettare il passaggio della linea, l’incedere feroce degli anni e delle stagioni, un’accettazione non passiva né remissiva, ma semmai feconda, gravida di desiderio.

Mi convince sempre di più la profonda attualità del pensiero di Pirandello: la felicità ci è concessa solo in via provvisoria, nel presente che sfugge, nella molteplicità. E allora, per assurdo, tutto acquista senso, al di là della nostalgia nei confronti dell’unità perduta o del risentimento.

Devo dunque trovare il coraggio di abbandonare il feticcio dell’uno : passare le Alpi, e non per scomparire e diventare « nessuno », ma per essere centomila. Senza paura del silenzio, della follia, né dunque della morte. Tale dovrebbe essere l’ambizione di ogni scrittore, o almeno l’intenzione : una sfida all’assurdo, al nulla ; l’affermazione di una presenza nel divenire caotico del mondo. Qualcosa di simile a quello che cerco adesso, qui, ritrovando il piacere con questo breve testo, in una pacificante masturbazione.

Cos’era importante per Anneke

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di Davide Coltri

La porta a vetri si è aperta svelando una cinquantina di sedie grigie. C’era posto qui e là tra gli altri candidati, tutti attorno ai venticinque anni. Una ragazza coi capelli lunghi e castani mi ha fatto un mezzo sorriso e mi sono seduto vicino a lei.

«Anneke», ha detto stringendomi la mano.

«Per quale posizione?», ci siamo chiesti all’unisono.

Era la stessa. Abbiamo fatto un’espressione imbarazzata e siamo rimasti in silenzio, io intento a torturarmi le unghie, lei a sottolineare una dispensa.

Dopo un po’ un tizio con una cartelletta in mano ci ha invitato a scendere tutti al piano di sotto, uno stanzone immenso con delle divisorie in compensato.

«Vi raggrupperemo in coppie di candidati che competono per la stessa posizione. Dei valutatori registreranno le vostre reazioni agli scenari», ha annunciato.

Non ha risposto alle nostre domande di chiarimento.

Durante le otto ore successive siamo stati sottoposti a cinque simulazioni: un attacco terroristico, un tentativo di rapimento, la stesura di un progetto di assistenza alimentare, montare una tenda senza istruzioni, lanciare un appello alle parti belligeranti. Per ogni parola che dicevamo, per ogni gesto e reazione, c’era un omino in casacca gialla che prendeva appunti.

Anneke e io siamo stati alleati e antagonisti, sollecitati a dimostrare che uno era migliore dell’altra e che allo stesso tempo eravamo in grado di accantonare la rivalità per formare un duo efficiente e collaborativo. Lei ogni tanto sorrideva e si complimentava se avevo un’intuizione valida. Durante una pausa ci siamo scambiati i numeri di telefono. Quando sono tornato a casa, la sera, ho pensato che ci eravamo persino divertiti, nonostante le circostanze sfavorevoli.

Nei giorni successivi, agli amici che mi chiedevano come fosse andata rispondevo: «Bene, ma c’era questa ragazza olandese…»

Ci sentivamo quotidianamente, per informarci se l’una o l’altro avesse ricevuto la buona notizia. Una settimana dopo la selezione, quando una mail mi ha comunicato l’esito, ho pensato che doveva esserci un errore. Ho scritto un messaggio ad Anneke, poi l’ho cancellato, infine ho preso il telefono.

«Complimenti, te lo meritavi davvero», ha detto.

«Lo meritavi anche tu, più di me», ho risposto.

«Non arrenderti», ho concluso riattaccando.

Un mese dopo ero in Iraq: l’aereo è atterrato in una pista arsa dal sole e un autista gentile che non parlava inglese mi ha accompagnato al campo profughi in cui avrei trascorso buona parte dell’anno successivo.

*

Poco tempo dopo, uscendo da un aeroporto ancora più assolato, Anneke è stata investita da una raffica improvvisa di vento e sabbia. Mentre tentava di ripararsi dietro un pilastro di cemento, il foulard di seta che teneva in testa le è volato via ed è sparito tra i vortici di polvere che stavano in agguato al di là del recinto del parcheggio.

Ha aspettato quasi mezz’ora, poi un furgone con il simbolo della sua organizzazione è entrato nello spiazzo e si è fermato davanti a lei. La portiera si è aperta ed è salita. Dietro al volante c’era un uomo sulla quarantina, muscoloso, con un berretto nero in testa. Aveva un’espressione seria, tesa. Le ha mostrato il badge, come prescritto dal protocollo di sicurezza. Anneke ha trovato strano che venisse a prenderla il capo missione anziché un autista.

«Stava pranzando», ha detto lui.

«Molto gentile da parte sua».

«Dammi del tu».

«Andiamo in ufficio?»

«No, sei stanca per il viaggio. Inizierai domani».

«Grazie. Quanti siamo in casa?»

«L’alloggio dello staff è pieno. Starai da me per un po’».

Anneke ha percorso con gli occhi la linea dell’orizzonte: il cielo aveva un colore strano, sembrava pronto a squarciarsi.

«Non mi avevano detto niente di una seconda casa», ha buttato lì.

«È nuova», ha detto l’uomo, sterzando a sinistra.

Si sono fermati davanti a un cancello chiuso. Una guardia ha slacciato la catena, la macchina è entrata nel cortile e si è fermata. I due sono scesi. Una gettata di cemento si infilava tra le mura di quattro casette basse. Camminando nello spazio angusto tra le pareti, Anneke ha avuto l’impressione di inoltrarsi in un labirinto.

«Qui», ha detto l’uomo aprendo una porta di ferro.

La stanza non aveva altro arredamento che un lettino, due sedie e un armadio. In un angolo c’era la porticina del bagno.

«Le linee internazionali non funzionano, ma domani ti daremo un telefono locale», ha continuato lui, «nel frattempo se hai bisogno di qualcosa vieni da me», e per la prima volta ha sorriso. Gli mancava un incisivo.

«Vorrei riposare un po’», ha detto Anneke. Il bisogno di stare sola era più urgente del sonno.

«Prego», ha detto il capo missione, ed è uscito.

Anneke ha seguito il clac-clac dei passi che si allontanavano, poi si è spogliata e si è infilata sotto al lenzuolo infeltrito. Ha steso la coperta attorno a sé e ha appoggiato la testa sul cuscino. Da fuori proveniva il brusio ostinato di una radio e ogni tanto la risata sguaiata della guardia. Una luce strana, tra il giallo e il viola, filtrava nella stanza attraverso le imposte scassate dell’unica finestra. Ha chiuso gli occhi e si è addormentata.

Quando si è svegliata faceva quasi buio. Il capo missione era lì, seduto in fondo al letto, e le accarezzava le gambe.

*

«Anch’io ho fatto molta fatica, ma probabilmente è solo l’impatto iniziale», le ho scritto in chat, «non è facile restare positivi in mezzo a tanta miseria, in un posto di cui non capisci la lingua, lontani dagli amici e dalla famiglia».

Ho atteso una risposta, un commento.

Niente.

Sono andato avanti coi pensieri:

«E poi sento una voce maledetta che mi fa vergognare ogni volta che penso alle mie esigenze, a quello che farebbe bene a me, perché sono qui per aiutare gli altri».

«È vero», ha scritto lei.

«C’è qualcos’altro che non va?»

«Devo andare»

«Fatti sentire quando vuoi fare due chiacchiere».

Messaggio non letto.

*

Il capo missione le ha tolto la mano dalla bocca. Anneke ha sentito il sapore acre del suo sudore sulla punta della lingua. Il battito del cuore le esplodeva nelle tempie, ma il resto del corpo era completamente irrigidito.

«Alla guardia do cinque dollari ogni giorno», ha detto lui toccandole la guancia.

Anneke ha chiuso gli occhi, ha aspettato che le dita le scendessero lungo il collo. Invece la mano si è sollevata di colpo, con lo stesso scatto nervoso con cui poco prima aveva rinunciato a risalire oltre il ginocchio. Il movimento è stato tanto repentino che si è chiesta se la sua pelle, bagnata di sudore freddo, avesse emesso una scarica elettrica. Ha riaperto gli occhi, non aveva fiato per parlare.

Il capo missione era in piedi al suo fianco. Si era tolto il berretto: la testa pelata aveva una forma sproporzionata, a punta. Gli occhi erano sbarrati, grosse gocce gli pendevano dalla fronte.

«Non è successo niente», ha detto lui, senza cambiare espressione.

Anneke ha fatto cenno di sì con la testa.

L’uomo ha espirato sonoramente, è uscito sbattendo la porta e ha detto qualcosa di incomprensibile alla guardia.

Anneke si è alzata, è andata in bagno a lavarsi la faccia, ha vomitato. Un soffio gelido le è entrato nel corpo. È rimasta sveglia tutta la notte.

Il mattino seguente il capo missione le ha aperto la porta della macchina senza nemmeno guardarla in faccia, ha guidato in silenzio fino all’ufficio, ha radunato i colleghi e le colleghe e l’ha presentata a tutti. Qualcuno le ha rivolto un sorriso strano, come di disprezzo.

Le hanno consegnato un telefono. Si è chiusa in bagno, ha digitato un numero, ha premuto il tasto verde col simbolo della cornetta, poi la sua testa è stata allagata da uno scroscio inarrestabile di parole.

Una voce sottile ha insinuato che in fondo era anche colpa sua, perché aveva accettato di dormire a casa di lui. Un’altra voce, dura e implacabile, le ha comandato di guardare avanti, le ha ricordato le notti insonni sui libri del master, la frustrazione dei mesi in cui non trovava lavoro, la volontà, che risaliva almeno all’adolescenza, di mettere gli altri davanti a sé. Quando una terza voce più dolce e fragile l’ha ammonita che quanto aveva subito aveva il nome preciso di un crimine, le altre si sono unite in un grido sprezzante e hanno urlato che era lì per assistere donne e bambine che erano davvero state stuprate dai soldati governativi. Lei, invece, non era stata praticamente toccata. In fondo, insistevano, non le era successo niente.

Ha riattaccato alla fine del secondo squillo.

Nelle settimane successive, mentre distribuiva kit igienici in un villaggio pieno di sfollati, mentre raccoglieva informazioni sull’impatto dell’ultimo attacco aereo, l’urgenza di affrontare il fatto è scemata fino a trasformarsi in un fastidio dai contorni vaghi. L’unica eredità tangibile di quanto era successo sopravviveva nella necessità di dormire vestita.

Un muro impenetrabile si è alzato tra lei e il capo missione: si rivolgevano la parola solo se vi erano costretti per motivi di lavoro. Ogni mattina facevano il viaggio verso l’ufficio insieme, ogni sera rientravano con la stessa macchina, ormai assuefatti a un silenzio totale. Quando un collega che abitava nell’altra casa si è licenziato, Anneke non ha chiesto di cambiare alloggio: un rifiuto avrebbe dato nuovo spessore al fatto.

Poi, nel mezzo di un pomeriggio che non aveva niente di diverso dagli altri, lui è piombato nel bagno delle donne e l’ha assalita, premendole una mano sulla bocca e bisbigliandole in un orecchio di non fare resistenza. Per dei secondi interminabili l’ha palpeggiata con una foga che le avrebbe lasciato dei segni viola sul seno destro, poi Anneke si è divincolata, gli ha dato una gomitata nelle costole e ha urlato fuori tutto il gelo che le si era insinuato sotto la pelle. Mentre sbatteva la porta alle sue spalle e correva verso il centro dell’edificio gridando aiuto si è sorpresa a provare sollievo. Ha pensato che i colleghi avevano sentito le urla, lo avrebbero visto uscire dal bagno delle donne, avrebbero capito tutto. Sarebbe stato licenziato, la storia sarebbe finità lì.

Lei non avrebbe dovuto fare o dire nulla, non avrebbe dovuto dare un nome a quello che aveva vissuto.

*

«Nonostante la stanchezza sono contento: la settimana scorsa abbiamo inaugurato la prima scuola. Lì come va?»

È apparsa la scritta: ‘Anneke sta scrivendo’, poi è scomparsa, riapparsa, scomparsa di nuovo. Infine:

«Sono tornata a Rotterdam dai miei genitori».

«Sei stata male?»

«Sì».

«Una di quelle malattie tropicali che esistono solo in Africa?»

«No».

Una lunga pausa.

«E come passi le giornate?»

Messaggio non letto.

*

Non c’era nessuno: la grande stanza centrale del primo piano, sempre affollata di gente che prendeva acqua dalla tanica o faceva fotocopie, era deserta. Anneke si è tirata indietro i capelli, si è ricomposta, è corsa al piano di sopra. Il corridoio era vuoto ma si sentiva il brusio dei colleghi nascosti negli uffici. Ha sbirciato oltre una porta semiaperta, ha incrociato lo sguardo di una donna di cui non ricordava il nome. Quella si è messa a ridere e ha fatto un cenno a qualcuno. La testa riccia di un ragazzo giovane è spuntata nella fessura tra lo stipite e la porta, ha guardato Anneke divertita ed è scomparsa di nuovo. Anneke ha sentito dei passi avvicinarsi dietro di lei.

«Tutto sotto controllo», le ha detto la voce di lui in un orecchio.

È rimasta immobile, i passi sono scesi giù per le scale. L’odore stantio del fiato di lui è rimasto nell’aria.

È tornata a casa, camminando più veloce che poteva sotto un sole spietato. Ci ha impiegato due ore. Si è messa a letto, ha pianto a lungo. È rimasta a guardare il soffitto, a sperare che quella tensione insostenibile finisse, almeno per quel giorno. Si è persino augurata che lui venisse a farle visita, si è illusa che potessero ancora parlarne. Si è addormentata che era quasi l’alba.

