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Pianure verticali, pianure orizzontali

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di Giacomo Sartori

Quella che segue è l’introduzione a “Luogo a procedere”, volume ibrido recentemente pubblicato da Tarka Edizioni, con un lungo racconto iniziale di Roberto Carvelli (“La Liguria che manca”), sorta di prologo all’antologia – che segue – di frammenti degli scrittori liguri Marino Magliani e Marco Ferrari; il tutto accompagnato da fotografie dello stesso Carvelli, e con una postfazione geografico/ambientale del naturalista Lorenzo Galbiati (GS)

Chi conosce intimamente la Liguria non può dimenticare che la Terra è fatta di montagne e di mare, e che le pianure in molte sue zone sono eccezioni. Non può dimenticare che i corsi d’acqua nascono nelle montagne e vanno nel mare, portandosi dietro minuscole scagliette di miche che luccicano nel sole o quando si arrabbiano anche pezzi di muri e di case. Non si dimentica che nei torrenti ci sono le trote che si muovono nervose, e nelle pozze stagnanti le rane e le cannucce amate dagli uccelli. E che sotto le ginestre c’è la terra, sempre poca, e sotto ancora le rocce verdi o bianche o grigie, a seconda delle zone. Non ignora che il cielo fa la giunzione tra le terre e il mare, e quindi a ben vedere è un tutt’uno, anche se nelle nostre teste raziocinanti dissociamo opposizioni e contrari, e perdiamo la visione d’insieme.

I coltivatori liguri non avevano vaste pianure, e allora si tenevano stretti i loro pianelli, che erano risicati e in genere nemmeno davvero piani. La loro pianura l’hanno costruita rompendo le pietre e erigendo muri e ancora muri, spostando con i secchi la terra: ogni terrazzetto ne è uno spicchio. Messe tutte assieme le fasce formavano i vari settori della pianura ligure, ognuno appeso ai ripidi fianchi delle montagne come un basto. Ogni piana verticale era diversa, perché le rocce vulcaniche verdi come i serpenti non hanno niente a che fare quelle bianche dure e magre o con le marne remissive e generose. In ognuna bisognava, comunque, faticare per salire la mattina, e per tornare giù in paese la sera.  A meno che la discesa non fosse la mattina e la salita all’imbrunire, nemmeno i paesi erano tutti uguali. Nessuno meglio del narratore ponentino Marino Magliani ha raccontato queste superfici sempre diverse e sempre uguali, e i loro frequentatori abituali o anche clandestini.

I contadini liguri, che i romani consideravano mezzi selvaggi, ma che ammiravano per la resistenza e la forza quando combattevano nei loro ranghi, sapevano che la terra è scarsa è fragile, se non si fa attenzione frana a valle e si perde, si sversa nei torrenti e va a diluirsi nel ventre del mare. È proprio per conservarla che si sono ammazzati di fatica per costruire gli scaloni di muretti dalla costa fin più su che si poteva, nel regno dei castagni. Hanno cominciato già in epoca preistorica, dicono gli specialisti, per i cereali e le viti, e poi ci hanno dato dentro in maniera massiccia quando si è imposto l’olivo, già molto più vicini a noi. Erano investimenti per le generazioni future, che richiedevano coordinato lavoro comune, per il bene di tutti. Del resto per lunghissimo tempo i terreni appartenevano alla comunità, non ai singoli.

 

 

Gli abitanti della Liguria non hanno dimenticato che il sole è a levante o a ponente, è che è bene saperlo per organizzarsi in conseguenza. È fondamentale non scordare che è il sole che scalda le foglie e le fa crescere, e l’inverno intiepidisce le facciate delle case. Loro però ne hanno fatto una divisione filosofica, non solo di angolazione dei raggi e geografica, e potrebbero disquisirne all’infinito. Durante le guerre puniche le due fazioni erano addirittura nemiche, combattevano nei due campi avversi. Gli abitanti di molte altre regioni non sanno più come sono orientati rispetto al sole, per loro non ha alcuna rilevanza.

Chi conosce la Liguria non può dimenticare che ogni scorcio del suo territorio si porta dietro l’impronta dell’uomo, che tutto quello che si vede è modellato e artefatto nel corso dei secoli e dei millenni, che in ogni fazzoletto si sono succedute generazioni e consuetudini e battaglie, che non è stato facile sloggiare dalle foreste e dalle schiene dei poggi le divinità pagane. Gli abitanti delle pianure orizzontali sono convinti che da che mondo e mondo ci siano sempre stati i campi squadrati che sono abituati a vedere, con la trama di campanili e capannoni, non subodorano le foreste di ontani a bagno nell’acqua e i querceti e i cacciatori nomadi che c’erano prima.

I liguri sanno da sempre che le città rubano terra alle pianure. A loro non restava altra scelta che incastrarle tra le montagne e il mare, stringendo le vie e alzando in altezza i palazzi, o arroccarle sulle alture pietrose, dove certo non si sarebbe potuto seminare. Paradossalmente sono proprio le strutture urbane più legate al passato che ci appaiono ora più in sintonia con il presente. Quelle più recenti hanno spesso una desolazione di sfacelo postsovietico.

Il mondo moderno ha bisogno di vie veloci per far viaggiare le merci e le mercanzie, e la Liguria non s’è tirata indietro. Nel suo Il bambino e le isole Marino Magliani ha dato un ruolo di protagonista alla testarda ferrovia ligure appostata tra gli scogli e gli scoscendimenti. Ma anche il nastro veloce di asfalto è stato cesellato non lontano dalla piana del mare: un ricamo di ponti sospesi e di intagli nelle creste e di fori nelle montagne, che fa capolino in tanti libri dello stesso Magliani. Anche le autostrade interne hanno lo stesso stile. Su quelle pianure di cemento e catrame ritagliata nel cielo sfilano come funamboli milioni di camion e di autovetture, i cui conducenti guardano senza empatia i costoni, per semplice noia, come si guardano le pareti aspettando dal dottore.

 

 

Chi ha a cuore la Liguria, e non solo le sue profferte più scontatamente commerciali, non può invece non vedere i danni che hanno fatto gli uomini da quando si sono montati la testa con i motori e il petrolio. Vede i muri che crollano, aprendosi alla morte come addomi squartati che lasciano sgusciare fuori le loro interiora, la loro terra preziosa. Le fasce sono state abbandonate perché troppo risicate per i mezzi meccanici, che il più delle volte non potrebbero nemmeno accederci, figuriamoci rigirarsi. Per l’agricoltura attuale ci vogliono campi immensi e regolari, già da diversi decenni l’ostinazione e la fatica non bastano più. Le pianure verticali hanno cominciato allora a franare, perché gli eleganti muri a secco invecchiano in fretta, se nessuno li accudisce. In molte zone le fasce sono state colonizzate dalle serre, che impediscono alla terra di assorbire la pioggia, la incanalano in rivoli che scalzano i muri e fanno molti danni. Dove persistono si sono spesso metamorfosati in tozze pareti di cemento armato, quasi per conformarsi alle sgraziate costruzioni che hanno colonizzato ogni centimetro accessibile, e allora in inverno l’acqua in eccesso non sa dove sgrondare.

Gli abitanti delle pianure orizzontali non vedono i guasti nei campi rigogliosi di verde chimico, non pensano che le acque sono avvelenate e l’aria è impestata. In Liguria i disastri dell’incuria e dell’assalto impietoso saltano agli occhi, nessun osservatore responsabile può fingere che non si notino. A chi si ferma a riflettere i muri a secco spanciati e i rovi appaiono rimproveri per lo sprezzo dei nostri tempi, i palazzacci di cemento sono la misura della nostra tracotanza. Tutto è insomma più esplicito e brutale.

Gli abitanti della Liguria hanno sperimentato da tempo che ogni terra che racchiude bellezze accoglie viaggiatori che vengono anche da molto lontano. I viandanti assetati di bellezza avevano gli occhi freschi e curiosi, vedevano ogni cosa come se fosse nuova, l’apprezzavano di più di chi ci abitava da sempre. Guardavano con deferenza i porticcioli e le chiese e le case, ma spesso anche le agavi e le querce e le rupi. Sapevano scovare il fascino anche dove chi ci abitava non lo sospettava, per esempio nell’architrave di castagno di una porta decrepita o nell’acciottolato di un carrugio.

In Mare verticale Marco Ferrari ha cartografato la quantità incredibile di scrittori e artisti e intellettuali che si sono in qualche modo incrostati alle varie località sulla costa o nell’immediato retroterra delle Cinque Terre. Questi amanti della grazia e del sole tiepido si sono spesso legati a personaggi e comunità locali, e attiravano in zona altre personalità del loro giro. Il catalogo di nomi e relazioni che ne risulta è impressionante, non credo ci siano corrispettivi in altre regioni italiane. Considerando anche gli artisti locali, tutta la costa ligure ha rigurgitato per decenni di arte, e spesso s’è incistata nelle opere. Spesso i paesaggi dei quadri e dei romanzi non rispettavano pedissequamente la realtà, spesso erano più aspri e selvaggi, o anche più dolci e rarefatti, ma cosa importa, il fine dell’arte non è certo riprodurre le apparenze come uno specchio.

Anche nei tempi presenti arrivano in Liguria queste anime che cercano il silenzio e la bellezza, che sanno scovarla. Approdano fuori stagione, o anche se ne stanno rintanati nelle loro tane di incanto, uscendo allo scoperto per cammini traversi: sanno come evitare le folle e tutte le trappole. Nonostante la loro raffinatezza e la loro cultura fanno pensare a accorti animali selvatici. E non a caso è proprio con gli animali non addomesticati e con le selvatichezze della natura che sono più in sintonia. Roberto Carvelli è uno di questi. Sa come muoversi nell’ombra del sottobosco e dei chiostri, sa come non dare nell’occhio. Sa che il mare è accessibile solo all’alba è al tramonto, poi diventa pericoloso. Sa come andare a ammirare le vestigia del passato senza lasciarsi disturbare. È abituato a queste sue strategie partigiane, e le ama: soffre quando è lontano. Ripensa con nostalgia alla Liguria, e ha solo desiderio di ritornarci.

Molti abitanti della Liguria ne avevano però abbastanza della fame e della ristrettezza dei carrugi e di molti scorci che a noi avidi di bellezza appaiono così affascinanti. Sarebbe sbagliato idealizzare il passato, quello che per noi è struggente grazia per loro era carcere di fatiche e sudore, di futuro senza speranze, schiavitù di salire e scendere le balze senza mai mangiare a sazietà. Cedevano allora alla tentazione di fuggire via nel mare, avendolo così vicino l’allettamento era irresistibile, e si imbarcavano. Andavano in capo al mondo, desiderosi di trovare del pane e del companatico che costassero meno tormenti. Lavoravano duro e bene, questo lo avevano nel sangue, e facevano figli lì, vivendo come se avessero dimenticato da dove provenivano. Non riuscivano però a non pensare ai chiaroscuri degli olivi e all’odore resinoso dei limoni, alla linea del mare che incontra quella del cielo. Molti esuli delle storie di Marino Magliani si portano dietro la Liguria nel respiro e in fondo agli occhi.

Ormai da tempo, Marco Ferrari lo constata nei suoi testi che sono nitide fotografie dei paesaggi, tra i visitanti prevalgono le orde che hanno furia, sanno quello che vogliono e vogliono vedere soddisfatti i loro impellenti e precisi bisogni. Ottengono gli appagamenti per i quali sono venuti, a volte in un solo giorno, e poi se la filano. Pagano per mangiare nelle trattorie posticce, per dissetarsi e leccare gelati, per sdraiarsi sotto un ombrellone, per ormeggiare la loro barca, per parcheggiare i veicoli e passeggiare nei borghi. Tutto ha un prezzo preordinato, le regole del gioco sono in realtà molto facili. Per chi se lo può permettere ci sono sistemazioni lussuose e sollazzi da favola, che si portano dietro l’eco dei fasti turistici passati, è la specialità della casa, ma si viene incontro prima di tutto alle tasche con meno possibilità. Poi i rumorosi consumatori di bellezza ripartono, e chi s’è visto s’è visto. Non si può biasimarli, perché è il nostro mondo che corre veloce e mercifica ogni cosa, considerando la natura vivente – quella che ci fa vivere anche a noi – una miniera da esaurire o uno sfondo per le fotografie, senza valore intrinseco. Non è solo la moneta corrente del turismo. E certo la bellezza non può più essere riservata per pochi eletti, senza beneficiare anche gli altri.

 

 

Marino Magliani la sa lunga sui rivolgimenti che il tempo ha impresso alla sua regione a forma – e lui sa che niente è casuale – di boomerang. Li ha vissuti sulla sua pelle e li conosce in profondità. Ha visto scomparire nel nulla un mondo legato mani e piedi alla terra che sembrava dover essere eterno, ha visto dilagare il cemento sulla costa e le speculazioni edilizie. Ha visto i giramondo del nord comprare le case malmesse del suo paese e ristrutturarle, ha visto i loro figli rivenderle a un’altra generazione di nordici migratori quando loro erano vecchi. Conosce le vicende dei partigiani che sulle balze e nei boschi si sono battuti e sono morti per la libertà e per un mondo migliore. Tutti questi elementi sono presenti e costituiscono il tessuto delle sue storie. Lui vive da decenni lontano, visto che è stato spiaggiato dalla vita su una fredda costa del nord battuta dal vento e dalle tempeste, ma con le sue lunghe antenne ancestrali capta tutto.

Lui però non fa confronti, non pontifica. Non ha rimostranze, non prova risentimento. Osserva quello che vede, senza giudicare e senza tirare conclusioni. Non gli interessano i meccanismi generali, lo intrigano i gesti e le parole del presente, effimeri ma a ben guardare anche abissali. Sa per istinto che la sola verità delle esistenze è quella, tutto il resto sono raziocinamenti e illazioni che valgono quello che valgono. Registra quindi quello che c’è adesso, o insomma nell’adesso delle sue storie pregnanti. Il risultato è ancora più implacabile di una denuncia esplicita.

 

 

 

 

V.C.B.*

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di Giancarlo Busso 

 

Il cortile della cascina era in catrame. Il catrame in estate è diventato un problema, ma questo non accadeva quaranta anni fa. Arrivavano camion pieni di bestiame dalla Francia, alcuni camion avevano milioni di chilometri percorsi e potevano ancora percorrere il periplo della terra, tante volte quante era necessario per ritornare qui nel cortile di catrame. Il camion aveva delle sbarre, dai fori si defecava e urinava, stavamo tutti in piedi perché accovacciarsi in riposo poteva essere pericoloso, venivamo calpestati da altri, nelle curve delle montagne, nelle buche della strada, nella guida frettolosa dei camionisti per milioni di km.  Quindi tutto si poteva ripetere, finché non scendevamo nella stalla. Prendevano posto alle catene ed erano nutriti con latte in polvere per sei mesi, poi erano carne. Questo era quello che E. voleva, solo carne bianca, e il macello la serviva. Ma il bestiame aveva sete e prima ancora occhi grandi, e bocche affamate e intestini spruzzanti per i colpi di calore, e tutto questo non era che un episodio nei milioni di episodi di una apocalisse di carne bianca.  Il cortile aveva un’entrata, ma l’entrata era anche un’uscita e tutto il mondo entrava e usciva da lì. E. passando si chiedeva perché il portone era sempre aperto. Tutto il mondo poteva entrare e tutto il mondo poteva uscire, a pensarci non c’era un punto di arrivo oppure di partenza, ma in entrambi i sensi si poteva procedere solo osservando l’intero cortile. Il cortile aveva infine un confine con la stalla dove venivano deposti i sacchetti di latte in polvere, la polvere era bianca. La polvere aveva un odore invitante prima di colazione, prima di pranzo, prima di cena. Non era molto tempo che erano morti i proprietari per un improvviso malessere, una intossicazione misteriosa di una muffa bianca che cresceva e si replicava in forme inquietanti. La muffa è ovunque, le stanze sono piene, non c’è più nessuno in quelle camere. La vita terrestre è terminata, ora una chiazza bianca occupa ogni cosa. Quando uscendo si trovavano delle figure muoversi nel cortile verso la stalla, non avevo la sensazione che fossero umane, ma cumuli di materia che si trascinava, i loro gesti scomparivano prima che il bestiame salisse al macello.

 

*Da una intervista a un produttore: “…L’allevamento del V.C.B. (vitello a carne bianca) acquista una forma professionale a cavallo degli anni ’70 sulla scia dello sviluppo del sistema zootecnico sia da latte che da carne, cioè dell’allevamento intensivo. La premessa sono le disponibilità di latte in polvere, a prezzi contenuti, proveniente da vari paesi europei (Francia, Olanda e Germania) come conseguenza della forte produzione lattifera non assorbita dai consumi e che quindi dava luogo ad eccedenze. Inoltre la carne prodotta ha trovato un buon riscontro presso il consumatore…”

“STAFFETTA PARTIGIANA” concorso letterario

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Nazione Indiana promuove un concorso per racconti e scritture brevi inedite sulla Resistenza e la Liberazione.

[Aggiornamento 2 febbraio 2025] Ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo. Cominceremo a breve le letture dei testi.

Nazione Indiana ha deciso di onorare l’80esimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo, che si celebrerà il 25 aprile 2025, con un concorso per testi inediti.

Il concorso è rivolto agli under 35 perché pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza.

La nostra iniziativa può fare per te se hai meno di 35 anni e ami le storie della Resistenza, le storie di chi ha lottato per liberare l’Italia dal nazifascismo.

Pensiamo che valga la pena di leggerle e narrarle ancora perché la memoria storica cambia, si evolve, ma raccontare la Resistenza non perde il proprio valore morale e politico, anzi farlo diventa ancora più importante nell’Italia di oggi, governata da forze che non hanno mai fatto i conti col proprio passato fascista e neofascista, che non lo rinnegano, che al contrario lo alimentano e lo tengono più in vita che mai.

Se ti vuoi mettere in gioco provando a raccontare in un testo – in un racconto appunto, o una biografia, o una scrittura breve o ibrida – una storia della Resistenza e della Liberazione, ecco le regole d’ingaggio di questo concorso:

  • I testi inediti (inediti anche sul web) dovranno essere lunghi minimo 12mila battute e massimo 24mila battute spazi inclusi. I testi che non rispetteranno questa lunghezza non saranno letti.
  • Dovranno essere inviati in formato .doc alla mail staffettapartigiana.ni@gmail.com.
  • La data ultima per la ricezione dei materiali è il 31 gennaio 2025.
  • Per comunicare l’età del mittente basterà un’autocertificazione.
  • Le redattrici e i redattori di Nazione Indiana leggeranno e valuteranno i testi e i migliori saranno pubblicati su Nazione Indiana a partire dal 25 aprile 2025.
  • Il racconto che giudicheremo più riuscito sarà premiato con la pubblicazione su Nazione Indiana il 2 giugno 2025, e il suo autore sarà invitato a leggerlo in occasione della Festa annuale di Nazione Indiana.
  • I migliori racconti ricevuti saranno poi raccolti in un e-book che si potrà scaricare gratuitamente dal sito di Nazione Indiana.
  • Hai carta bianca e piena libertà di invenzione, oppure puoi ispirarti a una storia realmente accaduta, usando e citando documenti e fonti, attingendo dagli archivi, dalle biblioteche o dalle risorse online.

Aspettiamo di leggerti!

VOLANTINO STAMPABILE PER CHI VOLESSE DIFFONDERE LA NOSTRA INIZIATIVA

Guerra e pace tra Tommaso Landolfi e la sua terra

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Tommaso Landolfi in un ritratto di Mario Ritarossi (1988)

di Tarcisio Tarquini

Il palazzotto seicentesco, che fu della famiglia Landolfi ed ebbe come ultimo abitante Tommaso, con la giovanissima moglie Marisa e i due figli Idolina e Landolfo (rispettivamente la Maior, la Minor e il Minimus dei grandi diari “Des Mois” e “Rien Va”) sta nella parte alta di Pico, in un quadrante delimitato da vicoli, i due laterali che accompagnano la pendenza del colle. É protetto da mura che lasciano solo immaginare il giardino un tempo fiorente, oggi bruttato, dice chi lo ha visitato di recente, dai segni e dalle conseguenze del lungo abbandono. È il maniero nel quale venne Eugenio Montale, trovandovi ispirazione e immagini per la elegia di Pico Farnese ma che fu inaccessibile a tanti altri ammiratori dello scrittore, che poi non seppero resistere alla letteraria tentazione di raccontare i vani tentativi per penetrarne l’intimità.

É dalla morte di Tommaso Landolfi, avvenuta – lontano da qui – l’8 luglio del 1979, che si discute del destino di questa casa che, accertato naturalmente il favore della famiglia, sarebbe dovuta essere da tempo acquisita al patrimonio pubblico e tutelata come si conviene a un luogo di tali memorie, ma è da quel momento, appunto, che ogni volta che lo si è tentato polemiche di ogni tipo ne hanno compromesso e frenato il buon esito. In queste settimane sembra essersi arrivati a una svolta, il comune nel prossimo mese di novembre entrerà in possesso di casa Landolfi, ma per farne cosa non è ancora ben chiaro. A Pico se ne discute animatamente, c’è chi non nasconde il malumore per il mutuo contratto che prosciugherà le povere casse comunali per i prossimi decenni, altri intravedono, invece, le opportunità che nasceranno dall’aver salvato un bene prestigioso, uno dei luoghi più misteriosi e evocati della letteratura italiana del novecento. A ben vedere, comunque, si tratta prima di tutto di un risarcimento, un atto di pacificazione, di reciproco riconoscimento, di una terra con il suo scrittore più grande e di lui, tramite i suoi diretti famigliari, con la sua terra, di cui finalmente può diventare ciò che finora non è mai stato: un tratto di identità.

In questo scritto, dunque, parlo di Tommaso Landolfi e di “scene di vita di provincia”: alludo al rapporto dello scrittore con la sua terra, alle ragioni di quella felicità di scrittura di cui egli confessa di riempirsi a Pico e non da altre parti. Mi riferisco, inoltre, a una polemica che fu in un certo senso la plastica rappresentazione della diffidenza con cui la provincia, che non egli non accetterà mai di riconoscere come sua, guardò Landolfi, ricevendone in cambio un sentimento assai vicino al rancore. E concludo con un episodio – un convegno, un libro – che, forse, fu un primo passo di riavvicinamento, un omaggio non formale arrivato tardi ma non inutile.

Scena uno. A Pico, una doppia sospensione dell’incredulità

La mia tesi landolfiana è del 1976, la chiesi e ottenni da Walter Pedullà, che di Landolfi si occupava anche dal versante della cosiddetta critica militante, una definizione con la quale si intendeva – non so se oggi, in un’età di crisi di tutte le militanze sia ancora così – quell’attività a metà tra giornalistica e saggistica che trova la sua sede più immediata sui giornali. Nel caso di Pedullà erano le fittissime pagine dell’Avanti! piene di segnalazioni di romanzi, libri di poesie, saggi letterari e filosofici generalmente estranei, possiamo dire, al “mainstream” dell’epoca, nelle quali, quindi, trovavano la giusta dimensione i libri di Landolfi, insieme con altri autori, come Giuseppe Bonaviri, anche lui legato alla provincia di Frosinone, accomunati dalla eccentricità delle loro narrazioni, nelle quali la cifra naturalista, che pure continuava a sentirsi, si era trasformata in racconto fantastico grazie a eventi imprevisti, a smottamenti di significato che sembravano voler rivendicare, prima di ogni altra cosa, i diritti della fantasia, lo statuto autonomo della letteratura: un tema questo su cui Landolfi molto insisterà nelle sue riflessioni diaristiche.

Metà degli anni settanta, e un po’ prima, sono gli anni nei quali si pubblicano l’“Horcynus Orca” di D’Arrigo, la “Storia” di Elsa Morante, libri che hanno tutti un respiro, una forza narrativa, un ottimismo sulle capacità conoscitive della scrittura molto distanti dal supposto corto respiro di Landolfi, dalla sua diegesi autoriflessiva, come si è detto di recente, che sembra fiaccare, sabotare, il racconto, anche se poi, in effetti, è essa stessa un racconto: il racconto di uno scrittore infelice, dubbioso, sicuro solo quando il rito della parola, che egli evoca come possibilità, strumento di difesa garantitogli dal suo mestiere, si compie con esiti che a volte paiono imprevisti per lo stesso scrittore.

Negli anni ai quali mi riferisco, e nei quali scrissi la mia tesi su Landolfi che intitolai “Lo stile e la bestia”, in effetti Landolfi poteva sembrare uno scrittore lontano dai gusti e dalle predilezioni di un giovane studente di lettere di una università italiana negli anni settanta, ancora segnati dalla ricerca di una letteratura civile, impegnata, contenutistica, partigiana fino ad escludere o guardare con diffidenza tutto ciò che muoveva in direzioni diverse. La stessa attenzione dei critici letterari, pure contraddistinta da nomi autorevoli che hanno fondato la critica landolfiana e sono un punto di partenza valido ancora oggi, non andava al di là della recensione dell’ultimo libro stampato, come testimonia – potremmo dire “per tabulas” – la stessa ampia rassegna bibliografica, raccolta e distinta anno per anno da Idolina Landolfi, che troviamo nei due volumi de “Il piccolo vascello solca i mari”, pubblicati nel 2008 che rappresentano un autentico testamento di scienza e di affetto che lei, la Minor, ha intestato al padre con la sua ultima fatica. poco prima di morire.

Idolina, nella sua introduzione al primo volume rizzoliano delle Opere scrive “sia detto per inciso e una volta per tutte che la maggior parte della produzione landolfiana – rare sono le eccezioni, almeno sino ai primi anni Sessanta, quando prende dimora quasi stabile altrove – è ascrivibile ai periodi trascorsi a Pico; così l’esame dei manoscritti rivela la norma, sempre in riferimento al lasso di tempo suddetto, una pagina di gran lunga più tormentata nei testi composti altrove, di contro a quella usuale, dotata di pochissime correzioni, spesso risultato di una ‘seduta unica’ notturna”.

La prima delle scene di vita provinciale riguarda questo punto. La “Pietra lunare”, che reca come sottotitolo “scene della vita di provincia” – pubblicato nel 1939 – è un romanzo che ci aiuta a spiegare quello che scrive Idolina, e che aveva già rivelato lo stesso Tommaso, la ragione per la quale lo scrittore scrive a Pico con una facilità che smarrisce in altri luoghi. Penso che in questa condizione c’entri molto il fatto della “sospensione dell’incredulità” di cui la “Pietra Lunare” è una sorta di manifesto, così come è una sorta di manifesto del romanzo che parla di se stesso (una tendenza landolfiana su cui più in generale ha scritto Marcello Carlino). Ripeto cose note: per essere catturati nella lettura di un testo letterario, per seguirlo nelle sue evoluzioni e peripezie è indispensabile che il lettore abbandoni il suo consueto statuto della realtà e si predisponga a credere come verosimili le vicende narrate, a considerarle vere nel contesto dell’universo evocato dalla narrazione. Perché il meccanismo funzioni, però, c’è bisogno di un’altra condizione, che anche il narratore accetti la sua “sospensione dell’incredulità”: non solo il lettore deve credere a quello che lo scrittore racconta, ma anche lo scrittore deve mollare il suo ancoraggio allo statuto della realtà e accettare quello intimo alla storia che sta raccontando; nasce proprio dalla difficoltà a prendere per buono quanto gli detta la fantasia il continuo interrogarsi di Landolfi su quanto scrive. La lotta perché scatti la sospensione dell’incredulità, la sua e del lettore, e il timore che questo non avvenga è il tarlo che Landolfi si porta dietro, è l’ossessione sull’insufficienza della sua letteratura che lo costringe a fermarsi, interrogarsi, vilipendersi, tormentarsi.

Qualcosa avviene, però, a Pico. Ed è la stessa cosa che capita a Giovancarlo, un giovane che torna al suo paese dalla città, che nella prima scena della “Pietra lunare” entra in un ambiente, tra persone che già vivono nell’incantesimo della sospensione dell’incredulità cosicché non si sorprendono, anzi non fanno nemmeno caso, ai primi segni della metamorfosi caprina di Gurù, la protagonista della storia. E passo dopo passo, presumibilmente seguendo, o parafrasando, la stessa traiettoria del lettore, Giovancarlo si metabolizza nel romanzo fino a sentirsi disponibile, pronto, ai suoi racconti e alla loro logica stravolta. Landolfi a Pico diventa Giovancarlo, sospende l’incredulità di narratore e si lascia possedere dalla luna fino a condividere la notte di Gurù, seguendone il cammino fatale, e l’apparizione delle madri, si lascia conquistare dalle sue fantasie, quelle su cui altrove si spunterebbero le sue penne, consumate dai mille dubbi del suo procedere autoriflessivo. Non è solo una praticissima questione di tranquillità e isolamento che Pico garantisce, è la dimensione diversa di un rapporto con la realtà perché è una realtà diversa che dispone a credere all’incredibile, che mette lo scrittore a contatto diretto con una vena immaginativa capace di alimentarne la scrittura che così diventa fluida, obbligata.

La scrittura di Landolfi non è mai facile, è pur sempre segnata – come scrive Debenedetti – dal “massimo di chiarezza al servizio del massimo di procurata oscurità”; resta sempre patinata da una specie di velatura di artificialità. Mi piacerebbe parlare della sua natura di grande, magniloquente scongiuro per sconfiggere il negativo della vita e del mondo. E anche di sottolineare che se la luna è la figura decisiva per far scattare, in Giovancarlo e in altri personaggi landolfiani, la sospensione dell’incredulità, dietro la luna si cela una figura ancora più ammaliante, la bestia davvero centrale di tutto il bestiario landolfiano, il ragno, di cui non serve ricordare il ruolo potente nelle civiltà contadine e lo spossessamento, la perdita della presenza, che provoca e che può essere reintegrata solo con la forza misteriosa dell’esorcismo e del rito.

La luna landolfiana è fatta di materia ragnesca, Gurù come tutte le altre creature lunari, come i lupi mannari e le capremannare a lei sorelle, ne viene punta, diventa, lo dice nella sua litania, “ciascuna ma nessuna”. Lo stesso Landolfi è uno scrittore mannaro, le parole egli le usa, proprio come Gurù, per rinominare le cose, per individuarle, per evitare che finiscano per annullarlo. La sospensione dell’incredulità che Landolfi ci chiede e chiede a se stesso – e che non gli riesce se è lontano da Pico, e solo a Pico trova la sua condizione ideale – non è solamente per tentarci all’avventura piena della letteratura, ma per predisporsi lui stesso al grande scongiuro, al rito che sconfigge l’essenza orrida e innominabile di quello che Debenedetti avrebbe chiamato “il tremendo fenomeno vita”.

Scena due. Frosinone, contrafforti per nulla

Landolfi – è la seconda scena di vita di provincia che propongo – non è uno scrittore presente nell’olimpo delle celebrità e glorie provinciali. Non lo era, almeno, fino a un po’ di tempo fa, quando questa diffidenza, non immotivata e reciproca, tra lui e la provincia, non era stata in parte lacerata da qualche atto riparativo, sia pure compiuto alla memoria.

In questa diffidenza c’è, naturalmente, un dato oggettivo: non può essere intestato a una dimensione provinciale un intellettuale che ha nutrito la sua letteratura di cultura e letture europee e che perciò non viene percepito come parte della stessa famiglia: qualcuno, per fare un nome, come Libero De Libero che con il suo “Ascolta la Ciociaria” ha regalato un canto nobile alla terra ciociara e che, perciò, nella vicenda che sto per ricordare, viene citato proprio in contrapposizione con Landolfi, anche se tra i due, in merito, ci sarà una corrispondenza quasi complice.

L’atto scatenante del ripudio provinciale di Landolfi, che rende esplicita, probabilmente, una antipatia più lontana, è un racconto che lo scrittore pubblica nell’ottobre del 1955 sul Mondo di Pannunzio, su un giornale, dunque, dell’intellettualità radicale e, aggiungerebbero oggi alcuni che non siamo noi, elitaria, radical chic.