Sì è svegliata alle sette in punto, ma non si è alzata. Verso le otto e mezza qualcuno ha bussato alla finestra. Era un autista.

«Oggi ti porto io, il capo è andato via».

«Via?»

«Ha preso l’aereo ieri sera».

«Licenziato?»

L’autista ha riso: «No, vacanza con la famiglia».

«Vacanza», ha fatto eco Anneke con voce afona.

L’autista ha riso di nuovo e ha ammiccato: «Va sempre, ogni tre mesi. Ti dispiace?»

Anneke non ha risposto. Si è chiesta se fosse possibile che quella storia finisse così, senza scandali, con il molestatore che se ne andava al mare con moglie e figli, lasciandola libera di fuggire. Si è chiesta se fosse solamente un brutto sogno, poi ha sentito un fitta di dolore tra i seni, dove la cintura faceva pressione.

«Portami a casa», ha detto all’autista.

«Niente ufficio?»

«No».

Mentre faceva le valigie una voce debolissima l’ha rassicurata che avrebbe ricominciato a vivere, a essere di nuovo se stessa.

«L’elenco dei nuovi assunti non lo guardo mai: rischiavamo di non incontrarci per mesi», ho detto.

Non era cambiata di molto dall’unica volta in cui ci eravamo visti, tre anni prima. Solo gli occhi, dietro la stessa luce gentile e decisa di allora, rivelavano un’ombra di rassegnazione, come se avessero capitolato davanti a una stanchezza che sapevano essere incurabile. Siamo usciti, siamo entrati in un bar e ci siamo seduti a un tavolino, davanti a due tazze di tè.

Ha voluto che le raccontassi dei posti in cui avevo lavorato, dei progetti che avevo portato avanti. Parlavo velocemente perché avevo fretta di sapere: il suo profilo facebook era fermo al giorno in cui annunciava la partenza per la prima missione, e ai miei saluti in chat non aveva più risposto.

«E tu dove sei stata?», ho chiesto.

«Da nessuna parte», ha risposto bevendo un sorso di tè.

«Sei rimasta sempre a Rotterdam?»

«Per due anni non ho fatto niente», ha detto guardando la gente che passava veloce sul marciapiede oltre la vetrata.

Ha posato la tazza e la manica della maglia si è ritratta un po’, svelando una cicatrice profonda sul polso. Ho trattenuto il fiato e l’ho fissata negli occhi. Per qualche secondo mi ha lasciato a lottare con la tentazione di guardare di nuovo, guardare meglio.

«Ci sono tante cose che ti devo dire», ha detto toccandosi la cicatrice con un dito.

Viaggio a Surlej, 1881-2000, agosto

3

di Giovanni Fassin

Eppure Nietzsche deve essere passato di qui, cerco di rassicurarmi, mentre la tempesta avanza, e il passeggio da Sils Maria a Surlej è un formicaio impazzito di pedoni, ciclisti, anziani gitanti e ragazzini tedeschi che già montano la boria dei loro padri… Certo le tracce sono poche. Solo mi rassicura un libriccino che recita le magiche parole, camminata Nietzsche, in riferimento a questo sentiero, che ho deciso di percorrere oggi, a cent’anni e due giorni dalla morte di Nietzsche. Essere qui oggi, in cammino, è una testimonianza di solidarietà, di fedeltà a un insegnamento che è quanto di meno insegnabile ci sia, un insegnamento che non ha voluto essere tale, e proprio per questo è tanto più indimenticabile.

On ne peut penser et écrire qu’assis (Flaubert) – Ti tengo ormai, nichilista! Proprio lo stare seduti è il peccato contro lo spirito santo. Solo i pensieri nati camminando hanno valore”.

Perché è solo il percorso la prova della verità, e questo Nietzsche lo sapeva bene. Avrebbe potuto il pensiero più abissale essergli ispirato dalla tranquilla immagine delle montagne che aveva dalla sua cameretta di Sils? No, solo un uomo in marcia avrebbe trovato la verità, quando la quieta contemplazione del flâneur fosse stata pervertita, dalla furia degli elementi, dalla debolezza e dalla fatica, nella terrificante immagine cosmica che risolveva d’un tratto, senza risolvere nulla, il senso d’un così affranto e solitario vagare.

 

Certo oggi di solitario non c’è nulla, proprio nulla, solo una fila ininterrotta di gente, di turisti che forse non sanno neppure che Nietzsche passò di qui, un giorno lontano, nell’agosto del 1881. Aveva provato un soggiorno estivo a Sankt Moritz, nel 1879, e forse non gli piacque. O forse nel 1881 arrivò tardi, e non c’era più posto, chissà. Ma mi piace pensare che ci fosse un altro motivo. Allora Sils erano davvero quattro case in mezzo all’altipiano, e Nietzsche, fedele all’oraziano Odi profanum vulgus et arceo, era fuggito qui dalla località turistica già troppo frequentata. Oggi, purtroppo, anche questo angolo dell’alta Engadina contiene a stento i turisti. Ma qualcosa rese, allora, anno di grazia 1881, il luogo speciale agli occhi di Nietzsche, che lo elesse a sua residenza per parecchi anni di fila. Cosa, oggi è difficile dire. Eppure i segni non mancano. La piana di Sils, così improvvisa e liberatoria e rassicurante dopo la forra umida e buia del Maloja (una trappola, immagino, la salita allora in carrozza), le grandi case coloniche, le montagne avvolte nelle nebbie di un inquieto giorno di agosto, e questo vento, così secco e senza respiro, mentre ci si volge indietro, a guardare il cammino percorso.

 

Per Nietzsche dovette essere un giorno da matti, in quei primi di agosto. Forse si era allontanato troppo, forse la sua salute era tornata a vacillare, all’improvviso. Me lo immagino da solo, esposto a un vento come questo, mentre con una mano cercava di tenere il suo cappello, e il bastone non sembrava offrire un appoggio sufficiente. Quanta debolezza, in quel momento, sotto quelle grandi cime impassibili… Sudava, ma sudava freddo. Attraversò il prato di Surlej con affanno, a quel vento senza sosta. Una piccola discesa, e fu in riva al lago. Guardava lontano, dove l’orizzonte azzurrino trascolora nel vuoto del cielo d’agosto, così silenzioso e senza spessore. Forse pensò a Lou, lontana da lui, quella Lou che gli aveva portato la speranza, presto svanita, non solo d’una allieva fedele, ma anche di un’anima gemella. Ne sospetto un piccolo intenerimento, e non solo per Lou, o per se stesso, ma come in astratto, per tutte le cose, per la vita. Forse la sensazione di aver già fatto tanto, troppo, di aver già troppo vissuto. Fu un momento di massima intensità, di gioia e di dolore, e vi si riassumevano non solo Lou o le vicende dell’ultimo anno, ma l’immagine di sogno della vita che proseguiva, innocente, prima e dopo di lui.

Si appoggiò stanco a una roccia. D’un tratto, come da di là dei cieli, la folgorazione, quella visione che mai ci raccontò, se non nel denso linguaggio poetico dello Zarathustra:

“Cupamente andavo, or non è molto, nel crepuscolo livido di morte, – cupo, duro, le labbra serrate. Non soltanto un sole mi era tramontato.

Un sentiero, in salita dispettosa tra sfasciume di pietre, maligno, solitario, cui non si addicevano più né erbe, né cespugli: un sentiero di montagna digrignava sotto il dispetto del mio piede. [..]

Verso l’alto: – a dispetto dello spirito che lo traeva in basso, in basso verso abissi, lo spirito di gravità, il mio demonio e nemico capitale.

Verso l’alto: – sebbene fosse seduto su di me, metà nano; metà talpa; storpio, storpiante; gocciante piombo nel cavo del mio orecchio, pensieri-gocce-di-piombo nel mio cervello.”

 

Chissà, forse Nietzsche non apparirebbe molto diverso dai gitanti che oggi affollano la passeggiata, allora probabilmente solitaria e silenziosa, e adatta assai più di ora al pensiero abissale. Forse lo si riconoscerebbe per lo sguardo scuro, rabbuiato anche al cospetto del sole d’agosto. O forse per il passo incerto e la dura volontà di andare avanti, stretto nel mantello. Ma quel che è certo è che oggi, non meno di ieri, passerebbe assolutamente inosservato, a chi non lo cerchi nella folla, a chi non interroghi ogni volta la folla in cerca di un segno, di un compagno, di uno sguardo che non sia già spento, lo sguardo avido e crudele di chi cerca ancora. Perché il signor Nietzsche, nonostante la sua rispettabile carriera di professore di filologia (un’arte quanto mai inoffensiva, se ogni tanto non si rivoltasse genealogicamente contro se stessa), nonostante la sua linda casetta di Sils, affogata nella foresta ai piedi d’un dirupo, nonostante la sua gentilezza e socievolezza, quali pensieri mai portava con sé, pensieri pericolosi, pensieri d’un altro mondo e d’un altro tempo!

E fu proprio quel giorno d’agosto che lo seppe, che ne ebbe la certezza. Sì, Nietzsche quel giorno ebbe paura. Paura di ciò che aveva pensato e del fatto di averlo pensato, di averlo potuto pensare. Nietzsche-Zarathustra ebbe quel giorno la certezza, una certezza che nulla ha a che fare con quelle dei mortali, una certezza che poteva nascere solo qui, “seimila piedi al di sopra del mare e molto più in alto di tutte le cose umane”. Sussurrò delle parole tra sé, con terrore.

“«O Zarathustra, [..] tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve – cadere!

O Zarathustra, pietra filosofale, pietra lanciata da fionda, tu che frantumi le stelle! Hai scagliato te stesso così in alto, – ma ogni pietra scagliata deve cadere! [..]

Salivo – salivo – sognavo – pensavo: ma tutto mi opprimeva. Ero come un malato: stremato dal suo tormento atroce, sta per dormire, ma un sogno, più atroce ancora, lo ridesta. –”

 

Sono qui, nel prato di Surlej, e mi aggiro, senza riuscire a capire quale sia la famosa roccia a forma di piramide presso cui Nietzsche ebbe la sua visione. Sotto un grande masso ci sono dei cartelli colorati, ma il loro senso, sinceramente, mi sfugge: “place of aggression”, “Ort der Traum”, “lugar de l’illusion”, recitano, e non so cosa dovrei pensarne. Se è opera d’un artista più o meno convinto di scuotere il tranquillo procedere dell’anziano escursionista con sua moglie, o la ferrea volontà di completare il percorso nel minor tempo possibile dei due giovani ciclisti, be’, costui sappia che si sbaglia di grosso. La vita continua, ostinata, sui suoi binari, senza scossoni. Chi è abituato a camminare cammina, chi è abituato a correre corre. Nessuno dei due sa cosa farsene né del masso dell’eterno ritorno, né delle follie dell’artista, che al massimo sono, in questo passeggio turistico, delle simpatiche curiosità, da guardare brevemente, scuotendo la testa, in preda al proprio sano buon senso.

La decisione di tornare, dopo un inutile girovagare, è dettata principalmente da una breve pioggia, che però, rinforzata dall’insistente vento, dà l’impressione che la tempesta sia imminente. Non rinuncio tuttavia alla mia ricerca. Ed ecco, forse… Dove il prato si perde nel bosco, e il sentiero scende al lago, c’è un grande masso dalla forma vagamente piramidale, dove forse, un tempo, il più solitario degli uomini potrebbe aver perso, per un attimo brevissimo e infinito, il senso del suo vagare nel tempo e nello spazio, ed aver trovato il filo di un differente labirinto, di una domanda più profonda e sconvolgente.

“Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? [..]

E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta?

– e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?». –

Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi.”

Ma dietro il masso, su una spiaggetta, dei surfisti infreddoliti accendono un fuoco e motteggiano tra loro in un chiassoso tedesco. Il fuoco scoppietta, e il profumo di costolette di maiale inonda di dolorosa banalità il masso a forma di piramide. Il più solitario degli uomini continuerà a restare tale.

 

Più tardi, a Sils, nella casa che ospitò Nietzsche – ed ora è quasi un magazzino, che accosta senza ritegno i meravigliosi biglietti della follia (tra cui il celeberrimo a Overbeck del gennaio 1889 firmato Dyonisos) a brutti busti e altra chincaglieria artistica che appesantisce le piccole salette in legno –, una breve consultazione di qualche fotografia d’epoca permette di ricostruire che il masso è proprio quello presso cui i surfisti banchettavano. Ma che importa, ormai. È sfumato il sogno di appollaiarmi sul masso, con lo sguardo bieco e sinistro da principe Vogelfrei, e recitare, urlando, con voce ieratica, La visione e l’enigma. L’unico enigma rimasto è forse davvero quello di riuscire a capire quale sia il masso dove tutto avvenne, quel giorno di agosto di tanti anni fa. Non è nemmeno un buon anniversario, questo, per il povero signor Nietzsche, che cent’anni fa e due giorni morì in camicia di forza, accudito anche troppo amorevolmente dalla sorella Elisabeth Giuda Nietzsche-Förster. L’unica stanza in cui non si può entrare è la bellissima stanza, piccola e raccolta, in cui Nietzsche lavorava, dormiva, sognava, e contemplava dalla finestra le montagne, proprio la stanza in cui, immagino, scrisse, dettando con voce tenebrosa, tremante, sconvolto dalla febbre e dal terrore, la sua grande visione.

Mentre fuori piove, e sto tornando verso casa, guardo indietro. Ma non guardo più Sils, o il lago di Silvaplana. Guardo le montagne, quelle montagne, che, lì da molto prima di me o di Nietzsche, ne custodiranno il bisbiglìo in riva al lago, appoggiato al masso. E lo costudiranno, proprio come Nietzsche avrebbe voluto, come un enigma. Mi accompagna una vecchia canzone di Santana, che ha una nostalgia intrappolata al fondo, una nostalgia latina e danzante che forse non sarebbe dispiaciuta al vecchio professore di filologia.

“Ho udito ieri – lo credereste? – per la ventesima volta il capolavoro di Bizet. [..] Si è mai notato che la musica rende libero lo spirito? mette ali al pensiero? e che si diventa tanto più filosofi quanto più si diventa musicisti? [..] – E a mia insaputa mi cadono addosso risposte, una piccola grandine di ghiaccio e di saggezza, di problemi risolti… Dove sono io? – Bizet mi rende fecondo. Ogni cosa buona mi rende fecondo. Io non ho alcun’altra gratitudine, non ho neppure alcun’altra prova per ciò che è buono.”

Buon anniversario, signor Nietzsche, nonostante tutto. L’importante, ora capisco, non era neanche essere qui oggi. Le fedeltà non si misurano a metri di altitudine o a copie ingiallite dello Zarathustra. Anche lontano da qui, anche dopo anni, la roccia di Surlej continua a spezzare, improvvisa, il cielo azzurro profondo dell’alta Engadina. Se non altro, nell’immaginazione, nell’intuito a colpo sicuro, nel sogno. Ma questo è tutto ciò che conta, alla fine.

 

 

27 agosto 2000, Sils Maria

Appunti per la costruzione di una mappa di superficie e di profondità del Sulcis Iglesiente (2/2)

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 testo e foto di Dario Coletti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Sardegna è la seconda isola del Mediterraneo per estensione con un paesaggio costiero

Una zona un po’ onirica nella nostra storia

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di Antoine Volodine

traduzione di Federica Di Lella

Lisbonne, dernière marge è il romanzo di Antoine Volodine che preferisco tra quelli che ho letto. Sono molto contento che, con il titolo Lisbona, ultima frontiera, sia stato pubblicato in Italia nell’eccellente traduzione di Federica Di Lella. Ringrazio Federica e le Edizioni Clichy per il permesso di riprodurne qui un brano. a.r.

Ninna nanna di Natale

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Ninna nanna del Bambino Gesù
[Anonimo del 1600]
Philippe Jaroussky con L’Arpeggiata

 
di Orsola Puecher

E da bambino vorresti che il mondo fosse un Presepe ed è la mattanza della Passione invece e la casa un centro caldo di muta adorazione ma è un vaso di Pandora pronto a traboccare disgrazie le cose racchiuse in un senso semplice, indecifrabile, i mestieri tutti intorno, con il lago che è uno specchio, il mulino lontano, il ruscello di stagnola e i sassolini e il muschio. Il gioco delle belle statuine un… due… tre… stella tutto raccolto e silenzioso sotto la cometa e la carta blu e oro del cielo notturno ma noi – noi materialisti storici – non lo facevamo il Presepe – smettila – smettila di rubare i ricordi degli altri… né calda né fredda la stagione, né giorno né notte, sospesa in attesa di qualcosa noi facevamo solo un laico estetico albero – vero – con le candele vere e alla fiera degli “Oh bej! O bej” c’era un omino che stava vicino a Sant’Ambrogio, accanto alle ciambelle fritte, lui stesso, forse, fatto di zucchero e di profumo di vaniglia e buccia di limone,  seduto dietro a un banchetto animato di figurine che era uno spicchio di Presepe senza capanna. Con un piede muoveva da sotto i fili dell’affaccendato ritmico lavoro delle sue creature, il taglialegna cioc… cioc…  con la scure, la lavandaia piegata nel mastello, vicino al ciabattino  tacchete…tacchete  il macellaio con la mannaia toc… toc… toc… din… din… din… il campanaro che tirava la piccola corda del suo campanile deng… deng il fabbro sull’incudine. La culla cullava il bambino, la donnina con il grembiale e il fazzoletto in testa impastava il pane. Tutti insieme all’infinito. Una perduta affaccendata orchestra armonica e dissonante. Fino a quando non si fermava e mettevi cinquanta lire ting nella ciotolina  cose lontane dove siete? voci lontane in quali silenzi? Da brava, dì buon Natale al signore  tutto è qui con noi Buon Natale! calore piccolo nel buio freddo Grazie. Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo anche a te.


Fiera degli “Oh bej! Oh bej!”
[ anni ’60 ]

 
 

Pezzo di natale incompiuto

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di Davide Orecchio

Dal momento che sono nato il giorno di natale, scriverò un «pezzo di natale» incompiuto, manchevole, poco riletto. Nel giorno di natale, nel «pezzo di natale», accetto l’imperfezione.

Quando sono nato? In una clinica romana. Dove sono nato? Pochi mesi dopo lo sbarco sulla Luna.

A ventisei anni trovai un taccuino. Aveva l’aspetto delle cose che non importano. Aveva perso la fodera. Mia madre l’aveva lasciato lì, nel cassetto. Poche pagine di appunti forse dimenticati. Risalivano alla mia nascita. Poi mia madre era morta. Trovai parole per me:

«Quando siamo entrati in casa, è stato un momento molto duro. Tu dormivi. Io avevo la valigia. È una delle scene che ogni tanto mi tornano in mente all’improvviso e quando non me lo aspetto. Io in piedi, con i capelli sporchi e legati da un elastico, il cappotto scozzese, emozione – paura (in fondo sto tornando a casa con un figlio, oppure questa è una ragione per avere paura?). Tu a terra nel porte enfant blu, dormi e non sai niente. Un’altra scena. In clinica, una mattina alle cinque, era buio, l’infermiera entrò e ti depose fra le mie braccia. In braccio così ancora non ti avevo mai preso. Avevi gli occhi spalancati, un golf celeste un po’ grande ancora, mani piccolissime. Nella stanza c’era una luce un po’ blu, come sempre all’alba. Mi sono sentita così sola, con te e basta. Avevo paura. Eri così leggero e in fondo perché avresti dovuto appartenermi? Una gran tristezza».

Una lettera per il figlio nella culla. La lesse invece un figlio maturo, nel lutto.

*

Con vent’anni e più di ritardo, le ho risposto:

«Dunque avevi paura. Ne avevi di me?, ne avevi per me? Non ho mai capito davvero questa confessione, fino a oggi. Da poco ho letto un libro che se tu fossi viva ti regalerei: Simona Vinci, Parla, mia paura. Guarda qui cosa scrive:

“Lo avevo desiderato, era arrivato senza sforzo, dopo pochi mesi di tentativi, lo avevo partorito, era mia responsabilità, dovevo farcela a ogni costo”.

“Le parole che scrivevo su un quaderno mi bastavano a buttare fuori la paura. Scrivevo frasi irripetibili, la rabbia si condensava sulla pagina e mi abbandonava”.

“Avere un figlio è avere paura”.

Ora ho capito. È questo che intendevi, che sentivi?

Avere un figlio è avere paura?».

*

Forse tutte le madri, anche nel migliore ospedale, anche in una grotta a Betlemme, hanno paura.

*

Della mia risposta integrale ometto passaggi privati, personali, che solo mia madre può capire, che solo a lei e a me interessano, e certo non ai pochi che leggeranno queste righe. Estrapolo quanto segue, dalle frasi che le ho scritto:

 

Ora non devi avere

paura.

Voglio rassicurarti.

Dall’ultimo giorno che ci siamo visti,

e almeno per un po’,

me la sono cavata.

Ho dimostrato, credo,

una certa ostinazione.

Una resistenza

per vivere.

Non ho mai fatto debiti,

anche se un paio di volte ho dovuto trattenermi

dalla tentazione.

Ho trovato un lavoro.

Ho scritto.

Questo mi dispiace.

Che tu non abbia letto un rigo

di quello che ho scritto.

Ma senza la tua,

la vostra,

morte

io non avrei scritto un rigo

di quello che ho scritto.

A rifletterci sopra,

una nefandezza s’è trasformata in concime.

Ma avrei preferito la vita

e non scrivere nulla,

ça va sans dire.

*

L’aspetto positivo del «pezzo di natale» (incompiuto, manchevole, poco riletto) è che mi piace essere nato il giorno di natale. Non mi sento diminuito. Non sono un agonista, un competitore. Sono nato in un giorno importante, ne sono lieto. Ma riconosco i falsi sillogismi. Essere nato in un giorno importante, non fa di me alcunché d’importante. L’unico inconveniente, col passare del tempo, è che sempre più questo giorno mi ricorda gli assenti che mi generarono. Ma pare sia un sentimento incurabile.

Infine, un «pezzo di natale» (incompiuto, manchevole, poco riletto) non può sottrarsi all’obbligo dei buoni propositi per il futuro prossimo.

I miei sono quattro. Li elenco qui sotto, verticalmente:

 

non avere paura

studiare

lavorare

non avere paura.

 

*

Previsioni meteo – da “Storia dei miei fantasmi” di Francesco Borrasso

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di Francesco Borrasso

Dicono che domani piova, e io non so perché, nella pioggia ho perennemente trovato conforto.

Sarà che nell’abbandono ho sempre riconosciuto una terra bagnata.

Domani te ne sarai andata, e qui sul tavolo restano le cose che hai usato tu; una penna, un elastico per i capelli, un cuoricino rosa su un foglio di carta, il rossetto, il tappo della penna con la forma dei tuoi denti.

Chissà se ci sarà anche vento, domani; chissà se dovrei mettere ordine nella stanza, vicino al letto c’è l’impronta dei tuoi piedi, quando la mattina ti alzavi senza far rumore, perché io ero stato a scrivere tutta la notte; sul divano c’è la sagoma scostumata del tuo corpo.

Il gatto mi guarda con tenerezza, gli abbiamo scelto il nome anni prima che lo comprassimo, proiettando noi due in un futuro lontano, coniugandoci a volte, come un tempo all’infinito; era tuo, mio, nostro.

Distacco, allontanarsi, abbandono.

Dovrei sistemare i maglioni invernali, mettere in una scatola anonima le tue foto, lasciare le finestre aperte per giorni e giorni, affinché il tuo profumo possa emigrare, e trovare altre primavere da contaminare.

Sul lavandino ci sono due tazze, una ha il marchio a fuoco del rossetto che ti consumavo sempre a forza di baci; due piatti, qualche posata, uno spazzolino da denti, come se questa stanza fosse diventata la mente di chi perde conoscenza dei luoghi, degli utensili e dei posti giusti.

Dicono che il maltempo durerà molti giorni, ma nessuno mi dice come si fa a mettere via l’immagine di te che esci dalla doccia, fasciata da un’asciugamani, che ti avvicini, spostando nel mondo ogni equilibrio di bellezza, e mi stringi forte, assecondando con il respiro i miei battiti cardiaci; e ci sarà allerta, le strade saranno allagate, e io mi accorgo di aver voglia di un ombrello che non ho mai avuto, mi rendo conto dei mie capelli che si bagneranno, e mi è chiarò che non ti sentirò rientrare, con le scarpe piene di pozzanghere non schivate, e la pelle piena d’acqua.

Vorrei ripulire, toglierti via dalle canzoni, dai gesti, dalle pupille, prenderti come fossi un oggetto e nasconderti; ma poi mi accorgo che il tuo comodino non l’ho sgomberato, oggetti di te: un bicchiere d’acqua pieno a metà, un libro, due fermagli, il deodorante, la boccetta di profumo.

In effetti qualche goccia sta già venendo giù, il cielo si crepa con piccoli fulmini, il vetro della finestra e il ticchettio; dicevano bene, ma non sapevano tutto; tipo non sapevano che io mi sarei seduto sul pavimento, che avrei bevuto due birre e che ti avrei cercata per la stanza, ripercorrendo nei ricordi ogni tuo movimento, né che avrei detto a voce alta: non fai più male; mentendo, né che mi sarei poi alzato, con gli occhi gonfi, e avrei preso la porta, che mi sarei mischiato alla pioggia, per fermarmi sotto quel porticato dove la prima volta che provai a baciarti, tu spostasti il viso.

Cosa è stato bello e cosa no, adesso non è importante; cosa avrei potuto fare e cosa no, nemmeno; so solo che va tutto bene, o almeno così mi racconto quando la mattina al posto tuo c’è il vuoto, ma con te i colori e i sapori era diversi; il male faceva meno male, e i momenti felici erano di un’intensità a me sconosciuta.

La tua meraviglia dovrò anestetizzarla.

Resta tutto, anche se in fondo è tardi, e forse non resta niente.

A chi intende andare oltre. Una nota su “Elementi di critica omosessuale” di Mario Mieli

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di Giorgiomaria Cornelio

Dopo 15 anni dall’ultima edizione Feltrinelli ristamperà “Elementi di critica omosessuale”, libro che Mario Mieli pubblicò per la prima volta nel 1977 come rifacimento della sua tesi di laurea. Viene da esclamare “finalmente!”, dal momento che copie digitali e cartacee del testo hanno continuato con insistenza a circolare nonostante il (provvisorio) oblio editoriale ; oblio confortato, tra l’altro, da una serie di pruriti ideologici e di dicerie che avrebbero voluto seppellire Mieli dietro la frettolosa tàccia di pedofilo maldisposto (come già accaduto con Tony Duvert), ma anche da un certo disinteresse dimostrato dalla sonnacchiante comunità LGBT italiana, impiegata in un progetto d’integrazione totale dell’omosessualità che già Mieli definiva “rientro (dalla porta di servizio) nelle strutture della famiglia.”