Il racconto si intitola – ma Landolfi sembrerà poi prendere le distanze dal titolo – “I contrafforti di Frosinone”. Lo leggiamo, con qualche minima variazione, documentata da Idolina, rispetto al testo pubblicato dal giornale, nel volume “Se non la realtà” uscito nel 1960 e che ritroviamo contenuto nel secondo volume delle Opere complete, pubblicato da Rizzoli nel 1992, con una nota della stessa Idolina nella quale si fa riferimento alle “divertenti” reazioni che il racconto, quasi quaranta anni prima, aveva suscitato.

Landolfi, in quell’articolo, certo non sfuggitogli di mano se, perdendo il carattere di occasionalità giornalistica, sarebbe entrato a far parte di un suo libro, aveva raccontato, cominciando dalla stazione di partenza delle corriere a Castro Pretorio a Roma, di un viaggio di ritorno al suo paese, con sosta nella città che “con felice eufemismo – scrive – è stata definita capitale della Ciociaria”. “Con felice eufemismo – spiega subito – perché non è intanto chi non veda che ha un brutto nome: Frosinone”. “I suoi partigiani medesimi – insiste – devono confessare la sgradevole impressione indotta da questo falso accrescitivo (…). Frosinone!”. “Un nome – scrive ancora – che par fatto apposta per evocare facce aduste e camuse di pacchiane con relativo fazzoletto da capo”, e del resto “come dimenticare che nel teatro popolare romanesco, quello da periferia, c’era sempre, prima che il fascismo attribuisse a questa città grado di capoluogo, qualche personaggio che per far sghignazzare gli spettatori e coprire un altro di ridicolo gli chiedeva se fosse di Frosinone?”. Dei contrafforti, subito dopo aver evocato le mura di Volterra, le mura ciclopiche, gli spalti di Tebe e Ninive, scrive che essi sostengono “una gialla casuccia in stile novecento”, cioè il “mero nulla” e poi, rimettendo nel mirino memorie e tradizioni frusinati “(lui preferirebbe “frosinonesi”) ironizza acidamente che è difficile trovare in Italia “una città che non offra alcuna testimonianza dei suoi gloriosi passati (…) ma come la nostra Frosinone dimostra non impossibile”.

Al furore polemico di Landolfi non sfuggono i santi patroni di Frosinone, il nome altolocato “con dovizia di acche e dittonghi alla latina” di un’osteria che fa da stazione di sosta delle corriere dirette – come quella dello scrittore – verso il sud della provincia, un premio di pittura istituito di recente e una gazzetta “ciociara o di Ciociaria” che ha pure l’ambizione di avere una sua pagina culturale. Per concludersi con l’argomento principe della contestazione, quello che si palesa come la vera miccia che ne ha fatto esplodere il rancore, l’innalzamento, per decisione di un regime dittatoriale, di Frosinone al rango di provincia con annessione del suo luogo d’origine, un paese che era stato sempre nella provincia di Caserta, sebbene “né la sua lingua, né le sue tradizioni ebbero mai nulla a che vedere con ciò che ancora qualche vecchio chiama lo stato romano: di qua Longobardi, Normanni, Angioini, di là papi e loro accoliti; di qua una lingua tipo napoletano abruzzese di là una specie di romanesco suburbano; a non tener conto poi di tutto il resto”.

Ce ne era, dunque, abbastanza per provocare la replica, nel seguente mese di novembre, della Gazzetta Ciociara, un quindicinale diffuso prevalentemente per abbonamento che affidava il compito di rintuzzare le parti più velenose dell’intervento di Landolfi a un suo collaboratore illustre, Anton Giulio Bragaglia.

L’articolo, posizionato in prima pagina con il titolo “Frosinone e i falsi ciociari” veniva preceduto da un corsivo del direttore Giulio Celletti, che elenca i collaboratori più illustri della terza pagina del giornale, tra cui il già ricordato De Libero, informando nello stesso tempo, con una punta di veleno, che dal momento della sua fondazione, due anni prima, il periodico veniva inviato regolarmente in omaggio a Landolfi, senza aver mai ricevuto da lui segni né di apprezzamento né di ringraziamento.

Quello che, però, qui vorrei sottolineare è il livello della risposta di Bragaglia che Idolina, nella sua nota, cita solo parzialmente, quella in cui il maestro futurista di Frosinone afferma livorosamente, in sintesi, di non aver mai sentito nominare prima di allora questo Landolfi; una replica che non sembra all’altezza di un artista del livello di Bragaglia, espressione di una cultura e di esperienze artistiche che si farebbe fatica a liquidare come provinciali. Ho cercato, perciò, la fonte e letto per intero l’articolo di Bragaglia che prima di arrivare alle contumelie, che ne occupano una piccola parte, quella conclusiva, svolge un ben più articolato, e possiamo dire, elegante ragionamento sulla questione cruciale della lingua “burina”, la riporta alla tradizione precedente alla toscanizzazione del romano, avutasi con Leone X, la assimila alla tradizione delle maschere del teatro regionale, rivela che il ciociaro, in un caso l’alatrese, era studiato e usato da Petrolini per alcune sue performance teatrali (in “Lumie di Sicilia”, ma pure in “Gigi er bullo” – aggiungiamo – dove il grande attore romano, giocando sull’equivoco, chiama la sua fidanzata di Alatri, “alatrina”).

E, per quanto riguarda la città di Frosinone, priva, secondo Landolfi, di bellezze da ostentare, Bragaglia ricorda che c’è stata una guerra a fare piazza pulita di ogni testimonianza del tempo passato: non del tutto, però, come dimostra un antico teatro romano e come mostra di trascurare un ciociaro che si vergogna di esserlo rimettendo in discussione non tanto l’imposizione amministrativa del fascismo ma un’evidenza storica e territoriale.

Nei numeri seguenti del quindicinale resta qualche traccia indiretta della polemica con una intensificazione di articoli che insistono sulla cultura della provincia, del resto Landolfi, in maniera che, senza timore di offenderlo, possiamo pure definire altezzosa affida la sua conclusione a un pezzo indirizzato non al direttore della “Gazzetta Ciociara” ma al direttore de “Il Mondo” e pubblicato il 20 dicembre 1955. Lo scrittore parla di uno scritto, quello di Bragaglia, che si riduce a “una serqua più o meno nutrita e più o meno ben distribuita di contumelie” e prima di dichiarare chiuso “l’incidentino”, promettendo di non voler impegnarsi in eventuali ulteriori interventi, un po’ in contraddizione con quanto scritto all’inizio di replica di essere stato malinteso, afferma che “le smanie dell’illustre concittadino” (così il direttore della Gazzetta aveva presentato Bragaglia) non fanno che confermare me e i lettori bennati in quanto nel mio articolo era (e me ne pento) appena implicito”.

Stento a credere che Bragaglia non conoscesse Landolfi, stento anche a credere che Landolfi non conoscesse Bragaglia. Un anno prima, nell’ottobre del 1954, Landolfi era stato chiamato in causa, sempre sulla “Gazzetta Ciociara”, da Libero De Libero in un articolo intitolato “Ciociaria terra di Circe” e che aveva provocato una polemica nella quale si erano infilati il critico d’arte Michele Bianconi, docente di storia dell’arte all’Università di Roma, sorano, e lo stesso Anton Giulio Bragaglia.

De Libero aveva scritto di una Ciociaria tanto estesa da arrivare alla sua Fondi e che il nome Ciociaria non proviene affatto dal termine “ciocia”, un calzare il cui uso era ben più diffuso della terra a cui avrebbe dato il nome, ma dalla maga Circe, da cui sarebbe derivato il termine Circeria da cui, infine, Ciociaria. Ma a noi interessa il punto in cui, per comprovare la vivacità di una discussione sull’identità territoriale delle terre del basso Lazio, il poeta aveva richiamato la radicale convinzione di Landolfi: “Provatevi a ricordare – scrive De Libero – queste vicende allo scrittore Tommaso Landolfi che è di Pico; quella provincia di Frosinone affibbiata al suo paese gli scotta più del marchio nazista sulla pelle di un ebreo, e vi direbbe persino che il brigantaggio dalle sue parti vestì panni regali nella persona di Michele Pezza, alias Fra Diavolo, mentre dalle parti di Frosinone esso fumava di sporcizia alle ciocie di Gasparone e di Peppe Mastrigli”.

Molto più moderato Bragaglia nella risposta a De Libero rispetto a quella dell’anno successivo a Landolfi. “La Ciociaria è un luogo fiabesco, poetico, per le sue colline, le valli, il mare circeo (…). Come tutti i paesi letterari essa ha i confini vaghi. Per Pascarella ha una circoscrizione, per i campani un più ristretto confine, per i romani è vastissima e comprende Anticoli Corrado (…) dove siamo decisamente nella Sabina”. Nessuna battuta riservata alla citazione landolfiana.

Sarebbe, comunque bastato attendere un po’ per dare una dimensione giusta ai “Contrafforti di Frosinone”. Qualche mese più tardi, infatti, Landolfi scrivendo delle abitudini e della lingua degli abitanti di un “paesino” , il villaggio X, che sembrerebbe Pico, annotava “quanto di più ignobile la periferia della capitale offre alla vista e ad altri sensi è qui accolto in poco spazio e può essere rapidamente apprezzato: qui balconi a vasca da bagno, gialli edifici scolastici novecento (…) qui anche badaloni con fasce ai polpacci o basco discorrenti in una lingua che è quella stessa ormai della capitale, solo se possibile più corrotta o grossolana”. Frosinone, dunque, era poco più che una raffigurazione metaforica dell’Italia del dopoguerra, della sua urbanistica dozzinale, dominata dal giallo delle costruzioni (ma forse – suggerisce un amico – c’entra anche il giallo di certi pittori futuristi e post futuristi), un’Italia marcata dall’involgarimento delle parlate, che per Landolfi si traduceva in stizza polemica, in aristocratico distacco, e in Bragaglia diventava materia teatrale, creazione di una maschera nuova da aggiungere alle maschere nobili della commedia italiana.

Scena tre. Pico-Frosinone, una postuma riconciliazione

La ferita dei Contrafforti di Frosinone e della polemica seguitane io credo abbia gettato una grandissima ombra nel rapporto di Landolfi con questa provincia. Per anni di Landolfi non si è parlato, un giornale locale, in occasione della organizzazione di una tavola rotonda sullo scrittore, sul finire degli anni Ottanta, commentò l’avvenimento affermando che si stava parlando di una personalità nota più in Russia che nella sua terra natale. Era, probabilmente, un’esagerazione, ma non ricordo che sia stata contraddetta o smentita.

Nel 1983 il comune di Pico e la provincia di Frosinone, pronubi il sindaco Antonino Conti e l’assessore provinciale Adalberto Carè, dedicarono un primo appuntamento allo scrittore con un seminario di studio, al quale presero parte Walter Pedullà, Geno Pampaloni, Marcello Carlino e Luciana Martinelli, che ebbe come titolo “Landolfi alla ricerca dei suoi lettori”. E si voleva alludere certo non solo ai lettori della sua provincia, ma ponendo questo tema, si riprometteva di suscitare in tutti l’interrogativo se si stesse facendo il necessario per favorire una fortuna critica più larga procurando finalmente allo scrittore una popolarità possibile, diciamo compatibile con una letteratura per definizione selettiva.

Abbiamo appreso solo dopo, leggendo la ricostruzione delle vicende editoriali dei libri di Landolfi, prima con Vallecchi e poi con Bompiani, Einaudi e Rizzoli – in quegli anni era ancora lontano il trasferimento all’Adelphi – che uno dei problemi della scarsità di lettori, testimoniato (è ancora Idolina a certificarlo con un suo studio) dalla tiratura e dalla sorte delle diverse tirature, consisteva più che nei lettori nelle scelte editoriali, nella scarsa cura della promozione e distribuzione, nel considerare, in fondo, Landolfi come un dotazione preziosa per il catalogo ma assolutamente ininfluente ai fini del fatturato e perciò una sorta di investimento residuale.

Ma un momento di svolta per Landolfi e il suo rapporto con la nostra provincia penso possa essere fissato in un convegno svoltosi, tra Pico e Frosinone, nel dicembre del 1987, del quale è restato un libro che è ampiamente citato nella più recente bibliografia landolfiana.

“Landolfi libro per libro” fu il titolo – dell’incontro e del volume – scelto dagli organizzatori, io ne ebbi la cura ma gli enti che lo promossero furono la provincia di Frosinone e il comune di Pico, con la volontà di farne un appuntamento ricorrente e la premessa di una Fondazione da costituire.

Si trattò di un convegno importante, dicevo, perché programmaticamente, accanto a critici di mestiere, giovani e meno giovani, vennero chiamati a confrontarsi con i libri landolfiani una schiera di giovani scrittori e scrittrici nella presunzione di favorire così un “rendez vous” di questi libri con la nuova letteratura che si stava formando grazie a una nuova generazione, collocata all’altezza di anni in cui la scrittura fine, complessa, di Landolfi poteva trovare epigoni, ammiratori, interpreti più freschi.

Di quella “due giorni” – alla cui ideazione ebbe un ruolo determinante Raffaele Manica – ha scritto recentemente uno dei partecipanti, Emanuele Trevi, nel saggio-romanzo “Due vite”, nel quale racconta di due amici, Rocco Carbone e Pia Pera, che si conobbero in quelle giornate: Pia Pera parlò del Landolfi traduttore (“Tommaso Landolfi nello specchio russo”), Rocco Carbone del “Dialogo dei massimi sistemi” , Emanuele Trevi relazionò su “Gogol a Roma”, Pietro Tripodo, un altro amico a cui Emanuele Trevi ha dedicato un ricordo bellissimo in “Senza verso”, affrontò – all’avvio un po’ di contraggenio, come ha notato Andrea Cortellessa – i due grandi libri della poesia di Landolfi, “Viola di morte” e “Il tradimento”, uscendone poi conquistato.

Se si scorre l’indice del libro che raccoglie tutti i contributi si rinvengono nomi diventati importanti e noti, nelle cui opere, di allora e successive, non è difficile rintracciare echi landolfiani, segno che la scelta non era stata casuale e che per la maggior parte di loro avrebbe trovato conferma nel tempo.

Walter Pedullà commentava che questi nuovi critici trattavano Landolfi come la moglie di Gogol, una bambola gonfiabile a proprio piacimento e propria discrezione per adattarla alle preferenze della “poetica” di ciascuno di loro, con una operazione di lettura sempre finalizzata, però, a scoprire le finzioni del racconto. Ma, ripeto, l’importanza di questo convegno fu nel fatto che finì per costituire una sorta di ufficiale riconciliazione tra la provincia di Frosinone e Landolfi, un atto che chiude senza dimenticarla, ma assegnandole il giusto profilo, la ferita provocata dai “Contrafforti di Frosinone”, ribadendo la lezione che la letteratura non può impantanarsi troppo con la cronaca o gli umori, e i malumori, del momento.

Ho scritto in avvio di questo testo che finalmente, dopo svariati tentativi finiti nel vuoto e tante attese andate deluse, il palazzo di Landolfi è in procinto di passare in proprietà al comune di Pico con la finalità – è negli auspici – di farne un luogo della cultura e di studio dell’opera dello scrittore.

Anche questo può essere un passaggio d’epoca dall’enorme valore simbolico. E la prova che se per un attimo anche noi accettiamo la sfida della sospensione dell’incredulità lo scenario nel quale entriamo comincia a popolarsi, un castello torna a vivere sotto lo sguardo ironico e, per una volta, compiaciuto del suo aristocratico abitante.

Questo testo è la rielaborazione di un intervento, tenuto a Pico il 7 settembre 2024, al Convegno “ Linguaggi e mondi possibili di Tommaso Landolfi”, promosso dal comune di Pico, dall’Università di Cassino e del Lazio meridionale e dall’Associazione “Letterature dal Fronte”, per la regia di Clara Abatecola. La tavola rotonda, coordinata da Raissa Raskina e Riccardo Finocchi del Laboratorio TECNAL dell’Università di Cassino, ha visto la partecipazione, oltre all’autore di questo scritto, di autorevoli contemporaneisti come Paolo Trama, Andrea Cortellessa, Isabella Pezzini, Daniele Giglioli e, in video, Silvana Cirillo.

Materiali

Musicare la poesia medievale: un’intervista con i Murmur Mori

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Foto tratta da https://murmurmori.com/photos/

 

Murmur Mori, Recording Session – foto tratta da https://murmurmori.com/photos/

 

a cura di Daniele Ruini

Murmur Mori” è un ensemble di musica medievale che si propone di rivitalizzare la tradizione giullaresca europea. Fondato nel 2015 da Mirkò Volpe e Silvia Kuro, dopo aver dedicato album alle liriche dei trovatori provenzali e alle poesie volgari dei Memoriali bolognesi, il gruppo (al quale collaborano anche Alessandra Lazzarini, Matteo Brusa e Nicolò Gugliuzza) è ora al lavoro su un insieme di poesie profane in latino dell’XI secolo. La loro proposta tiene insieme la ricerca filologica sulle fonti (per quanto riguarda i testi, le notazioni musicali e la costruzione degli strumenti utilizzati) e il desiderio di far rivivere la musica medievale in maniera coinvolgente. Da qui deriva l’espressività che accompagna le loro esibizioni e la semplice bellezza dei loro video (girati in luoghi come chiese o boschi). Ne parliamo con il direttore artistico del gruppo Mirkò Volpe.

 

Ciao Mirkò, grazie molte per la tua disponibilità. Vorrei chiederti, innanzitutto, com’è nata la tua passione per la musica medievale: si è sviluppata progressivamente, magari partendo da interessi musicali meno di nicchia, o è stata il frutto di una folgorazione? Puoi dirci qualcosa anche sulla tua formazione musicale?

Era il 1997, avevo 10 anni, la scuola elementare mi portò in visita alla rocca di Soncino ed io ne rimasi folgorato. Durante quella gita ebbi la possibilità di utilizzare un torchio ligneo del XV secolo per stampare una litografia della rocca che poi incorniciai ed ancora oggi si trova appesa nel mio studio. Guardarla mi mette di ottimo umore.

Con il passare degli anni i draghi e le fate della mia mente di bambino hanno lasciato il posto ai romanzi epici ed alle fonti musicali, ma parlando con molte persone che studiano la storia medievale in ogni sua forma mi sono reso conto che la maggior parte di loro, come me, erano e saranno sempre eterni fanciulli. La mia formazione musicale è semplice: ho studiato chitarra classica privatamente, poi mi sono diplomato in elettronica ed ingegneria del suono ed ho insegnato chitarra classica a Bologna per sei anni.

 

Potresti descrivere qual è il repertorio a cui è votato il progetto Murmur Mori e quali sono le vostre fonti di ispirazione? Inoltre: preliminare a ogni vostro lavoro è la ricerca storico-archivistica sulle fonti manoscritte; nei casi in cui le liriche medievali siano state trasmesse senza notazioni musicali siete voi stessi a comporre le musiche, giusto?

Il nostro repertorio tratta la musica e la poesia dal secolo X al XIII. Nel 2020 indagammo i primi volgari italiani e la poesia giullaresca d’Italia. La ricerca portò alla registrazione di due dischi: “Concerto a Montorfano” e “Dançando la fressca rosa”, disco nel quale abbiamo restituito la voce ad alcune ballate contenute nei Memoriali Bolognesi del XIII secolo collaborando con l’Alma Mater Studiorum di Bologna (progetto MemoBo).
Lo studio dei volgari ha portato me e Silvia Kuro ad indagare le relazioni tra i trovatori italiani e quelli provenzali del XII e XIII secolo, ricerca fiorita nella pubblicazione di “Canzoneta, va!” nel 2023.  Ora stiamo svolgendo delle ricerche sulla poesia mediolatina del X-XI secolo. Io e Silvia Kuro siamo stati totalmente travolti da queste musiche estremamente antiche le cui liriche profane sono ancora intrise di elementi pre-cristiani ed antiche divinità greco-romane.

Silvia Kuro è la paleografa di Murmur Mori, è lei a leggere ed a ricostruire le musiche dalle notazioni adiastematiche dei secoli X, XI e XII. Una volta che lei ha restituito la voce a quei simboli, che ad un occhio inesperto appaiono come piccoli scarabocchi sopra alle parole, io ne sistemo la metrica con il testo ed arrangio la musica scegliendo gli strumenti musicali da utilizzare in base alle testimonianze a noi pervenute.
Da questi studi nascerà “CARMINA”, un nuovo album che verrà pubblicato per Edizioni Stramonium nel 2025. Due singoli sono già disponibili sui nostri canali social, essi sono “O admirabile veneris idolum” e “Crus ocelle meum velle”, quest’ultima mai registrata prima in versione integrale.

Il nostro modus operandi in sintesi è il seguente: laddove la musica non è pervenuta cerchiamo di mettere in pratica quello che nei secoli medievali veniva chiamato “contrafactum”, ovvero l’utilizzo di una melodia già esistente alla quale la lirica si adatta perfettamente. In passato chi componeva non era ossessionato dal diritto d’autore e la musica era intesa come un’arte molto più comunitaria. Se invece il “contrafactum” non risulta possibile perché non sono pervenute melodie coeve o che si adattino alla forma della lirica, componiamo io e Silvia la musica utilizzando ed ispirandoci alle forme musicali del tempo.

 

Nelle vostre performance cercate di coinvolgere il pubblico, anche dando spazio a una certa “teatralità”. Quanto è importante, per voi, far arrivare agli ascoltatori la musica medievale come qualcosa di vivo e in grado di regalare emozioni ancora oggi?

La nostra idea di “musica medievale” è molto vicina a quella definita “popolare”.
Molti sono i fattori che accomunano questi repertori e spesso nella musica popolare, laddove ancora oggi sopravvive genuinamente e non è confinata a mero intrattenimento folclorico, si possono ritrovare immutate tracce di melodie, danze e forme musicali risalenti ai secoli medievali, o addirittura precedenti!

Spesso i primi versi delle liriche di musica secolare medievale riportano veri e propri inviti all’ascolto verso il pubblico di una piazza o di una stanza: questa scelta stilistica è da tenere in grande considerazione perché ci offre una cornice di quello che poteva essere il contesto dello spettacolo, lasciandoci intuire che l’auditorio non fosse proprio attento e silenzioso durante l’esecuzione. I biglietti a pagamento per i concerti non arrivarono che nel XVIII secolo, quindi era compito degli artisti saper catturare l’attenzione, coinvolgere e distinguersi dagli altri.

Beninteso: noi stiamo parlando di musica secolare, non sacra. Quando si parla di “musica medievale” bisogna fare attenzione perché il periodo che noi per comodità ed abitudine chiamiamo “medioevo” è durato più di mille anni ed è sciocco pensare che per mille anni sia esistita una sola pratica musicale, un solo approccio, un solo modo di accordare gli strumenti etc. Sarebbe come ammettere che Mozart ed i Sex Pistols, entrambi appartenenti all’Epoca Contemporanea, abbiano lo stesso approccio alla musica. Noi cerchiamo di riportare in vita l’aspetto più organico della performance giullaresca di musica medievale, l’approccio che vuole attirare l’attenzione, quello che interagisce con il pubblico che non è più solo ascoltatore ma parte integrante dello spettacolo, quello che vuole intrigare e trattenere intrattenendo fino alla fine. Questo non è un modus operandi esclusivo dei giullari o dei cantimpanca popolari confinati alle caotiche piazze di borghi, campagne e città, bensì lo possiamo ritrovare anche nelle corti e nelle stanze dei castelli. Citerò solo una fonte letteraria del XIII secolo di nome “Flamenca”, romanzo provenzale meraviglioso e ricco di informazioni sull’esecuzione musicale dove, durante una festa di matrimonio, vennero chiamati tantissimi giullari, acrobati, cantastorie e novellieri che si esibivano ovunque, sia nella sala principale che in ogni altro luogo del castello degli sposi. C’era chi cantava storie di Artù e chi di Giulio Cesare, chi di Isotta e chi invece faceva acrobazie o danzava. Chi suonava e cantava insieme, chi invece si faceva accompagnare con flauti ed altri strumenti, l’elenco è davvero lungo.

Se anche volessimo ridimensionare la descrizione della festa descritta in “Flamenca”, dobbiamo però ammettere che situazioni del genere erano presenti nell’immaginario collettivo e quindi, possibili. Fonti come queste non sono le uniche testimonianze dirette di esecuzioni musicali medievali, ma non vengono quasi mai prese in considerazione favorendo uno standard esecutivo della musica medievale molto più simile a quello della musica barocca, operistica o da camera.

 

Quanto spazio trovate per la vostra proposta musicale? Esistono per esempio festival a livello europeo che valorizzano la musica medievale? E ancora: preferite esibirvi in contesti più istituzionali (come gli Istituti di cultura italiana di Bratislava e Colonia dai quali siete stati invitati) oppure in scenari più popolari come piccoli paesi di montagna?

C’è parecchio interesse nei confronti della musica medievale, esistono festival prestigiosi e storici in Italia, in Europa e nel mondo che da anni hanno iniziato a considerare anche la musica precedente al periodo Barocco e Rinascimentale, inserendo nelle loro rassegne musiche precedenti al XV secolo. Il rinomato festival francese “Festes Baroques” per esempio è uno di questi. Noi partecipammo all’edizione del 2022 ed il concerto fu un successo tale che ci procurò un agente che lavora con noi ancora oggi e che ogni anno ci organizza concerti in Francia.

Ad agosto abbiamo partecipato alla rassegna “Le festival Bach de Saint-Donat”. In ottobre torneremo nuovamente in Francia per portare il nostro programma “Canzoneta, va!” a Dun-le-Poëlier ed il giorno seguente alla grandiosa abbazia di Noirlac. Sempre in agosto siamo stati al festival di musica antica “Forum Musicum” di Wroclaw, in Polonia. Per l’occasione ci è stato commissionato un programma ad hoc che trattasse la tematica delle crociate, da questo stimolo è nato il programma concertistico “Make love, not crusades” il cui successo ci ha convinti a registrarne un disco che verrà pubblicato a settembre.
Anche in Italia c’è molto interesse e riusciamo a suonare parecchio, soprattutto nel nord. “MedFest”, per esempio, è una realtà giovane, ma che si è già affermata grazie al pregio ed all’originalità dei concerti e delle conferenze proposte.

Riguardo ai contesti nei quali preferiamo esibirci, dal 2015, anno in cui il progetto di musica e ricerca Murmur Mori nacque, mai sono stati utilizzati microfoni o alimentazione elettrica durante i concerti e questa scelta non è solo estetica, bensì determinata dal desiderio di offrire al pubblico un ascolto più autentico. Per noi ignorare o modificare il suono del luogo attraverso microfoni e casse sarebbe una mancanza nei confronti della musica che Murmur Mori vuole ricostruire. Spesso ci è stato proposto di utilizzare impianti audio per poter raggiungere un maggior numero di persone, ma noi crediamo che il modo in cui si ascolta un certo tipo di musica sia degenerato nel tempo e le persone che oggi si recano ai concerti si aspettano di ascoltare la stessa cosa che ascolterebbero su un disco o su Spotify nel loro impianto di casa. A volte forse sarebbero più a loro agio ascoltando un “playback” al posto di una esibizione dal vivo, con i suoi pro ed i suoi contro.

Noi vogliamo riportare la musica al suo stato organico e reale, “rieducare le nostre orecchie”. La musica deve risuonare all’interno degli ambienti storici che da secoli la restituiscono al nostro orecchio, arricchita con la loro personalità.

Questa scelta ci permette di esibirci in qualsiasi contesto in totale libertà ed i luoghi ricchi di storia o personalità sono quelli che preferiamo, siano essi abbazie romaniche o antichi e rustici borghi montani.

 

In maniera complementare al progetto Murmur Mori ti occupi della gestione dell’interessantissimo canale YouTube Musica Medievale, con il quale fai conoscere i lavori di altri musicisti (creando personalmente i video con immagini di miniature tratte da manoscritti). Nel corso degli anni hai notato un aumento di interesse verso la musica medievale?

Il fascino che dal tempo dei Preraffaelliti suscita tutto ciò che concerne i secoli o le “atmosfere medievaleggianti” è in costante crescita. Questo periodo storico interessa più di ogni altro e le persone si approcciano al medioevo in maniera sempre più approfondita.

Questo atteggiamento è forse spia di un probabile disagio verso i valori e la società nella quale viviamo oggi.
I miei studi e le mie letture mi hanno convinto che il “medioevo” possa essere considerato come la gioventù della nostra società: passione, fantasia, dubbio, curiosità, grinta e trasporto erano alcuni dei sentimenti principali con i quali veniva affrontata la vita nei “secoli medievali”. Il medioevo è troppo spesso ingiustamente condannato dagli occhi stanchi ed apatici della nostra società che, ormai vecchia, s’inganna all’idea che nulla possa esserle insegnato. Essa guarda alla sua gioventù a volte con invidia e disprezzo, a volte con malinconia, ma sempre consapevole del fatto che tale bestiale e giovanile spensieratezza mai più potrà tornare.

 

Sul vostro sito si legge che da alcuni anni hai deciso di abbandonare Bologna (dove hai studiato) e di vivere «in una vecchia casa fatiscente nel centro di un piccolo ed antico borgo delle Alpi Piemontesi». Cercare di far risuonare il Medioevo vuol dire, per te, anche contestare la frenesia consumistica della nostra società?

La frenesia consumistica della nostra società si sta contestando da sola, è come una nave che affonda governata da capitani ottusi che non vogliono ammettere di aver fallito.
Io mi sono semplicemente rifugiato il più lontano possibile da questo naufragio, sperando che le inevitabili conseguenze di questo disastro ecologico da noi creato mi raggiungano il più tardi possibile. Sia nei miei arrangiamenti musicali che nella mia vita quotidiana cerco di applicare il motto “meno c’è, più c’è”, dove vivo ci sono più alberi che persone, e questo per me è un pensiero confortante.

 

Il branco

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Foto di andreas N da Pixabay

di Marco Angelini

A casa ho fatto le cose per bene per mantenerla come l’hai lasciata. Dopo il lavoro ho trascorso il più del tempo in officina e mi sono preso cura di Tobi.

Con il nostro giardino ho fatto il possibile. I gelsomini hanno resistito, le rose bianche invece sono morte e le ho sostituite. Quando cresceranno non si noterà la differenza.

Il problema dei cinghiali è peggiorato. Mi hanno sempre fatto paura. Pensavo che prima o poi sarebbero scesi dalle colline tutti quanti insieme e che allora non avremmo avuto scampo.

Nel quartiere hanno creato un comitato. E c’è stata la sera della figuraccia: la prima maglia di una catena di eventi.

Avevamo completato il giro del parchetto e iniziava la discesa. Tobi tirava per stare dietro alla barboncina bianca che abitava all’incrocio. La donna dei papaveri – quella che li semina per file di colori diversi – raccontava che sua figlia aveva iniziato a insegnare yoga in un centro benessere e le altre dicevano quanto sarebbe stato divertente se ci fossero andate tutte insieme. Quella che aveva il giardino invaso dai gerani ci rivelò che suo figlio avrebbe adottato un bimbo o una bimba, non lo sapevano ancora. Allora pensai che io e te non avevamo mai avuto figli e avevamo deciso di escludere l’adozione.

Ogni sera le donne facevano a turno coi discorsi, sembrava che ognuna sapesse quando le toccava raccontare qualcosa, che fosse una novità o una notizia risaputa. Il mio turno non veniva mai e se, raramente, accennavano a te, si voltavano a guardarmi. Io allora mi limitavo a dire “Eggià” e poi riprendevamo a camminare.

Stavo sereno in mezzo a tante donne perché non sei mai stata gelosa. E poi eri la più bella, anche quando ti eri tagliata i capelli cortissimi fino a non vederli più, che era diverso da non averli più.

Appena abbiamo svoltato su per la via che portava ai terreni comunali e alla casa dei bassotti – di solito erano loro a staccarsi dal gruppo per primi – ci siamo trovati di fronte due cinghiali. Stavano proprio in mezzo alla strada. Un terzo, ancora più grosso, è sceso dai monti dove ce n’erano chissà quanti altri e li ha raggiunti. I bassotti hanno abbaiato per primi e tiravano per andare incontro a quelle bestie. La barboncina ha urinato. Tobi è rimasto fermo, emetteva un ringhio che lo faceva tremare tutto. Poi anche gli altri cani hanno abbaiato e le donne hanno gridato: “Oddio, oddio!”. Una ha suggerito: “Prendete in braccio i cani!”. Ma non abbiamo fatto a tempo. I bassotti hanno raggiunto il segugio e le loro padrone si sono trovate coi guinzagli incrociati, quando ho avuto l’impressione che i cinghiali si muovessero verso di noi.

Sono fuggito. Ho tirato forte il collare e ho trascinato Tobi per un paio di metri, poi finalmente ha corso anche lui. Mi ha raggiunto e non so chi dei due avesse più paura. Se fosse stato ferito dai cinghiali, o peggio, non me lo sarei perdonato. Non m’importava se avevo lasciato le donne nei guai.

Abbiamo corso fino a casa lungo la strada deserta. Quando siamo entrati nel giardino ho chiuso il cancelletto e poi l’ho scosso prima con la destra e poi con la sinistra – come facevo ogni volta – per accertarmi che tenesse bene. Ma non so come, ero affannato e girava tutto, voltandomi sono inciampato nel guinzaglio di Tobi e sono finito steso per terra.

Mi sono tirato su e non ho visto nessuno per strada o affacciato alle finestre. Le luci di casa erano spente, a parte quella della cucina: dalla tua morte l’ho tenuta accesa notte e giorno.

Per farmi perdonare, ho cucinato la zuppa come piace a te – con il nostro rosmarino – e sono rimasto sveglio per farti gustare un vecchio film fino alla fine.

Da quella sera prima di dormire guardo la collina e mi sembra di sentire i cinghiali che grufolano, sempre più numerosi.

Il giorno dopo sono andato in lavanderia: non era giornata di lavaggio, ma con quei pantaloni e la felpa sporchi di fango ho dovuto anticipare. L’avresti fatto anche tu.

La seconda lavatrice da sinistra era libera, quella che usavo il venerdì. Le facce però erano diverse dalle solite. Una donna inseriva un piumone nell’asciugatrice, un ragazzino leggeva un fumetto e mi sono chiesto perché non fosse a scuola.

Ricordo che avevo due gettoni e non bastavano. Ho tirato fuori una banconota e sono andato alla macchinetta per cambiarla. Due uomini stavano seduti vicini e parlavano. Il più grasso portava un berretto con la visiera e gli occhiali scuri. Ha aspettato fino all’ultimo per tirare a sé le gambe e lasciarmi passare. Ha detto: “Ehi”. L’altro ha riso. Aveva una giacca verde senza maniche piena di tasche e la barba folta. Io ho raggiunto la macchinetta e ho cambiato una banconota. Poi ho pensato che avrei potuto sbagliare qualcosa e non volevo proprio tornare a casa con i pantaloni e la felpa sporchi. Non volevo neanche far spostare di nuovo le gambe all’uomo grasso, così ho cambiato una seconda banconota, ma questa volta con l’altra mano.

L’uomo con la barba se la lisciava e ne allungava la punta con le dita. Ha chiesto all’altro: “Com’è andata ieri la caccia?”

“Alla grande” ha risposto quello col cappello e ha raddrizzato la schiena.

“Ho inaugurato il fucile nuovo” ha detto e avrei voluto che non raccontasse altro, perché a te non piaceva la caccia e detestavi i cacciatori. “Eravamo andati per fagiani. C’è sempre una certa competizione con mio cugino, ma ne avevo già tirati giù un paio mentre lui era a secco e il cane rispondeva bene.”

L’uomo con la barba si è alzato e ha camminato fino alla porta, ha allungato il collo fuori e si è scusato: “Controllo la macchina” ha detto. L’altro ha ripreso: “Superavo mio cugino per tre a zero o tre a uno e salivamo il crinale per tornare verso l’auto. Quando siamo sbucati sulla strada, saremmo stati a duecento metri dal parcheggio, mi sono trovato un cinghiale proprio davanti, che mi guardava. Appena ho visto che dietro aveva i cuccioli, ho capito. Ma il tempo di imbracciare il fucile e già mi caricava! Cento chili, anche centoventi, che mi correvano dritti addosso. Il primo colpo le ha fatto partire di netto la zampa anteriore e un pezzo di petto, bam!” L’uomo si è tolto gli occhiali e si è portato la mano sul davanti, sopra il cuore.

Ho inserito il gettone con la mano destra e fatto partire la lavatrice con l’altra. Non ero sicuro di essere stato attento durante tutti i passaggi.

“E tuo cugino?” ha chiesto l’uomo con la barba mentre tornava alla porta per guardare in strada.

Io mi ero seduto e fissavo gli abiti che giravano in senso orario nel cestello. Non li lasciavo incustoditi – altri lo facevano, io mai – neanche quando li mettevo nella asciugatrice. Anche quella girava in senso orario.

“Ha continuato a caricarmi, roba da non credere, con una zampa in meno e un pezzo di petto che le penzolava come se indossasse un medaglione.”

Avrei voluto che quell’uomo la smettesse. Avevo la scena proprio davanti – e se ce l’avevo io, ce l’avevi anche tu –: la strada fra gli alberi, il cinghiale ferito e il cacciatore con il fucile in mano, tra me e lo sportello della lavatrice. Amavi gli animali e le piante. Volevo che quell’uomo la smettesse di raccontare.

“Ormai stava in piedi appena. Ho acchiappato un piccolo per non farlo scappare e me lo sono premuto sotto al ginocchio. Per poco non sono riuscito a prenderne anche un altro. Appena è arrivato, mio cugino ha visto la scena e ha gridato: “Eccheccazzo!” I cani hanno abbaiato e in quel momento ho fatto partire un secondo colpo. L’ho conficcato nel punto esatto in cui il petto era aperto, s’è infilato proprio lì e l’ha squarciata da dentro.”

“Cazzo!” ha commentato l’uomo con la barba. Muoveva le gambe avanti e indietro come facevo a volte io sul lavoro, quando non riuscivo più a stare seduto senza far niente.

“E il piccolo sotto al ginocchio?” gli ha chiesto l’altro. Mi sono tappato le orecchie per non farti sentire, ma l’ho udito comunque.

“L’ho fatto fuori per ultimo” ha risposto. “Gli altri sarebbero scappati se non fosse stato per il mio cane. Era proprio in forma quel giorno.”

“Uno stronzo vuole uscire” si è lamentato l’uomo con la barba e ha tirato fuori le chiavi dell’auto mentre si allontanava. Ora è il momento, mi sono detto.

Il conto alla rovescia indicava centoventi secondi alla fine del prelavaggio. Mi sono alzato, ho messo le mani nelle tasche della giacca e mi sono guardato riflesso. Ho camminato verso la macchinetta dei gettoni. L’uomo con il cappello aveva di nuovo le gambe tese. Non le ha ritirate quando mi sono avvicinato. L’ho scavalcato con un piede, poi mi sono voltato verso di lui, ho alzato lo sguardo mentre tiravo la mano destra fuori dalla tasca. Gli ho puntato contro l’indice, ho mirato dritto al cuore, ho atteso un istante e ho contratto il dito medio. Sono andato alla lavatrice, il conto alla rovescia è terminato. Avevo un ronzio tanto assordante nelle orecchie che non sentivo nulla. Ho riposto gli abiti bagnati nella sacca e sono corso via. Appena fuori dalla porta ho incrociato l’uomo con la barba che rientrava, ma nessuno mi ha seguito, nessuno mi ha raggiunto. Sono arrivato fino a casa, sono entrato in bagno e ho preso la mia medicina. Quando serve devo prenderla doppia, come quel giorno. Anche tu conservavi i medicinali dietro allo specchio. Ricordi? Gli ultimi giorni ne avevamo tanti che lo spazio non bastava.

Ho steso gli abiti e ho atteso. Nei giorni seguenti non è successo niente.

Da quel giorno ho perso l’equilibrio. Adottavi la regola della media: anche se per un po’ le cose vanno meglio o peggio, dopo tornano a essere nella media. A casa Tobi guaiva e sul lavoro mi dicevano: “Vai a fare due passi di sotto”. “E l’ingresso resta sguarnito?” chiedevo io. Stavo seduto a bordo del corridoio al mio solito posto, sulla sedia di legno con il cuscino alto: come spiegavo sempre, primo piano in ascensore, secondo se sali a piedi. C’è la porta a vetri e poi sulla sinistra la mia scrivania. Mi rispondevano: “Ci sta qualcun altro al tuo posto”. Allora camminavo, a tratti correvo, lungo i corridoi e per le scale mentre pensavo a cose. Se fossi stato Dio, soprattutto. Mi piaceva farlo: se fossi stato Dio non avrei creato qualcosa di mortale, così tu non saresti potuta morire e neanche Tobi. E poi pensavo ai cinghiali: sentivo sempre più vicino il momento in cui ci avrebbero assaliti in branco. La sera guardavo dalla finestra la collina nera dietro al cimitero e prima di dormire, che fosse caldo o freddo o piovesse, uscivo a controllare che il cancello fosse chiuso bene. I cacciatori andavano là, su quella collina che di notte sembrava un monte scuro, perché i cinghiali aumentavano ogni giorno.

Quando tornavo al mio posto, al primo piano della casa comunale se sali in ascensore, secondo se prendi le scale, non ci trovavo nessuno. Non ce la facevo a stare tranquillo. Allora mi sono deciso ad andare dall’avvocato, lo stesso a cui ti rivolgevi tu. Di solito mi lasciavi in sala d’aspetto e a me non dava fastidio perché faceva parte di quella intimità che dovevamo mantenere. Che si trattasse di una questione d’eredità o di un vecchio screzio con la tua famiglia, era personale e me lo avevi spiegato: “Devo risolvere un problema con l’avvocato prima di morire”, e così hai fatto. Io stavo in quella sala d’aspetto che aveva tante sedie e una panca di legno, la mia preferita perché sembrava una di quelle che ci sono in chiesa, con lo schienale alto. Le persone in attesa parlavano sempre dei problemi che l’avvocato avrebbe dovuto risolvere. Che fosse una o che fossero tante, le ascoltavo tutte e avevo l’impressione che la gente in quel posto avesse una vita peggiore della mia. Perché a loro le cose giravano peggio che a me.

Quella volta però non rimasi in sala d’aspetto: la segretaria mi accompagnò nella stanza grande dove c’erano un lungo tavolo di legno e sedie trasparenti intorno, una parete era occupata da una libreria piena di libri antichi, sull’altra invece c’erano due quadri enormi. Quando mi ha raggiunto l’avvocato gli ho detto che erano molto belli e lui è stato gentile: mi ha chiesto come stavo prima di affrontare la questione e io gli ho raccontato, ma sembrava sapere già un sacco di cose su di me. Poi gli ho detto: “Mia moglie mi ripeteva che con lei sarei stato al sicuro come un pesce nel becco di un pellicano”. Lui ha riso e mi ha guardato. Mi fissava eppure non ero certo che vedesse me soltanto.

“Eggià” ha detto e ho avuto l’impressione che lui, a differenza degli altri, intuisse qualcosa, che anche tu eri lì con noi.

Allora sono andato dritto al discorso della pistola, perché volevo sapere cosa mi sarebbe accaduto.

Qualche giorno più tardi, verso sera, è passato il prete mentre stavo in giardino. Uno sparo è esploso sulla collina. Tu lo hai sentito? Don Carlo non vi ha badato: si è appoggiato alla staccionata e mi ha salutato con un cenno. Sembrava in cerca di qualcuno diverso da me.

Ricordo che dopo il funerale mi disse: “Lei era il tuo innesto. Una vite senza innesto resta fuori da tutto quanto. Perciò devi farti aiutare, adesso.”

Io sapevo che aveva ragione, ma avrei preferito chiedergli perché non aveva voluto che avessimo figli, invece che parlare di quello. Era stato lui a consigliarti di lasciar perdere prima di averne uno nostro e anche dopo, quando parlavamo di adozione: lo so perché l’ho sentito dire alla donna che sta vicino al campetto da calcio, quella che ha la grossa terrazza senza neanche una pianta o un vaso di fiori.

Poi è esploso un altro colpo, più vicino: era sicuramente uno sparo anche quello e il prete di nuovo non ci ha fatto caso. Sapevo cosa succedeva in cima alla collina. “Entriamo in casa” ho detto a Tobi “Su bello”, l’ho tirato per il collare e Don Carlo mi ha salutato, poi si è staccato dalla staccionata e ha ripreso la strada. Io e Tobi siamo andati in officina, abbiamo chiuso la porta a chiave, ho controllato di averla chiusa bene, poi appena ci siamo avviati verso la porta di casa ho iniziato a correre. Vai con calma, mi hai consigliato, ma le gambe non ti davano retta. Prima di fare i gradini ho sentito tremare l’aria, è partito un fischio nella mia testa e mi sono voltato: li ho visti sbucare fuori dal bosco come puntini veloci che si lasciavano dietro una nube di terra. I cinghiali hanno superato il cimitero e hanno invaso la strada puntando dritti alle nostre case. I cani del quartiere hanno cominciato ad abbaiare e si alzavano grida. Io e Tobi siamo entrati e abbiamo chiuso bene la porta.

Ci siamo barricati dentro casa mentre fuori il branco calpestava ogni cosa. E allora per la prima volta mi sono fatto una domanda che ora rivolgo a te. Pensavo che avrei avuto più tempo, invece i cinghiali incombono, torneranno ancora sempre più numerosi e il recinto non reggerà per sempre e neanche i muri di casa alla fine basteranno a tenerli fuori. Per cui mi chiedo – lo chiedo a te – quando arriveranno, che fine farai tu?

Apnea

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di Alessandro Gorza

19:34
Chiara giocava su un prato verde smeraldo, sotto un sole estivo abbacinante. Vedeva le sue ginocchia bambine sbucciate e i calzettoni alti, sopra le scarpe di vernice col laccetto. Saltava una corda. Il cielo azzurro si illuminava di piccoli lampi che le bruciavano gli occhi, dietro le palpebre chiuse.
L’orizzonte si era fatto grigio tortora. La voce di sua madre, che contava i giri di corda esaltando i suoi salti, la chiamava da lontano.
All’improvviso, un dolore calcinato le esplose sotto il naso, scendendo dalle narici ai polmoni e la dottoressa Statuto non era più una bimba in un prato sognato, ma una donna di quasi cinquant’anni, la stessa che si era svegliata quella mattina, era andata a lavorare e poi… poi le faceva male la testa e non capiva cosa stesse succedendo.
Un’altra fitta al naso la riportò decisa nella sala caldaie di casa sua: «Carbonato di ammonio», disse una voce alle sue spalle, una voce che non sapeva riconoscere.

*

18:45
Pioveva con decisione. I blocchi di selciato delle viuzze in centro schizzavano le gocce grosse di un primo autunno, riempiendo il parabrezza di colori caldi.
Bianca buttò la sigaretta fuori dal finestrino. Mise la freccia e girò a sinistra, lasciando sfilare a pochi centimetri la vetrata spessa e fredda del bar.
La dottoressa Statuto sorseggiava un bicchiere di bianco.
Era lei. Ne ricordava i movimenti. Il viso, reso quasi sconosciuto dai vent’anni passati, poteva mentire; ma non quel modo di sedersi al tavolo incrociando le gambe sotto la sedia, di chinare appena il capo a sinistra, quasi a controllare che non ci fosse niente lì sotto. Non quella scrollata nervosa e rapidissima ai ricci scuri – si tingeva? – che lei aveva ancora davanti agli occhi: lo faceva sempre durante gli interrogatori. Quelli che chiamava “chiacchierate”.
Eccola lì, Chiara Statuto. Eccola, nella sua dimessa boria, nella sua ostentata sicurezza.
Casa sua distava poco più di un quarto d’ora. Bianca mise in moto, stringendo le mani attorno al volante.

*

18:40
Era stata una giornata particolarmente faticosa, il tribunale di Pavia l’aveva chiamata per una consulenza su un brutto caso. Non aveva più voglia di quegli incontri la dottoressa Statuto, psicologa infantile: la bambina abusata coi suoi giochi, i disegni, gli assistenti sociali e il PM, tutti assieme ad aspettare che lei confermasse quello che già si sapeva. Questa volta c’era stata flagranza: la mamma aveva chiamato i carabinieri perché il nuovo compagno picchiava la bambina. Aveva detto che temeva gliel’ammazzasse.
I lividi sotto il braccio. Gli occhi persi e colpevoli, Rachele, così si chiamava la piccola di quella mattina. Neanche mezzora, il PM aveva sorriso uscendo dalla stanza: un caso facile che si sarebbe chiuso in fretta.
Chissà che fine avrebbe fatto Rachele. Il patrigno in carcere; la madre, una ventenne bulgara che non riusciva a mettere in fila due parole in italiano, non poteva prendersi cura di lei. La bambina doveva essere allontanata.
Aveva scritto il suo verbale: consigliava l’affidamento a una struttura in attesa di ulteriori verifiche.
La piccola non sarebbe più tornata in quell’appartamento sicuramente brutto e sporco di una qualche periferia orribile. Chissà dove sarebbe andata, dove l’avrebbero spedita.
Era stanca, la dottoressa Statuto. Stanca di tutta quella violenza, di tutte le brutture che doveva vedere ogni giorno per lavoro, da più di vent’anni.
Una volta era facile, lei era decisa, sicura: per il bene del bambino, via dalla famiglia. Se c’è violenza, via. Se c’è ipotesi di violenza, prima via e poi si vede.
Fece un sorso e sentì i tioli del vino stringerle la gola, addentò un tarallo.
Ma, qual era il bene per il bambino? Dove stava la scelta migliore? Dopo una vita di quel lavoro, le sembrava di avvertire una verità terribile: la vittima avrebbe comunque pagato più di tutti. Non c’era nessuna giustizia.
Fece un cenno al bancone e mangiò un’oliva. Fuori, l’autunno batteva con decisione la prima pioggia. Arrivò il secondo bicchiere.
Sigmund avrebbe dovuto aspettare ancora un pochino le sue crocchette. A casa, lei avrebbe consolato i suoi miao di protesta e poi avrebbe pensato a cosa cucinarsi per cena, magari c’era una nuova serie da cominciare su Netflix.

*

19:05
Bianca arrivò alla villetta di via Donatello, controllò che tutto fosse come al solito, la luce accesa in salotto e il gatto dietro la finestra ad aspettare che la dottoressa Statuto tornasse. Passò lenta davanti alla casa, poi girò a pochi metri e s’infilò in una traversa. Parcheggiò, prese la sacca dal sedile del passeggero e s’incamminò sicura. L’aveva già fatto più e più volte: passo deciso fino al cancelletto, poi il giro attorno al portoncino che dava sul piccolo cortile. La chiave era sotto un vaso rovesciato di fianco alla scala di pietra che scendeva verso il locale caldaie. Tornò all’ingresso, non c’era nessuno per strada, né alle finestre delle poche villette attorno. Ruotò la maniglia e in un attimo fu dentro.
Il gatto della dottoressa andò a strusciarsi sulle sue gambe. Bianca mise delle crocchette nella ciotola e scese al piano di sotto. Sistemò la sedia, le corde.
Prese dalla borsetta una fotocopia piegata in quattro. L’aprì, la guardò. Infilò il foglio nella tasca posteriore dei jeans e si appoggiò allo stipite della porta che separava il garage dalla sala caldaie.

*

19:25
Chiara Statuto scese dalla sua Audi Q1 all’asciutto del garage canticchiando il pezzo di Gino Paoli che la radio stava ancora trasmettendo. Chiuse la portiera, dopo aver recuperato dal sedile posteriore il faldone che si era portata a casa: ci avrebbe lavorato nel weekend. Si sentiva più leggera: i due bicchieri avevano fatto il loro dovere e i pensieri cupi erano svaniti come la nebbia che si dirada nelle tarde mattinate di sole in autunno.
Girò la manopola della saracinesca del garage, che cominciò ad abbassarsi. Restò un momento a guardare la pioggia che correva verso la grata alla fine della rampa; poi si voltò e le parve di intravedere qualcosa nell’ombra della sala caldaie, dove stendeva i panni.
Sentì un dolore secco e improvviso vicino alla fronte e tutto fu buio.

*

19:33
Trascinare quel corpo crollato a terra era stato meno facile del previsto. La dottoressa Statuto era ancora più leggera di quanto si aspettasse, ma sollevare da terra un peso morto era stato più faticoso che alzare la barra da cinquanta chili in palestra. Il manganello estensibile da sedici euro e novantanove comprato su Amazon aveva fatto il suo dovere e, come da tutorial di YouTube, la dottoressa era svenuta al primo colpo tirato sulla tempia.
Ci avrebbe messo un bel po’ a riprendere conoscenza, ma Bianca aveva portato i sali. Giusto il tempo di metterla seduta e legarla per bene alla sedia e poi l’avrebbe fatta riprendere. Aveva studiato i nodi: piano, a bandiera, del fuggitivo. Li aveva provati più e più volte: Bianca aveva delle cose da dirle, prima di fare quello che doveva.

*

19:35
Chiara Statuto ora era lucida. Aveva riconosciuto la ragazza che la fissava dalla sedia di fronte. Era passato tantissimo tempo, ma non aveva dimenticato quegli occhi così belli, a mandorla e di un blu intenso. Ricordava il suo caso: una storia difficile che aveva smosso un polverone enorme.
Era Bianca Regazzoni, abusata dalla madre che, per la vergogna della colpevolezza, si era suicidata a poche settimane dall’affidamento della bambina. Lei aveva seguito la piccola per qualche anno; poi, ne aveva perso ogni traccia.
Provò a parlare, ma si rese conto di avere qualcosa in bocca.
Vide la giovane donna che era diventata alzarsi e girare dietro di lei. Sentì lo strappo del nastro adesivo dal rotolo e il garage sfumò dietro a un velo di plastica.

*

19:37
«Lo sai perché sono qui? No? Non lo immagini? Guarda questa foto. Ti ricordi?», Bianca spianò il foglio piegato in quattro che aveva sfilato dalla tasca dei jeans.
«Quella lì, sotto al lenzuolo steso sul marciapiede è mia madre. La mia mamma, brutta scrofa. Te la ricordi? Quella che non mi aveva mai fatto niente di male e da cui tu mi hai fatto portare via. Te lo ricordi?»
Bianca aspettò finché gli occhi della dottoressa non le parvero di nuovo del tutto vigili. Le sorrise, la fotocopia spalancata appena sotto al mento: «Hai capito chi sono, vero? Io mi rifiutavo, secondo te. Ero troppo sotto shock, secondo le tue perizie. Me le sono rilette tutte, sai? Oggi sono vent’anni esatti.»
Le labbra si incresparono: «Poi, mi sono svegliata. Che gioia, la mattina dei miei diciott’anni: poter uscire sputando in faccia alla madre superiora e non tornare mai più.
Quelle puttane col velo da cui tu mi hai fatto segregare, quelle sì che si sono divertite coi loro crocefissi. Quelle sì che mi hanno fatto tanto male sotto, come mi dicevi tu negli interrogatori, troia. Mia madre no. Lei non aveva fatto niente e nemmeno i suoi amici. Quante volte te l’ho ripetuto?»
Bianca adesso guardava per terra, il volto contratto in una smorfia di rabbia. Poi tornò a posare gli occhi su quelli della donna che la fissava immobile: «Doveva essere una gioia andare via e poter ricominciare. Ma la luce non è tornata. Ed è tutta colpa tua. Ci vorrà un po’: il sacco è bello grande, ho fatto bene i conti.»
Bianca si alzò e fece scattare la saracinesca, aveva quasi smesso di piovere e tutto attorno pareva vuoto e silenzioso. Girò dietro alla sedia su cui sedeva Chiara Statuto e le posò le mani sulle spalle. Sentì quel corpo indifeso contrarsi per un istante. Si avvicinò a un orecchio e sussurrò: «Io adesso devo andare. Il buio è terrorizzante, cara dottoressa, lo sapevi? Mia mamma non mi aveva fatto niente. Finalmente, siamo pari.»
Poi, uscì nel silenzio della sera.

*

19:39
La dottoressa Statuto sentiva il fiato accorciarsi, la pashmina avvolta attorno alla bocca aperta si stava bagnando di saliva. La busta trasparente sigillata attorno al collo si avvicinava ad ogni respiro alla sua faccia.
Ma che stava dicendo, Bianca? Sua madre era colpevole, certo. Lei aveva subito abusi da quella donna e dai vicini di casa e lo shock l’aveva indotta alla negazione ostinata. Ma c’erano i racconti degli altri bambini e tutto combaciava.
Certo, era stato uno dei suoi primi casi così importanti, era giovane.
No, aveva ragione e basta. Lei aveva fatto bene il suo dovere.
La dottoressa Statuto si guardava attorno. Cercava con gli occhi un appiglio, qualcosa che frenasse la valanga di terrore che le stava soffocando la mente.
Doveva andare di sopra, dar da mangiare a Sigmund, farsi una doccia. C’erano le carte della giornata da rivedere. Dov’era il faldone che aveva preso dallo studio? C’era la cena da cucinare.
Ascoltò i passi sul porfido bagnato alle sue spalle, la saracinesca del garage che si abbassava. Sentiva gli spasmi della plastica che si contraeva sempre più veloce.
Passò del tempo che non era più in grado di quantificare. Poi, si ritrovò ancora su quel prato soleggiato, saltava la corda e sua madre le sorrideva.
La testa le cadde sul petto: un sussulto e la dottoressa Statuto era di nuovo nel suo garage. La plastica ormai aderente alle labbra, a bruciare sugli occhi spalancati che si appannavano di sangue.
Sigmund la guardava dalle scale: chi si sarebbe preso cura di lui? Tutto divenne buio.

 

Angelo Andreotti: sottratti alla grazia.

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di CLAUDIA MIRRIONE

 

Sottratti alla grazia. La produzione poetica di Angelo Andreotti (2006-2023)

Alla trentaseiesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino è stato presentato in anteprima il numero speciale della rivista “Laboratori critici”, Per Angelo Andreotti: sottratti alla grazia. Poesie 2006-2023, edito da Samuele e dedicato alla figura del poeta e saggista ferrarese, prematuramente scomparso nel maggio dello scorso anno e distintosi per i propri meriti culturali, in quanto già direttore di diversi musei e istituti di studio, tra cui il Centro Studi Bassaniani e, successivamente, delle Biblioteche e degli Archivi del Comune.

Sottratti alla grazia, però, non è solo un omaggio a questa personalità di spicco nel panorama culturale nazionale, è anche una profonda riflessione sul suo contributo artistico e intellettuale. Infatti, successivamente all’editoriale di Matteo Bianchi e Daniele Serafini, che è in realtà un vero e proprio saggio critico concernente i temi fondanti della poetica di Andreotti (la differenzia, già weiliana, tra «essere attenti» e il «prestare attenzione», il valore del silenzio, «l’attitudine quasi panteistica» dell’io verso la natura, la “sacralità” della parola), vi è una nutrita sezione antologica che presenta 75 componimenti tratti dall’intera opera poetica di Andreotti, mentre invece, nella terza ed ultima sezione trova spazio una raccolta di interventi curati da studiosi e critici di rilievo, nonché colleghi e amici di Andreotti, inframmezzati da diverse note critiche sull’opera del poeta, già precedentemente apparse su altre riviste di letteratura contemporanea.

Tutti i contributi sono rimarchevoli e colgono aspetti differenti sia della poesia andreottiana sia della riflessione teorica sottesa alle raccolte in versi. I saggi di Sergio Bertolino e Niccolò Nisivoccia ragionano, innanzitutto, sul concetto di tempo nell’opera andreottiana, e mentre il primo si sofferma sul ruolo della poesia quale “farmaco”, in un presente per lo più costituito – come ricorda anche un filosofo caro ad Andreotti, Byung Chul Han – da raffiche di istanti scollegati tra loro e sprovvisti di un ritmo e di una struttura, il secondo tratta proprio del tentativo di Andreotti di recuperare e reinterpretare il tempo presente, conferirgli quel giusto ritmo, per coglierlo, per viverlo, epicureamente, come una dimensione in cui è ancora possibile riguadagnare «tutto il bene che si perde». Il passaggio – coincidente con la raccolta Nel verso la vita (Este Edition, 2010) – da una poetica contrassegnata dalla metafora filosofica del cammino, della Wanderung di goethiana memoria, alla poetica del silenzio e della contemplazione, è invece indagato negli interventi di Duccio Demetrio e di Giuseppe Ferrara; dal 2010 Andreotti frequenterà sempre più spesso il gruppo dell’Accademia del silenzio di Anghiari, fondata proprio da Demetrio e dalla giornalista Nicoletta Polla-Mattiot. Riconosciamo, inoltre, altri due gruppi di interventi; da un lato quelli di Nina Nasilli, Stefano Raimondi, Massimo Scrignòli, dall’altro, quelli di Flavio Ermini, Antonio Prete, Paolo Vanelli, che si occupano, invece, rispettivamente di lingua e stile e dello statuto del soggetto. La parola poetica andreottiana, dalla palpitante e viscerale esperienza fisico-corporale, trasformandosi in pensiero e astrazione, si fa vero e proprio Ὄργανον, cioé “strumento” conoscitivo della “Cosa” (Nasilli), e, se talora assume una forte carica ragionativa e filosofica (Scrignòli definisce appropriatamente l’opera in versi di Andreotti prose en poème), talaltra abbraccia in sé anche ogni deviazione, intesa come divagazione o come stortura, anomalia (per questo, Raimondi descrive la poesia di Andreotti anche come una lingua dei “titubanti”). La relazione tra soggettività e interlocutore è anch’essa peculiare: ad una soggettività che va oltre i confini dell’io, che varca continuamente i suoi limiti interiori e si pone in ascolto di ciò che è altro da sé (Vanelli, Ermini), fa da contrappunto un “tu” che, però, piuttosto che essere un interlocutore esterno, in Andreotti oscilla sempre tra l’allocuzione interiore e il dialogo tra i sensi e il visibile (Prete). Un posto a parte occupa, infine, il contributo di Giovanna Menegùs che si sofferma sul senso di eticità nell’arte, lungamente investigato da Angelo Andreotti in diverse sue opere teoriche, tra cui Il nascosto dell’opera. Frammenti di un’eticità dell’arte (Italic, 2018). Secondo Andreotti, l’arte, e quindi la poesia, non vivono di per sé, come in una dimensione separata; estetica ed etica si intrecciano, sono tutt’uno. Di conseguenza, la poesia si configura sempre come soglia e orizzonte di possibilità, contemplando insieme – nell’occasione che si viene a creare – un poeta e un lettore, un autore e un fruitore: l’esperienza estetica è per Andreotti l’apertura ad «un’autentica relazione con l’altro».

Nella loro diversità e plurivocità tutti gli interventi critici colgono diverse angolature della scrittura di  Andreotti (per quanto riguarda sia le tematiche che le soluzioni stilistico-formali), e costituiscono di certo il primo passo per cercare di interrogarsi sull’eredità intellettuale che Andreotti ci consegna e di collocarlo giustamente, a partire da Ferrara (il cui perimetro murario è rievocato in copertina dall’opera di Paolo Pollara, “Own Now. Labirintinterrotti”, 2019), in un contesto più propriamente italiano. Bisogna, dunque, rendere merito alla rivista Laboratori critici per aver dato vita a un volume che rappresenta – nella sua struttura atta a offrire un panorama, se non esaustivo, certamente ampio e apprezzabile dell’opera di Angelo Andreotti – un contributo significativo e duraturo nel campo degli studi culturali.