Certo non si tratta oggi di salutare questo libro con le medesime modalità degli anni della sua uscita, ma di procedere allo studio di una provenienza che è anche indicazione di ribaltamento e futuro, di fare, cioè, la stessa operazione di archeologia che Remo Pagnanelli attribuiva al poeta:

La poesia è per me operazione archeologica, nella duplice direzione di discorso del Principio e conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o che si sta perdendo, di ciò che comunque il nostro cervello antichissimo vede di continuo “riaffiorare”. 

Se il libro di Mieli continua a incomodare i suoi lettori è proprio perché esso con vigore rifiuta certe irreggimentazioni del pensiero, certe specifiche dettate dalle circostanze, rivolgendosi piuttosto alla questione sessuale come militanza androgina, come “ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo”, come incontro con l’archetipo. Tutto lungo il saggio l’autore insiste a reclamare il proprio essere invertito non solo rispetto alla Norma eterosessuale ma anche nei confronti della monosessualità (la cui misura conciliatoria è sconsolatamente attuale):

Dietro la repressione dell’omosessualità si cela un’omosessualità come ponte, ponte verso l’ignoto (o forse, verso ciò che sappiamo da sempre senza saperlo). Ancor oggi troppa gente ha paura di passare realmente sull’altra sponda. Il movimento gay rivoluzionario propone la grande avventura a tutti. Al contrario, gli omosessuali riformisti pensano che sia possibile bivaccare in massa su questo ponte, ostruendo il passaggio a chi intenda andare oltre. ”

Leggere oggi “Elementi di critica omosessuale” richiede soprattutto di smentire violentemente i presupposti del progressismo, rifiutando quel sussidiario della tolleranza che da tempo viene spacciato per “liberazione sessuale”. Piuttosto che procedere nella catalogazione dei generi e nelle divisioni del pensiero, come poi si continua a fare ignorando che proprio attraverso questa rigida mutilazione si perpetua il marchio dell’infamia (il reportage del National Geographic sulla rivoluzione gender è in questo senso assai significativo), Mieli si è rivolto altrove, ad una transessualità universale, laddove “ogni essere umano, embriologicamente bisessuale, conserva in sé per tutta la vita, dal punto di vista biologico e psicologico, la presenza dell’altro sesso”. In questo forsennamento del corpo il maschile e il femminile emergono come reperti, come umori o campi dove giocarsi il difetto del genere:

Io sono contento di essere una checca evidente, «femminile»: la sofferenza che ciò, in questa società, comporta è al tempo stesso la misura o se si vuole lo specchio della dura e insieme fragile e preziosa bellezza della mia vita. E’ un grande destino possedere e cercare di vivere con chiara coscienza un’esistenza che la massa regolare, nel suo idiota accecamento, disprezza e tenta di soffocare. Un compagno del Fhar (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire) ha scritto: «Noi rivendichiamo la nostra “femminilità”, la stessa che le donne rigettano, e nello stesso tempo dichiariamo che questi ruoli non hanno alcun senso»”

Quanto distanti appaiono oggi queste pagine rispetto alla spenta, sciatta semplificazione che se ne è fatta: abiurato, il femminile è stato dismesso come ruolo solo per essere poi reintrodotto, sulle passerelle o nei manuali educativi, in forma di bigiotteria, di volgare travestimento, di “moneta vivente”. Chi può, rivolga lo studio verso Ronald Firbank (un titolo su tutti: “Vanagloria”, naturalmente fuori catalogo), Jules Laforgue e Antonin Artaud. Proprio il suo “Eliogabalo” è interessante accostare all’opera di Mieli: inarrivabile ritratto di ciò che sempre trabocca, si sporge, dis-segna.

“Senza una guerra per i Princìpi, mai la religione del sole dapprima ostile a quella della luna avrebbe rischiato di confondersi con essa sino a mescolarvisi inestricabilmente. Io non vedo come la Storia possa dirci per qual miracolo un popolo nato dai Fenici zelatori della donna abbia potuto erigere sulle proprie terre e più alto che ogni altro un tempio al culto del sole, cioè del maschile. Resta il fatto ch’Eliogabalo, il re pederasta e che si vuole donna, è un sacerdote del Maschile. Egli realizza in se stesso l’identità dei contrari, ma non la realizza senza fatica, e la sua pederastia non ha altra origine che una lotta ostinata e astratta tra il maschile e il femminile.”

Prove per un ritratto che Vittorio Pescatori non poté ultimare. Mario ritratto in Via Guerrazzi a Milano, agli inizi di marzo del 1983.

Il compito per il lettore di Mieli è di far piovere dentro la giurisdizione del certo, di disorientarsi rispetto ai limiti della propria educazione e ai titoli di preferenza. Per esempio la questione della procreazione, onnipresente monomania che più di tutti documenta la nostra frigidità immaginale, vissuta dalla comunità LGBT come carnevale bellico (maternità surrogata, utero in affitto, gestazione per altri, gpa, femminismo della differenza…), è un arcaismo di cui conviene sbarazzarsi al più presto, tornando a pensare l’omosessualità non solo come superamento delle categorie psicoanalitiche classiche («Il desiderio omosessuale è l’ingenerante-ingenerato, il terrore delle famiglie perché si produce senza riprodursi »), ma anche come pratica, zona di convergenze e d’incidenze, vita e basta, progettazione inesausta di una nuova umanità e di un nuovo corpo (“in che rapporto sei col tuo buco del culo?”). Guardare oggi ad un Pride è assai meno interessante che guardare ad una processione, perché il paravento del buon senso è un’ideologia di rottami, di partigiani dell’ovvio, di ergastolani della riproduzione:

In effetti, costringere l’Eros alla procreazione non è mai stato veramente necessario(…) D’altro canto, se la lotta per la liberazione dell’omosessualità si oppone decisamente alla Norma eterosessuale, uno dei suoi obiettivi è la realizzazione di nuovi rapporti gay tra donne e uomini, rapporti totalmente alternativi rispetto alla coppia tradizionale, rapporti atti, fra l’altro, a un nuovo modo di generare gaio e di vivere pederasticamente con i bambini. Né è detto che la conseguita libertà transessuale non contribuisca a determinare, in un futuro relativamente lontano, alterazioni della struttura biologico-anatomica dell’essere umano tali da trasformarlo, ad esempio, in ginandro atto alla partenogenesi o a nuovi tipi di procreazione a due (o a tre? a dieci?…)”

In questa lugubre marcia verso il ricovero organizzato, coagulo di ghetti (discoteca, bar, villaggio LGBT, e così via…) è bene svoltare, cambiare strada, ritrovare la gaia vitalità dell’opera di Mieli, registrarla come gabbia di studio o procedere al suo rovesciamento, comunque sempre a salute, a custodia dell’inviolabile: il proprio canto.

Una parentesi, come indizio di margine

La ristampa di questo volume non può che essere il cominciamento di un progetto di ripubblicazione integrale dell’opera di Mieli. Come egli stesso sottolineò in un’intervista rilasciata a Felix Cossolo nel Novembre del 1979:

“Penso che le analisi portate da me nel libro ‘Elementi di critica omosessuale’ vadano ampliate e che molti documenti da me trattati nascondevano qualcosa di inesplorato, e che oggi va esplicitato e comunicato agli altri; (…) non esiste possibilità di liberare a fondo l’essere umano, e quindi la sessualità, senza passare attraverso la strada alchemica.”

È bene allora andare incontro a questi margini dell’inesplorato, smarginare una volta ancora la questione sessuale, togliendola all’esclusivo dominio delle sole categorie politiche: “c’è solo il mistero, ma il mistero è nostro, nostra vita, energia a cui attingere.”

Uno scritto di Mieli, per gentile concessione di Gianni De Martino

Note

Non ho vinto

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di Luca Tosi

Per la luce rossiccia che entra nella fessura dell’armadio, Maria ha idea che il giorno stia finendo proprio adesso. Così conta le ore: una, due… Sono ormai cinque. Cinque ore su ventiquattro fanno il venti virgola ottantatré percento della giornata. Praticamente il turno di un part-time. In busta paga, data la media dei salari, saranno quarantacinque euro, che non è male.

Maria fa la spesa ogni giovedì alle sei. Preferisce andarci a piedi, perché poi tornare con le borse belle cariche le dà l’impressione di allenare le braccia. Il supermercato è un luogo amico per Maria: per mezzora buona non deve altro al mondo che girar per le corsie e riempire un carrello. Dentro la testa le si affastellano sciami di pensieri, ma restano tutti a destra e a sinistra del cervello, perché al centro, sotto la fronte, c’è memorizzata la lista della spesa. Non la scrive sui bigliettini. Al diavolo i bigliettini. Uno perché la dispersione di bigliettini l’ha vissuta, tempo fa, ed essere quel tipo di donna, con quella calligrafia stondata, non le è piaciuto per niente. Due perché oltre alle braccia, Maria sfrutta la spesa per tenere in forma anche la memoria. Poi qualcosa lo dimentica, è ovvio. Così rimanda la sfida al giovedì successivo. Questo la tiene in vita.

Fuori è settembre e passa un tramonto spremuto, granoso. Le servirebbe di pisciare, anche subito, e buttar giù un po’ di pane dietro la codeina, altrimenti le si smonta lo stomaco. Invece Maria non può nulla: ha i polsi legati e un tovagliolo stretto sulla bocca. La sola idea di pisciarsi addosso le fa venire i piedi gelidi.

Si è beccata il fuoco di Sant’Antonio il giorno che montavano i capannoni della Festa dell’Unità al Parco Nord. Adesso combatte la fiacca con tre pilloloni al dì e non ci pensa, però ha rischiato. Ha capito che la morte vaga nell’aria come un lazzo di lenzuola, roba che smette un attimo di far corrente e quello si posa e porta via tutto.

Ma la fortuna di Maria, lo dice sempre, non è la salute: è di essersi presa un buon marito. Si chiama Paride. Pensare a lui, qui, chiusa nell’armadio, con una fessura di tramonto e la vescica in piena, le causa quel ronzio alle orecchie che di solito le esce solo a primavera, quando tutto cambia.

Mai avrebbe previsto una reazione così da parte di Paride, mai. Ma si sa, le persone, i mariti in particolare, sono gente capace di svolte improvvise.

D’un tratto un rumore lontano piomba dal corridoio. Il portone suona quello schiocco moderno, d’ottone, a cui Maria non ha ancora fatto l’abitudine. Trasalisce. D’istinto ritira le gambe più sotto che può. Il cuore prende l’ascensore e le va su per il collo.

 

Cambiano quartiere sei mesi prima, quando il comune decide di assegnare loro un appartamento a canone minimo. Erano anni che puntavano a scalare la graduatoria. Lei accoglie il trasloco con energia, per lui, al contrario, lasciare la casa vecchia è un dolore fisico. Aveva là un orticello che lo faceva stare bene.

Anche adesso, mentre rientra, Paride ripensa al colore che prendeva la terra dopo il temporale. Si sfila il piumino a rombi, poi scarica la spesa in cucina e si dirige verso la camera da letto.

Maria lo ascolta venire, sente il cuoio delle suole, il respiro maschio. Sente anche il suo di respiro, dentro, farsi sempre più largo, così cerca di abbassarlo, di punirlo, ma poi le pare di non riuscire a vivere. Fosse un giovedì qualunque, accoglierebbe Paride informandolo dei suoi progetti per la cena, e Paride, come sempre, si troverebbe d’accordo.

È tornato. Cinque lunghissime ore e il suo amore è di nuovo a casa. Arrivato in camera da letto, Paride si butta le mani nelle tasche e dice:

«Tranquilla, ci sono andato io al supermercato.»

Cammina sospeso per la stanza. Il sangue del sole che scende gli ricalca il profilo. Maria lo guarda con l’occhio migliore, rigida, come si guarda un animale che va sotto la mannaia della natura. Eppure non prova né pena né niente.

«C’ho messo tutto il pomeriggio, lo so» riprende a dire lui, «È che sono stato al bar coi miei amici. Abbiamo fatto il torneo.»

Forse per farsi investire dall’audacia, Paride si piazza davanti all’armadio e lancia lo sguardo sul legno.

«Non ho vinto» aggiunge.

Cavando le mani dalle tasche, si porta dietro una fotografia; è spiegazzata, la carta lucida disseminata da strappi e ditate, i colori sbiaditi che sono la carnagione del passato. Comincia a masticarla tra le dita ruvide, poi ripete:

«Ho giocato bene, ma non ho vinto.»

Mica una novità per Maria. D’altronde non gliene ha mai fatto una colpa. Troppe volte le è toccato di confortarlo, la sera, di ritorno dal bar. “Non ha nessuna importanza vincere al biliardo del bar” gli diceva. Non ci sono premi. E la fama alberga lontana da questo quartiere. Però Maria mentiva: le sconfitte di Paride le hanno sempre mosso uno schifo interno, come se fosse il suo. Lo schiaccerebbe come uno scarafaggio quando lui la prende con “Non ho vinto”. Mai che dicesse “Ho perso”.

«Credo che sto migliorando» ragiona Paride, «Stavolta ci sono andato davvero vicino.»

Che sega, pensa Maria. Preferirebbe un incendio. Spinge gli occhi giù nell’ombra e lascia andare il collo urtando gli appendini, che prendono a ballare senza ritegno. Lì impalato, Paride riceve quel tintinnio mentre si buca il pollice con un angolo della fotografia; cerca nell’immagine un qualcosa, un dettaglio che smentisca tutto.

«Ancora non mi rendo conto di quello che hai fatto» dice, ma è come se lo dicesse a sé stesso. «Non riesco a… Realizzare.»