 XIX

Essere le parole mute, e quelle dette

attraverso una voce che non si dà pace,

continuamente descrivendo il nostro divenire

che è uno stare nel tempo, durare nel presente.

Essere il respiro che anima la parola

affinché sia la cosa che diciamo. Essere

quella cosa, essere lo sguardo che la vede,

essere nelle dita ciò che tocchiamo per essere

pianta, questa radice, la terra, essere acqua.

Ciò che sarà è un immagine certa nel presente

che dura un tempo nel passato. Ciò che saremo

è già in ciò che siamo. Noi non siamo in cammino,

noi siamo la via che andiamo camminando.

 

(da A tempo e luogo, Manni, 2016)

 

Fluminiano

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Foto di Christian_Birkholz da Pixabay

di Matteo Ubezio

Archeologia

Fluminiano è un paese antico, emerso alla superficie della terra al tempo dei romani sul margine nord-occidentale della val Padana, là dove prendono l’abbrivio le scure montagne della Valsesia. Non ci sono oggi a Fluminiano lapidi o cippi che rimontino così indietro nel polverulento corridoio dei secoli ma un aratro messo a dissodare un lotto di bosco abbattuto bastò perché un bel giorno le campagne aduse al lavoro spícciolo del coltivatore diretto, restituissero dei bei sassi di fiume che nel loro disporsi dicevano di una rustica arte, di una pur rozza intenzionalità architettonica; e poi mattoni, coppi, rottami di inconoscibili anticaglie, perfino monete e una corta spada, un pugnalone tutto scontorto dalla ruggine. Erano i Romani ed erano gli anni Ottanta, al loro principio, a ritrovarli. Nei giorni seguenti la scoperta fu una gara ad accaparrarsi le più inedite licenze. Era stata solleticata la meritoria manìa degli storici ed ora anche archeologi locali e di altri trafficoni che, armati di vanghe, badili, palette e fili da agrimensore si gettarono a scavare qua e là per i coltivi sulle tracce di antichissimi insediamenti.

Cinta, sbanca, raspa, rileva, cataloga e dágli con lo zappino e la scopetta, per settimane e settimane si gruvierarono campi e boschi, finendo col portare alla luce le sobrie vestigia di un antico villaggio: esemplare, secondo la miglior vulgata latina, per virtù risparmiativa, cioè poverissimo.

Un poco discosta dall’abitato era riemersa come Troia allo Schliemann l’antica Fluminiano.

L’unica amministrazione di sinistra che mai si vide e si sarebbe veduta occupare le stanze del Municipio, euforica per la provvidenziale scoperta che pareva a modo suo confermare la bontà del voto in quella eccezionale tornata, benedisse i lavori e protesse l’archeologia. Il sabato e la domenica il paese usciva in bicicletta per andare a vedere i Romani e tante belle mattine di scuola le passammo a scampagnare.

L’estate segnò il culmine del furore storico-archeologico, poi però pian piano la corda cominciò ad ammollarsi e sugli scavi che forse avevan detto tutto ciò che avevan da dire, prese ad aleggiare un certo languore, un che di sonnicoloso, finché un giorno il cielo si coprì di nuvoloni barocchi e la stagione delle piogge incominciò sui cantieri fluminianesi. Dopo essere rimasti alla finestra a guardare la zuppa campagna che si beveva tutta l’acqua del buon Dio, pieni di brividi, uno a uno i volenterosi archeologi tornarono alla chetichella ai loro vecchi affari… “Domani, domani… magari… o dopodomani…” Nelle more dell’archeologia si rimisero in azione i contadini: uscendo dal forzoso letargo e tirando un antico sospiro di sollievo, zittamente fecero sparire quel che restava dei nastri biancorossi, scombinati qua e là dagli acquazzoni, ricoprirono le buche, spianarono i loro trivellati possedimenti e si rimisero a seminare la meliga e l’orzo per far girare il commercio dei grani. Alla faccia degli antiquissimi.

Ancora per qualche estate signoreggiò tra i bambini il sogno dell’archeologia, contrastato da quello affine ma di stampo esclusivamente libresco e scolastico della paleontologia, del dinosauro; per cui in più d’uno andammo in cerca del favoleggiato tesoro di San Michele che si diceva sepolto nei boschi dintorno al paese dagli ultimi monaci di un cenobio, il giorno prima dell’arrivo dei barbari.

Poi come ogni cosa anche la sbornia romana passò e il piatto forte dell’erudizione locale tornò ad essere il Medioevo, l’età del coccio e della spinapesce, giusto il plurimillenario materasso di ciottoli sul quale siede il nostro paese. Tra la chiesa del Mille e la muraglia del milledue, l’età di mezzo capita peraltro che sia anche più a portata di mano per chi s’abbia l’uzzo della storia locale, esibendosi i suoi smattonati sbréndoli sopra la superficie terrestre e non sotto.

Come che andò, questi fatti ebbero il merito di autenticare la patente di romanità di Fluminiano, da sempre reclamata in causa nella guerra dei municipalismi che non manca su queste terre dimenticate come su ogni lembo del glorioso stivale, dove ogni Fiorenza ha la sua Fiesole. Se è vero che nella communis opinio i Romani di Cincinnato e i barbuti che contrattavano in ostrogoto rincasando al suono di devote campane tendevano quasi sempre a confondersi, il réfolo archeologico aveva comunque dimostrato che i fluminianesi appartenevano al Corpus Iuris Civilis, a spregio degli abitanti del finitimo paese di Echildruta, che a un tiro di schioppo erano irsuti Longobardi dalla natura rozza e tudesca. Qualcuno distrattamente suggerì gens fluminia… dal bel nome azzurro forse di una certa sposa venuta dal Lazio figlia forse di un cugino adottivo di un pronipote di Giulio Cesare, l’ipotesi si fece voce, la voce documento e finalmente verità per i paesani a quel punto un po’ ebbri di supremazia; e così il favolato genoma era sigillato.

Cose che passavano in paese in quegli anni e che oggi non passano più

I carri armati in lunghissime file.
In cielo i caccia militari a due a due.
I camion dell’autostrada, cioè quelli che trasportavano avanti e indietro il materiale per la A26 allora in costruzione.
I giorni incantati della fiera agricola.
I giorni assurdi della fiera campionaria.
I motorini con la marmitta truccata.
Il rally. Sì, sullo scivolosissimo pavé della piazza.
Le orchestre da ballo.
La perpetua in piazza.
Le stupende ragazze grandi.

Il Mario Gambemorte, poliomielitico antennista cantante da osteria mendicante a Lourdes, che prima dell’avvento delle carrozzine elettriche si muoveva su un trabiccolo di sua ideazione composto smontando e rimontando a rovescio una bicicletta e altra fin lì insignificante meccanica.

I matti-miserabili, come il Carlo e il Ianu, fratelli.

Il Moffa, il Luigi Pidrinon e il Milcare, alcolizzati e ciclisti acrobati.

Me bambino.

Le risaie

Pochi chilometri a sud di Fluminiano si stendono le produttive risaie della bassa. Breve la strada dall’uno alle altre e il fiume che dà acqua a tutti è il medesimo; eppure i fluminianesi sentono un brivido correre lungo il filo della schiena ogniqualvolta attraversano quegli estenuati specchi d’acqua, quasi guardando si sappiano guardati da una grande, repulsiva forma di vita mostruosa, intossicante.

Là dove scompaiono i pioppeti e i boschi e a distesa d’occhio non si leva sull’orizzonte contro la lastra uguale del cielo e le colonne vorticanti di moscerini che una sperduta fazenda, là è il mondo di una razza di cuoio, rotta alla fatica, asciugata e dura più d’ogni altra. Gente che si nutre di rane, devota a lontanissimi santuari e a’ proprii cimiteri, di cui lustra i sepolcri più e più volte l’anno con cere speciali. Dediti da generazioni al coltivo del riso, gli uomini del riso e delle aie hanno in uggia le chiome e le ombre degli alberi: “Non si lasciano vicino alle risaie né alberi né siepi a motivo dell’ombra che vi porterebbero, ed anche perché vi accorrerebbero gli uccelli, che fanno tanto danno al riso”, e quindi, “Sulle orlature non si soffre nessun’erba, a motivo de’ semi ch’esse perderebbero, e che si spanderebbero nella risaia” (Nuovo Corso Completo d’agricoltura… Opera compilata sul metodo di quella del fu Abbate Rozier, Padova, Crescini, 1821, pp. 14-15).

Due secoli così, fedeli a un dettato che né rivoluzioni, guerre o progressi tecnologici hanno intaccato, il popolo delle risaie ha sistematicamente stroncato ogni speranza di vita a qualsiasi forma arborea o arbustiva potesse entrare in conversazione con la verdeggiante e poi bionda spiga del riso. Ed ecco che sulle immense distese d’acqua sorsero solitari i loro bellissimi cascinali, smisurati e industri come falansteri, eretti a capire le copiose famiglie padronali o dei fittavoli e ancor più, in estate, i fiotti sudanti, nervosi e super-ormonali delle mondine venete. Spesso in forma di ville tardo-rinascimentali (rottamati monumenti, oggi, di dinastie decadute), dove gli elementi classici dell’arco, della loggia, del frontone sormontato da svolazzi, rifatti però in mattone e calcina, stavano a sigillare agricoli trionfi; e come re barbarici rivestiti a imitazione di antiche memorie, nell’arsura osservavano dall’alto il passaggio di giganteschi carri di fieno e di paglia, vegliavano sulle preistoriche, fragorose trebbiatrici e gli essiccatoi meccanici, sulle pezze sudate di un’umanità inchinata alla fatica mostruosa del riso. E poi stalle leonardesche per cavalli ciascuno coinvolto in 10 quintali di muscoli onde vincere la diabolica polta delle risaie; e cortili, aie sconfinate che paiono ideate perché il sole vi si accoccoli senza che un solo sasso gli possa stuzzicare il culo quando in pieno agosto lui stesso, il grande palla di fuoco, si paralizza stremato dalla propria esagerata vampa… Ma basta così: se ho indugiato sull’incanto maligno delle risaie e delle pazzesche aie vercellesi è perché di lì vengono i miei nonni, lì giacciono una felicità e un dolore che l’una nel sogno e l’altro nelle solitarie veglie non mi lasceranno mai.

Il fiume

Fluminiano invece è cresciuta accanto al fiume, che col suo mormorìo e il suo scorrere e continuamente cambiare d’accento, di colore e di odore, mutare di letto, zigzagare, rinsecchirsi ed esondare ciclicamente, trasfonde tutt’intorno il suo spirito mercuriale, affabulatorio. Il paese è già proiettato verso nord, verso le prime ondulazioni che diventano in breve ripide montagne e ammattonano la Valsesia, fino al baluardo bellissimo del Monte Rosa sempre visibile all’orizzonte, di dove il fiume orgoglioso discende. Fluminiano è circondata da ogni parte da boschi cedui. Anticamente un po’ meno, a dire il vero: quando tutti o quasi i suoi abitanti erano contadini particolari, gelosi dei loro disseminati terreni i cui nomi, ripetuti tante e tante volte nel corso delle stagioni, erano noti ai docili cavallucci da tiro che uscivano dai portoni e imboccavano la via senza la guida delle briglie, al solo richiamo della voce: “al Campón”, “la Griscia”, “Seunt Miché”… e via, cloclò-cloclòp, cloclò-cloclòp… Mai i fluminianesi vollero che il redditizio ma infernale sistema della risaia toccasse le loro vite, e restarono Zuclói.

Oggi che i contadini sono scomparsi, la maggior parte di quei coltivi già messi a frumento, mais, vite, patate, sono tornati selvatici, coperti di boschi, come nella preistoria. Ci si passeggia la domenica, ci si va a far legna e funghi, castagne. Nei giorni d’estate si fa il pieno di frescura prima di sboccare sull’argine in pieno sole, torrido, del Fiume, di dove si scruta l’esile serpente d’acqua tra l’accecante bianchezza dei sassi, in cerca del punto migliore dove scendere e immergersi… Niente rane ma barbi e cavedani, trote e lucci, e per aria uccelletti a non finire, aironi bianchi e grigi, soltanto con il corollario in autunno di altrettante doppiette a rompere l’anima.

Fotografie

A Fluminiano ci vivono duemila anime. A detta dell’anagrafe il paese ne contava già tante ai primi del Novecento; e nel corso di un secolo le cifre non si sono granché mosse né su né giù. A guardare le vecchie foto, tra la fine dell’Otto e i primi del Novecento, si direbbe che i fluminianesi fossero tutti dritti come fusi e lampeggianti di sotto a virili mustacchi certi sorrisi da giorno di festa che è un piacere. Ci si immaginano cotechini, filze di mortadelle, le donne affaccendate attorno a bianche tavole della festa…, a scodellare frittura (andate a cercare “frittura piemontese”, scoprirete in primis che è un umido, malgrado il nome ingannatore, e poi e poi… oh… la sua opulenza, il suo barocco… cercatela ve ne prego…), il vociare grosso dei commensali imperlati di sudore e di godimento, la cuccagna dei gatti in cortile… Grandi baffoni penduli si rincorrono in quelle foto, gilet abbottonati su bianche camicie dalle ampie maniche, senza colletto, larghi cappelli e braghe sformate, ginocchiute.

La maggior parte delle immagini che si conservano ritraggono uomini di buon umore, compagnie di bevitori, cacciatori, farmacisti e ingegneri, lavoratori in posa davanti allo sterro, al muro che stanno realizzando. Tantissimi i soldati del regio, infagottati e compunti, sicuri, intorno al 1915; un po’ meno sicuri dopo. Le infinite famiglie con il nonno seduto nel mezzo. Spiegazzati gli abiti e sempre un poco impolverati, ma perdio completi di lóbia, giacca, camicia bianca, panciotto, orologio da tasca, braghe, scarpe o stivali. Spesso armati di fucile da caccia, la doppietta. E poi i maggiorenti, con le più inconfondibili facce da vecchi liberali, ricchi e schifapreti: imprenditori tessili e ferroviari, progressisti e all’occorrenza spietati, in mezzo alla polvere e al fango del far west.

E però, però. A guardarli bene, questi bei tipi di ammazzaporcelli e pistoleri, sono sempre gli stessi volti che si rincorrono per decine e decine di fotografie. I Foro, i Maggio, i Bandini, gli Almonte. Sempre loro. I benestanti: costruttori di ville dagli altissimi muri, feudatarii, glaciali, tutti in poca o tanta misura svezzati agli studi in città, ospiti di edifici liberty, pieni di cani da caccia negli ombrosi cortili porticati, pieni di doppiette, di macchine fotografiche…

Ma bisogna saperle guardare quelle foto; voler fare lo sforzo di collocarle nella storia giusta, altrimenti sarebbe come dire che fa bello tutto l’anno perché per cinque minuti si è guardato verso lo splendore del Monterosa in una fresca mattina di maggio e poi si è tornati a dormire.

Osservate la fotografia (1911) del Pedrito carrettiere, che fa eccezione. La camicia o quel che ne resta aperta su un petto tutto ossa, cilindro in testa e piedi nudi, con le brache arrotolate agli stecchiti polpacci, il Pedrito, tragica maschera lercia, si prepara a gareggiare contro il tramway per dimostrare la superiorità del suo servizio di trasporto a carretto spinto a forza di braccia sulla nuova nera diavoleria del vapore, direzione Biandrate. Sin esperanza, por supuesto.

Interni e ombra

A ricomporre a ritroso le sfilacciate storie che ci hanno narrato gli ultimi testimoni di quel mondo sparito, troviamo una miseria che ci dà l’angoscia, tali sono gli sterminati confini che si aprono alla nostra investigativa immaginazione. Un paese ingobbito sulle sue stalle buie, i soffocanti cortili pieni di muschio e cani legati al palo.

Togliamo la piazza, sulla quale si sporgevano le due eterne anime di ogni paese, qui per spirito di provocazione o per beffa affacciate l’una rimpetto all’altra: il municipio, di impronta neoclassica, antonelliana un po’ alla buona, e la chiesa grande, capofila tardo cinquecentesco delle altre trentadue di piccola o infima grandezza ben disseminate entro il perimetro del paese. La piazza di Fluminiano è bella: è spaziosa, regolare, esplosiva di direttrici che in numero di cinque se ne dipartono a raggiera per portare in altrettanti altrove, fra altri popoli e genti. C’è posto per tre bar sulla piazza, che sono stati anche quattro nei frangenti più epicurei della nostra storia.

Ma togliamo la piazza e le poche dimore signorili dei maggiorenti, cinte a ragion veduta da altissime muraglie sormontate dalle cime ondeggianti di nere conifere centenarie: autentiche fortezze.

Il resto è un muffito labirinto di bicocche. Secoli di sonno architettonico, stretti e accatastati gli uni sulla fatiscenza degli altri, dalle pietre del cuore vecchio del paese tra le muraglie del cadente ricetto, dimora fatiscente di turpi figuri che vanno e vengono, senza cognomi fissi né mestiere, alle viucole storte sulle quali pendono le gronde schiodate, dove si aprono come a sussurrare malie preistoriche i neri portoni che danno ai cortili. Una sola la ragione costruttiva: al pian terreno la cucina, il ripostiglio, le stanze da letto al primo piano e in alto il sut-técc. Le cucine annerite dal fumo della stufa e piccolissime, una sola finestrella stretta e profonda nello spessore del muro, e in alto pendente al centro del soffitto sopra il tavolo, una lampadina a incandescenza praticamente invisibile anche quando accesa se non nella piena oscurità delle sere invernali. Niente porte interne o poche, surrogate a far da divisorio tra i cupi ambienti da una tenda unta. E in cucina, péndule sulle bacchette a raggiera intorno al tubo della stufa, le mutande stese sui vapori della pignatta con gli eterni minestroni borboglianti a fuoco lento da mane a sera. Il cesso di fuori, sempre umido, gelato, con la carta di giornale.

Ricordo bene, ricordo tutto; anche se quando le vidi quelle tane erano giunte al limitare della notte con i loro moribondi abitatori, gli ultimi in un mondo ormai fattosi ancor più spaventoso sebbene in una maniera del tutto nuova. E già le stanze erano quasi tutte vuote e i corridoi spenti e la graniglia dei pavimenti opaca, i granai vuoti, odorosi di piscio di topo, e marcite le scale di legno che dal ballatoio al primo piano salivano al puntíl, sfondate, suicide, e tutto era ricordo, oblio e abbandono disfatto.

La zingara

Negli annali di Fluminiano si annota un fatto di cronaca ormai dimenticato se non in qualche memoria famigliare con la sinistra evanescenza di un sogno infelice. Da qualche anno le bambine della scuola elementare erano state ribattezzate Giovani Italiane per fare la ginnastica in cortile e il circolo operaio aveva graziosamente omaggiato il Duce della propria sede sulla piazza principale, in nome del progresso. Ma il paese nel profondo delle sue vie più storte e smattonate, dei suoi cortili bui e fioriti di muschio, continuava a vivere l’antica sua vita, ripiegata su mitologie millenarie e fantasmi senza tempo, preistorici.

In una straducola poverissima fra le povere tanto da meritarsi il nome di “via dei camini spenti” giusta la mestizia dei suoi angusti cortili, la tetra fuliggine delle stanze in cui campavano di polenta e castagne i suoi abitanti, i lisissimi indumenti, la cronica mancanza di legna per la stufa, vivevano Ugolino Marchesi, reduce della Grande Guerra e Lidia Giazzi con le loro due bambine piccole, Marta e Secondina. C’era anche un nipotino, seienne, dall’altra parte del cortile, che in quell’inverno del ’28 aggiungeva pena alla pena, tormentato da un maledettissimo male al bassoventre.

Il medico del paese aveva fatto quel che poteva, l’ospedale di Novara era lontano e le donne di casa non sapevano che pesci pigliare. Finché un giorno alla porta bussò una zingara e toccò a Lidia di aprirle.

Forse che le era giunto qualcosa all’orecchio, forse che il puro e semplice caso aveva guidato il suo mendicoso girovagare fino a quel tetto già contristato dalla fame ed ora vieppiù dalla malattia, fatto sta che la girovaga s’intrufolò nelle ambasce della giovane donna e gira e rigira la persuase con l’arte sottile e crudele di una fumosissima chiacchiera ad aprirle se non la porta di casa almeno quella del cuore. Invischiata nella parlantina della vecchia, condotta per mano da quella zelante alcahueta che è in ogni tempo il senso di impotenza di una mamma di fronte al male di un figliolo, Lidia si consegnò con tutto il suo fardello d’angoscia.

Le arti della zingara son quelle che arrivano là dove scienza e medicina non possono, dove sembrano arrendersi anche il rosario sgranato e le segrete preghiere rivolte al vero Dio. In cambio di qualche spicciolo la chiromante promise di formulare una veritiera diagnosi e di soccorrere al bisogno con diavoleschi accorgimenti. Prima che Lidia potesse pensare e magari por fine all’insensato colloquio, la megera fu lesta ad esibirsi nella pessima delle ciurmerie e pur tuttavia creduta e temutissima a quei tempi di miseria e fantastici terrori. Fattasi consegnare un uovo fresco e integro, la maga lo cominciò a tastare, a voltolarlo, vezzeggiandolo con sapiente mistero; ci borbottò di sopra un nonsenso che ne avvivasse il potere pronosticatorio, lo ruppe in una scodella approntata alla bisogna e, orrida frode, nel glutinoso albume comparve natante, come scivolato fuori dal rotto guscio, un enorme, sformato verme bruno.

Eccolo, il male del piccolo infermo!

Presa in una pania d’orrore, Lidia si disse disposta a pagare ancora, purché la sibilla stracciona aiutasse a salvare la vita e l’anima al nipotino. Aveva mostrato il male e come aveva saputo evocarlo così lo saprebbe anche comandare, le sussurrò la maliarda: lo farebbe ubbidire a bacchetta e sgusciare fuori dal bimbino come la munigata dall’uovo per rispedirlo tra i diavoli di dove sicuro proviene. E Lidia l’accolse in casa, e là tra i camini spenti si dispose a berne una a una, le fole, pagando con una coppia di orecchini pendenti, dei pochissimi gioielli che possedeva.

Lo stomacoso bruco era frattanto scomparso misteriosamente, e scomparve nella ruera in fondo al cortile l’uovo, nella roggia anco la scodella maledetta, fracassata, ché mai più di lì innanzi Lidia ne avrebbe sopportata l’oscena vista. L’incantamento era stato farfugliato e sarebbe toccato a lei di alimentarlo. Nei giorni che seguono, nel più angosciato segreto, di nascosto da occhi che non avrebbero capito, Lidia preparò l’ingenua pozione, la somministrò al malato perfezionando il rito oscuro con le rime di incantesimo imparate alla scuola del malaugurio, e ne attese gli effetti fra muti spasimi e angustiata speranza. Ma al povero malato nessuno seppe risparmiare lo squallido viaggio sul traghetto del barcarolo. Progredendo sempre più nel cammino del dolore e dello sfinimento, il bambino morì, stroncato da una non riconosciuta peritonite.

Rimasta sola per casa con il suo segreto, Lidia se ne fece una colpa. La pozione era malfatta? le parole imperfette? Aveva forse mancato in qualcosa ché la magia non era riuscita e la porta non s’era aperta per far transitare l’ambasciata agli spiriti? O tutto era male fin dal principio, perché la gitana medicastra era una strega e l’incantesimo una diabolica frode studiata per seminare morte e dannazione? Non già responsabile di aver trascurato qualcosa ma colpevole d’aver dato lei stessa la morte, d’avere ucciso il fantolino amato.

Giorno per giorno lo sgomento e l’inconfessabile rimorso le avvelenarono l’anima, finché in una notte di gelo, mentre Fluminiano dormiva colle sue vie vuote specchiandosi in una luna tersa e muta, Lidia lasciò la casa senza che nessuno se n’avvedesse. Scalza, pur non essendo tanto povera da non permettersi un paio di scarpe, e con indosso soltanto la camicia da notte colla quale si era coricata la sera, percorse le strade vuote del paese, camminando su ciotoli e fango. A chi l’avesse veduta sarebbe parsa un bianco fantasma in cammino per le misteriose missioni dei trapassati.

Superate anche le ultime case imboccò la strada che menava alla dogana e oltre, sul ponte metallico che ancora oggi scavalca il fiume, a mezzo del quale si fermò, si sporse sul nerissimo bisbiglio dell’acqua e si lasciò andare.

Mitologie ed epilogo

Nella lunga preistoria del paese la fantasia popolare si attorcigliava intorno alle immemori leggende contadine, ora di povera goliardia ma più spesso sinistre, di arcaica brutalità, sfoghi tribali: il segno dei vermi sulla pancia, il pianeta, la Orfelia trovata la mattina legata al palo in cortile là dove al tramonto era stata assicurata la capra…

Furono la guerra fascista e la guerra di liberazione a portare in paese nuove mitologie. Altri e diversi poemi sarebbero nati e, nutriti, si sarebbero propagati nel tempo, su su verso la giusta apoteosi e poi oltre, ingigantiti, stravolti, e quindi usurati dal ripetersi di bocca in bocca, ingaglioffendo nella discendente parabola fino a ridursi a pupazzate penose. Così si sono infradiciati loro malgrado i partigiani del norditalia, l’eroica staffetta, il contrabbando sui barconi…

Anche qui il penoso pigia pigia per saltare sul treno degli eroi e dei martiri. Tutto in contumacia, come non potrebbe essere altrimenti quando il tempo ha fatto la sua solita, infame rapina. Ma nella corsa all’accaparramento e alla prelazione, ecco, suonare il píffero, grattare il mandolino, tesserarsi, epicizzarsi… Le eterne parole sbagliate per una causa giusta.

Post epilogo

Da Fluminiano ce ne siamo andati. Giurando e spergiurando che non avremmo tradito. Avremmo studiato, e poi avremmo dedicato le nostre acquisite arti, sottili o spuntate, spazieggianti o mediocri o minime che fossero, a contendere alla morte infame tutta l’avventura, la magia, l’amore che ci erano stati regalati.

Come siamo diventati così?

E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lacrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade

come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia volto.

RASOTERRA #2

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di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)

(il merlo)

A Mommo gli orti e i campetti sono striminziti, in un secondo zampetti da una parte all’altra. E sono in pendenza, perché lì sul fianco della montagna non c’è niente che non pencoli in un senso o nell’altro, anche le case e le strade e i prati si aggrappano saldamente per non scivolare a valle. Quando li incidono per seminare il marrone è denso e fosco, poi con il sole si slava, tira quasi al grigio.
Le casone e le grandi soffitte aperte al vento sono fatte di sassi portati dal ghiacciaio, sassi crudi, grigi o beigetti, e la terra marrone del versante s’infiltra anche nel paese, formando istmi e pozzanghere. Proprio per questo tra una casa e l’altra hanno potuto incastrare una miriade di orti, sfruttano fino all’ultimo centimetro per piantare l’insalata e i pomodori e quant’altro. Ognuno è circondato da una rete metallica di questo o quel tipo, non ce ne sono due uguali: osservando dall’alto si direbbe un fantastico lavoro all’uncinetto.
Anche tra le case nuove, perché ci sono anche quelle, e non sono così belle, e anzi sono proprio bruttarelle, ci sono tanti orti, pure loro merlettati. Spesso ce n’è uno anche sopra il garage in cemento armato dove parcheggiano l’automobile, e quindi le macchine dormono sotto le biete e la cicoria. A loro volta quando partono per farsi un giro fanno piano, in modo da non disturbare nessuno.

 

 

(il lombrico)

Si dice che gli uccelli patiscono delle attività degli umani, ma nei fatti siamo ben lungi da una estinzione completa. Alcune specie particolarmente assassine traggono anzi profitto dagli sconvolgimenti causati da quegli assatanati delle arature e dei diserbanti. Bisognerebbe pensare a delle azioni contro di loro ben più efficaci, delle strategie meno aleatorie.
Si potrebbe per esempio avvelenarli in massa. Basterebbe trovare dei candidati disposti a sacrificarsi, come ce ne sono in tutte le rivoluzioni e in tutte le lotte gloriose dei popoli umani per la loro indipendenza. Sarebbe sufficiente che questi prodi combattenti si riempissero l’intestino di una pianta molto velenosa o d’un insetticida particolarmente tossico, e si mettessero in bella mostra. Sarebbe fatta. Poi potremmo finalmente vivere tranquilli.
A mio parere dovremmo eleggere per acclamazione, o insomma qualcosa del genere, i valorosi eroi che resteranno nella nostra storia. Plebiscitando i più coraggiosi, quelli che potrebbero renderci fieri, più consapevoli del nostro grande valore. Sarebbe un enorme progresso, poter vivere senza il terrore che un tetrapode fornito di becco ci acchiappi per la testa ogni volta che ci arrischiamo a uscire in superficie per cercare del cibo. E per di più avremmo dei semidei da onorare, noi che non abbiamo nessun calciatore o cantante celebre.
Il problema è che siamo molto individualisti, non sappiamo batterci tutti assieme per il nostro bene comune. Tutti parlano di ecologia e della necessità di eliminare gli uccelli, ma nessuno fa niente. Perfino i nostri cuccioli sanno che il nostro avvenire è fosco, se non ci decidiamo a prendere le misure necessarie. Ognuno di noi pensa però solo a sé stesso. Ognuno passa le sue giornate preoccupandosi unicamente del proprio stomaco e delle proprie voglie sessuali, fingendo di non sentire cosa dicono gli altri. Siamo di gran lunga troppo terra terra.

(la coccinella)

Le uova delle dorifore sono squisite. Ne spilucchi una, e poi un’altra, e un’altra ancora, non riesci proprio a fermarti. Il fatto è che sono anche molto attraenti, con quel loro colore giallo carico, che sembra ricevere la luce dall’interno, e quell’aspetto lucido e perfettamente levigato. Anche la vista è importante, quando si tratta di ghiottonerie. Per fortuna le femmine ne depongono tantissime sulla faccia inferiore delle foglie delle patate, a grappoli compatti, quindi molto spesso c’è proprio da spassarsela.
Gli umani preferiscono però le orribili escrescenze delle radici della pianta ospite, marroncine e sporche di terra, senza sapore e indigeste, insomma completamente immangiabili. Ognuno ha le sue abitudini alimentari e i suoi gusti, per carità, ma in qualche caso si fa fatica a credere che un essere dotato di una qualche intelligenza faccia una scelta del genere. Le divorano bollite, fritte, al forno, al cartoccio, in tutti i modi possibili.
Per loro è essenziale quindi che la pianta sia in una forma perfetta, in modo che le poco appetibili protuberanze si gonfino come inquietanti carcinomi. Soffrono, se vedono che anche solo una foglia è smangiucchiata. E immaginiamoci allora quando legioni di dorifore adulte e di larve partono all’attacco tutte assieme. Per loro è una catastrofe, un flagello biblico.
Dal loro punto di vista le dorifore – che noi consideriamo generose gallinelle – sono il diavolo in persona, che vorrebbe trascinarli nel suo raccapricciante inferno. Se le sognano la notte, da quanto le temono, e le tentano tutte per liberarsene. Ignoranti come sono se la prendono anche con noi, senza vedere che facciamo i loro interessi, spazzolando le batterie di uova appiccicate alle foglie. Danno per scontato che anche noi sgranocchiamo le piante, quando noi nemmeno le tocchiamo, mica siamo delle capre.

I materiali testuali e grafici che presentiamo (qui la prima puntata) sono stati elaborati nel corso della residenza artistica “Terra Alta” al Centro CA’MON (Monno, Valcamonica, 2023-2024), che terminerà questo settembre, finanziata dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (Creating Living Lab, quinta edizione). Essi entreranno, assieme alle interviste agli specialisti di varie discipline (agroecologia, economia responsabile, arte…) che sono stati coinvolti nel progetto, in un volume in preparazione. Il direttore artistico di CA’MON è Stefano Boccalini, mentre tutte le nostre attività sono state coordinate da Elena Turetti, responsabile della progettazione, e da Marco Milzani, direttore della Cooperativa Sociale Il Cardo (Edolo, Valcamonica).

Abbiamo iniziato questo lavoro sulla terra (con la t minuscola) e i viventi, a cavallo tra arte scrittura e scienza, nella primavera del 2021, nell’immediato dopocovid, con la residenza “Panorama” (PETR Cœur des Hauts de France, DRAC Hauts de France, 2021-2022), e lo abbiamo poi continuato nell’ambito della residenza A.R.T.S (2022 – 2023) a Lilla (Ville de Lille, DRAC Hauts de France).

Elena Tognoli e Giacomo Sartori (ETGS)

Il pop deve ancora venire

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di Alessio Barettini

 

Libro di racconti o romanzo a episodi, come scrive Giulio Frangioni nella postfazione a Il pop deve ancora venire, (Roma, STC, 2024, 14 euro) esordio di Anna Chiara Bassan e primo libro della casa editrice STC per la collana Atrio. Atrio, il luogo dove le cose stanno succedendo e dove si attende quale collocazione prenderanno, una dichiarazione di intenti davanti al panorama letterario attuale.

Una voce decisa e affilata, quella di questo libro, utile a delineare le complessità psicologica dei personaggi, protagonisti delle storie e del libro intero. Personaggi, persone, brave persone, come scrive Bassan nello Sfratto, l’ultimo racconto. Ma non c’è nulla di semplice. Le brave persone sono davvero brave? Questo sembra domandarsi l’autrice, perché i suoi personaggi si ritengono senz’altro brave persone, ma, vuoi per questioni contestuali, sociali, vuoi per elementi del carattere, si ritrovano a compiere gesti degradanti, mortificanti, disprezzabili. Eppure quelle azioni, quei comportamenti, non sono giudicate moralmente. La morale semmai è altrove, più all’esterno, come una divinità irridente. Ma sono giudicate, questo sì, o dalle persone stesse che le hanno commesse, magari diversi anni dopo, o dalle persone che quelle azioni le subiscono, o da altri testimoni. Si crea un diorama di personaggi, tutta la scrittura è in effetti un mandala che i personaggi via via decostruiscono con le loro depravazioni. Ma non si tratta mai di depravazioni fini a se stesse, è sempre l’esito di un contesto o, nei peggiori casi, di un percorso anche drammatico. Si ha l’impressione che il numero dei racconti contenuti qui possa essere infinito, perché ogni personaggio che compare, compare più di una volta, lo ritroviamo più oltre, o in un rovesciamento di prospettiva o in un momento differente della sua vita. Questo è interessante, perché ogni azione di ogni personaggio diventa quindi solo un pezzo di complesse personalità. A ben guardare sono sempre azioni indotte, dettate da un contesto, e quindi più grandi dei personaggi stessi, che quindi si trovano a essere sempre vittime, nonostante siano anche carnefici. Questa contraddizione è tipica dell’età dell’adolescenza. Tutti gli adolescenti sono lo stesso adolescente, tutte le iniziazioni sono lo stesso esorcismo, scrive Bassan, che si rivela abilissima a creare situazioni in cui i personaggi adolescenti vivono un episodio simile, un rituale. Situazioni in cui si è appunto contemporaneamente vittime e carnefici, se è vero che la radicalità che li spinge ad agire, a essere, li trascina oltre, lascia conseguenze che ritroviamo quando sono adulti, in situazioni complementari o simili a quelle dei traumi vissuti o imposti. Sono situazioni che sono sempre delle sconfitte, perché anche il carnefice soffre, e questo nel libro è chiarissimo, c’è quasi una sovrapposizione fra le due figure, come fra Guido e Sveva in Tono sociale di progresso o fra Ada e Tommaso, protagonisti del racconto omonimo, anche se poi Ada ottiene il suo riscatto solo più in là, in L’iconografia della salvezza. In effetti si può anche parlare di salvezza, per raccontare questo libro, perché nella dicotomia fra vittima e carnefice questo momento esiste, e seppure breve, questa brevità è apparente, perché la salvezza è quanto di più lungo ci possa essere, dato che la salvezza è perlopiù desiderio di salvezza, momento agognato che si rivela solo come atto di passaggio fra una situazione a un’altra, rituale iniziatico, appunto.

La profondità dei personaggi, raccontata ora in terza e più raramente in prima persona, avviene sempre per gradi. Talvolta i racconti riguardano una sola situazione, altre volte più di una, ma sono sempre sostenuti da una scrittura attenta, controllata, capace non soltanto di delineare con esattezza le varie storie, ma di usare molte parole non consuete, di ripetersi poco, sono scelte lessicali ponderate con estrema cautela. Lo stesso per le frasi, per esempio: «Dal novero dei peccati insomma, avrei rischiato di escludere il privilegio dell’arroganza che questa tua bellezza comporta, e il conseguente errore nel calcolo di cosa sia o non sia parte del tuo meritato, di quanto ti spetta ricevere dalla vita.» Oppure: «Lei si blocca, lo impara. Guido vede, o crede di vedere, il pianto iniziare, confrontarsi con il suo autocontrollo, con la consapevolezza di quanto quella mattina avesse pagato la prestazione della truccatrice, quindi riassorbirsi.» O ancora: «Ho notato che mal sopporti quando io faccio riferimento agli organi sessuali, sia che utilizzi un significante comune (cazzo/figa, per intenderci), sia che mi avvalga del loro specifico significante anatomico.»

Insomma il linguaggio è uno strumento capace di far affiorare la verità, di riflettere sui traumi prima e di mostrarne gli esiti poi. Ma quel che più dimostra l’abilità della scrittura di Anna Chiara Bassan è il fatto che gli esiti emergono spesso in modo sorprendente, sia per i personaggi, ma anche per i lettori stessi che, seppure possono aspettarsi, dopo la lettura di alcuni racconti e quindi dopo aver compreso il meccanismo del libro, una certa ripetibilità, finiscono per essere sempre anticipati dall’autrice. Questo meccanismo nel meccanismo è sorprendente in maniera eclatante nel primo racconto, Tratte brevi, e se diventa meno sorprendente via via che i racconti avanzano, è solo perché Bassan non si preoccupa di cambiare le carte in tavola. In sostanza è come se stipulasse un patto con il lettore, ragionando con lui sullo stupore, sull’effetto sorpresa che man mano che si procede nella lettura discende progressivamente, nell’idea che, come dice Ada nell’Iconografia della salvezza, che è il penultimo racconto, «la conclusione è anche l’inizio.» E perché proprio la sorpresa? È molto semplice, perché la sorpresa è parte stessa di quelle situazioni raccontate, del passaggio dall’adolescenza al disincanto, uno stupore al negativo, per così dire. Da qui la profondità del testo. Da qui la complessità dei personaggi, dei singoli personaggi ma anche del fatto che noi leggiamo di ricorsi, ricorsi storici che visti unitariamente costruiscono un’architettura sapiente, in cui i paralleli non sono solamente fra personaggio e personaggio ma fra i vari racconti, rimandi che è possibile notare mentre si sta leggendo, ora perché i personaggi sono gli stessi, ora perché le situazioni sono analoghe, e di questi rimandi, di nuovo, sembra che ce ne possano essere altri, molti altri, infiniti, forse.

In altre parole siamo davanti a un libro che gioca con i punti di vista, ci sono spostamenti costanti del punto di vista anche all’interno di uno stesso racconto. Così per esempio in Tratte brevi questo gioco salta all’occhio, in Primo amore c’è un’alternanza di punti di vista che passa da un personaggio all’altro per poi ritornare al primo, alla prima, cioè alla protagonista, Lia, e qui si ha un cambio di voce, addirittura, un altro effetto sorpresa ottenuto con sapiente orchestrazione.  Anche in Tono sociale di progresso si vede questa abilità, questo artificio letterario, perché l’incontro fra Guido e Sveva avviene lentissimamente, il tempo del racconto qui è dilatato, e mentre i due stanno per incontrarsi, noi rimbalziamo da una parte all’altra, nel crescendo dell’attesa.

Tutti i racconti presentano situazioni sentimentali precarie, ci sono quelli dell’adolescenza, che si muovono sul filo del passaggio all’età adulta, mentre quelli dell’età adulta sorprendono per il modo con cui i personaggi evolvono, nel bene o nel male, come se quel rituale avesse sedimentato, allora, tornando nei modi e nella forma.

Il libro contiene anche un QRCode che rimanda a un EP dei Tare, band nella quale suona la stessa autrice, cinque brani composti appositamente con degli estratti del libro stesso.

Un esordio convincente, Il pop deve ancora venire, dove la forza della scrittura e la precisione del lessico appaiono in primo piano, con la padronanza di Anna Chiara Bassan e l’abilità nell’uso delle parole «instabili, precarie e mutevoli anche da sole.»

Note da Gerusalemme: Lucia D’Anna

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Vedran Smailović, primo violoncello dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo, durante l’assedio.

 

Avvolti nel regno del silenzio

di

Lucia D’Anna

Qualche giorno fa mi trovavo a Varese a casa dei miei genitori con la mia famiglia per le vacanze e per tirare un po’ il fiato da questi mesi di guerra. Ci siamo ritrovati anche noi nell’ansia della minaccia da parte dell’Iran e nel tentativo di comprare dei biglietti per tornare a casa, per quanto molti ci abbiano considerato dei pazzi. Tornando all’aeroporto di Tel Aviv, vuoto, fila dei passaporti stranieri deserta, ero l’unica in piedi davanti allo sportello, ho visto i volti di tutti i passeggeri dell’aereo da sorridenti trasformarsi in sguardi fugaci e con occhi che guardavano più in basso che in alto.

Tutti erano consapevoli di dove stavano tornando, forse tutti spaventati di quello che potrebbe succedere o no in questi giorni, ma con il bisogno di tornare a casa, anche se con religioni, idee, estremismi diversi, ancora tanti essere umani molto lontani tra loro hanno in questa terra la loro casa e tutti alla fine sentono la necessità di tornarci, minacciati o no. Quello che mi ha più colpito, che non avevo compreso nel soggiorno in Italia, è il regno del silenzio che ormai ci avvolge da mesi.In vacanza più volte mi è capitato di chiedere a chi era intorno di abbassare la voce, di parlare uno alla volta, come se fossi stordita infastidita da tutti quei suoni felici, rimanendone estranea quasi ferita. Non nascondo che il mio problema verso tutta quella cascata di suoni abbia fatto storcere il naso a chi mi era intorno, ma ne ho capito la causa solo una volta che sono riatterrata a Tel Aviv.

Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. A volte l’assenza di rumori ci dà pace, tranquillità, ci rilassa. Tanti cercano in montagna questa assenza di onde sonore a volte fastidiose, ma non riflettiamo su una cosa. I suoni sono la vita, l’allegria, la presenza di tanti esseri umani insieme. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.

Ci siamo abituati alla mancanza di musica, di tante persone che parlino assieme, di risate fragorose, di umani che cercano di parlare uno sull’altro, di voglia di comunicare, ballare, cantare, suonare. Qui la mancanza di suoni è solo il risultato della paura, della stanchezza, della perdita dei propri cari, delle restrizioni, dell’economia che inizia a zoppicare per tutti quelli che ci abitano. Siamo attenti a tutto, a chi si parla, a cosa si dice, a non festeggiare troppo per rispetto, non ci vediamo mai con troppe persone. Tutti ne stanno pagando il prezzo. Quindi stiamo dentro al silenzio di questa terra, rimaniamo storditi dalla vita e dai suoni che e esistono fuori da qui.

Purtroppo non è la pausa d’effetto di Beethoven, ma sono le vite di tutti i presenti nel lembo di terra che hanno interrotto le loro esistenze più o meno normali da mesi. Qualche segno di vita ancora c’è, un movimento misto di israeliani e palestinesi, si chiama Standing Together, stanno cercando di mostrare il lato buono di questo posto con tutte le loro forze, un ragazzo a Gaza sta cercando di riattivare una specie di scuola per tenere impegnati i piccoli. Sono fiori timidi che escono dalle crepe di una terra ormai arida, in cui regna solo una cosa, il silenzio. Aspettiamo con ansia una nota, anche solo una che ridia la vita a tutti quanti.

Articolo pubblicato dalla Prealpina 12.8.24

Il mazzero

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di Arjuna Cecchetti

 

 

Pascal, come ogni pomeriggio, è al bar. È il giorno della Santa Pasqua, Gesù non è morto, Egli è risorto. La messa è finita a mezzogiorno ma le parole del parroco, Gaston, riecheggiano nella mente di Pascal. Parole intrise di speranza, speranza a sua volta impregnata di un mistero più grande. La Resurrezione. Una nuova vita tra le braccia del Signore. Pascal crede in Dio, eppure ogni volta che sogna la fede vacilla. Talvolta nemmeno le parole del parroco Gaston lo sollevano.

Pascal è al bar, seduto su una sedia di fronte ad una delle finestre affacciate sulla valle sottostante. Gli amici giocano a carte seduti attorno al solito tavolo. Miguel è il proprietario del bar, Pedro è l’amico con cui Pascal passa la maggior parte del tempo, ci sono anche Alfons e Bernard. Il sesto uomo nel locale è il vecchio Batista, il quale sonnecchia con la testa infossata tra le scapole, seduto di fianco al tavolo da gioco.

Pascal ha le occhiaie perché non ha dormito. Vorrebbe chiudere gli occhi e sprofondare nel sonno come il vecchio Batista, ma teme di sognare ancora. Non vuole, ha sognato troppo la notte precedente. Stende le gambe puntellando i piedi sul davanzale della finestra e butta indietro la schiena. Le palpebre rimangono aperte all’altezza delle pupille, non vuole chiudere gli occhi, se li serrasse e se il sonno prendesse il sopravvento egli si ritroverebbe di nuovo nel bosco attraversato dal ruscello e le tracce di sangue sopra le felci tornerebbero a tormentarlo. Per questo si ostina a tenere le palpebre aperte scrutando il paesaggio oltre la finestra.

A nord la vetta innevata del Monte Cinto riflette i raggi bianchi del sole, gli stessi raggi investono la chiesa gialla e solitaria costruita sul colmo della collina verde. Tre querce secolari crescono nei pressi del campanile. I rami delle querce sono decorati dalle nuove gemme che brillano al sole. L’albero risorge come Cristo. L’aria è tersa.

Miguel lo tocca su una spalla avvisandolo che stava russando. Pascal apre gli occhi e pensa che ha avuto fortuna, lo hanno svegliato prima che iniziasse a sognare il bosco giallo, il torrente e le scure tracce di sangue che macchiano le felci.

Si aggiusta sulla scomoda sedia del bar, fuori il panorama non è cambiato, anzi si. Sul sentiero che risale dal bosco sono comparsi dei forestieri. Due giovani coppie e due bambine. Gli adulti camminano lentamente, hanno le gambe pesanti e sulle spalle portano gli zaini, sono escursionisti di ritorno dalla valle. Le ragazzine potrebbero avere tra i dieci e i dodici anni. Questo osserva Pascal dalla sua posizione: turisti immersi nel verde luminoso della sua valle. Ma niente lo rallegra la sera della Santa Pasqua.

Tra un po’ li vedremo entrare, pensa.

Gli escursionisti hanno raggiunto le prime case del villaggio e le ragazze subito sono corse da Oreste, il gatto di Luis. Oreste si infila miagolando tra le loro caviglie. Questo osserva Pascal anche se niente lo rallegra.

Pascal sospira.

Cosa c’è Pascal, cosa ti rabbuia?

Nulla Miguel, ho riposato male. Perché non passi la spugna sul bancone e toglie quei bicchieri sporchi dalla vista?

Dopo, ora sono di mano.

Miguel torna al tavolo dei giocatori. Ad un tratto il vento apre la finestra accostata e trasporta dentro i rumori da fuori, le ragazzine stanno ridendo perché il gatto afferra i lacci delle loro scarpe mentre camminano. C’è altro nell’aria, c’è l’odore della primavera che ogni giorno si fa più intenso, e ci sono le voci del coro, nella sagrestia stanno cantando. Per alcuni secondi l’aria stantia del Bar des Amies si purifica.

Poco dopo uno degli escursionisti apre la porta a vetri e rivolto al resto della comitiva fa loro cenno di entrare.

Venite, è aperto!

I forestieri entrano portando nel bar il gaio rumore di ogni famiglia nei giorni di vacanza. Miguel, però, continua a tenere le carte in mano e a seguire la partita non mostrando alcuna urgenza di alzarsi per raggiungere il bancone e servirli. Sulla lastra di zinco sono rimasti i vecchi bicchieri che attendono di essere messi nell’acquaio e i cerchi di alcol che andrebbero puliti con la spugna. Miguel ha dato un’occhiata alla situazione del bar poi è tornato alle carte. Con un orecchio ascolta gli escursionisti parlare tra loro, non sono corsi, vengono dall’Italia. Perlomeno non sono francesi.

Pascal stesso ha intuito la provenienza dei forestieri ma nemmeno lui si volta per osservarli. Miguel si occuperà di loro, pensa.

I turisti si guardano intorno, uno dei due padri si è già seduto sullo sgabello, una ragazzina lo ha seguito facendo lo stesso. Le madri posano i rispettivi zaini sopra il tavolo accanto alla finestra e osservano il panorama che si gode da lì.

Miguel, alto circa un metro e novanta, sessanta anni, posate le carte si alza e con passo pesante va a servirli.

Una delle due donne, in ottimo francese ordina due cole e quattro pastis. Miguel recupera i bicchieri sporchi, passa la spugna, prende tre vetri puliti e la bottiglia di Damì, serve i tre, poi spinge i bicchieri verso gli adulti; dal frigorifero sotto al bancone trae due bottigliette di cola, le stappa e le spinge in direzione delle ragazze, entrambe sono salite sugli sgabelli alti. Miguel non dice una parola per tutto il tempo. Pascal, due volte guarda verso gli escursionisti, le donne hanno un ché, pensa. Nel frattempo Miguel, silenzioso, ha lasciato il banco ed è tornato al tavolo da gioco dove lo aspettano Pedro, Bernard e Alfons. Batista sonnecchia come un gatto, il cane Poncho, bianco come latte avariato, è entrato a curiosare.

Una delle due ragazzine, la più grande, sta mettendo in fila davanti a sé le zollette di zucchero. È attratta dalle zollette, in Italia non si trovano.

Cavolo! Ma come ti vengono queste cose! La sgrida il padre.

Uno spruzzo di coca è uscito a getto dalla bottiglietta riversandosi sullo sgabello e poi sulle mattonelle del pavimento. Sul banco è rimasta la carta di una delle zollette di zucchero.

Il padre cerca freneticamente i tovaglioli di carta ma i contenitori di latta sul banco sono vuoti. Nessuno fra i giocatori si è accorto della bibita versata sul pavimento. Passati alcune secondi anche ai turisti non interessa più e riprendono chi a sorseggiare i pastis e chi a succhiare dalle cannucce.

Dalla posizione del sole Pascal giudica che il tramonto arriverà tra mezz’ora. Sospira e pensa che tra poco attraverserà il paese in compagnia di Pedro, insieme andranno dalle bestie per dar loro l’acqua e chiudere l’ovile. Come sempre. Gli ultimi raggi del giorno illuminano la neve bianca sulla cima del Cinto mentre la chiesa gialla incastonata tra le grandi querce è già in ombra. É il giorno della Santa Pasqua. Il Signore risorge è la prova che Egli è divino e che possiede il potere dell’amore. Egli ama. Ama tutti?

No, Pascal non si sente amato, si sente truffato. Anche Pascal ha un potere, ma non è quello dell’amore, né della vita, né della resurrezione. Eppure è un potere. Un potere altrettanto divino.

Finalmente la donna che parla francese con ottimo accento riesce ad attirare l’attenzione di Miguel e Miguel sorride e dice che non c’è alcun problema e si alza dal tavolo da gioco e con lo stesso passo pesante, che evidentemente è il suo passo, entra in un piccolo stanzino e poi esce con un mocio che passa velocemente sotto lo sgabello dove insiste la chiazza della bibita rovesciata.

Et voilà!

Sorride Miguel. A quel punto la donna dice che farebbe loro piacere offrire ai presenti un giro di pastis. Lo deve dire due volte perché all’inizio quell’uomo grande e grosso pare non capire il suo proposito. È tradizione nei paesi corsi che quando si entra in un bar si debba offrire un giro di pastis a tutti gli uomini presenti. Miguel sorride e si fa cordiale. Versa nuovo pastis nei vetri dei forestieri e riempie nuovi piccoli bicchieri per i compaesani presenti. Sveglia anche il vecchio Batista. Pascal riceve il suo bicchiere, alza lievemente il sopracciglio scuro per ringraziare i forestieri, ma non porta nemmeno il vetro alle labbra. Tiene il bicchiere con la sinistra, la mano trema, poggia il bicchiere sul davanzale e continua a guardare la chiesa chiedendosi perché proprio lui?

Poco più tardi è il turno di Miguel, adesso è lui che vuole offrire un giro. Rimbocca di liquore giallo i bicchieri dei forestieri e stappa altre due bibite per le ragazze. Uno dei due padri, il più alto, sta raccontando che loro vengono spesso sull’isola, hanno cominciato prima ancora che nascesse la bambina. All’inizio per vacanza, ma ora hanno delle collaborazioni di lavoro. Racconta. Hanno una casa che usano quando vengono. Miguel chiede in quale paese abbiano la casa e dice che conosce il paese e che una volta o due c’è pure stato. Anche Pedro, Bernard e Alfons si sono alzati e sono venuti al bancone per prendere i bicchieri e poi si sono fermati interrompendo la partita. Il vecchio Batista ha trascinato una sedia lungo il muro, ha afferrato il bicchiere e si è messo seduto ad ascoltare gli altri. Il cane Poncho è tra gli sgabelli delle bambine, lecca i rimasugli zuccherosi della bibita sul pavimento e si lascia accarezzare la schiena dalle due.

Pascal beve d’un fiato il pastis e osserva i suoi amici. Pedro è il più gaio di tutti, offre un terzo giro. Offrirà anche il quarto, pensa tra sé Pascal. Poi trae dalla tasca della camicia il pacchetto di sigarette e scansando la sedia si alza e si avvia alla porta per fumare. Il cielo si è fatto indaco e fuori l’aria è fresca e dentro l’atmosfera è allegra.

Pascal accende la sigaretta, dall’interno giunge il chiacchiericcio.

Gli escursionisti, appagati dal pastis e dalla convivialità condivisa al Bar des Amies, escono rumoreggiando sulla strada. Pascal che non ha avuto voglia di condividere alcunché prima, non vorrebbe nemmeno averci a che fare ora, ma il padre che parla il francese chiede per quale via dovrebbero prendere per raggiungere il ristornate.

Pascal aspira dalla sigaretta, poi fa loro un cenno con la testa piegandola verso sinistra.

Di là.

Pascal con lo sguardo segue il gruppo incamminarsi verso la chiesa, poco oltre troveranno facilmente il ristorante. Infine esce anche Pedro.

Andiamo a chiudere le bestie? Gli fa Pedro.

Certo, certo, ma lasciamo che quelli arrivino al ristorante non ho voglia di starli a sentire. Dice Pascal all’amico.

Pedro è ancora allegro. Non sa. Non ha visto il bosco, non ha notato le macchie rosse sulle felci, né ha risalito il torrente. Egli non sa di essere stato un cinghiale. Pensa tra sé Pascal.

Andiamo, su. Dice ancora Pedro battendo sulla spalla di Pascal.

I due amici si avviano. Tagliano il paese. Quando giungono alla chiesa Pascal scopre che allora è vero che stanno cantando gli inni. Dalla sagrestia emerge il coro di voci maschili. Pedro, invece, non pare dar peso a questo. Pedro non da peso a nulla di nulla, nemmeno quando ha divorziato ha dato peso alla cosa. Pensa Pascal.

Pascal, cos’hai?

Niente Pedrito, niente.

È stato l’anno scorso giusto? Che cos’è che avevi sognato di questo periodo?

Lo sai Pedro. Ne abbiamo parlato a lungo proprio su quella panchina laggiù.

Hai sognato ancora vero?

Un bosco di carpini con le foglie gialle, un torrente e un cinghiale.

Nient’altro?

Senti facciamo che vai a chiudere tu le bestie, ti scoccia?

Che hai?

Voglio ascoltare il coro e credo che mi metterò a pregare. I maiali sono a posto, devi rimettere soltanto le capre.

Va bene Pascal, ma tu tirati su, prega e poi più tardi ci rivediamo al bar e questa volta giochi che così non ci pensi.

Pascal allunga il passo entrando nella sagrestia.

Pedro non dà troppo peso alla figura dell’amico che sparisce dentro la chiesa, tuttavia comincia a pensare al bosco, al torrente e al cinghiale. Però Pedro non sa delle chiazze di sangue sulla felce, e nemmeno della caccia che è seguita, e nemmeno del cinghiale ferito dalla schioppettata di Pascal. Quello era un sogno, appunto, e ai sogni Pedro non dà peso. Di sicuro però avrebbe riservato al sogno la giusta attenzione, se avesse saputo che il cinghiale aveva la sua faccia.

 

***

 

Dai digli cos’è un mazzero, è una cosa da brividi!

La lampadina sopra i fornelli è l’unica accesa nella cucina e diffonde una tenue luce gialla che lascia nell’ombra una buona metà della stanza. La finestra accanto al tavolo è priva della tenda e dà sul selvatico giardino ora buio. Tra i piatti della cena fumano alcune tazze colme di tisana di erbe corse. Dalla mensola di legno pendono le foglie verdi di una pianta da interno.

La ragazzina già indossa il pigiama di cotone felpato e siede sulle cosce della madre.

Il mazzero è un signore che si sogna la gente che muore. Dice la bambina.

Racconta per bene.

Gli occhi della bambina si fanno più grandi del solito, poi trovate le parole dentro di sé ricomincia.

Beh, il mazzero inizia sognando che è a caccia. Insegue un animale, un cinghiale o un cervo, e lo segue lungo un fiume poi spara all’animale e lo uccide e quando lo raggiunge e lo gira, scopre che il cinghiale ha il volto di una persona che conosce.

Oh cazzo! Scusa la parolaccia.

Dai, digli quello che succede dopo.

La madre si è portata la tazza alla bocca per sorbire la tisana.

Dopo che il mazzero ha riconosciuto il volto della persona che si è sognato poi sa che quella persona morirà entro l’anno, forse addirittura entro il mese. E quindi deve andare da lui e aiutarlo a morire.

Come l’accabadora in Sardegna?

Più o meno. Fa la madre.

Quindi il mazzero ha il potere di sognarsi le persone che stanno per morire? Chiede ancora uno degli ospiti.

Si, e dopo deve rassicurarle se non gli sembrano pronte per il trapasso. Una cosa così, insomma.

Fammi capire: il mazzero sogna di andare a caccia di un cinghiale, lo abbatte e poi lo rigira e il cinghiale ha il volto di uno del villaggio, giusto?

Si, ma non scordarti il fiume, la caccia si svolge nel fiume. Il fiume è il confine.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prati generali

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Incontro di poesia

[primo di cinque]

Girfalco di Fermo, Marche – domenica 15 settembre 2024

Cosa possiamo fare?
Come vogliamo farlo?
Chi dovrebbe ascoltarci?
Che dobbiamo aspettarci?

Ci ha colpito molto quello che ha detto un’amica autrice, poeta e attivista culturale, Francesca Matteoni, A volte scriviamo per sapere qualcosa su di noi. Come postilla andrebbe aggiunto, Quasi sicuramente non lo scopriamo mai.

Chi sarebbero poi questi noi? Noi stessi singoli, una somma di uno che non fa la società ma tutt’al più cerca di dare una forma alla propria vita? O noi insieme, in rapporto a una idea di civiltà letteraria, di intellettualità che scrive e parla e anima – a un’idea di presenza culturale che, sì, dopotutto, fa la società?

Scrivere, pubblicare, diffondere poesia sono azioni che pongono il problema di chi può leggere, ascoltare, arrivare all’edizione divulgata – in stampa o altrimenti condivisa – in un tempo in cui non solo non esiste già un pubblico garantito da una conoscenza in comune, ma quella conoscenza diventa non distinguibile sotto le molteplici pressioni del presente – della comunicabilità popolare, per esempio, dell’elitismo, dell’arte come terapia palliativa o individualizzante, della estetizzazione del mondo e moltiplicazione degli stili, del sovradimensionamento delle attese.

Intuiamo che le nostre scritture stanno insieme a questo tempo di emergenza programmatica, di perpetua crisi della democrazia, di stato di guerra e di eccezione assurti a norma, di assalto ai diritti al lavoro e impoverimento economico dei più: possiamo dirlo? possiamo ragionare? su come le cose si tengono? su come le cose non si tengono? Oppure: Sai che c’è, così va il mondo – disse uno di passaggio -, prendere o lasciare.

Abbiamo pensato di chiamare i nostri vicini e vicine (per prossimità geografica, per capacità organizzativa e continuità di azione, per strada fatta insieme, ma non necessariamente per similitudine di poetiche e consonanza di politiche) a una giornata di incontro e confronto, visione e aggiornamento. È la prima, nelle intenzioni, di cinque, questa d’avvio a Fermo; le altre quattro, a scadenza annuale, negli altri capoluoghi delle Marche. E ogni volta saremo non tanti perché vi sia tempo di ascoltare e tempo di parlare. Saremo non tanti, ma non tanti per cinque divengono non pochi, divengono incontro. (ar, rm)

Il programma:

11:15 – ritrovo all’ingresso del Parco del Girfalco, Fermo

11:30 – assemblea sotto i lecci

pranzo allo chalet del parco

14:30 – riflessioni e letture

In caso di pioggia l’incontro si terrà al Caffè letterario, in Piazza del Popolo

A questo primo incontro parteciperanno:

Alessio Alessandrini, Cristina Babino, Alessandro Catà, Valerio Cuccaroni, Jacopo Curi, Francesca Del Moro, Marco Di Pasquale, Lorenzo Fava, Andrea Lanfranchi, Antonio Malagrida, Danilo Mandolini, Lorenzo Mari, Renata Morresi, Davide Nota, Sandro Olimpi, Natalia Paci, Adelelmo Ruggieri, Simone Ruggieri, Jonata Sabbioni, Simone Sanseverinati, Riccardo Socci, Alessandro Seri, Mariagiorgia Ulbar

*

 

Demone custode – Paolo Sortino

1

 

Mia madre è morta e non provo nulla. Nessuna croce da portare. Una crocifissione, a confronto, sarebbe una terapia per le ossa, un toccasana per la schiena. Il vuoto di sentimenti in cui mi sono trovato fa di me un attrattore strano. Mi sono domandato se non sia un meccanismo difensivo per evitare di soffrire. Alcuni dicono che se pure fosse andrebbe bene così, basta che funzioni. Una sola volta mi sono sdoppiato, una sola volta per una persona che amavo ho accettato di riporre nell’armadio il vero me pensando di poter vivere nel feticcio creato per piacerle, e mi è basta- to. Per andarmi a riprendere l’anima ho rischiato di non tornare indietro e ci sono voluti quattro anni di psicoterapia. Non vorrei mai riaccadesse. Neppure mia madre che ho adorato e a cui devo la vita merita tanto. Mettiti in un angolo e piangi, mi ha detto un amico. Non riesco. C’è la possibilità che la morte non sia un problema, che io debba elaborare un bel nulla.

 

Non che la morte non esista. Esiste eccome. Solo non mi riesce di porla in fondo alla vita. La morte arriva e dispone. Fatti, persone, sensazioni trovano un nuovo ordine. Si accumulano sul mio dorso prendendo la forma delle ali della farfalla ma non volo e non dispero. Non reagisco, non proietto, non reprimo, non ri- muovo, non regredisco. I meccanismi difensivi dell’io si attivano quando si crede che la vita sia come appare, e io non lo credo già da tempo, forse non l’ho mai creduto. Che io stia sublimando lo escludo. Se guardo il bambino che sono stato vedo una piccola anima che deliberatamente manipolava ogni cosa con dovizia di particolari, ma per andare incontro alla sofferenza, per accoglierla, e carezzarla. Almeno che non esista una sublimazione talmente grande da non vederla, che inglobi me con tutto ciò da cui discendo e ciò a cui do vita, allora questa che faccio è una sublimazione universale.