Maria non si è opposta quando lui le ha strappato i vestiti. E non si è permessa di coprirsi nemmeno mentre la picchiava sui seni. Il dolore che ha causato a quest’uomo è incommensurabile. Per questo Maria pretende di più, di peggio.

«Cosa vorresti da me?» insiste Paride, «Io non so come ti devo trattare. Non lo so più.»

Le sue parole rimbalzano per terra e gli svettano sulla testa.

Adesso basta, si decide Maria. E tira un calcio contro le ante. Di ginocchio. Forte e teso.

L’armadio vibra di un tonfo corto, il lamento del legno scarso.

Aspetta, lei, ma Paride non reagisce: è più vuoto di quel legno.

All’improvviso Maria si scatena coi piedi, di testa, con le spalle, mena contro le ante con ogni pezzo del corpo dove riesce a metter potenza. È in gabbia, inferocita. Ha negli occhi le scintille bianche delle onde che si schiantano sugli scogli.

«Se non mi avessi convinto a traslocare…» dice Paride alzando la fotografia come un’ostia, «Questa non sarebbe mai saltata fuori, ci pensi? Non l’avrei mai saputo…»

La furia di Maria non si placa, anzi, contagia pure le corde vocali: grida, soffoca con tutta la voce nel tovagliolo e il suo ruggito d’abisso riempie l’appartamento; dal primo all’ultimo piano del condominio si scarica un torrente di pazzia e verità. Sembra la risata di un dio cavernoso.

«Cazzo urli, cogliona. Tra le buste paga del ‘91 l’hai nascosta ‘sta foto» dice Paride appena prima di scoppiare a ridere, «Tra le…»

Tutto inutile. Maria è accecata da non sentir gravità nella voce, grida come la vita mai ferma, continua, in linea retta. Dura il tempo di un treno che passa.

Alla fine, il silenzio.

Scende come l’ultima carezza del vento sul campo.

A quest’ora, di solito, Paride e Maria si mettono a cenare e vedono il telegiornale insieme. Paride non sopporta le notizie di cronaca. Maria, invece, le predilige, in particolare se ci sono dei pazzi che hanno fatto dei morti. Entrambi sono di quelli che masticano piano, con garbo, spiluccano il cibo senza sporcare e sparecchiano prima del meteo; aprono il rubinetto al massimo, non possono accettare che qualcuno gli dica che tempo farà domani.

«Sei una puttana, sei» fa Paride, «Una puttana!»

Poi si accovaccia per slacciarsi le scarpe e se le cava. La fotografia precipita sul pavimento come la moneta di un testa o croce, lì, tra la scarpa destra e la sinistra, spiaggiata sui lacci, che sgusciano via come bisce di mare.

Scalzo, Paride si avvicina all’armadio e copre con la sua mole quella luce che passava per la fessura. Dopo cinque ore Maria torna a respirare i vestiti del marito, misti a quella vena di sudore che porta con sé quando rincasa dal biliardo.

La chiave si addentra scattosa nella serratura dell’armadio e apre, poi Paride gira i talloni e mette un passo avanti l’altro fuori da questa storia.

 

È venuto buio senza preavviso. Come quando ti svegli e non capisci che ore sono.

Maria sente freddo, e purtroppo non è inverno. Spalanca con un tocco, prima una e poi l’altra, le ante, lentamente. La penombra cala a vestirle il viso rugoso e livido.

Tremando, allunga un piede come una diva che scende dal taxi.

Ma il piede di Maria assomiglia a un pesce morto.

Prova a scivolare tutta sul legno, per le gambe, d’inerzia, poi col bacino e infine coi gomiti. L’armadio la graffia come un rastrello sui reni, ma può sopportarlo.

Accasciata sul pavimento, Maria si guarda intorno: è la stanza dove dorme da mesi, eppure le sembra di non esserci mai stata. Individua per prima la sua vestaglia di seta, laggiù, piegata all’angolo del termosifone, poi il letto fatto e gli orecchini sul comodino.

Come una lumaca storpia, si distribuisce a macchia e striscia in avanti verso le scarpe di Paride; vorrebbe metterle in ordine sotto l’attaccapanni, dove devono stare. La pellaccia delle sue mani fischia sulle mattonelle. Si fa leva con le punte delle ossa, e sfodera una forza che già sapeva di avere, ma che adesso la spaventa, le mette il freno.

Quando arriva a quelle scarpe, dopo forse mezz’ora, il suo corpo si spegne e gli occhi le precipitano sfiniti sulla fotografia; a prima vista, ne è quasi sicura, la stampa dovrebbe misurare dieci centimetri in altezza e quindici in lunghezza, ma non ha modo di verificarlo.

Dentro quella foto c’è lei, a trent’anni, a Venezia, appesa alle labbra di un uomo che non è Paride: Leonardo.

Maria l’aveva conosciuto in fila al bagno del cinema all’aperto. Era l’estate della strage alla stazione. Piazza Maggiore scoppiava di gente, ma faceva così buio e silenzio che la si sentiva deserta. Leonardo era anche lui bolognese, i capelli neri lunghi fino al collo, il cravattino blu e il mento stretto che lo rendeva bello anche se aveva sgomento.

A Venezia c’erano andati alcuni mesi dopo, l’ultimo fine settimana di novembre, giorni così segreti che non lo sapeva neanche il calendario. Faceva un freddo becero e i vaporetti giravano smunti, senza funzione, utili solo al loro baciarsi, baciarsi, baciarsi in ogni calle. Venezia l’aveva scelta Leonardo, perché adorava l’umidità sulla pelle di una donna.

 

Dalla cucina viene il rantolo del frigo che si chiude, poi il calore del forno che emana radiazioni di melanzane. Sembra definitivamente notte, ma è una bugia.

Maria lascia correre un’altra lacrima sotto l’occhio. Il tovagliolo stretto sulla bocca non le permette nemmeno di passarsi la lingua sulla dentiera, come le piace fare quando si sente sola.

La Festa dell’Unità è finita ormai da una settimana e i capannoni sono ancora lì, alti e vuoti come cattedrali di nylon. Di notte i guardiani passeggiano in qua e in là, alcuni vanno lisci come esploratori, altri razzolano a perdere dentro un recinto che non sopportano. Tra loro ce n’è uno che non cammina mai. Se ne sta stravaccato su una seggiola, immobile. Maria lo osserva ogni sera dal terrazzo; vuol vedere se quel petto respira, se quegli occhi battono, o si muovono, se quei piedoni avranno lo stimolo di scalciare la ghiaia. Ma niente: statuario, il guardiano resta impresso sulla seggiola come una montagna del panorama che ti è amica.

Perché lo guarda? Perché le fa tornare in mente che il mondo è un posto pieno di persone sole. Maria sa che deve lasciare il pianto a qualcun altro, c’è gente che ha mille motivi per urlare male, non lei.

È così che ci completiamo, crede. Il nostro equilibrio collettivo resiste per scompensi. Chissà che un giorno non saremo tutti pari, ognuno con gli stessi centilitri di dolore e pronti a dirci che è stato un piacere brindare con voi.

Stesa a terra, toglie gli occhi dalla fotografia e decide che è ora di smetterla di frignare.

E la smette.

Vuole il futuro, Maria, come le bambine precoci alle scuole medie.

 

Appello per la scuola pubblica

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Premessa

 

L’ultima riforma della scuola è l’apice di un processo pluridecennale che rischia di svuotare sempre più di senso la pratica educativa e che mette in pericolo i fondamenti stessi della scuola pubblica. Certo la scuola va ripensata e riformata, ma non destrutturata e sottoposta ad un processo riduttivo e riduzionista, di cui va smascherata la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista.

La scuola è e deve essere sempre meglio una comunità educativa ed educante. Per questo non può assumere, come propri, modelli produttivistici, forse utili in altri ambiti della società, ma inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale.

È quanto mai necessario “rimettere al centro” del dibattito la questione della scuola.

Come? In tre modi almeno:

  1. a) parlandone e molto, in un’informazione consapevole che spieghi in modo critico i processi in corso;
  2. b) ricostituendo un fronte comune di insegnanti, Dirigenti Scolastici, studenti, genitori e società civile tutta; e, soprattutto,
  3. c) riprendendo una lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa.

Bisogna chiedersi, con franchezza: cosa è al centro realmente? L’educazione, la cultura, l’amore per i giovani e per la loro crescita intellettuale e interiore, non solo professionale, o un processo economicistico-tecnicistico che asfissia e destituisce?

 

7 temi per un’idea di Scuola

da leggere come studente, genitore, insegnante, cittadino

 

  1. Conoscenze vs competenze

Una scuola di qualità è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo, della società e del nostro futuro. Una reale comprensione del presente e la trasformazione della società richiedono riferimenti che affondano le radici nella storia, nelle opere, nelle biografie e nell’epistemologia delle discipline.

 

Crediamo che:

  1. Aggregare compiti e prestazioni degli allievi attorno a competenze predefinite e standardizzate annienti l’organicità dell’educazione, riduca la complessità del mondo ad un “kit di pratiche”, che tali restano, anche con l’appellativo onorifico di “competenze di cittadinanza”.
  2. La competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi. La cittadinanza, a cui le competenze comunitarie aspirano, non è un insieme di rituali individuali da validare e certificare. Cittadinanza è “operare in comune”.
  • Non ha senso misurare “livelli di competenza” degli studenti, da attestare in una sorta di fermo-immagine valutativo. Il sapere non si acquisisce mai definitivamente. È continuamente rinnovato dalla maturazione, consapevolezza, interiorità, ricerca singolare e plurale, approfondimento di contenuti e pratiche.

 

  1. Innovazione didattica e tecnologie digitali

Innovare non è bene di per sé, tantomeno in campo educativo. La didattica “innovativa” o digitale, oggi presentata come primaria necessità della Scuola, non vanta alcuna legittimazione scientifica né acquisizione definitiva da parte della ricerca educativa. Innovazioni e tecnologie, nelle varie accezioni global-ministeriali (debate, CLIL, flipped classroom, etc), rappresentano un insieme di “riforme striscianti” che demoliscono pezzo a pezzo l’edificio della Scuola Pubblica dal suo interno. Servono piuttosto innovazioni in tutt’altra direzione, che sappiano valorizzare inoltre l’interculturalità, la creatività e l’immaginazione, il pensiero critico e quello simbolico, nella didattica così come nell’impianto complessivo della scuola.

 

Crediamo che:

  1. Ogni innovazione metodologica o tecnologia digitale sia un possibile strumento di ampliamento e accesso a contenuti e conoscenze. Sul loro impiego l’insegnante è chiamato a riflettere e valutare in maniera incondizionata e libera. Codificare pratiche e metodi, presentati come la priorità della Scuola, è una semplificazione retorica arbitraria, corrispondente ad un preciso modello culturale preconfezionato, che ridefinisce finalità e ruoli dell’istruzione pubblica in ossequio a un’ideologia indiscussa.
  2. L’inflazione di innovazioni didattiche (in particolare il CLIL) e gli sperimentalismi digitali offrono spesso narrazioni impazienti ed elementari (mappe, slides, video, “prodotti”, progetti), propongono procedure stereotipate e associazioni banali, con grave danno per gli studenti e la loro crescita culturale, interiore e sociale.
  • Non è con il mero ingresso di uno smartphone in classe che si migliora l’apprendimento o l’insegnamento. Si può, certo, aderire a un modello, attualmente dominante: quello che sostiene l’equazione cambiamento=miglioramento e digitale=coinvolgimento. Miglioramento dell’apprendimento e dell’insegnamento passano per altre strade, quelle dell’attuazione del dettame della nostra Costituzione.

 Per proseguire la lettura dell’appello: https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/

Europa vista da dentro : Enrico Remmert

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Europeana Remixed

di Enrico Remmert

 

Caro amico, oggi scriviamo su Sud! Scriviamo su Sud! Scriviamo su Sud! Ma perché? Ce lo chiede l’Europa. E noi italiani quando l’Europa ci chiede qualcosa allora guai, siamo pronti a fare tutto quello che ci viene chiesto. Riformuliamo pure il noto discorso alla nazione: “Non chiederti cosa può fare l’Europa per te ma chiediti che cosa ti può chiedere l’Europa e poi non chiederti altro!”. Mi confermate che la Spagna sta a ovest, la Germania a est, l’Italia a sud e l’angoscia un po’ ovunque? Ma poi che vuoi che mi importi dell’Europa, caro amico, siamo un continente sovrappopolato da persone orrende.. I cinque Paesi più giovani del mondo sono tutti in Africa , tié. In Niger l’età media è di 15,1 anni, in Uganda e in Mali si arriva a 15,5 anni, mentre quei vegliardi del Malawi e dello Zambia arrivano addirittura a 16 anni. L’età media della Germania è di 46,1 anni, giusto per capirci.