Del resto, ogni autobiografia è immaginaria. I fatti dell’infanzia non furono mai. Sono immagini proiettate su uno schermo deformato. L’alcolizzato che osserva attraverso il bicchiere non vede in modo più confuso. Il passato, il futuro sono distorti, tirati da una curvatura di sabbia fusa. Siamo stati qualcosa, poi un’altra, oggi qualcos’altro ancora.

 

Questo vuoto non è esattamente una novità, quanto l’ultima determinazione del demone che ho scelto nell’età più tenera. Sta rispettando i patti, sta esaudendo le mie preghiere. Mi mostra ciò che ho desiderato vedere, il dolore e la sofferenza che da piccolo mi sembravano troppo sensati per non credere fossero lo scrigno della verità, così chiesi al mio demone di renderli accessibili; la solitudine delle cose che si trasferiva in me solo osservandole; il senso di oppressione che mi dava l’asilo, con quegli oblò alle porte da farlo sembrare un ospedale pediatrico, quegli alberi posticci di carta ritagliata e colorata coi pastelli, affissi alle pareti; il vuoto dei corridoi e il freddo che produceva e andava incontro a quello esterno, schiacciandosi contro gli infissi chiusi come se la colla residua degli addobbi di Natale sui vetri non fosse in realtà la sua bava; la piccola moschea traforata di luce nella quale si trasformavano i finestroni in fondo alla stanza dei lettini, tirate giù le tapparelle, quando nell’ora del sonno richiamavo alla mente il carillon di casa, la figurina femminile in ceramica con una lunga gonna spiovente, un cestino di fiori intorno al braccio e un morbido cappellino a falde larghe, interamente grigia, perché una polvere antica le si era posata sopra e ciononostante danzava, girando su se stessa sorridente.

Udivo una musichetta provenire dai giocattoli, dai palazzi, dalle strade. Una piccola sonata straziante. Mi commuoveva la decadenza dei quartieri. Uno struggimento mi prendeva per il mondo adulto che tradiva calcoli fatti male, misure sbagliate, grossolanità ingiustificate come la bretella della cartella che restava sollevata quando sedevo, troppo ampia anche accorciando del tutto il laccio attraverso la fibbia e troppo rigida per le spalle di un bambino. Cucciolo di Saturno, di indole atrabiliare, pativo i giorni uggiosi preoccupato potessero infittire il cappotto di lana di mia madre, i suoi foulard profumati che non c’entravano nulla con lo smog del traffico che però mi piaceva inalare, così simili le emissioni di certi diesel ai cracker al rosmarino, come non c’entravano nulla l’azoto della pioggia la mattina presto e le canzoni che per anni avremmo cantato in auto lungo il tragitto per andare a scuola. Non capivo perché gli adulti avessero impostato la vita con regole che non convenivano a nessuno. Per quale motivo io e mia madre dovessimo separarci ogni giorno. In tutto vedevo un po’ di afflizione che conferiva a ogni bordo un’aura fioca di luce. Non avrei mai rinunciato alla pena che sentivo per tutto ciò che avevo intorno, al punto che arrivai a temere il rischio contrario, di potermi svegliare una mattina e trovare il mondo brillante, tirato a lucido, senza traccia di dolore, con le strade ripulite dalla sofferenza. Così corressi il tiro. Chiesi al demo- ne di rendere accessibile me, di fare entrare in me la sofferenza. Usarmi come riparo.

Nel mare dei giochi, la sofferenza era un faro per le mie barche in miniatura. Ognuna presto o tardi si inabissava nella tempesta delle emozioni ma con un tale struggicuore che sono stato vittima di un fraintendimento che ha segnato tutta la vita successiva. Quando si è molto amati a quell’età, è dolce tutto. Si cresce pensando davvero di poter apprezzare la sofferenza, di averne già intuito il senso e non è escluso che sia il migliore dei fraintendimenti, visto che a tutti ce ne tocca uno. Toglierci le illusioni si può, e passeremo tutta la vita adulta a farlo, ma il senso del vero con cui tentiamo di farle cadere è determinato da quel fraintendimento centrale che abbracciamo da piccolissimi. Un senso del vero che invero non è. Una matrice irremovibile che istruisce i gesti e i sentimenti futuri. In quel poco tempo stabiliamo tutto ciò che ci riguarda. Ci facciamo promesse che rispetteremo. Apriamo strade ai pensieri che poi i pensieri percorreranno.

Volevo che i prati di ortiche fossero teneri come cotone incolto, che lo fossero per tutte le persone sulla terra, e solo se gli altri avessero voluto che le spine pungessero, che pungessero per forza questo mi pareva fosse il desiderio degli adulti che osservavo fuori casa che allora fossero carezze per le caviglie per me soltanto. Se per riceverle devo accettare la solitudine, dissi al demone con solennità, sta bene. E se la solitudine sarà effettivamente troppa da sopportare troverò il modo di reggere la catastrofe conseguente alla scoperta, in un momento imprecisato nel futuro, di stare costruendo illusioni. Le illusioni di cui parlavano gli adulti che dal mio punto di vista vivevano nel futuro. Da lì mi parlavano. Li avrei raggiunti, un giorno, senza dimenticare le mie promesse solenni. Ma il futuro non faceva che espandersi, separandomi di più ogni giorno dai miei genitori.

Ho chiesto che il demone mi desse il potere di sublimare, all’occorrenza, qualsiasi cosa, perché nel giro lungo che si fa per distorcere e adattare la realtà la mente scorge un paesaggio, una possibilità, una verità alternativa. Un controsenso, dicono; un non senso questa verità parallela, ma è così che il sarto conosce il tessuto, mi spiegò mia madre, tagliandolo e cucendolo, o il traduttore il testo originale, tradendolo in ogni parola. Promisi di nutrire la mia verità con tale speranza che quanto c’è di ipotetico in un’illusione si sarebbe piegato a diventare una traiettoria, il disegno di un punto di fuga verso cui la mia corsa sarebbe stata così ostinata da farlo crollare nella realtà.

Volevo che il senso della mia vita fosse trovare il senso di ogni spina. Volevo dedicare la vita. Volevo dal mio demone la possibilità di osservare le storture della vita senza per questo perdere la mia strada. Più di qualsiasi altra cosa ho desiderato che a cantare fosse l’uomo muto, che i diseredati di ogni specie potessero unirsi al coro del grande lamento dell’esistenza.


Paolo Sortino (1982) ha pubblicato i romanzi Elisabeth (Einaudi) e Liberal (il Saggiatore), e i racconti Il casco verde (Minimum Fax) e Londra sfoderata («Granta», a cura di Walter Siti, Rizzoli). È stato per diversi anni redattore e autore testi del programma televisivo «Chi l’ha visto?». Collabora con le pagine culturali di Il Giornale.

 

Da “Hitchcock e l’elitropia”

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di Riccardo Gabrielli

A detta del Dictionnaire portatif (1757) del Pernety, furono i pittori italiani che, in accordo a una fulgida polisemia, cominciarono a chiamare “pentimenti” un carattere tipico dei disegni, ossia quell’indugio, quella specie di esitazione che non è già cancellatura, bensì ventaglio di idee transitorie, simultaneità dei possibili: le teste ritorte in ogni direzione, i viluppi di braccia e gambe doppie, le stratificazioni a matita che comunicano con le chimere e gli ircocervi, prima che la luce dipinta scenda a redimere nell’ombra le varianti infinite. ≪Una delle cose che ho imparato alla scuola d’arte è che non ci sono le linee, solo la luce e l’ombra≫, ricorda Hitchcock.

La deiscenza del ghigno della madre, sclerotizzato e longitudinale alle labbra di Norman, a trapassarne il viso, non si schiude che nella confessione.

Un supplemento di finzione, uno scotoma onirico, assicura l’intreccio dal realismo. Di chi è la voce della madre?

Il pregiudizio dell’imputazione svanisce alla prova dell’ironia – strategia che scompagina le colpe, in riflessi confusi: ≪Je suis les membres et la roue, et la victime et le bourreau!≫. Una voce rubata: ≪Elle est dans ma voix, la criarde!≫.  Lo specchio dell’Erinni: ≪Je suis le sinistre miroir ou la mégère se regarde≫.

Le note di biasimo suscitate da ≪un flashback che era una menzogna≫. Hitchcock ammette di non fare differenza tra ≪un racconto menzognero≫ e ≪una storia passata illustrata in un flashback≫; dunque, ≪perché non potremmo anche raccontare una menzogna – in un flashback?≫.

I ≪fautori della verosimiglianza≫, immuni alla vertigine e alle sue architetture a spirale, alieni all’intensità medesima dell’esistente e dell’inesistente, invece credono ancora allo schermo bianco, al supporto dei fenomeni. Superstizione occidentale che il Giapponese definisce ≪oggettivazione fotografica≫, o ≪realismo≫: cenno sommario alla cattura tecnologica dell’Oriente. Heidegger, in risposta, tradisce il suo incanto per un film che dichiara di aver visto, ≪purtroppo, solo una volta≫.

La narrazione di Rashomon si spiega in quattro confessioni mancate – in quattro flashback inautentici: ≪ho creduto che quel film permettesse di accedere al mistero del mondo giapponese≫.

Alastair Sim, il padre di Jane Wyman, qualifica se stesso come un padre ≪piuttosto unico≫; a ragione: tutto in lui si lega perfettamente con il tono del film. In particolare, risuona un certo automatismo del perdono: un’Aufhebung senza dolore, senza serietà. Le prove in mano agli investigatori sono soltanto confessioni. Perduta la traccia di sangue sul vestito di Marlene Dietrich, non restano che marionette, costumi di scena, a suscitare un moto di contrizione.

Per un istante, all’omicida balena l’ipotesi di una via di fuga attraverso l’assurdo, il nonsense: quella dell’assassinio gratuito. Via di fuga contraddittoria, barrata in anticipo: non si consegue motivatamente ciò che è gratuito. ≪Perché nessun personaggio è veramente in pericolo? Perché raccontiamo una storia in cui sono i cattivi che hanno paura≫.

Il teatro nasce come messa in scena misterica della coscienza. Una delle storie più scarne ed enigmatiche, massime drammatica, di Hitchcock, si incentra dattorno al wake di due assassini in memoria dell’ucciso.

Una sola coscienza che si scinde; poi un vecchio professore, il mediatore, che si limita a acuire il solco tra i due strangolatori. Allo scioglimento si giunge per via di autoaccuse e autosabotaggi, come trascinati da ≪un mobile senza motivirt ≫, da ≪una forza invincibile≫ che rivolta tutti i propositi, sotto il cui ≪impulso noi agiamo in un certo modo solo perché non dovremmo farlo≫, nell’estraneità a ogni ≪desiderio di benessere≫: ≪il Genio del perverso≫.

≪Questo gusto dell’assurdo≫, dice Hitchcock, al riguardo di un aereo e le sue volute di solfato nel deserto, ≪lo pratico in modo religioso≫. Tuttavia, ≪persino una scena gratuita non può essere introdotta in modo totalmente gratuito≫: il sovvertimento cosmico impone una trama di paradossi, un’orlatura d’ironia.

(…)

Scopriamo, tra la letteratura e la musica assolute, anche il ≪comico assoluto≫, dominato dall’≪idée de superiorité, non plus de l’homme sur l’homme, mais de l’homme sur la nature≫. Una frase che potrebbe servire da didascalia agli Uccelli di Hitchcock.

Gli attacchi degli uccelli sono compresi all’ombra della piramide hegeliana. Può capitare, talvolta, uno scollamento tra il vertice connotativo del conceptus e quello referenziale della res.

≪Bisogna far vedere dei fiori che mangiano gli uomini≫. Questa forma di rovesciamento custodisce un cuore metafisico, essenziale, che si deve alla struttura stessa del timpano semiotico – ma ve ne sono altre.

Nel definire il ≪comico significativo≫ non si incontrano grandi ostacoli: è sufficiente rivolgersi al vasto reame della derisione, allo scherno dei freaks, per capire di cosa si stia parlando. Tuttavia, come se si trattasse di un insieme ricorsivamente numerabile e non ricorsivo, è difficilissimo delimitare il suo complemento. Del ≪comico assoluto≫, la cui vocazione è di sottrarsi al calcolo, sappiamo solo che i suoi confini si addensano lungo gli assi dell’innocenza e del grottesco, della vertigine e dell’iperbole.

ll grottesco iscrive il suo etimo nella pittura, nel libero gioco decorativo, affine all’ornamento asemico dell’arabesco: scavalcamento del discreto, simbolo del continuo. Pierrot, ghigliottinato, porta la testa sottobraccio; Psyche Zenobia prosegue incurante il suo ≪articolo alla Blackwood≫, decapitata dalle lancette di un orologio.

L’aggettivo “assoluto” astrae dalla semantica: colloca il vuoto, la stanza di George Kaplan, l’incognita che articola la sintassi, la protesi del niente nel cui giro orbitale si tengono insieme le parole e le cose. L’“assoluto” restituisce alla coscienza la cerimonia del periodare, il rito della proposizione, che danno a intendere, nel sacrificio della materia fonica, un resto d’incomunicabilità, l’immagine mentale. ≪Ho usato un filtro verde, ma non andava bene per ottenere un blu scuro, blu ardesia, blu grigio come in una notte vera≫.

(…)

“A man fell”, dell’eterna diaspora palestinese

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di Mariasole Ariot

La prima porzione della Tenebra è la più densa, Cara, Dopodiché, la Luce comincia a tremolare 
Emily Dickinson 

Un tempo immobile, separato, dove il passato non passa e l’altrove appare solo immaginato attraverso gli interstizi dei muri da cui filtra ciò che non verrà mai visto né inquadrato: Arafat, il bambino che sale e scende le scale di un edificio abbandonato, undici piani di storia, si muove nel buio. Nelle inquadrature fisse di A man fell protagonista è  il nero dell’assenza e della staticità, un luogo liminale di tenebra – Yasser Al Ali dice al regista, accompagnandolo al Gaza Hospital: “Benvenuto all’inferno, Gio” –  e la tenebra è interrotta solo dalla poca luce che filtra dalle finestre. 


Sabra, Libano, un vecchio edificio smantellato alla fine degli anni settanta, prima ospedale dell’OLP, poi luogo di rifugio per i palestinesi dopo il massacro del 1982, la cui maggioranza non ha cittadinanza e non può accedere ai servizi basici per la possibilità di una vita degna, impossibilitata ad una proprietà, ad un lavoro sicuro. Le scalinate su cui indugia la macchina da presa sono mosse solo dai corpi in penombra di poche anime: bambini che saltano, una breve danza, la dimensione del gioco senza oggetto, soggetti sottratti all’esistenza, il riflesso delle loro gambe sulle pozze bagnate dell’edificio, un adulto che vaga cercando tre carte perdute da un mazzo, una bambina dalle cui matite non esce colore: perché tutto è metafora di ciò che è perduto, di ciò che non può darsi né pronunciarsi. E due fili rossi: la curiosità bambina verso i sotterranei, e l’uomo caduto dal palazzo pochi giorni prima del girato, il salto o la caduta di cui non è possibile sapere se non per brevi accenni, ipotesi, poche parole. 
Ed è anche la parola/voce ad arrivare solo a tratti, a tratteggiare la mole di silenzio che si intreccia ai neri densi dell’abbandono facendone riverbero.  

La prima inquadratura di Arafat è del bambino seduto su una vecchia poltrona abbandonata, il bambino si alza: la poltrona resta vuota, l’occhio della cinepresa si ferma in questo vuoto. Giovanni Lorusso  delinea la zona d’ombra della condizione degli abitanti del Gaza Hospital attraverso il metaforico che troveremo anche in una voce francese fuoricampo proveniente forse da una radio o da una televisione: la donna si rivolge a qualcuno, dice ” credi che le sbarre in cui vivi siano mazzi di fiori”. 


Ma non c’è fiore perché non c’è terra se non una terra da cui si è rigettati. 

Dell’edificio non è mai visibile l’esterno, un esterno che porta in sé una storia sfregiata, e dopo la visita di Arafat e l’amico Muhammed nei sotterranei, quando l’incontro con un bambino che lo abita (laggiù ci sono solo “sesso droga e morti”, dirà un uomo alla compagna) si mostra come l’unico accenno alla storia dell’edificio, raccontando di chi ha venduto il sangue dei padri, la paura di essere trovati, gli scavi dei corridoi che portano a Gerusalemme e in altre città, Arafat dice all’amico Muhammad, seduto tra i ruderi del terrazzo: domani ce ne andiamo da qui


Un domani a cui gli adulti forse non credono più: perché se il desiderio può prendere forma solo là dove dove c’è oggetto, qui l’oggetto è l’esistenza stessa. Un’esistenza che sanguina da decenni e protesa a un sanguinare infinito, finito solo  dal prosciugamento di sé stessa. 

@immagini fornite dall’Ufficio stampa Chiara Zanini

Evanescenza e consistenza del mondo: Zanzotto versus Ponge

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Questo saggio è stato scritto in occasione del convegno internazionale tenutosi a Parigi: Zanzotto europeo, la sua “poesia di movimento”, 25 -27 novembre 2022. E’ in seguito uscito in volume per Franco Cesati Editore, nel 2023, a cura di Giorgia Bongiorno, Andrea Cortellessa e Laura Toppan, che sono stati anche gli organizzatori del convegno. Si tratta di un testo lungo, non adatto alla lettura web, ma chi è interessato può scaricarselo in pdf. L’idea di rendere disponibile anche sul web tale materiale specialistico è conseguenza di una mia idea di scrittura saggistica, che vorrebbe idealmente far saltare la frontiera tra critica militante e critica accademica. a. i. 

di Andrea Inglese

Il mio proposito è quello di avvicinare l’opera di Zanzotto a quella di Francis Ponge, utilizzando quest’ultima come un reagente che sia in grado far risaltare e porre in dialogo aspetti delle poetiche di entrambi gli autori. Ponge non rientra nel novero degli scrittori francesi o francofoni, con cui Zanzotto ha stabilito, nel corso della sua attività poetica, un confronto significativo. Insomma, Ponge non è né Eluard né Michaux, ma nemmeno Artaud o Bataille. Inoltre Ponge, in maniera assai anomala, continua a essere poco frequentato in Italia, e ne è una prova lampante la scarsità di traduzioni che lo riguardano. Malgrado in Francia, grazie anche ai due volumi Pléiade del 1999 e del 2002, la sua opera abbia acquisito un’importanza indiscussa, in Italia l’unica traduzione circolante per una grande casa editrice è ancora quella realizzata alla fine degli anni Settanta da Jacqueline Risset di Il partito preso delle cose, libro per altro del 1942. (Sia detto tra parentesi: in tempi recenti qualcosa di Ponge ha cominciato a essere disponibile grazie al lavoro prezioso di piccoli editori come L’Obliquo o Benwey Series.)

In questo primo lavoro di avvicinamento tra le due opere, che non ha certo pretese di sistematicità, mi limiterò, per quanto riguarda l’attività poetica di Zanzotto, alla produzione che culmina con “l’improbabile trilogia” pubblicata tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. D’altra parte, gli ultimi libri scritti da Ponge in vita escono anch’essi nel corso di quel ventennio. Ciò non toglie che una futura ricerca comparatistica possa travalicare con profitto il limite cronologico che qui mi sono posto.

Ponge appartiene alla generazione precedente rispetto a Zanzotto, essendo nato ventidue anni prima, nel 1899. Diverge notevolmente il loro rapporto con le avanguardie artistiche e letterarie. Zanzotto ha mantenuto sempre un atteggiamento conflittuale e diffidente con i Novissimi, laddove Ponge, a sessantacinquenne anni, inaugura una collaborazione con la neonata rivista Tel quel, uno dei più celebri laboratori neoavanguardistici, in Francia, a metà degli anni Sessanta. Ponge, inoltre, ha prediletto nel corso del tempo forme di scrittura in prosa, mentre Zanzotto non hai mai rinunciato al verso. Posti questi primi elementi che permettono di coglierne alcune differenze, è utile ricordare qualche punto comune biografico – entrambi antifascisti e impegnati a vario titolo nella Resistenza – e soprattutto tematico: ad avvicinarli è la questione del paesaggio. Di primo acchito, si potrebbe avere l’impressione che Ponge sia risolutamente rivolto alle “cose singole”, naturali o di fabbricazione umana – la vespa, il fico secco, il bicchiere di vetro, il sapone –, laddove Zanzotto sembra muoversi nell’orizzonte aperto del paesaggio, alla ricerca di un’enunciazione in grado di fronteggiare la totalità, l’estensione massima del reale in tutti i suoi aspetti. Di fatto, pur rimanendo sullo sfondo, meno esibita e centrale che in Zanzotto, anche in Ponge svolge un ruolo importante l’esperienza del paesaggio. Il termine stesso, ad esempio, compare come sottotitolo provvisorio di uno dei suoi testi più importanti, ossia Nioque de l’avant-printemps, che esce nel 1983, ma avendo avuto una prima stesura all’inizio degli anni Cinquanta e una seconda durante gli anni cruciali 1967-68. Leggiamo da uno dei passaggi tratti dalla prima stesura:

Je RELIS (et titre) le PAYSAGE D’AVANT-PRINTEMPS et j’écris ce qui suit, comme préface-réflexion :

« Je ne puis rien dire, écrire (ni penser) d’autre que ce que la saison m’inspire. »

(Ces jours-ci : paysages, nioque, proêmes, notes de l’avant-printemps.)[1]

In questo volumetto-manifesto, che è dedicato a una fase precisa del ciclo stagionale – quella appunto che annuncia, ancora in inverno, l’arrivo della primavera – il “paesaggio” è in realtà dappertutto, disseminato in descrizioni più o meno rapide, ed esso include non solo la natura selvaggia, ma anche le tracce della presenza umana.

Questa prossimità tematica tra i due autori rivela a un esame più attento una vera e propria poetica comune, incentrata sull’idea che il mondo naturale giunga a compimento nel logos umano, ossia nel discorso ordinario dapprima e, in ultima analisi, nella parola poetica, che di quel discorso costituisce una sorta di ultima e più avanzata realizzazione. Detto in altre parole, la zona del logos umano dove il compimento del mondo naturale è programmaticamente perseguito e dove esso promette la più alta e felice riuscita è la poesia. Per quel che riguarda Zanzotto, cito dal celebre distico di chiusura di uno dei testi della Beltà: “Tanto, in questo fondo, / resta del processo di verbalizzazione del mondo”[2] (componimento numero XVI di Profezie o memorie o giornali murali). Di Ponge presenterò più avanti un paio di passaggi altrettanto espliciti. È importante, però, sottolineare subito che questa concezione della poesia si manifesta in lui con accenti nettamente laici e disincantati, mentre in Zanzotto rinvia a una visione della parola poetica, che non ha rinunciato a fantasie totalizzanti e a suggestioni sacrali. Nei versi citati, ad esempio, associato al “processo di verbalizzazione del mondo”, vi è il termine “fondo”, che in Zanzotto si situa tra i significati divergenti di “residuo” e “fondamento”, divergenti ma, come spesso in lui, reversibili[3]. Il fondo è ciò che rimane alla fine di tutta una serie di operazioni espressive e di filtraggi intellettuali, è quanto resiste al fronteggiarsi arduo tra parola e cosa, ma nello stesso tempo è ciò che indica una base o, più esplicitamente, un fondamento, qualcosa insomma che permette alla verbalizzazione di consistere. Ponge, invece, sembra alieno dagli armonici filosofici che un termine come “fondamento” suscita. In lui, però, come in Zanzotto, è presente l’apertura a una possibile totalità e il “paesaggio” diventa spesso sineddoche di “mondo”, inteso come sintesi inscindibile di natura e storia, anche se – è importante chiarirlo subito –, tale totalità rimane aperta, e quindi soggetta a imprevedibili evoluzioni. Si ricordi la nota finale di Galateo in bosco, dove si dice: “Tutto è ancora possibile su questo terreno ipersedimentato. La questione è aperta come quelle di tutti i boschi, vegetali e umani”[4]. In Ponge, in modo ancora più categorico che in Zanzotto, la storia umana non segna l’avvento di una compiuta ragione in un mondo naturale che ne era privo, o ne costituiva solo il germe ancora incompiuto. Scrive in Pour un Malherbe del 1965:

Nous n’avons sans doute qu’une raison d’être au monde, c’est le maintien des valeurs dont nous avons reçu l’héritage, à une époque où le progrès extraordinaire des sciences et de l’outillage, dont dispose l’homme, s’accompagne d’une régression non moins extraordinaire des valeurs esthétiques et morales (…). Le maintien est donc l’un des valeurs qui s’imposent à nous ; l’autre étant la création de valeurs nouvelles.[5]

La questione aperta riguarda, quindi, che cosa dire e fare di un paesaggio in parte antropizzato, in cui la storia si è inserita sia come progresso sociale sia come perdizione e smarrimento da diversi punti di vista (l’urbanizzazione crescente, l’industrializzazione del lavoro agricolo, l’appiattimento culturale favorito dalla diffusione dei media televisivi, ecc.). Entrambi gli autori, d’altra parte, hanno innanzitutto alle spalle esperienze e testimonianze delle due guerre mondiali e, intorno a essi, lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali avviato nel dopoguerra. In ogni caso, nominare e descrivere il paesaggio significa rivolgersi alla totalità, al mondo, ossia a quella sintesi tra natura e cultura, tra territorio e storia, che è problematica e costantemente in divenire. Di Zanzotto, basti citare i primi due versi di una delle sue più belle poesie, Al mondo, inclusa nella Beltà: “Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente,”[6]. Dove al vecchio “vocativo”, tipicamente lirico, si sostituisce ora un’ingiunzione doppia: quella – diremmo noi – di consistere “ontologicamente” e quella, “politico-morale”, di realizzare un bene, ossia una finalità superiore che non è affatto determinata e necessaria. Di Ponge citerò un altro passaggio di Pour un Malherbe, in cui ritroviamo un’apostrofe entusiasta: “O Monde! Monde ovale et merveilleux! Machine ovale! O l’oeuf du ciel! Ce paysage, comme l’onion de nos grands-pères!”[7].

Per due europei come Ponge e Zanzotto, “paesaggio” è quindi un termine che fa inevitabilmente riferimento a una realtà in cui “natura” e “cultura” si trovano saldate assieme. Da noi, insomma, a differenza di ciò che è accaduto ad esempio nel Nord America, e di cui testimonia l’ideale della Wilderness, gli spazi paesaggistici sono da sempre intrisi di memorie storiche, letterarie e artistiche. Naturalmente, questa compresenza pone anche alcuni problemi sul piano delle strategie poetiche. Rimane il fatto che entrambi, a diverso titolo, la riconoscono. Di Ponge, cito a questo proposito un passo di Nioque de l’Avant-Printemps, dove si legge: “D’ailleurs la nature en France c’est encore vous-même : industrialisée, commercialisée; des jardins, des pâtis, des labours, des fabriques de bois. Pourtant, la liberté e le vent et les oiseaux y gambadent, y dansent à l’aise ; La liberté par tous les pores (robinets) en jaillit”[8]. Quanto a Zanzotto, nel XV componimento della serie Profezie o memorie o giornali murali, in La Beltà, scrive:

No miseria inedia frustrazione;

allevamenti immediatamente,

batterie di vitelli polli carnami antifame.

Formiche mosche vespe

Bruchi cantàridi d’allevamento

(…)

noi disposti all’imprinting di più savie regole

e poi per tutti i cosmi il sostegno commestibile

(…)

Siamo qui situati al centro di una notevole contraddizione: la lotta contro l’atavica fame, che è innanzitutto fame contadina, implica l’inquadramento e lo sfruttamento del vivente non-umano. Questo ovviamente esige un prezzo molto alto da pagare in termini di un possibile equilibrio tra natura e cultura.

La contraddizione è senza dubbio sentita in modo più tormentato da Zanzotto, e ciò è dovuto in parte anche alle componenti ideologiche che determinano la sua concezione del paesaggio. In essa possiamo rintracciare, da un lato, un discorso risalente alla tradizione veneta della “villeggiatura” e del “sogno rurale”, sviluppato nel Rinascimento all’epoca della diffusione della villa palladiana e, dall’altro, il discorso dell’idealismo tedesco della fine del XVIII secolo. Entrambe queste tradizioni assegnano al paesaggio valenze utopiche, ma si tratta di utopie che oscillano tra il fantasma di un passato (di un’origine) d’integrità ed equilibrio tra umanità e territorio naturale, e la profezia, ossia la proiezione nel futuro di tale integrità ed equilibrio. L’uso che faccio del termine “fantasma” non è casuale, in quanto esso viene per me a caratterizzare un tratto complessivo della postura poetica di Zanzotto, che la distingue da quella, per altri versi simile, di Ponge. In termini un po’ schematici, che cercherò di giustificare nel proseguo del mio intervento, tra l’enunciazione che si riferisce al paesaggio e il paesaggio stesso, in Zanzotto s’introduce il fantasma, inteso nelle più diverse accezioni, compresa quella psicanalitica. Questa interferenza dell’immaginario soggettivo contribuisce spesso, nella sua opera, al dissolvimento della rugosità e dello spessore del mondo, condannandolo all’evanescenza, nel momento stesso in cui l’enunciato poetico vorrebbe fissarlo in figura – “in agio di ritmari e rimari”, come dice nella Beltà, o in un “oggetto verbale equivalente”, come direbbe Ponge.

Il termine “fantasma”, quindi, sta a indicare tutti i sedimenti ideologici – anche nel senso marxista di “mistificazioni” – entro i quali Zanzotto si dibatte nel corso della sua impresa di “verbalizzazione” del paesaggio-mondo. Ed è questa continua tensione tra desiderio e norma, tra delirio e ragione, tra abbandono e distacco che, in particolar modo a partire dalla Beltà del 1968, determina il caratteristico andamento frantumato e torturato, e quell’effetto di stop and go, di acceso-spento, di alternanza secca – o ambivalenza irrisolvibile – tra euforia e disforia, del suo dettato poetico. Il balbettio zanzottiano non è solo inerente al ritorno verso la condizione d’innocenza linguistica dell’infans, ma è anche il moto continuamente frustrato verso la “cosa stessa”, intesa in senso fenomenologico, ossia verso un aspetto del reale liberato sia dalle idiosincrasie individuali sia dagli strati deformanti che vi ha lasciato l’immaginario sociale. In alcuni momenti, con sagacia che ricorda il Foucault decostruttore del discorso fenomenologico, Zanzotto si accanisce nell’inventario archeologico del paesaggio, includendo assieme ai profili tangibili una pletora di chimere, a rischio di non poter più distinguere, però, la cosa dalla sua ombra[9]. Contro questo rischio si premunisce Ponge, attraverso un progressivo avvicinamento agli oggetti per continui avanzamenti e ripieghi, per viste e prese successive, che alla fine, fallendo consapevolmente il proprio obbiettivo – ossia l’appropriazione umana del mondo –, ne persegue un secondo più limitato, che è l’estensione e la rigenerazione provvisoria, radicalmente storica, del linguaggio umano e di quello poetico in particolare. Scrive Ponge, sempre in Pour un Malherbe:

De même que (…) nous devons nous résoudre (je ne dis pas nous résigner) à nous concevoir comme partie, élément ou rouage non privilégié de ce grand Corps Physique que nous nommons Nature ou Monde extérieur ;

De même, ne devons-nous concevoir nos écrits que comme partie, élément ou rouage de cette horloge, ou come branchette ou feuille de ce grande arbre – également physique – que l’on nomme la Langue ou la Littérature française.