Siamo vecchi, è chiaro. Qui dovrei metterci un punto esclamativo. Oppure un punto e virgola. Ma quand’è di preciso che si usa il punto e virgola? Di giovedì? Lo so ma non te lo dico. Tanto sei un europeo ignorante. Peggio, potresti essere un italiano (un italiano su tre decifra con difficoltà anche le frasi più semplici). Mentre sei impegnato a decrittare le parole, durante la lettura, non riesci a cogliere il senso di quello che leggi: nel tuo caso, in pratica, siamo di fronte a una alfabetizzazione apparente. Come la maggior parte degli europei sei in grado di identificare i segni di lettura ma non capisci ciò che leggi, questi sono i dati. Come dici? Stai a Parigi? Non scappi lo stesso. L’80% dei francesi non è in grado di riformulare la seguente frase utilizzando esclusivamente sinonimi: il gatto di casa beve perché ha sete. Mettili alla prova. Vedrai che disastro. D’altronde, la metà degli spagnoli non è andata oltre la terza media, come le mie due nonne, ora scomparse. Cosa vuoi che ti dica, amico mio, ai tempi delle mie nonne non esistevano neppure le App. Per dirti la barbarie. Ma oggi è tutta un’altra storia. Lunedì, nella sala d’attesa del medico, ho assistito al seguente dialogo tra un bambino bianco e una bimba nera: “Come si chiama la tua mamma?” “Mamma.” “Anche la mia.” Meno male che non c’erano leghisti/fascisti in attesa, quelli che non usano molto la testa ma “ragionano di pancia”. Ecco, io questi non li sopporto molto, caro amico, perché tutti sanno che dalla pancia viene solo una cosa, e non è una cosa bella.

Dicevamo dell’Europa? La scorsa settimana ero alla stazione, in Slovenia, e ho assistito a un duello aereo tra un falchetto e due corvi. Intorno a me c’era una intera scolaresca, tutti inchinati ai cellulari, mentre sopra di loro la grandezza del creato sciabolava quest’epica scena, si sentiva quasi il profumo di Dio, anche se io sono religiosamente ateo. Ma poi chissenefrega, per me la differenza tra un cristiano e un ateo è impercettibile. Tu sei cristiano? Ah, bene, perfetto. E perciò non credi in Venere, in Nettuno, in Enki, in Odino, in Ra, in Seth, in Zeus, in Anubi, in Mitra, in Osiride e in tutti gli altri 2999 diversi dei prodotti nella storia dell’umanità, giusto? Bene, io non credo a 3000 diversi dei. Lo vedi che la differenza è impercettibile? Sì, lo so, sto facendo lo stupido. Da ragazzo ero un coglione, poi però le cose sono cambiate. Ora non sono più un ragazzo. Ma credo che una speranza per l’Europa ci sia, l’ho vista ieri. La ragazza – bruna, slanciata, dai tratti asiatici – si è avvicinata alla vetrina centrale della libreria con fermezza. Ha puntato Tabucchi. Io ho pensato: ah, se Tabucchi, questo straordinario scrittore italiano, ah se Tabucchi, questo straordinario stato d’animo portoghese, potesse vederti, ragazza mia, come sarebbe felice. Ma nulla: la ragazza si è specchiata, si è risistemata i capelli, ha roteato la chioma come nella pubblicità di un balsamo, ha sorriso al suo riflesso e se n’è andata. È un po’ così l’Europa, è un po’ una ragazza che si specchia in una vetrina mentre potrebbe leggere un libro di Tabucchi. Eppure ci conosciamo meglio, e conosciamo il mondo sempre di più. Nel 1950 viaggiavano nel mondo 25 milioni di turisti, oggi siamo arrivati a 1,2 miliardi.

Ora, caro amico: non sono sicuro che viaggiare apra la mente (metti una persona brillante in prigione e ne verranno fuori le Lettere dal carcere di Gramsci; manda un babbeo a fare il giro del mondo e ne ritornerà un babbeo) però tutto questo viaggiare, annusarci, assaporarci a vicenda dovrebbe averci un pochettino migliorati, noi europei, noi razza umana, noi razza di idioti. E invece no. Questa geografia la possiamo raccontare come una storia, e questa storia la possiamo disegnare: utilizzando dei cerchi isolati, che non comunicano, che non scambiano relazioni, che non si amano, cerchi isolati ecco qua. Poi alla fine sta tutto in Moby Dick. Quando qualcuno chiede a Ismaele da dove provenga, lui risponde: “Non compaio sulle mappe. I posti veri non ci sono mai.” Ecco, fate conto che Ismaele sia l’Europa. È per questo che la amiamo perdutamente, no?

 

Post in translation: Jiří Karásek ze Lvovic

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Il romanzo di Manfred Macmillen
di Jiří Karásek ze Lvovic
Traduzione e saggio introduttivo di
Růžena Hálová
 – Perché Praga mi attrae? dissi, sorpreso dalle sue domande inattese. Esistono certe condizioni psichiche, per le quali abbiamo necessariamente bisogno di un ambiente corrispondente. Non comprendo la lingua che a Praga la gente parla. Non so nulla sul presente di quella città. Tutto quello che cerco lì è il passato. Quando voglio provare la sensazione che avrebbero i morti, posti nelle cattedrali dentro casse di cristallo, quando voglio guardare la vita come attraverso il vetro della propria bara, vado a Praga. La sua aria è opprimente e pesante per la tragicità di tutto quello che lì è accaduto. Vedo il Castello, Malá Strana, la piazza della Città Vecchia e sento che solo il Passato è presente a Praga. Non devo sapere niente neanche sulla storia. Quando vi arrivo, vengo a sapere, come se guardassi tutto con i miei occhi, di ogni cosa accaduta. Non devo sapere nulla sulle esecuzioni capitali dopo la battaglia della Montagna Bianca. Il piede stesso si ferma sul piccolo quadrato di terra, lì dove guardano le case antiche, come se tuttora dalle loro pareti rimbalzasse cupo un rimbombo di tamburi velati di nero. A Praga è tutto finito e giunto al culmine. È indifferente chi viva adesso lì, come è indifferente chi abiti un vecchio palazzo malandato quando i suoi proprietari sono morti. Cammino per Praga volentieri di notte: ecco, è come avvertire ogni respiro della sua anima. Nei rari istanti di un’improvvisa chiarezza mi sembra che la gloriosa città morta si risvegli e di nuovo s’immerga nello specchio triste, scuro, della sua fatale vanità.

Note di traduzione

di Růžena Hálová

 

Il Romanzo di Manfred Macmillen, pubblicato a Praga nel 1907, è la prima parte della trilogia Romanzi di tre maghi di Jiří Karásek ze Lvovic. Appartiene al mondo della letteratura fantastica fin de siècle. Alla sua uscita, rappresentò un anacronismo, un tentativo di ridare nuova vita al romanzo gotico nella modernità di inizio Novecento. A proposito del racconto fantastico dell’Ottocento Italo Calvino, nell’Introduzione ai Racconti fantastici dell’Ottocento (1983), scrive che il soprannaturale appare al lettore di oggi “carico di senso, come l’insorgere dell’inconscio, del represso, del dimenticato, dell’allontanato dalla nostra attenzione razionale (…) Ci dice più cose sull’interiorità dell’individuo e sulla simbologia collettiva”. Nel romanzo di Jiří Karásek tutto questo è già nelle intenzioni dell’autore. Il tema principale di questo libro è il rapporto tra la realtà del mondo che abitiamo e la realtà del mondo del pensiero che abita in noi, l’oscillazione di livelli di realtà inconciliabili.

Subito, dalle prime pagine, si alza lo spettro di una Praga misteriosa, il suo fantasma pallido si fa avanti dalle lontananze scure e fatali avvolto negli onirici veli dell’irrealtà. Una città del passato, dei sogni e del mistero è percepita come un’entità che domina chiunque vi posi il piede, che incanta con la sua bellezza fatale e con il mistero della morte Praga raffigura uno spazio destinato alla ricerca dell’identità messa in dubbio o persa da uno dei protagonisti, il conte Manfred Macmillen. Da lui stesso è paragonata ad un monastero: “Quando era triste, quando voleva stare da solo, diceva di ritirarsi nel ‘monastero’, e partiva, non rivelandolo a nessuno, per Praga”.

Il conte Manfred Macmillen, dandy dal carattere ambiguo e dalla nazionalità indefinita, è un personaggio caratterizzato da una non ostentata eleganza e da una sottile ironia. Compone il proprio mondo di ambienti selezionati come se fossero delle quinte, in un’atmosfera che è in armonia con la sua vita, e a tal fine sceglie anche le persone di cui si circonda. Frequenta luoghi antichi, misteriosi e solitari; fuori da questi spazi si maschera con la noia e l’indifferenza.

Dietro le apparenze nasconde nella sua anima la passione di una vita movimentata quanto solitaria, il cui ritratto Manfred svela dinanzi al suo amico Francis, invitandolo a unirsi a lui, a entrare nel suo mondo. Un mondo che, attraverso lo sguardo di Francis, aprirà al lettore-spettatore uno spazio in cui si fondono la cornice del mondo reale e il molteplice ritratto del mondo interiore, rendendo la veridicità e la finzione delle sue immagini ancora più incerte. La maschera dandy di Manfred, o meglio il dubbio di Francis se essa sia una parte, e quanto consapevolmente giocata da Manfred, o se essa faccia parte della vita stessa di Manfred, trasforma il suo racconto in una finzione continua a cui allude anche il nome dell’opera stessa. Il tormento di Manfred per un suo misterioso doppio, un diario che si rivela identico al testo di un’opera teatrale, l’ossessione per la figura di Cagliostro in cui Manfred coglie la menzogna elevata a elemento fondamentale dello stile e la trasformazione degli altri in elemento adatto alla creazione di una propria realtà: tutto questo sviluppa simultaneamente con la narrazione esoterica la linea del gioco di vivere proprio del dandy.

Una fusione di finzione e vita reale il cui abisso è svelato da un finale aperto e incerto, quando dalla materia stessa della vita prende forma un’opera d’arte tutta incentrata sulla finzione. L’essenza di questo romanzo potrebbe essere racchiusa nell’ultima frase, dalla venatura autoironica, dell’introduzione del romanzo scritta dallo stesso Jiří Karásek : “Un buono stilista, se s’ingegna, raggiunge sempre l’incomprensibilità desiderata”.

Le librerie più belle del mondo sono sempre le stesse

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di Giorgio Pirazzini

 

Le librerie indipendenti parlano con due linguaggi, quello della fierezza della qualità del servizio rispetto all’anonimato delle grandi catene e quello dell’imminenza del naufragio perché “in Italia si legge sempre meno”.

Ma c’è uno sparuto gruppo nel mondo che invece non ha problemi di vendite, sono “le librerie più belle del mondo”. Il virgolettato viene dai titoli che si trovano sul web: ogni anno, forse ogni mese, c’è almeno un sito che pubblica, prendendolo da un post precedente di un’altra testata, una galleria di foto delle più belle librerie del mondo e l’articolo viene a sua volta rimbalzato da diverse testate.

Ricordando Francesco Leonetti

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di Giorgio Mascitelli

E’ scomparso nella giornata di ieri a Milano Francesco Leonetti ( 1924-2017), poeta, scrittore, militante politico e figura di rilievo della letteratura italiana novecentesca. Se il suo nome in sede storica richiama innanzi tutto due riviste e due esperienze cruciali del Novecento italiano come Officina a Bologna negli anni Cinquanta con Pasolini, Roversi e altri e Alfabeta negli anni Ottanta a Milano con Eco, Balestrini, Volponi, Maria Corti e altri, la sua cifra intellettuale più autentica è stata quella di coniugare una forte passione politica con un’inesausta curiosità culturale: per Leonetti il piano della conoscenza del mondo e quella della critica dei rapporti di forza che ne determinano le gerarchie erano strettamente intrecciati. In questo senso egli apparteneva a una civiltà letteraria e politica profondamente diversa da quella attuale.

La forma della rivista, tipica del resto della cultura letteraria del Novecento, era per Leonetti il veicolo ideale di questa attitudine etica prima ancora che estetica e intellettuale, nella quale lo slancio conoscitivo e la tensione ideale si fondono. Questi elementi si ritrovano anche nelle sue tappe poetiche più significative da Percorso Logico 1960-1975 a In uno scacco fino a Le scritte sconfinate. Del resto la lucida passione che lo animava era di solito il tratto che colpiva immediatamente chi l’ha conosciuto, ma, anziché perdersi nella congerie dei ricordi,  verosimilmente il modo più giusto  per ricordarlo è ricorrere ai suoi stessi versi:

Io nativo cosentino in un fitto di larici

guardavo infante d’estate, mondo caldo,

alle colonie greche tra i sibariti

e ai popoli delle coste:

che danno sotto la ghiaia la sepoltura

a corpo rannicchiato, come a feto.

E ho naso forte e sesso

con allegrezza. Utopia nella testa…

La lingua è di Campanella e vociana  

e di militanti moderni, addolcita

con suoni di Bologna, negli studi.

Le ragioni di arcaico

che tollero o amo, volterriano del sud,

sono di base con furore logico.

Da La prima posa in AA.VV. Poesia italiana della contraddizione, Roma, 1989

 

 

Norbert Conrad Kaser

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di Valentino Liberto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In autunno, i boschi d’alta quota del Sudtirolo si punteggiano di giallo. Sono i larici, unici tra le conifere a non essere sempreverdi, ad accendersi di colore

Posizione orizzontale. Su Progetto per S. di Simone Burratti

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di Claudia Crocco

Progetto per S. è il primo libro di Simone Burratti, ed è una delle prime uscite all’interno di “Le Civette”, la recente collana che la Nuova Editrice Magenta ha dedicato alle opere prime. Magenta è la casa editrice che ha pubblicato Laborintus di Sanguineti nel 1956; nella storia della letteratura italiana il suo nome è legato soprattutto ad opere d’avanguardia. Anche la plaquette di Burratti è sperimentale, come si legge nel risvolto di copertina firmato da Viviana Faschi, ma lo è in modo diverso non solo rispetto alla Neoavanguardia, come è ovvio, ma anche rispetto a molta poesia di oggi che presenta un marchio esibito di sperimentalismo.

Il libro si compone di quattro sezioni (Posizione orizzontale, Costruzioni, Appunti per un distacco, Quadrato), ognuna contenente cinque testi, per un totale di venti. La terza sezione è quella più esplicitamente sperimentale: Poesia dello zenzero e Scarborough Fair possono essere considerati esempi di googlism; Cronologia consiste nell’elenco di tag o frasi tipiche della pornografia; Stinkfist è una traduzione molto libera di una canzone dei Tool, come si legge nella Nota alla fine del libro. Nessuno di questi testi, dunque, è scritto per rispecchiare o permettere l’espressione di una voce individuale; eppure sono in continuità con la voce presente nel resto di Progetto per S., che può sembrare autobiografica.

 

Spazi, suoni e lingue nel romanzo “di Napoli”

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da “Il segreto” di Cyop & Kaf

[Con minime modifiche e aggiornamenti, il pezzo che segue è tratto da La stato della città (a cura di Luca Rossomando, Monitor edizioni, 2016), un volume che traccia un profilo dell’area metropolitana di Napoli abbracciandone tutti gli ambiti, dall’urbanistica all’ambiente, dall’economia al lavoro, dalle politiche sociali e sanitarie fino alla produzione culturale. Un libro collettivo – firmato da 68 autori – che si propone come supporto per una discussione sulla città di Napoli].

di Chiara De Caprio

A mo’ di premessa. Estate del 2015. Giurie e lettori discutono se si possa premiare una scrittrice senza volto: il suo nome è Elena Ferrante, e sta vendendo un sacco di copie negli Stati Uniti con una quadrilogia di Neapolitan novels. A sponsorizzarla allo Strega è, tra gli altri, Roberto Saviano, che con Gomorra (Mondadori, 2006) ha venduto milioni di copie, vinto premi, fatto balzare sulle copertine dei giornali le periferie napoletane e il sistema della camorra.
Al di là delle differenze, con Ferrante e Saviano la letteratura, incrociando le sue strade con quelle del cinema e della televisione, diviene fenomeno di massa e occupa uno spazio assai più ampio di quello che le ritagliano l’industria del libro e il mercato editoriale. E tuttavia, se anche non considerassimo Ferrante e Saviano, la produzione di romanzi e narrazioni “di” e “su” Napoli non rimarrebbe affatto sguarnita. Anzi, ce n’è per tutti i gusti, come rivela anche solo un mero ordinamento cronologico di alcuni romanzi, narrazioni e raccolte di racconti editi tra il 2000 e il 2015.
Tra il 2000 e il 2001 Antonio Franchini fa i conti con la memoria personale e collettiva nel suo L’abusivo (Marsilio), Domenico Starnone racconta la fiumana di oscenità, intemperanze, bugie che il ferroviere Federì riversa su moglie e figli nel romanzo con cui si aggiudica il Premio Strega (Via Gemito, Feltrinelli). Nel 2002, dopo Mistero Napoletano, Ermanno Rea narra in La dismissione la storia amara dell’Ilva di Bagnoli, cui seguirà l’ultima parte della trilogia sulla città, Napoli Ferrovia (Mondadori, 2007). Tra il 2002 e il 2006, edizioni e/o pubblica I giorni dell’abbandono e La figlia oscura con cui, dopo L’amore molesto (1992), Elena Ferrante chiude una trilogia di romanzi dedicati al rapporto con la maternità di figure femminili chiamate anche a interrogarsi sul loro allontanamento da Napoli.
Negli stessi anni Nel corpo di Napoli (Mondadori, 1999), A capofitto (seconda edizione rivista, Mondadori, 2001), Di questa vita menzognera (Feltrinelli, 2003) e la raccolta di racconti Magic People (Feltrinelli, 2005) danno corpo alla vocazione di romanziere e narratore di Giuseppe Montesano. Nel 2015, mentre il grande pubblico si appassiona alla quadrilogia “napoletana” che Elena Ferrante dedica all’Amica geniale (2011-2014), esce per Neri Pozza Il genio dell’abbandono, romanzo in cui Wanda Marasco narra la parabola esistenziale e artistica di Vincenzo Gemito servendosi di una lingua che sembra essa stessa voler incarnare la guizzante potenza visiva delle sculture di Gemito.
Questa la superficie, fatta di titoli, autori, case editrici, date. Restano, sul fondo, le domande più importanti: in quale Napoli sono ambientate queste storie? Che cosa accade ai personaggi una volta immessi in uno specifico spazio urbano, quello napoletano, saturo di storie e narrazioni?

Lo spazio e la lingua
Senza alcuna pretesa di completezza, alcune immagini si dispongono in sequenza, quasi a suggerire la possibilità di un percorso: una bruma rossastra e ostinata che s’insinua negli angoli più remoti delle case di Bagnoli; la pioggia scrosciante che riporta a galla quanto fogne e sottosuolo avevano inghiottito; l’opacità violacea del mare; lo spazio urbano, saturo di suoni: il tonfo sordo di sprofondamenti e voragini, i clacson nervosi delle auto e dei motorini, il «precipizio di voci» e urla che col loro timbro sembrano rendere diversa la qualità e la consistenza dell’aria: più opaca, più pesante, più aggressiva.
Tratte dal romanzo-inchiesta di Rea e dai romanzi di Montesano e Ferrante, le immagini appena proposte nulla concedono al canone della città “da cartolina”: inondata dal sole, pigramente adagiata su colline da cui, complice l’aria tersa, si scorge la sagoma del Vesuvio o il profilo sinuoso di Capri. Nulla, dunque, di quell’insieme di topoi che hanno contribuito prima a definire e poi rendere riconoscibile una certa “napoletanità” di maniera; semmai, un diverso sistema di immagini che, con la sua compattezza, costituisce una precisa indicazione sui modi in cui i narratori hanno ripensato la relazione tra città reale e raffigurazioni della città, ridefinendo – per continuità o differenza – il loro rapporto con quel ricco patrimonio di rappresentazioni letterarie che di Napoli sono state proposte tra Otto e Novecento.
Non è superfluo richiamare il fatto che l’aggettivo “napoletano” si riferisce in queste pagine a due caratteristiche: ambientazione e veste linguistica. Innanzitutto, per narrativa napoletana s’intendono quelle narrazioni che ambientano le loro storie a Napoli e nel suo hinterland; in seconda battuta, si vuole sottolineare il fatto che, tra queste, alcune esibiscono un impasto linguistico tra i cui ingredienti figurano l’italiano locale e il dialetto: viene così delineato uno spazio che ricrea e rielabora la situazione socio-linguistica della Napoli di oggi o del passato.
Richiamiamo, per ora, alcune modalità di rappresentazione della città. Che di Napoli ce ne siano due, anche nei romanzi, è stato osservato molte volte. E, come per la città reale, anche per le Napoli dei romanzi è stato discusso se queste due metà siano conseguenza della Storia o della Natura; in quest’ultimo caso, la frattura tra due poli viene assunta come un dato, a un tempo, morale e biologico della città: la Napoli bassa, agitata da istinti e sfrenatezza, senza soluzione di continuità e fratture storiche, diviene così il luogo in cui si consuma l’eterna battaglia della fame e del sesso, e dei poveri contro i poveri.
Data la forza interpretativa che questo modello ha avuto (in Domenico Rea e Anna Maria Ortese, per esempio), è utile capire come i romanzi di Napoli degli ultimi anni ci abbiano fatto i conti. Scopriamo così alcune cose. Anche in virtù di una collocazione temporale che parte dagli anni Cinquanta e Sessanta, i romanzi della quadrilogia di Elena Ferrante sono quelli in cui Napoli è rappresentata attraverso un modello nel quale due poli contrapposti nello spazio rimandano a una diversa organizzazione culturale, sociale e linguistica: la risalita di Elena dallo squallore del Rione alla casa inondata di luce di Posillipo trova un correlativo nella sua aspirazione all’italiano e nel suo atteggiamento di rifiuto e rimozione delle voci dialettali; la scelta dell’italiano, quindi, sa sì di emancipazione, ma reca memoria del doloroso e necessario allontanamento, fisico ed emotivo, dalle tane e dai ripostigli bui del dialetto. Questo perché nelle storie della Ferrante le voci dialettali rimandano a un universo dominato dalla violenza e dall’oppressione patriarcale. Nei romanzi L’amore molesto e La figlia oscura il dialetto agisce su madri e figlie come «un frullato di seme, saliva, feci, orina» che, paralizzandone gli organi fonatori, le riduce al silenzio. Narrare la propria storia significa, però, per le protagoniste-narratrici, ascoltare il suono delle parole dialettali, comprendere il modo in cui esse hanno condizionato scelte e movimenti, e fare, infine, i conti col proprio disgusto verso «la cavità cupa del ventre» femminile. Quando, alla fine della Figlia oscura, nel ricevere una telefonata, Leda risponde «commossa» alle figlie che accentuano in modo esagerato la sua cadenza napoletana, capiamo che qualcosa, infine, si è mosso nel suo spazio interiore: il rapporto più flessibile tra dialetto e italiano è spia di una diversa relazione con il suo ruolo di madre e col passato.
Già nell’Amore molesto, del resto, Elena Ferrante faceva di Napoli un luogo in cui si dipana una trama che svela una verità a un tempo personale e universale. E, tuttavia, anche nel primo romanzo la griglia urbana non scolorisce in una rappresentazione convenzionale; anzi, il movimento dei personaggi attraverso uno spazio mai generico contribuisce a produrre l’accerchiamento della protagonista Delia: è la città stessa che la incalza e le toglie l’aria.
Pur partendo talvolta dal modello delle “due Napoli”, le storie situate dopo gli anni Ottanta assumono, invece, come operatori di narratività gli sconvolgimenti nel tessuto urbano verificatisi a partire dagli anni Cinquanta (cioè, gli anni del laurismo, delle speculazioni edilizie, dell’espansione delle periferie). Anche nei romanzi, Napoli diviene centrifuga, si ramifica e si collega alla costellazione di paesi dell’Area Nord che s’incuneano verso la provincia di Caserta. Non solo in Gomorra, quindi, la visione dualistica è problematizzata e soggetta a verifiche. Per esempio, nei romanzi di Montesano le due Napoli, alta e bassa, borghese e plebea, italiana e dialettale, si sgretolano e confondono l’una con l’altra: perché ora al Vomero e Posillipo piove, il mare appare come una lastra grigia e l’aria è irrespirabile; ma anche perché nei due quartieri residenziali e italofoni vivono anche e soprattutto camorristi e nuovi ricchi.
A determinare la messa in crisi del modello delle due Napoli sono, in effetti, alcuni fenomeni che a partire dagli anni Ottanta e Novanta caratterizzano Napoli e il suo hinterland: la moltiplicazione delle periferie; il proliferare di cinture viarie esterne, bretelle e raccordi autostradali; la sostanziale contiguità politica e consumistica tra quartieri “borghesi” e “popolari”; la diffusione dei centri commerciali, che di questa contiguità diventano l’emblema per eccellenza.
Questo allargamento degli spazi non comporta per forza l’oblio di quelli tradizionalmente rappresentati: al contrario, non mancano casi in cui il confronto con la produzione narrativa otto-novecentesca porta a una rilettura attualizzante dell’immaginario topografico tradizionale. Può così accadere che in Magic people di Montesano il “palazzo-microcosmo”, nel suo doppio statuto di luogo della città reale e della città narrata, assuma, di volta in volta, i tratti di uno studio televisivo di un reality show, di un manicomio, di un lager: se nella narrativa napoletana l’interno poteva essere tana, rifugio, cavità materna, esso ora diviene gabbia, prigione.