Ce n’est pas que, tout comme un autre, nous n’essayions incessamment d’en sortir… Mais nous devons constater aussi que nous n’en sortîmes, ni sortirons probablement, jamais.[10]

La posizione di Ponge, a intenderla bene, è radicale, e richiama certe formulazioni altrettanto radicali che si trovano in Samuel Beckett sul nesso costitutivo tra arte/letteratura e fallimento. L’esilio nel linguaggio e nella letteratura non equivale, però, a una rinuncia o perdita del mondo. Alcune pagine dopo il brano citato, Ponge aggiunge: “Cependant, par bonheur, il nous semble que, dans le même temps, nous sommes devenu extrêmement sensible, de plus en plus sensible, aux choses de la nature, je veux dire aux objets, comme aux personnes”[11]. Il fatto che la poesia e più in generale l’espressione linguistica umana non possano attingere alle “cose stesse” (comunque si vogliano intendere sul piano filosofico), in quanto una precisa e innovativa descrizione di un fico provenzale o di una collina veneta non sono altro che ulteriore materiale verbale, stampato su carta o formulato attraverso la voce, ebbene questa condizione non è per Ponge interamente negativa, non è concepibile come semplice scacco. Qualcosa, infatti, è cambiato tra me e il mondo, dopo l’esercizio di verbalizzazione. L’opacità delle cose non è stata una volta per tutte penetrata, ma esse hanno assunto, nel frattempo, una maggiore vividezza, in quanto la nostra esperienza sensibile e intellettuale si è come riorganizzata e rinnovata attraverso questo nuovo confronto.

Torniamo ora a Zanzotto, e vediamo più da vicino come, nel suo discorso extrapoetico, in articoli o interviste in prosa, si affaccino i motivi ideologici che abbiamo precedentemente evocato. Partiamo da quello tipicamente aristocratico-borghese del paesaggio “arcadico”. In un libro intervista del 2009, così parlava Zanzotto del celebre Montello, che tanto spazio ha nella sua figurazione poetica.

Il Montello, locus amoenus e nel contempo horridus, era un colle veramente nobile e sacro per tantissime ragioni. Un’Arcadia-Eden in perenne ricomposizione e scomposizione, il simbolo stesso dell’utopia. Ma in quest’Arcadia c’era ben piantato un teschio che, proprio come nel famoso quadro del Guercino, diceva: “Et in Arcadia ego”, ossia, anche nell’Arcadia io, la morte, ci sono. Cosi, la tradizione che collegava quella zona a eleganti ozi e pensamenti sottili è svaporata a causa delle devastazioni progressive del bosco, fino alla quasi totale distruzione venuta con la guerra.[12]

È interessante notare come Zanzotto confermi invece che smentirlo il nucleo ideologico dell’Arcadia: la morte che penetra nel paradiso terrestre prende il volto della guerra o della deforestazione, ma Zanzotto sa meglio di altri che così non è, che la morte è penetrata da sempre in arcadia per coloro che hanno vissuto la condizione di esclusi dagli “eleganti ozi e pensamenti sottili”, ossia per la popolazione contadina, esposta senza difese alle durezze della vita rurale. Lo stesso autore ha patito, nella sua famiglia, la scomparsa tra le due guerre di due sorelle, di cui una morta di tifo. Il paradiso agreste non è mai stato un ideale per tutti e in Veneto, in modo particolare, si diffonde in un contesto storico preciso, che è quello del reinvestimento dei capitali cittadini sulla terraferma, nel momento in cui, durante il XVI secolo, le nuove condizioni geopolitiche limitano l’espansionismo marittimo veneziano.

A partire sopratutto dalla Beltà, libro di crisi e svolta, tutti i nodi ideologici relativi alla concezione del paesaggio “vengono al pettine” e la poesia deve trovare un modo chiaroveggente e critico di trattare – cito da un verso – “Il retaggio fantasmatico” dell’autore. La soluzione sarà quella, già indicata, di un’ambivalenza pienamente assunta nell’articolarsi stesso del dettato poetico. Accade così che, nel più tardo Galateo in bosco del 1978, il lemma “Arcadia-Eden” compare semanticamente rovesciato come “Arcadia-Mafia”. Dalla Beltà in poi, tutti i miti associati al paesaggio e agli ideali bucolici o ai sogni d’integrità e pienezza della parola poetica sono non semplicemente abbandonati e sconfessati, ma sottoposti a critica, irrisione, distorsione iperbolica. Ma in questo modo continuano a nutrire quell’archeologia del complesso umano-naturale di cui la poesia di Zanzotto è divenuta ormai massima espressione.

Più significativo ancora è l’articolo uscito nel 1962 – periodo in cui si è aperto il cantiere della Beltà – e che s’intitola Architettura e urbanistica informali. Qui Zanzotto fornisce una limpida – sebbene non innocente – filosofia del paesaggio.

Ma se ci si colloca, con sufficiente superbia e sufficiente umiltà, sul piano dell’uomo (ed è questo il postulato di ogni nostro discorso) si deve dare all’uomo quel posto che egli stesso in buona fede non può negarsi, a pena di smentire la sua natura e di cadere nella più ipocrita delle mistificazioni. Della figura umana, del volto umano, non si discute; esso è in qualche modo l’apparizione sensibile della ragione. E cosi non si discute dell’insediamento umano, che la natura “deve” essere pronta a ricevere, è predestinata a ricevere. Ecco che allora ogni fantasma di insediamento-piaga scompare per lasciare il posto all’insediamento-fioritura. Momento più alto della realtà naturale; teso a ciò che la supera, l’uomo si colloca in essa – almeno teoricamente – al punto giusto, la riordina alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità, quell’attesa dell’umano in cui essa si preparava. (…) Il paesaggio si anima e si accende della presenza umana perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano delle strutture che un giusto antropomorfismo aiuta a vedere; ogni città costituitasi in accordo col suo ambiente diventa opera di un dio indigete.[13]

Potremmo limitarci a ricordare che dell’ottimismo di matrice hegeliana qui presente non si trova traccia nello Zanzotto maturo, innanzitutto considerando come egli ha commentato questo stesso articolo a distanza di anni. In un volume collettivo apparso nel 2005, l’autore ripresenta l’intervento del 1962 – il titolo nuovo è In margine a un vecchio articolo –, preceduto da una breve riflessione e seguito da due frammenti poetici. La cornice del 2005 mette l’accento, con toni heideggeriani, “sull’affermarsi del potere della tecnica” e sugli aspetti più distruttivi del sistema capitalistico. La critica al boom economico, per come esso si manifestava nelle campagne, era nel 1962 essenzialmente indirizzata contro il “malgoverno”, ossia le deficienze della politica italiana incapace di “regolare” il mutamento. Nel 2005, i misfatti dello sviluppo economico e tecnico hanno contorni più ampi e schiaccianti. In questo contesto è poi singolare che Zanzotto citi, in uno dei due frammenti poetici di chiusura, questi versi tratti dal libro Elegia in versi del 1952 e in particolare dalla V sezione del testo Ore calanti:

La mia povera vita

si fa grande di tante

profonde fantasie di colline

Anche in una circostanza di riflessione critica sul destino del paesaggio nella contemporaneità, Zanzotto non rinuncia a ricordare che, per lui, le “fantasie” – e, aggiungiamo noi, i “fantasmi” – sono coestensive alle “colline”, in una possibilità sempre aperta di sostituzione, supplenza, consolazione.

Ritorniamo, però, all’immagine dell’insediamento-fioritura, che assegna all’umanità, intesa come la manifestazione di un ordine superiore a qualsiasi ordine pre-umano, un ruolo centrale e decisivo nell’ordinamento del paesaggio. Un tale assunto, diversi pensatori lo avevano già messo in crisi, e tra questi basterà ricordare Adorno e Horkheimer, che pubblicano La dialettica dell’illuminismo nel 1947 (tradotto in italiano, però, solo nel 1966). Ma all’altezza degli anni Sessanta Zanzotto sembra leggere più Heidegger che Adorno. Ma anche Heidegger, come vedremo, costituisce una sorta di necessaria alternativa a questa filosofia del paesaggio, che già non è più sostenibile negli stessi testi della Beltà. La crisi linguistica del quinto libro di Zanzotto, tra le sue svariate radici – oltre all’impatto violento con i Novissimi o l’approfondimento del discorso lacaniano –, ne ha senza dubbio una nel venir meno di questa concezione teleologica della storia e del privilegio che l’uomo avrebbe in essa.

Su questo punto Ponge si è mostrato sempre estremamente lucido. In un testo inizialmente pubblicato nel 1956, Le murmure, scriveva[14]:

L’homme n’est pas le roi de la création. Non, du tout. Plutôt son persécuteur. Persécuteur persécuté.

Un animal comme un autre ? Je le crois. Mais l’un des mieux doués ? Peut-être. Surement, l’un de plus insensés. D’autant que, par son activité à le dominer, il risque de s’aliéner le monde, il doit à chaque instant, et voilà la fonction de l’artiste, par les œuvres de sa paresse se le réconcilier.

In questo brano, apparso sei anni prima di Architettura e urbanistica informali, Ponge espone con talento aforistico la sua “metafisica”: l’uomo non è il “momento più alto della realtà naturale”, né costituisce, attraverso il suo lavoro, il compimento di essa. Per Zanzotto, agli inizi degli anni Sessanta, l’uomo è ancora colui che “riordina [la natura] alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità”. Ponge, dal canto suo, inventa una formula geniale, che ha un tutt’altro significato: l’uomo è il “persecutore perseguitato” della natura. Formula, purtroppo, profetica, che le attuali riflessioni sull’Antropocene e gli ormai assodati effetti del riscaldamento climatico confermano nella sua giustezza. La sempre maggiore presa che l’umanità, grazie alla varie fasi della modernizzazione dapprima occidentale e in seguito mondiale, esercita sul pianeta attraverso controllo e sfruttamento illimitati non fanno che alienarlo, ossia renderlo nuovamente distante, nemico e incontrollato. Ponge non si limita, però, a ribadire in questo passo la sua tipica condanna dell’antropocentrismo – condanna che ai giorni nostri percepiamo come particolarmente pertinente –, ma ci introduce anche a una specifica poetica, ed è proprio questa ad avvicinarlo nuovamente a Zanzotto. In Pour un Malherbe, leggiamo:

Nous donnons la parole à la féminité du monde. Nous délivrons le monde. Nous désirons que les choses se délivrent, en dehors (pour ainsi dire) de nous. Nous les invitons, par notre seule présence, les provoquons, les incitons à se connaitre, à se révéler, à s’exprimer. La parole doit se faire humble, se mettre à leur disposition, pourrir à leur profondeur. Voilà notre art poétique, et notre spécialité érotique (…).[15]

Ancora più suggestivo questo passo, tratto da Le carnet du bois de pin, incluso in La rage de l’expression, volume pubblicato per la prima volta nel 1952:

Au mois d’aout 1940 je suis entré dans la familiarité des bois de pins. A cette époque, ces sortes particulières de hangars, de préaux, de halles naturelles ont acquis leur chance de sortir du monde muet, de la mort, de la non-remarque, pour entrer dans celui de la parole, de l’utilisation par l’homme à des fins morales, enfin dans le Logos, ou, si l’on préfère et pour parler par analogie, dans le Royaume de Dieu.[16]

La presenza del termine “logos” sotto la penna di un poeta non è così frequente e banale, soprattutto quando è utilizzata per esplicitare la concezione stessa della poesia. Il discorso di Ponge è chiaro. Innanzitutto egli non distingue nettamente, come si è visto in uno dei passi citati in precedenza, tra “lingua francese” e “poesia”, in quanto la poesia si radica nella lingua, per eventualmente rinnovarla nella sua capacità di nominare e descrivere il mondo. Le cose, ai margini del linguaggio – un linguaggio che è solitamente rivolto alle esclusive faccende umane (amori, poteri, guerre) – giacciono mute, morte, in uno stato – questo sì fantasmatico, inconsistente – di “non remarque”, di trascuratezza percettiva ed espressiva. La parola poetica, allora, nello sforzo pongiano di focalizzarsi sulle loro qualità “distintive”, le conduce nell’universo luminoso della parola umana, dei suoi segni, suoni e significati. E questo processo si accompagna a un’intensificazione dell’esperienza (“nous sommes devenu extrêmement sensible…”).

Siamo vicini qui alla poetica della Beltà, anche se, nei libri successivi degli anni Settanta e Ottanta, per Zanzotto il logos si carica di ulteriori e più problematiche significazioni. La parola poetica, allora, non si limita ad accendere i sensi dell’individuo, accompagnandolo verso una rinnovata e sempre provvisoria prossimità con zone diverse del mondo. Essa deve farsi in qualche modo sostegno e fondamento dell’edificio stesso della realtà, o di quel soggetto umano che si rivolge ad essa. Sono pretese, queste, che definirei totalizzanti e/o fondanti, e che coincidono, tra l’altro, con una certa fascinazione che, in quegli anni, il pensiero di Heidegger esercita su Zanzotto e altri poeti della sua generazione. Si tratta dell’Heidegger della “svolta” che, nell’arco compreso tra gli anni Trenta e Cinquanta, finirà per mettere al centro della sua riflessione la parola poetica. Quest’ultima, infatti, costituisce un’occasione privilegiata per disvelare l’essere, condannato all’oblio nella presente età della tecnica. Mi accontenterò di citare una delle tante formule suggestive, che costellano In cammino verso il linguaggio, il volume di saggi pubblicato nel 1959. In L’essenza del linguaggio, possiamo leggere: “Secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero, la parola dà: l’essere”[17].

Ai fantasmi “arcadici” già circolanti nel paesaggio, e diversamente evocati-esorcizzati nella Beltà, si aggiungono così, nella nuova fase della ricerca poetica di Zanzotto, altri fantasmi, di matrice heideggeriana questa volta, che riguardano soprattutto il ruolo del logos poetico[18]. Una traccia evidente di questo mutamento è riscontrabile nella nota d’autore che chiude Filò, libro di poesie in dialetto, nato dalla collaborazione al Casanova di Fellini e uscito nel 1976. Un passaggio in particolare è significativo: “il dialetto appare come la metafora – ed è per un certo verso la realtà – di ogni eccesso, inimmaginabilità, sovrabbondare sorgivo o stagnare ambiguo del fatto linguistico nella sua più profonda natura”[19]. La “più profonda natura” del linguaggio necessita di essere avvicinata per via “metaforica”; da qui la riflessione sugli aspetti spesso duplici se non contraddittori del “dialetto”. L’evidenza quasi ipnotica delle cose lascia ora spazio a tentativi di “figurazione” (letterale o metaforica) della parola stessa che, quelle cose, cercava di nominare e descrivere. E in questa torsione dal paesaggio alla voce che lo evoca, Zanzotto apre la sua scrittura in prosa e in versi a tutte le “fantasie” di un’origine-radice, che l’espressione dialettale costituirebbe in maniera privilegiata. Il dialetto è “come un primo mistero”, “un’assoluta libertà”, “la corrente infera”, “riversato entro la terra”, “carico della vertigine del passato”, “pulsione e gorgoglio somatico”, ecc. In realtà, l’autore si rende conto che, per dirla con le parole di Adorno, un certo “gergo dell’autenticità”, e soprattutto un’ideologia ad esso associata, aleggia intorno al suo oggetto di riflessione. Forse per questo motivo, la nota è particolarmente articolata e lunga, rispetto a quelle dei suoi altri libri. Zanzotto è consapevole che si tratta di sottrarre il dialetto a forme di rimpianto e di mito identitario, per attribuirgli doti progressiste e, al limite, profetiche[20].

Zanzotto, a differenza di Ponge, subisce una tentazione nei riguardi di queste immagini della totalità, dell’origine, del fondamento, quasi che l’azione espressiva del linguaggio, nel suo caso, non si limiti a trarre fuori le cose dal loro mutismo e dalla loro assenza (“morte”), ma debba colmare un vuoto d’esistenza, una lacuna d’essere, intrinseca al soggetto umano stesso che di quel linguaggio è portatore. È questo, allora, a giustificare il tema ricorrente del logos erchómenos, che emerge nel Filò e risuona nuovamente nei versi di Fosfeni; tema che, come per primo ha ben visto Giorgio Agamben in un saggio di Categorie italiane[21], attribuisce alla parola poetica una valenza messianica, di salvezza morale e integrità fisica. Poco importa determinare se questa concezione massimalistica del dire poetico sia conseguenza, in termini psicologici o esistenziali, di una fragilità narcisistica dell’io poetante, che prima ancora di poter dare consistenza verbale al mondo delle cose combatte per dare consistenza alla propria realtà individuale. Quel che appare chiaro è che il rimedio non annulla il male: la parola che dovrebbe portare salvezza e integrità (nel proprio sé e nel mondo), si rivela di continuo inadatta al suo compito sovrumano, e si rovescia in parola vuota, menzogna, delirio.

Tale situazione, d’altra parte, è già annunciata ancora una volta nella Beltà. Un esempio di questo andamento oscillatorio tra la pienezza del tutto e l’inconsistenza di semplici immagini o vuote parole – che ricorda per altro la pendolarità già presente, nell’Heidegger della “svolta”, tra l’essere e il nulla – si trova nel componimento XVIII[22] di Profezie o memorie o giornali murali. Qui il “logos veniente” assume la fisionomia straziata di una confessione sotto tortura: “Il paesaggio ha tutto confessato, essudato, / il paesaggio è in confessione, in sudore” e, alcuni versi più sotto, “E il tentatore riapre la porta / e il torturatore rilegge ciò che / che aveva rossamente fatto essudare fuori / Idee tropi nomi e niente”. Il contenuto della “confessione” infine ottenuta dal paesaggio – qui nuovamente sineddoche di “mondo”, di totalità reale – è espresso attraverso il climax negativo dell’ultimo verso citato: si parte dalle “idee” – entità mentali –, si passa per i “tropi” e i “nomi” – entità retoriche e linguistiche –, per chiudere sul “niente”. La pienezza costantemente chiamata finisce per rovesciarsi nell’esperienza negativa, annichilita, di questa pienezza. Quando il paesaggio viene alla parola, questa parola si rivela come una collezione di tropi, come un inconsistente rituale “verbale”, come un “niente”. D’altra parte, nell’incipit del secondo testo della Beltà, leggiamo: “Quante perfezioni, quante / quante totalità. (…)”[23]. Il paesaggio non fa che promettere totalità e perfezioni, nella sua lontananza e ritrosia, ma appena il poeta – nel suo ruolo di “verbalizzatore della realtà” – s’impegna per catturare, attraverso la parola, tali entità sublimi, si trova sul foglio o nella mente qualcosa d’inconsistente. Questo accade anche quando l’obiettivo è più umile e circoscritto, come nei due versi d’attacco del componimento VIII di Possibili prefazi o riprese o conclusioni: “Quasi oblioso e volto / volto a un girasole, volto a un falso a una bigiotteria”[24].

Il pagano e materialista Ponge, quanto a lui, sembra del tutto immune dal novecentesco rovello del “fondamento”, e dimostra un’invidiabile fede nell’esistenza del soggetto che parla, della lingua da lui usata, e degli oggetti artificiali o naturali che gli si pongono di fronte. L’uomo, insomma, non è un messaggero dell’essere né la consistenza della realtà materiale è in qualche modo debitrice del linguaggio umano. Se mistero esiste, esso non si pone alle spalle dell’uomo e del mondo, ma nell’incontro ogni volta circoscritto tra un soggetto pensante e sensibile e un oggetto determinato. Riguardo a Zanzotto, vi è una sorta di “riduzione” o “sgonfiamento” delle pretese (salvifiche, totalizzanti) della parola poetica, così come dei caratteri tragicomici che circondano la figura del poeta. Sappiamo che Zanzotto è incapace di prendere sul serio il “dramma” romantico dell’espressione, con i turbamenti e le sregolatezze che lo accompagnano; neppure però vuole rinunciare del tutto agli effetti teatrali di tali patimenti. Per questo abbraccia l’opzione modernista per il registro tragicomico. Un tipico esempio di autorappresentazione tragicomica lo si trova in questi versi tratti dal componimento Periscopi[25], incluso in Fosfeni del 1983:

(…)

Eppure quanto è stato

piegato sulla rugiada vialattea

……….piegato a specchiarvi

stilla stilla avventure sofferenti clamori

io camaleontizzato, trasecolato

in lumini di mutanti alfabeti,

a immaginarsi portavoce

e portacroce di tutta una semicultura

(…)

Il poeta si mette in scena come “portavoce” e “portacroce” dei micro e macro oggetti naturali, che tratta indistintamente, ossia la “rugiada” e gli astri della “Via Lattea”. Dalla figura camaleontica di teatrante-clown si scivola a quella cristica, che ovviamente ricorda il già citato logos erchómenos e la figura del Messia. Ci troviamo, in realtà, nella continuazione di quella strategia messa in opera a partire dalla Beltà, per cui gli ideali inarrivabili (e spesso mistificanti o regressivi), connessi con una certa ideologia del paesaggio – o della parola poetica in questo caso –, piuttosto che essere espulsi dalla “scena” del testo vi ritornano in forma di maschere grottesche o comiche. Questo ritorno, però, comporta una chiara contraddizione interna al soggetto poetante e la sofferenza che ad essa si accompagna. Né contraddizione né sofferenza abitano invece il poeta nel suo faccia a faccia con le cose del mondo, nel resoconto che ne dà Ponge in diverse occasioni, e in particolar modo in uno dei suoi testi-manifesto più celebri: Comment une figue de paroles et pourquoi.

Oh! Le triomphe, le jardin, le paradis de la merveilleuse variété des choses, et des sensations qu’elles nous procurent, et des propositions de qualité qu’elles nous offrent,

et des morales, des arts de vivre qu’elles nous proposent,

des façons d’être.

Oh ! l’héroïsme de la moindre chose.

Sa vertu. Sa patience. Sa volonté d’être comme elle est, comme elle attend qu’on vienne l’admirer ; et l’aimer.[26]

In Ponge, ritroviamo il corredo delle immagini utopiche – il “trionfo, il giardino, il paradiso” – ma esse si fondono con “la più piccola e irrilevante cosa”. Non abbiamo una rovesciamento di significati (il tragicomico zanzottiano), ma piuttosto una congiunzione tra valori opposti: il paradiso e l’oggetto banale. Ma quest’ultimo, nel caso specifico il frutto dell’albero di fico, si lascia alle spalle la totalità del paesaggio, che funge da necessario sfondo – e non fondamento – sul quale si staglia. Inoltre, in piena sintonia con l’atteggiamento del secondo Wittgenstein[27] – quello delle Ricerche filosofiche – Ponge è più interessato a fare delle cose con il linguaggio, che a interrogarsi sulla sua “origine” o sulla sua “più profonda natura”. Non è importante per il poeta sapere perché il linguaggio funzioni, costruendo più o meno coerenti e utili teorie, ma come funzioni nel modo più efficace, per ridurre appunto – senza mai poterla annullare – la distanza tra uomo e mondo, tra parola e cosa.

Ponge, insomma, non pare minimante attratto dall’essere heideggeriano, che lo si voglia intendere in termini di “totalità” trascendente gli enti e le comunità di individui o in termini di “fondamento-destinazione” delle pratiche umane rivolte al mondo. A fronte del fico secco o del bosco di pini, che è – come lui stesso scrive – “une pièce de la nature, faite d’arbres tous d’une espèce nettement définie”[28], l’essere – pur gravido di magnifiche promesse – deve sembrargli assai insipido, vago, fantasmatico. Zanzotto invece necessita di fantasmi, seppure ha, nei loro confronti, – lo abbiamo ripetuto – un atteggiamento ambivalente: li celebra ma anche strapazza; non ne può fare a meno ma li irride[29]. Di tutto ciò l’autore ha piena consapevolezza, come dimostra il paratesto di Fosfeni (1983): “Sotto il nome di logos va qui ogni forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame che attraversa le realtà le fantasie le parole, e tende anche a “donarle”, a metterle in rapporto con un fondamento (?)”[30]. Il brano si chiude con un ironico, depotenziante, punto di domanda tra parentesi, apposto al termine heideggeriano di “fondamento”. Questo autosgambetto, che qui è quasi inappariscente, rinvia a quel gioco al massacro dell’enunciazione poetica che caratterizza una buona parte della produzione di Zanzotto dalla Beltà in poi. Ed esso testimonia della circolazione continua del fantasma (fantasia, chimera, ossessione, mistificazione), anche in quel logos eveniente che vorrebbe dire il mondo e dargli consistenza.

A conclusione di questo percorso sinuoso, sorta di viavai tra testi dell’uno e dell’altro autore, testi poetici e di poetica – anche se, come abbiamo visto, la distinzione è spesso poco evidente –, vorrei evocare un altro degli importanti punti di tangenza tra Zanzotto e Ponge, ossia la concezione della poesia come elogio, lode di ciò che semplicemente esiste. Scrive Zanzotto nel suo Autoritratto del 1977:

Particolarmente in certi istanti io provavo una febbrile, travolgente ebbrezza dell’esistere per poter contemplare certe cose, anzi per partecipare a una loro vita segreta. Sentivo che promanava, quasi, da una foglia, da un albero, da un fiore, da un paesaggio, da un volto umano, da una presenza qualsiasi e più tardi anche da un libro, una corrente di energia, un sentimento di corrispondenza da me attesa; c’era una specie di circolazione tra la mia interiorità e questo mondo esterno tutto fatto di “punti roventi”, vette o pozzi, preminenze in ogni caso. Di là sono venuti i fantasmi più insistenti che mi hanno spinto in direzione della poesia. E a questo punto devo ribadire che a mio parere la poesia è, prima di tutto, un incoercibile desiderio di lodare la realtà, di lodare il mondo “in quanto esiste”.[31]

Ritroviamo in queste righe diversi “motivi” tipicamente pongiani: la “vita segreta” delle cose, le cose piccole e semplici (“foglia”, “albero”, “fiore”), le specifiche occasioni d’incontro (“punti roventi”, “preminenze”) e la naturale (“incoercibile”) attitudine alla lode, che definisce il fare poetico nel suo tratto distintivo. Ulteriore conferma di questa prossimità possiamo averla, citando un passo tratto da Comment une figue de paroles et pourquoi:

Il existe dans l’homme une faculté (…), une faculté (dis-je) de saisir que les choses existent justement parce qu’elles sont – et resteront toujours – incomplètement réductibles à son esprit.

La reconnaissance (et l’amour et la glorification) de cette existence des choses (ou aussi bien des êtres) si variées, si inattendues, si imprévisibles, si sacrées (peut-être) si indicibles (non, pas indicibles), telle est la fonction supérieure de la poésie : c’est la chose plus naturelle au monde.[32]

È importante sottolineare ciò che Ponge mette tra parentesi con spirito di understatement. Le cose suscitano la lode per tutta una serie di caratteristiche (“varie, “inattese”, ecc.), ma in primo luogo perché semplicemente esistono. Ora, nonostante esse siano “non compiutamente assimilabili” dalla mente umana – e quindi irrimediabilmente opache –, non per questo esse sono indicibili. La dicibilità del mondo non solo fa piazza pulita di tutti i miti (i “fantasmi”) connessi all’ineffabilità che minaccia la parola poetica, ma soprattutto considera quest’ultima un moto tipico del linguaggio umano. Ancora una volta, Ponge ribadisce la continuità tra parlare comune e scrittura poetica.

Se fino a qui, nel raffronto tra i due poeti, non possiamo che riconoscere una profonda condivisione di sguardo e attitudine, nelle pagine successive del suo scritto Zanzotto introduce un tema estraneo a Ponge, quello dello statuto “precario” del soggetto che guarda il mondo. D’altra parte, stiamo percorrendo le pagine più intime dell’autoritratto. E possiamo identificare, forse, una delle ragioni autobiografiche, che ci permettono di comprendere sia il motivo variamente declinato della dissoluzione e dell’inconsistenza del mondo (e/o dell’io), sia l’ossessione per un fondamento e un’origine, che siano garanzia di realtà e condivisione.

Ma soprattutto credo che abbia male influito sulla mia infanzia e sulla mia adolescenza l’infiltrarsi progressivo in me di un’idea certo aberrante; quella dell’impossibilità di partecipare attivamente al gioco della vita in quanto ne sarei stato escluso. (…) Vivevo in una strana duplicità, nel precario, nel vuoto. Cresceva in me un sentimento di distacco dalla realtà, vedeva come su uno schermo allontanante il mondo della storia ed i suoi conflitti (…).[33]

Zanzotto ci fornisce una pista “psicologica”, per interpretare quella minaccia d’irrealtà che pesa non tanto sulle cose, sulla loro carattere “inassimilabile”, ma sul soggetto stesso che è portato a lodarle. Quest’ultimo è minato nella sua fisionomia interna e nella sua capacità espressiva, ancor prima di essere entrato in contatto con uno dei “punti roventi”, che designano l’incontro erotico tra l’io e una “preminenza” del mondo. Non è caso, d’altra parte, che proprio in tale contesto discorsivo emergano, poche righe dopo, immagini d’inconsistenza ed evanescenza legate all’attività poetica. Proseguiamo dunque la lettura:

(…) ho corteggiato a lungo il sacro mondo delle muse o anche il mondo banalissimo di quelle che vengono scambiate per muse e in realtà sono soltanto scorie di miraggi, alcuni già vivi nel passato, altri già morti quando erano stati progettati come futuro. Quello della poesia è un mondo di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto, in cui s’incontra di tutto e ben di rado la pepita, il ramo d’oro.[34]

Abbiamo qui uno strano rovesciamento rispetto al primo dei brani citati. Nel momento in cui viene meno la “circolazione” tra l’interiorità e il mondo esterno e in cui si fa strada “il sentimento di distacco dalla realtà”, in aiuto del poeta giunge il “sacro mondo delle muse”, ossia tutta un’eredità culturale e letteraria che deve supplire al mancato incontro con i “punti roventi”. Entro tali condizioni psichiche ed esistenziali emerge, allora, quella “archeologia del paesaggio”, che facendo di necessità virtù permette a Zanzotto di includere nella sua poesia non solo la lode per ciò che esiste, ma anche la lotta con i propri fantasmi (individuali e collettivi), con insomma quella serie “di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto”, in cui il poeta si dibatte nei lunghi periodi che intervallano i suoi rari incontri con una “pepita” o un “ramo d’oro”.

Note

[1] Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, Gallimard, Paris, 1983, pp. 21-22.

[2] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2011, p. 309.

[3] La Beltà, in particolare, costituisce quasi un formulario di questa ambivalenza-reversibilità tra “consistenza” e “dissoluzione”, che sono i due possibili e contradditori esiti del “processo di verbalizzazione del mondo”. Ricordo da un altro testo (Esautorazioni): “(…) davanti al mondo ch’è paese: / ma come, come lo sosterrò? / Come lo risolverò? E il mondo è risolto? Risolto non è dissolto? E il grumo non deve – oro guano miele – rimanere? (…)”. Il “grumo” è ancora una volta sinonimo di “fondo”, di “residuo”, ma anche di “nucleo”, “radice”, “fondamento”: esso può essere inutile e ripugnante come uno scarto – la feccia, le deiezioni organiche – o magnifico e godibile come il dono supremo – l’oro, il miele. Inutile insistere ancora una volta sui rimandi alla simbologia alchemica, essi d’altra parte, assieme a rimandi di caratare mitologico, letterario, storico, filosofico, non fanno che “rimpolpare” figurativamente il concetto di zanzottiano di poesia che, soprattutto a partire da questo libro, diventa assieme al paesaggio (il referente “privilegiato”) uno degli argomenti della poesia stessa (Ivi, p. 276). Questo, per altro, è un ulteriore aspetto che Zanzotto e Ponge hanno in comune: l’integrazione del discorso sulla poesia (riflessione, teoria) all’interno degli stessi componimenti poetici.

[4] Ivi, p. 609.

[5] Francis Ponge, Pour un Malherbe, Gallimard, Paris, 1965, p. 25.

[6] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 267.

[7] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., pp. 74-75.

[8] Francis Ponge, Nioque de l’Avant-Printemps, op. cit., p. 31.