Tra italiano e dialetto
Che sia rappresentata secondo un modello spaziale duale e centripeto o, al contrario, multifocale e centrifugo, negli ultimi quindici anni l’ambientazione napoletana comporta spesso una caratterizzazione linguistica che si fonda sulla presenza del dialetto e delle varietà d’italiano locale (la diversità dei romanzi di Ferrante è doppiamente significativa, perché proprio quel dialetto rimosso dalla superficie linguistica agisce nella trama e sui personaggi). Certo, le soluzioni sono diverse: c’è posto per gli usi iperrealistici e grotteschi di Magic People, così come per le potenti escursioni stilistiche che, a partire dal dialetto e dall’italiano locale, si registrano in Di questa vita menzognera e Il genio dell’abbandono. Proprio i due romanzi di Montesano e Marasco permettono di mettere a fuoco un ulteriore aspetto. Ciò che è notevole in alcuni romanzi di Napoli non è solo il lavoro sul serbatoio locale e la resa dei fenomeni d’interferenza tra dialetto e italiano, ma anche la qualità stilistica con cui sono restituiti i rapporti tra le altre varietà del repertorio nazionale: la pressione “orizzontale” dei codici della vita quotidiana, l’ampia gamma dei sottocodici delle professioni e dei gerghi, le retoriche dei linguaggi politici e dei nuovi media. Sebbene le soluzioni di Montesano e Marasco, ma anche di Starnone, siano diverse, è però vero che la lingua dei loro romanzi è a un tempo doppia, plurivoca, aperta a spinte centrifughe verso l’alto e il basso. Se si può parlare di ricreazione mimetica di usi linguistici della città reale, è solo a patto di riconoscere che, nel suo complesso, l’efficacia della soluzione proposta da questi narratori trova il suo fondamento nella consapevolezza della inquieta relazione che linguaggio e narrazioni intrattengono con la realtà. Attraverso la postura della voce narrante, i romanzi sono sorretti da una tensione conoscitiva che spinge a sfidare l’opacità che s’interpone tra la pagina scritta e tutto ciò che la circonda; il gusto per elenchi di parole, i fenomeni di correctio e le soluzioni parafrastiche in italiano e dialetto mirano a restituire alla trama la capacità di significare, con la sua alterità, nello scarto e tra le faglie di formulazioni concorrenti.
Un secondo aspetto va evidenziato. La compresenza di registri diversi, l’urto e l’incontro tra italiano e dialetto, i movimenti tra scritto e parlato – in una parola, la polifonia della lingua – rimandano a prospettive esistenziali e sistemi assiologici tra loro in competizione e in contrasto. In Via Gemito di Starnone, il confronto con l’ingombrante figura del padre, persino quando avviene nella forma di un ricordo provocato dal «soffio di vecchissime rabbie», si traduce in una perdita della capacità di «misurare le parole», in uno scivolamento verso le esagerazioni «rozze» e «imprudenti» che Federì era solito affidare al dialetto. Nella produzione di Montesano, sono invece l’italiano locale basso dei cafoni arricchiti e la lingua di plastica dei reality a rubarsi a vicenda la scena e a dispiegare – dagli schermi televisivi, lungo le strade della città, nelle residenze in collina dei nuovi ricchi – il loro potenziale entropico sul narratore: sulla testura linguistica della sua voce, sulle sue capacità di conoscenza e interpretazione del mondo.
Allo stesso modo, il confronto e la tensione tra i personaggi che affollano Il genio dell’abbandono di Marasco assumono consistenza sonora non solo attraverso la mescolanza di italiano e dialetto, ma anche con la ricreazione di un’ampia gamma di registri dell’italiano: sul versante dello scritto, sono abilmente resi gli appunti del dottor Virnicchi sull’internato Gemito; l’asciutta (e, per Gemito, reticente) notazione del registro degli orfani dell’Annunziata con la sua pretesa «di svuotare burocraticamente il mistero di una creatura»; le lettere e le memorie di Gemito, con tutto il campionario di errori tipici delle scritture semicolte, sempre in bilico tra oralità e scrittura, dialetto e italiano. Sul fronte dell’oralità, nel romanzo della Marasco, tra botteghe e bassi, cliniche e “salotti buoni”, le parole e le frasi in italiano, francese e napoletano rincorrono e accerchiano Vincenzo, si mescolano ai suoi discorsi per poi spegnersi nel momento in cui la notizia della sua morte si diffonde in una città che si riscopre smarrita e senza voce per «lacuna» o «pentimento».
Sebbene sia diversa la soluzione proposta, anche nell’Abusivo e in Gomorra (e, in modo tutto sommato non diverso, nella Dismissione) hanno una precisa funzione – stilistica e narrativa – le tecniche di riuso, prelievo e inserzione di un’ampia gamma di testi e parole dei linguaggi specialistici: inserti provenienti da altre sfere mediatiche, brani di articoli di cronaca locale, intercettazioni, verbali d’interrogatori, parole del gergo malavitoso e stilemi della cronaca giornalistica. Separando ciascuno di questi elementi dal suo contesto originario e riposizionandolo nell’architettura del romanzo, Franchini prima e Saviano poi mettono in luce formazioni discorsive e strategie retoriche degli universi di discorso di cui parlano: è anche attraverso questa opzione per un linguaggio capace di ricontestualizzare tessere testuali diverse che prende forma il peculiare timbro della voce che nell’Abusivo e in Gomorra dice “io”. Se questi materiali sono inseriti in una narrazione in cui la dimensione autobiografica è un modo di dizione e una postura etica, è appunto per far sì che il lettore sappia che questa voce si assume la responsabilità di interpretare, valutare, e dire.
Le osservazioni relative alla voce che nei romanzi dice io, ci fanno più decisamente entrare dentro gli ingranaggi dei testi. A questo livello, c’è dunque un altro, decisivo, aspetto della relazione tra spazio e lingue: la funzione che le voci di Napoli hanno sulla storia narrata. In questa prospettiva, un dato va messo in rilievo per i romanzi di Ferrante, Marasco, Montesano, Starnone: le voci della città giocano un ruolo significativo tanto nel costruire l’immaginario spaziale quanto nel definire la relazione tra spazio e personaggi. Infatti, avvolgendoli, quasi sempre minacciosamente, il dialetto e l’italiano di Napoli costringono i personaggi a riposizionarsi all’interno del sistema spaziale della città. In particolare, poiché in Via Gemito, in Di questa vita menzognera e nei romanzi di Ferrante la narrazione è autodiegetica, l’assedio di voci che si è appena descritto minaccia in primo luogo quella del protagonista: è la stessa voce narrante a doversi modulare in relazione a questo assedio, a dover rifiutare “le voci degli altri” o assumerle come parte integrante del proprio timbro attraverso mosse e contromosse di riposizionamento: discendere, risalire, riattraversare, fuggire, sono allora tutti movimenti possibili nello spazio urbano. Se muoversi nella propria città significa anche muoversi nel tempo, attraversare Napoli ha per il narratore-protagonista una precisa funzione: quella di ripercorrere la storia, personale o collettiva, dei luoghi, al fine di verificare attraverso quali parole e in quali forme esperienza e memoria possano essere nuovamente dicibili. Non sarà, quindi, sorprendente il fatto che il narratore-protagonista di Via Gemito possa trascorrere «tutto il pomeriggio a cercare date, identificare spazi, trovare proposizioni per immagini fluide». È infatti il nesso tra la forma dei luoghi e la quantità di passato, personale e collettivo, che ciascuno di essi custodisce a spiegare perché nei romanzi di Napoli siano privilegiati alcuni movimenti; sono infatti proprio gli attributi che definiscono la densità spaziale della città — stratificazione storica del tessuto urbano, verticalità dello sviluppo, presenza di cavità sotterranee — a favorire l’investimento narrativo e simbolico nei movimenti di discesa, nelle posture e nei gesti effrattivi.

I movimenti che parlano
Con un movimento di discesa e una rocambolesca fuga notturna prende avvio Il genio dell’abbandono. Scappato dalla casa di cura, Vincenzo Gemito si sottrae ai possibili inseguitori percorrendo «la via più lunga e disturbata dai ricordi»: la buia e ripida strada del Moiariello, che congiunge la collina di Capodimonte alle vie del centro greco-romano. Minacciato da latrati di cani e voci del passato egualmente terribili, Vincenzo si muove tanto più avanti nello spazio quanto più indietro nei ricordi e nel tempo, fino all’attimo-zero in cui tutto ebbe inizio, con un rumore che parla di abbandono e rifiuto: il tonfo del neonato nella ruota dell’Annunziata.
Non sembrano estranei alla spazialità verticale tipica di Napoli anche i tentativi di discesa negli scantinati e nei sottoscala di un rione di periferia presenti nei romanzi di Ferrante, così come è certamente connesso alla topografia cittadina il movimento ascensionale delle protagoniste dal Rione alle colline di Posillipo e, poi, da Napoli a Roma, Firenze, Torino. A loro volta, nei romanzi di Montesano l’immagine di Napoli come città verticale viene sottoposta a riletture e aggiornamenti. Il tradizionale modello verticale e centripeto s’interseca con un altro, centrifugo, verso la periferia diffusa che si distende tra Caserta e Napoli; inoltre, la discesa e l’immersione nel ventre non riattiva energie ma sconvolge, destabilizza e riporta a galla detriti, rifiuti, cadaveri: «il residuo non ulteriormente consumabile» (come lo ha definito Giancarlo Alfano) che Napoli deposita dentro di sé.
A ben vedere, anche in due narrazioni come La dismissione e Gomorra, certo diverse dai romanzi appena analizzati, è possibile riconoscere zone testuali in cui la postura “effrattiva” del narratore e il suo sguardo attento alle manipolazioni inflitte al territorio concorrono a descrivere Napoli e il suo hinterland come spazi cavi, sagomati prima dalla natura e poi divorati dagli interessi economici: ridotti, alternativamente, a nudi scheletri o corpi rigonfi. Gesti e immagini che parlano di violazioni ed effrazioni costellano il libro di Saviano. Basterà un esempio: alle violazioni che la camorra infligge allo spazio-corpo di Napoli e del suo hinterland (il porto «ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri», il «cranio nudo della provincia napoletana», il «ventre molle di Forcella» violentato dalle sparatorie), corrisponde, uguale ma di segno contrario, il movimento con cui Roberto entra nella grande villa, vuota ma ancora controllata dal clan, del boss Walter Schiavone: qui il protagonista compie il gesto «idiota» e liberatorio di svuotarsi la vescica in una sontuosa vasca che, come tutto il resto dell’arredamento, è ispirata a quella di Tony Montano, il gangster cubano di Scarface.
Non è un caso, dunque, se, il lettore della Dismissione è tentato di dare particolare valore simbolico all’esplorazione notturna che Vincenzo Buonocore, il protagonista, conduce attraverso l’Italsider: «senza più fumi né fiamme; senza più voci, richiami, sibili, sfrigolii; senza l’inconfondibile miscela sonora propria dello stabilimento che non si ferma». Infatti, nella decisione di introdursi di notte all’interno della fabbrica si manifesta con chiarezza l’atteggiamento del tecnico specializzato, che al silenzio e alla liquidazione dei reparti, risponde con la precisione e il rigore «assoluti» con cui esegue il suo ultimo compito: smontare le colate continue. Nella narrazione di Rea-Buonocore, muoversi con movimenti esatti, nominare secondo tassonomie precise, disegnare mappe, stendere inventari sono tutti gesti e operazioni attraverso i quali riprendere possesso, almeno sul piano emotivo e memoriale, di quegli spazi ormai vuoti che vengono sottratti alla classe operaia, così come prim’ancora, proprio collocando la grande fabbrica in un «sito di vulcaniche bellezze e acque benedette», le erano stati sottratti aria e mare. Insomma, anche per Rea, entrare nelle cavità significa opporre alle verità opache delle cronache e delle versioni ufficiali, una “storia” che riverberi sulla pagina scritta il senso della relazione tra spazi e uomini, e del dialogo tra le loro voci.
Proviamo a concludere: oltre alla loro intima solidarietà, scelte stilistiche, postura narrativa, statuto gnoseologico ed etico della voce narrante ci hanno consentito di mettere a fuoco l’importanza che nella costruzione delle trame e dei personaggi hanno i movimenti nella rete spaziale e sonora di Napoli. L’attraversamento degli spazi è anche un attraversamento delle voci e delle lingue: gli uni e le altre non funzionano come fondali «docili» e remissivi; piuttosto, distorcono i percorsi dei personaggi, li costringono a traiettorie di allontanamento e ritorno, a effrazioni e discese. Chiedono di ascoltare e ricordare, di narrare, e comprendere.

Bibliografia minima
Un quadro sull’imagery di Napoli nel romanzo del secondo Novecento è offerto da G. Alfano Un ‘vivere pieno di radici’. Il modello spaziale di Napoli nel secondo Novecento, in Id., Paesaggi mappe tracciati. Cinque studi su letteratura e geografia, Napoli, Liguori, 2010, pp. 91-150; sull’alterità geografica e culturale della Napoli dell’Amore molesto, v. anche Tiziana de Rogatis, Elena Ferrante e il Made in Italy. La costruzione di un immaginario femminile e napoletano, in Made in Italy e Cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea, Palermo, Palumbo, 2015, pp. 288-317.
Modellizzazioni del repertorio linguistico di Napoli sono illustrate in N. De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, in «Lingua e Stile», 37, 2002, pp. 123-157; su dialetto e italiano di Napoli si può leggere ora N. De Blasi, Storia linguistica di Napoli, Roma, Carocci.
Analisi degli impieghi di italiano e dialetto nei romanzi e nelle narrazioni di Ferrante, Montesano, Rea, Saviano, Starnone sono in P. Bianchi, La funzione del dialetto nella narrativa di autori campani contemporanei, in La città e le sue lingue, Napoli, Liguori, 2006, pp. 267-280; C. De Caprio, La città lebbrosa, la smorta terra e il mare. Dimensioni linguistiche dello spazio urbano tra fictio e realtà. “Di questa vita menzognera” e “Magic People” di Giuseppe Montesano, Dante & Descartes, Napoli, 2006. Di molti dei testi qui esaminati, in relazione agli assetti della narrativa italiana, scrive G. Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), in «Allegoria», 57, 2008, pp. 95-136.
Per la rappresentazione del femminile e del materno in Ferrante ho tenuto presente S. Milkova, Mothers, Daugheters, Dolls. On Disgust in Elena Ferrante’s “La figlia oscura”, in «Italian Culture», 31/2, 2013, pp. 91-109; Tiziana de Rogatis, L’amore molesto di Elena Ferrante. Mito classico, riti di iniziazione e identità femminile, in «Allegoria», 69-70, 2014, pp. 273-308 e i saggi raccolti in The Works of Elena Ferrante: Reconfiguring the Margins. History, Poetics and Theory, New York, Palgrave Macmillan, 2016 (si veda, per l’attenzione alla categoria del post-umano, il contributo di Enrica Maria Ferrara).
Un accesso alle questioni relative all’autofiction, alla dicotomia fiction/non-fiction e allo statuto della voce narrante nella produzione di Saviano è offerto da C. De Benedetti, F. Petroni, G. Policastro, A. Tricomi, Roberto Saviano, “Gomorra”, in «Allegoria», 57, 2008, pp. 273-308; A. Casadei, Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, in Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, a c. di H. Serkowska, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 3-21 e R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014, in particolare pp. 190-195; con attenzione al passaggio di medium, v. M. Moccia, Raccontare Gomorra, in «Between», 5/10, 2015; per aspetti della relazione con lo spazio e l’ambiente, v. N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Roma, Carocci, 2017, pp. 157-162.