[9] È importante ricordare che, oltre ai riferimenti espliciti e noti di Zanzotto a Lacan, da un lato, e a Heidegger, dall’altro, all’altezza della Beltà si è ormai giocata, a livello di cultura europea, la transizione dal paradigma filosofico della fenomenologia e dell’esistenzialismo a quello dello strutturalismo e del decostruttivismo. Zanzotto, per altro, è alla fine molto più poeta di “idee” che Ponge, il quale resta relativamente sordo a queste correnti intellettuali, per quanto riguarda la riflessione sulla sua prassi poetica. Una sordità che, almeno nel suo caso, potremmo definire “feconda”.

[10] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 197.

[11] Ivi, p. 201.

[12] Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda, Garzanti, Milano, 2009, p. 26.

[13] Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, 2019, pp. 124-125.

[14] Il testo è poi raccolto in: Francis Ponges, Méthodes, Gallimard, Paris, 1961, p. 202.

[15] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 73.

[16] Francis Ponge, La rage de l’expression, Gallimard, Paris, 1952 e 1976, p. 114.

[17] Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 153.

[18] A dire il vero, come ha mostrato tra gli altri Luca Stefanelli in un approfondito studio dedicato alla Beltà e alle sue fonti intertestuali – Attraverso la Beltà di Andrea Zanzotto del 2011 – svariati temi heideggeriani circolano già in questo libro. L’emersione, però, della tematica dell’idioma e dell’oralità dialettale creano ulteriori tangenze tra la poetica zanzottiana e il pensiero del filosofo tedesco, che troveranno nella trilogia un terreno privilegiato di sviluppo.

[19] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 508.

[20] In un intervento scritto quattordici anni più tardi, Zanzotto affronterà in modo critico, in uno stesso contesto discorsivo, sia la nozione di idioma sia la fascinazione che essa ha esercitato su scrittori come Artaud e pensatori come Heidegger. In Tra ombre di percezioni “fondanti”, del 1990, leggiamo: “Si ricordi, tra l’altro, a proposito dello sprofondamento necessario per avere un qualche rapporto con gli strati originari (in una certa analogia con Artaud) che nel caso di Heidegger si constata l’inveramento, in una forma resa mostruosa, dell’”idioma”. Egli, pare, non fu nazista nel senso di razzista (…); egli idolatra la propria lingua, blocca lo sgomento del senzafondo puntando sulla lingua (propria). Non è qui inesatto appunto richiamare la tematica di Artaud, perché, effettivamente, all’inizio si è sempre immersi, diciamo pure infangati, interrati, all’interno di una lingua, che è e dà radici. (…) Ma Heidegger va in delirio per l’idiomaticità pura, che fa tutto precipitare proprio in implosività ed impossibilità di un’uscita reale verso l’esterno”, Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, I Meridiani Mondadori, Milano, 1999, pp. 1340-1341.

[21] “Il «logos erchomenos» di Andrea Zanzotto”, in Giorgio Agamben, Categorie italiane, apparso per la prima volta per Laterza, Bari, nel 2010. Nuova edizione, per Quodlibet, Macerata, 2021.

[22] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 312.

[23] Ivi, p. 237.

[24] Ivi, p. 257.

[25] Ivi, p. 654.

[26] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, Flammarion, Paris 1977 e 1997, pp. 66-67.

[27] Quali che siano le ricchissime considerazioni speculative si possono trarre dalle Ricerche filosofiche, i poeti potrebbero accontentarsi di accogliere almeno un paio di consigli. Poeta – sembra dire Wittgenstein – invece di andare alla ricerca di una parola pura e perfetta, meravigliati dello straordinario accordo che, nella vita ordinaria, possiamo constatare tra le forme di vita e i nostri modi di dire! Dedicati alla pratica di ciò che il linguaggio già ti permette di fare, senza pensare di possedere uno strumento strutturalmente imperfetto e inadatto ai tuoi bisogni! E non rimanere affascinato dai miti sull’origine e il fondamento del linguaggio, perché essi non contribuiscono in nulla a rendere più efficace la pratica dei vari giochi linguistici!

[28] Francis Ponge, La rage de l’expression, op. cit., p. 105.

[29] Si legga quanto scrive Zanzotto, nel 1967, parlando de Gli strumenti umani di Sereni, ma parlando forse più di se stesso e della sua poetica: “Egli ha la piena coscienza che nessuna situazione della vita concreta è di fatto tanto demitologizzata (o deerotizzata) da non basarsi su monconi di miti e di amori che, tutto sommato, non possono non conservarsi tali, e che per essere sentiti come tali devono venire espressi proprio con questi termini, per quanto frusti ed erosi, anche se il mito dell’antimito e del disincanto totale impone delle finte, delle reticenze nei loro confronti. (…) Si delinea allora una verità in cui la terminologia ‘alta’ e accenni di sintassi alta bucano il tessuto del parlato depresso-disilluso che pure viene accettato, se non come preferibile, come il solo che oggi conceda agganci”, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994, p. 42.

[30] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 679.

[31] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., p. 1206.

[32] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, op. cit., p. 101.

[33] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., pp. 1207-1208.

[34] Ivi, p. 1208.

Mar e Dio

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Foto di valentinsimon0 da Pixabay

di Vincenzo Reale

Maria del Mar si prostituiva, ma a Caracas tutti sapevano che serviva pizze e supplì alla stazione di Roma Termini per pagarsi un corso di make-up. Quando il suo fidanzato l’aveva lasciata e se ne era tornato in Venezuela, Mar era rimasta in Italia senza soldi e senza lavoro e senza casa e un giorno in treno aveva conosciuto una dominicana che le aveva proposto di lavorare con lei, che le aveva detto che era molto bella e che bastava mettere un annuncio online per fare un po’ di soldi. E aveva ragione. Mar era procace, tropicale. Aveva un volto antico, primigenio, che a guardarlo ti sembrava di conoscere tutta la storia del mondo. Ma era anche giovane, e di un’età indecifrabile. E i capelli erano lunghi e neri e luccicavano come filamenti di diamanti. Era molto bella, Mar. Sorrideva poco, e quella gravità la impreziosiva; parlava poco, perché le avevano detto che era meglio parlare poco o non parlare affatto, se si era poco istruiti. Aveva ragione, la dominicana. Mar scrisse l’annuncio. – Fatima – disse Mar alla dominicana – non so se ce la faccio. – Ce la farai. – E ce la fece, Mar. Bastava bere un paio di birre prima degli appuntamenti e i clienti se ne andavano soddisfatti. E tornavano.

La casa di Fatima era al terzo piano di un palazzo rinascimentale, e la stanza di Mar era affrescata. Il cliente entrava, la pagava e si spogliava e, quando stava sotto, Mar guardava Dio sul soffitto. Era vecchio e arrabbiato e la giudicava. Poteva essere suo nonno, poteva essere il nonno di Fatima, poteva essere un altro cliente. Mar non ci credeva, in Dio, ma pensare a Dio come a un cliente lo faceva esistere. Per un attimo, solo per un attimo – il tempo di due giravolte sul letto e qualche gemito – Dio esisteva. Quando però tutto era finito e Mar si ripuliva con le salviette umide sul comò, Dio tornava di calce, scolorito, spento. Una domenica, dopo aver passato tutta la mattina a pensarci, disse a Fatima: – L’ho visto sorridere, l’altro giorno. – Chi? – Dio – disse Mar, e non riuscì a credere di averlo detto. – Sì – disse Fatima – a volte lo fa.

Presto Mar fu piena di appuntamenti, così piena che certi giorni non aveva neanche il tempo di mangiare. Faceva dieci docce al giorno, cambiava le lenzuola, riprofumava la stanza. Tutto sotto gli occhi di Dio e degli angeli ribelli, che sembravano fuggire via quando Mar si spogliava; si disperdevano per la stanza con gli occhi iniettati di lacrime e rimanevano immobili a mezz’aria. Dopo aver passato il pomeriggio con Mar, i clienti tornavano a casa e scrivevano online lunghe recensioni appassionate, e tutti, forse con ancora gli affreschi negli occhi, dicevano che Mar era un angelo in carne e ossa. Alcuni si innamorarono. I più ricchi andavano a trovarla quasi tutti i giorni, gli altri si presentavano con fiori e gioielli. Mar non poteva innamorarsi, ma alla fine s’innamorò anche lei. Glielo avevano detto, di non innamorarsi degli italiani. Glielo aveva detto, Fatima, di non innamorarsi dei clienti. Ma Mar lo fece.

Lui non era ricco – faceva il cameriere in un ristorante – e non era bello, ma sapeva farla ridere, capiva la meccanica del suo umorismo, e parlava uno spagnolo buffo, da italiano, e già dopo i primi appuntamenti Mar non sentì più il bisogno di bere prima le due birre. Quando se lo trova alla porta, ha come la sensazione che sia nel posto sbagliato, che debba essere tra i suoi affreschi a scacciare i demoni o a proteggerla dalla pioggia di fuoco su Sodoma e Gomorra. Si incontrano per mesi. E poi una sera lui arriva stanco, ha gli occhi incavati, si mettono a letto e si spogliano e fanno tutto con calma, Mar dimentica Dio, e si svegliano abbracciati la mattina e Mar si rende conto di non aver ricevuto soldi, di non averli chiesti, di non averli voluti, e se ne rende conto anche lui, cerca i pantaloni sul pavimento perché è lì che tiene il portafogli – Li prendo subito – le dice. – Non importa – dice lei, – non li voglio. – Sono qui, te li do subito. – Non li voglio. – Perché non li vuoi? – Mar non risponde. Perché non li voglio?, pensa, perché mi sembra sbagliato volerli? Mar è perspicace, capisce subito, ma non parla. Lui la guarda, rimette il portafogli nei pantaloni, si siede sul letto. – Vuoi venire a vivere da me? – Mar non ricambia lo sguardo, ha appena visto Dio sorridere sotto i baffi. Risponde solo: – Sì.

Fatima non approvò affatto quella decisione, e glielo disse. Le disse anche che la metteva nei guai, che doveva dirglielo prima, che adesso doveva tornare a pagare l’affitto da sola. – Sei una puttana – concluse. – Sparisci.

Maria del Mar fu felice. Lui lavorava quasi tutto il giorno, ma la sera tornava a casa e Mar cucinava e nei fine settimana andavano a ballare, e poi di domenica, quando si svegliavano e c’era il sole, passeggiavano nel parco e mangiavano in qualche trattoria e bevevano vino e tornavano a letto e ci rimanevano per ore. Si scoprirono gelosi, lei delle sue colleghe affascinanti e istruite, lui delle telefonate che Mar riceveva a tutte le ore del giorno e della notte dai vecchi clienti. – Lo sapevi – gli diceva Mar – lo sapevi che facevo la escort. – Lui lo sapeva e non parlava. Lei capiva che di uno come lui, di uno abituato a frequentare escort, non c’era in fondo da fidarsi. Ma Mar l’aveva fatta, la escort, e allora non parlava neanche lei, perché in fondo neanche di lei c’era da fidarsi. Quando però lui usciva, lei lo seguiva o controllava col telefono i suoi spostamenti. E quel telefono, il telefono di Mar, inondato di chiamate e messaggi. A volte i clienti erano insistenti, così insistenti che Mar era costretta a mandargli un vocale – volevano sentire almeno la sua voce – o, come era prevedibile, delle sue foto in intimo. Almeno la lasciavano in pace per un po’. Mar si scattava le foto e le inviava, e tra una foto e l’altra controllava dove fosse lui. Ma lui era sempre al lavoro, e allora un giorno Mar va al ristorante e lo osserva dalla vetrina e vede che lavora davvero, che con le colleghe non parla quasi mai, se non dei tavoli da servire e da sparecchiare. Lui la vede, là fuori, ma non fa in tempo a uscire a parlarle che Mar è già andata via. Mar torna a casa e dovrebbe essere felice, ma non lo è. È arrabbiata, e non capisce perché. Riordina il letto, apre le finestre, pulisce la cucina e pensa, mentre spolvera i cassetti, pensa e non capisce e si dice che, se non capisce, è perché non c’è niente da capire. Che forse l’amore è proprio questo: una banalità.

Una sera Mar preparò la cena e comprò del vino e mangiarono e bevvero, andarono a ballare e bevvero ancora, e mentre ballavano lui le si avvicinò all’orecchio e le disse: – Pensi che sono stupido? – Iniziò una lunga discussione che si trascinarono fino a casa, e a casa entrambi esplosero e lui le strappò di mano il telefono e vide tutti quei messaggi e tutte quelle foto, e lei gli rimproverò di essere troppo ingenuo, di non aver fatto niente per conquistarla, per conquistare la sua fedeltà. In quella casa si erano scoperti gelosi, e adesso, tra le parole e i movimenti disorganici dei loro corpi, si scoprirono violenti, e da quella casa – che non era affrescata, che era senza Dio – Mar fu cacciata come un angelo ribelle, insultata e cacciata da lui, che di nome avrebbe potuto fare Luca o Esteban o 温琴佐, ma che a lei non era mai importato, mai, anche se, si disse Mar in mezzo alla strada con la sua vecchia valigia, forse era l’unico ad averla amata davvero, e forse lei, Mar, la prostituta, l’impulsiva e ormai cinica prostituta di Caracas, la violenza se l’era meritata.

Maria del Mar aveva ancora le chiavi della casa di Fatima, e quella notte tornò lì, nella sua stanza affrescata. Sembravano passati millenni. Fatima non c’era. Si sentì al sicuro, si sentì di nuovo corretta. Dio era sul soffitto e la guardava, e adesso con il dito onnipotente sembrava indicarla. Cos’è che sbagliava sempre? Ogni volta sbagliava qualcosa. Ogni volta. E cos’è che avrebbe fatto ora?, pensava. E se fosse tornata in Venezuela? Le servivano più soldi. Avrebbe ricominciato da lì, dalla stanza affrescata, e avrebbe scopato abbastanza da comprare un volo per Caracas, e poi, e poi, Maria del Mar, si disse ancora in piedi in mezzo alla stanza, cosa fai a Caracas? Cosa racconti alla gente, Mar? No, pensò, sto pensando troppo. Lui mi richiamerà, mi scriverà, mi chiederà scusa e ci chiederemo scusa e ricominceremo da lì, nella casa senza affreschi. Le cose non finiscono così, le storie non finiscono di notte. E se invece, pensò, finissero proprio così? Finiscono proprio così, Mar, si disse. Di notte.

Si abbandonò sul letto a braccia aperte, si tolse le scarpe. Era inquieta, era stanca. Fece un lungo sospiro, inarcò le sopracciglia, ma invece di sorridere sentì il volto contrarsi in una smorfia di disgusto, e fu solo in quel momento che accettò di piangere.

Si addormentò con difficoltà, ma quella notte Mar sognò una grande festa e dei fiori. Una foresta, una città di fiori. Indossava un vestito scarlatto in organza e non riusciva a smettere di ridere – se non per bere dal suo flûte di cristallo. Era un giorno magnifico. I suoi occhi si perdevano tra le decorazioni della città, i drappi dorati alle finestre e le bandiere di un mondo nuovo e intramontabile che ondeggiavano al vento, e intorno a lei tutti cantavano inni trionfali di prosperità. Non era il paradiso, era qualcosa di meglio, e Mar era lì, era parte di qualcosa di eterno.

Quando Fatima tornò, la stanza era ancora piena di fiori. Il volto consumato, le rughe antiche, Dio vegliava solenne dal soffitto. Tra le increspature della barba di calce, l’orizzonte piatto del mare.

La televisione e la metamorfosi del palinsesto

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di Pasquale Palmieri

Non guardiamo più la televisione come una volta. Ce lo ripetiamo spesso, contribuendo a costruire un solido luogo comune, ma fatichiamo talvolta a comprendere le ragioni di quello che sta accadendo davvero al “piccolo schermo”. I nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – per fare un esempio – hanno un’esperienza del tutto peculiare del medium, difficile da spiegare alle nuove generazioni. Le giornate erano scandite dai palinsesti. Si mangiava all’ora di Beautiful, di ritorno da scuola. Si sostava sul divano durante I Simpson, si aprivano svogliatamente i libri per studiare dopo la sigla finale di Non è la Rai, prima della Melevisione o di Bim Bum Bam. La passeggiata con gli amici segnava uno dei rari momenti di disconnessione dal “tubo catodico”. Il rientro a casa era accompagnato dalla sigla di apertura del telegiornale, ma nel giro di pochi minuti iniziavano le contese familiari per la conquista del telecomando. Duravano poco, in genere. In fondo la tentazione di abbandonare il notiziario per il Karaoke di Fiorello, Sarabanda, Un posto al sole o per l’ennesima replica di Una mamma per amica era forte anche per gli spiriti più responsabili o desiderosi di informazione.

Ormai da anni è in corso un cambiamento profondo, che appare inarrestabile. Cosa lo ha reso possibile? Quali dinamiche hanno contribuito a ridimensionare il ruolo di un oggetto che sembrava possedere un’assoluta e indiscutibile centralità nelle nostre vite? Non ci sono facili risposte per queste domande. Siamo soliti fare riferimento all’arrivo di internet e delle piattaforme digitali, ma rimane difficile trovare un orientamento in questo paesaggio variegato. È di certo utile allo scopo l’eBook di Alice Valeria Oliveri, intitolato Mondovisione (contenuto nella serie “Quanti” di Einaudi), che si pone l’obiettivo esplicito di costruire una mappa della tv contemporanea in Italia. Fin dalle pagine introduttive, l’autrice suggerisce di concentrare l’attenzione proprio sul concetto di palinsesto, baluardo delle reti tradizionali, capace di salvaguardare “la verticalità del contenuto” e di arginare “l’orizzontalità dei cataloghi infiniti” – quelli di Netflix, Disney+, Prime, Youtube, in prima istanza – a disposizione di utenti seguiti e profilati in ogni scelta, guidati dagli algoritmi verso prodotti che si ritengono confacenti alle loro preferenze.

Gli anni Venti del Duemila continuano a spostare le prospettive e sembrano rendere meno appetitoso questo infinito menù, pronto a soddisfare ogni palato. Si intravedono i segni di un’uscita definitiva dalla “sbornia” di “grande serialità” internazionale che ha caratterizzato l’inizio del nuovo millennio, fatta di draghi, metanfetamina, zombie e isole misteriose. Non servono più grandi prove per ammettere che le fiction Rai – da molti denigrate, fino a divenire bersagli di spassose parodie – svolgono bene il loro compito. Una replica del Commissario Montalbano riesce a raggiungere con facilità il 20% di share, ma anche prodotti come Blanca, Le indagini di Lolita Lobosco e L’amica geniale ottengono risultati importanti in termini di ascolto. Questa solidità di consenso si spiega, secondo Alice Valeria Oliveri, con “una scrittura semplice e distesa”, che coinvolge senza sconvolgere, creando “un rapporto di fedeltà tra lo spettatore e la messa in scena che si solidifica col tempo”. Una dinamica simile è innescata da Domenica In, fondata sul rapporto intimo che si stabilisce fra conduttrice e ospiti, impegnati nella ricerca di ricordi comuni sospesi fra sfera personale e memoria collettiva del paese. Altrettanto efficaci come dispositivi di coinvolgimento sono i giochi a premi, capaci di ricreare un ambiente familiare, nel quale chi segue la competizione può assorbire le sensazioni dei concorrenti, le loro paure o la loro voglia di rischiare.

Diverse sono invece le caratteristiche del “continente Mediaset”, che un tempo provava a cavalcare il mito della libertà dai vincoli statali configurandosi come terra di coraggio e innovazione, ma oggi ripiega su una strategia di conservazione, legata a programmi e volti garantiti dal “bollino di Canale 5”. Il cuore pulsante di questa impresa è il regno di Maria De Filippi, “una sorta di Vaticano della tv, pari allo Stato Pontificio sia per potere che per influenza nel resto dell’universo televisivo italiano”. Uomini e donne, Temptation Island, C’è posta per te e Amici vanno a formare una sorta di pianeta parallelo abitato da tronisti, traditori seriali e aspiranti stelle che “rimbalzano da studio a studio”, rendendosi riconoscibili grazie a una peculiare postura etica, estetica e verbale. Tutto ruota intorno alla parola “percorso”, che è la chiave di volta di ciascun segmento narrativo: un “percorso” per trovare il grande amore della vita, un “percorso” per avere conferma della solidità dei propri legami sentimentali, un “percorso” di riconciliazione familiare, un “percorso” di crescita professionale o artistica. Le regole sono dettate proprio dalla conduttrice, che accompagna le trame con la sua voce e il suo sguardo (benevolo, interrogante, giudicante), interpretando i sentimenti del suo pubblico, accarezzando il senso comune, arrogandosi il diritto “mettere ordine, legiferare, ristabilire gli equilibri”.

Più in generale, si ha l’impressione che Mediaset abbia trovato un suo assetto iconografico stabile e faccia costantemente leva su un palinsesto rivolto al passato. Cosa hanno in comune Paolo Bonolis, Luca Laurenti, Gerry Scotti, Michelle Hunziker, Ezio Greggio, Enzo Iacchetti, Federica Panicucci, Ilary Blasi, Alfonso Signorini, Silvia Toffanin, Claudio Bisio e Vanessa Incontrada? Poche cose, si direbbe a un primo giudizio superficiale. Usano diversi registri e si impegnano su diversi generi. Ciò nonostante, risulta difficile ignorare il fatto che siano accomunati da una residenza stabile in azienda – con occasionali o rare eccezioni – che copre un periodo oscillante dagli ultimi 20 agli ultimi 40 anni. Di certo non possono bastare iniziative isolate, come la defenestrazione di Barbara D’Urso o l’ingresso di Bianca Berlinguer, per disorientare una platea tendenzialmente adulta, abituata ad avere punti di riferimento precisi, con lunghe e consolidate esperienze.

Ben più complesse sono le considerazioni possibili quando ci si allontana dalle cosiddette “reti ammiraglia” di Rai e Mediaset (Rai Uno e Canale 5, per intenderci). Alice Valeria Oliveri è molto attenta nel registrare i movimenti tellurici che hanno interessato emittenti come Raidue o Italia 1 in seguito alla migrazione del pubblico giovane verso le piattaforme digitali. Non è un caso che le poche novità di successo degli ultimi anni siano legate a prodotti frazionabili, dai quali vengono estratte sequenze brevi destinate a diffondersi grazie a Instagram, Youtube, Tik Tok. È certamente il caso di Una pezza di Lundini, incentrato su interviste surreali, simulati servizi d’inchiesta e parodie della televisione classica; di Belve, che costringe gli intervistati ad adattarsi a una liturgia codificata, rispondendo sempre alla stessa domanda (“Che belva si sente?”); o del Collegio, che catapulta gruppi di adolescenti in immaginarie scuole di epoche passate, costringendoli ad affrontare anacronistici riti di passaggio (come il “primo taglio di capelli”). Persino la vecchissima formula delle Iene – attiva fin dal 1997, bene ricordarlo – ha provato a entrare a gamba tesa nel flusso della viralità con monologhi affidati a personaggi famosi, che trattano temi controversi o rispondono a domande formulate da utenti dei social network. In buona sostanza, siamo di fronte a un repertorio variegato che si tuffa nel web per attendere una certificazione di rilevanza, sondando i gusti e i giudizi di generazioni ormai lontane al telecomando.

È stata proprio la rete, che prometteva di annientare la televisione, a costruire invece un sistema di vasi comunicanti capaci di nutrirsi a vicenda, permettendo allo spettatore di sfruttare la disintermediazione e di costruirsi un palinsesto su misura. I segni distintivi di questa trasformazione erano stati già individuati nel 2014 da Luca Barra (Palinsesto. Storia e tecnica della programmazione televisiva in Italia, Roma-Bari, Laterza) e Irene Piazzoni (Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci). Non riuscendo più a essere il punto di incontro fra emittente e pubblico, o fra industria e consumo, il “palinsesto” lascia spazio al “catalogo”, dissolvendosi all’interno di un paesaggio mediale complesso che separa il prodotto dalla sua messa in onda. Lo stesso progresso tecnologico risponde a spinte eterogenee – lo ha chiarito bene Peppino Ortoleva nelle sue “lezioni” (Media-storie, Roma, Viella, 2020) – offrendo di volta in volta risposte a bisogni culturali, politici ed economici dotati di una loro concretezza storica, e quindi indagabili in primo luogo con il metodo storico. Anche sulla base di queste analisi, riusciamo a comprendere come i vorticosi cambiamenti in corso non abbiano spazzato via il potere del vecchio “piccolo schermo”, ancora in grado di intromettersi, sia pur in maniera indiretta, nella produzione di discorso pubblico.

Nello specifico, le piattaforme liberano gli spettatori dai principi ordinatori che erano soliti scandire le loro giornate, dando agli individui la possibilità, o forse la semplice sensazione, di comporre scalette personali. È importante tuttavia sottolineare come questi processi distributivi stimolino anche la convergenza di molteplici dispositivi sui medesimi contenuti, che proprio per le reti “generaliste” della tv tradizionale erano stati ideati. Si pensi ad esempio alle comunità di appassionati che hanno contribuito alla fortuna della serie Mare Fuori condividendo interviste, commenti, recensioni, anteprime. O si considerino sul versante opposto – quello delle iniziative industriali – le scelte di Discovery e Sky, che provano a trarre beneficio dalla popolarità di personaggi e programmi già affermati, accaparrandosi celebrità come Fabio Fazio, Amadeus, Gialappa’s Band, o comprando i diritti per trasmettere X-Factor, Italia’s Got Talent e Pechino Express.

Nel descrivere questo scenario di grandi metamorfosi, siamo comunque costretti a fare i conti con una delle più grandi singolarità del nostro paesaggio mediatico: il successo strabordante del Festival di Sanremo. La polverizzazione dei consumi di contenuti su molteplici dispositivi e piattaforme avrebbe potuto configurarsi come un ostacolo invalicabile per l’agognato trasversalismo nazionalpopolare della rassegna canora. Ma gli sviluppi degli ultimi anni hanno acquisito una fisionomia ben diversa. È stata proprio l’espansione transmediale dell’evento a creare, al contrario, una straordinaria occasione di interazione fra persone di diverse età. Non importa che si segua la trasmissione in diretta su Raiuno, che si leggano i commenti su Facebook, Twitter (ora denominato X) o Threads, che si guardino i video su Tik Tok, Instagram o Youtube. L’importante è essere presenti, pronti ad affrontare la discussione e ad essere parte del grande gioco, costi quel che costi.

Il Festival di Sanremo ci consente, in estrema sintesi, di uscire dalle nostre bolle social, stimolandoci a convergere attraverso i nostri dispositivi tascabili e i nostri profili social su un unico spettacolo. Ci riporta – con un salto all’indietro di sapore quasi nostalgico – dentro la sincronia del vecchio tubo catodico, dandoci la possibilità di condividere opinioni, giudizi e preferenze con le persone che ci circondano, nella consapevolezza di star facendo tutti la stessa cosa nello stesso momento (senza che si tratti della trasmissione in diretta di un grande evento sportivo). Proprio per la comprensione di questi passaggi risulta cruciale la lettura di Mondovisione di Alice Valeria Oliveri. Con un paragone felicissimo, l’autrice ci invita a immaginare il web come una biblioteca infinita, nella quale è possibile scegliere in solitaria il prossimo testo da leggere. La tv invece aspira a essere, ancora oggi, un gigantesco circolo di lettura con milioni di iscritti che si radunano in un orario preciso per poter parlare insieme dello stesso libro. Questo obiettivo – in condizioni ordinarie – sembrerebbe essere ormai irrealizzabile, chimerico, anacronistico. Ma ogni anno, almeno in Italia, ai primi di febbraio l’utopia smette di essere tale e assume i contorni del reale.

 

RASOTERRA #1

1

di Elena Tognoli (disegni) e Giacomo Sartori (testi)

 

(il merlo)

«Per molti merli dire lombrico equivale a dire porchetta, o pollo arrosto, un qualcosa che ha un valore solo alimentare. Mi farei volentieri due lombrichetti, si sente dire, e nessuno pensa che si tratta di creature viventi, con un abbozzo di cervello e sedici cuoricini. Chi non ha testa ha gambe, si sente spesso dire, quando un verme riesce a squagliarsela, anche se forse l’espressione non è adattissima, trattandosi di animali senza gambe.
Devo confessare che io li trovo invece molto interessanti. Non si può dire che siano esseri molto espansivi, e men che meno empatici, però a ben vedere hanno una loro ctonia ieraticità, e non si perdono in chiacchiere inutili. E si danno sempre da fare, scavano e ancora scavano, mangiano e fanno i loro arzigogolati bisogni, migliorando la terra a uso e consumo delle piante, dei batteri, degli uomini, e insomma dell’ecologia. Fanno un po’ pensare alle formiche, le quali però con i loro passetti nevrotici sono sempre lì che cercano qualcosa da rubare, mentre loro non sgraffignano niente, regalano anzi alla terra le loro preziose cacchette. E non attaccano mai briga con nessuno.
Non so perché tra gli altri animali abbiano una reputazione così scadente, mentre tutti ammirano le formiche. Qualche volta mi dispiace doverli mangiare, anche se per i miei fratelli e i miei cugini, che sono sempre lì pronti a criticare, questa è pura pazzia. Fai tanto il sensibilone, e poi ti ingozzi anche tu, mi dicono.
Io non gli do retta, e mi dico che in un mondo ideale dovremmo essere tutti vegetariani, in modo da non fare male a nessuno. Il mondo però è tutt’altro che ideale, quindi se uno ha fame è normale che mangi, senza che i parenti lo critichino.»

 

(la pala eolica)

«Ho sempre adorato le tracce dei trattori sulla terra. Fanno pensare alle costole di un animale preistorico, o anche alle vertebre dei dinosauri stampate nella roccia. Si potrebbe pensare che siano tutte uguali, visto il furore di uniformizzazione che ha contagiato gli agricoltori contemporanei, e invece riescono ogni volta a stupirti con le loro imprevedibili particolarità. Possono essere lievi e sensibili, o tutt’all’opposto rozze e implacabili, oppure arzigogolate e per così dire cerebrali, o stravaganti e quasi poetiche, non si può mai sapere in anticipo. Esattamente come una frase scritta non è mai identica alle altre.
Leggendole con attenzione si capisce quello che vogliono comunicare, quello che preferiscono tenere nascosto, quello che dicono tra le righe. Molti le considerano la cosa più terra a terra che esista, e invece spesso sono struggenti. Certe serate senza vento emanano una atroce melancolia, un ardente desiderio di accedere alle verità nascoste, all’infinito. Quasi gridassero il loro desiderio di scapparsene chissà dove, chissà con chi. Secondo me bisognerebbe prenderle molto più sul serio di quanto si faccia, bisognerebbe che i critici più rinomati si consacrassero alla loro esegesi. Si scoprirebbero certo un sacco di segreti molto interessanti.
Per parte mia so bene che non posso capire tutto, che molte sfumature mi sfuggono. Sono abituata a avere a che fare con i venti, che arrivano e subito se ne vanno, senza lasciare tracce scritte. Quello che hanno da dire lo dicono con i loro fruscii e le loro sferzate, punto e basta. Qualche volta mi dico che forse mi perdo i messaggi più essenziali delle tracce dei trattori, quelli più preziosi. Giro in tondo, invece di avanzare nella comprensione.»

 

(la radice)

«Gli umani sono esseri molto singolari, hanno la mania dell’ordine e della geometria. Si fanno in quattro per organizzare ogni cosa secondo i dettami della loro logica implacabile, e anche le forme devono adeguarsi alle stesse prescrizioni. Adorano i campi perfettamente rettangolari, i solchi degli aratri paralleli come rotaie, l’erba rapata a zero, gli alberi tutti uguali, i frutti identici uno all’altro, le strade asfaltate senza l’ombra di una buchetta o d’un filo d’erba. Passano e ripassano i loro erpici sulla superficie finché la terra non ha la minima irregolarità, non sopportano il minimo difettuccio. È davvero inspiegabile, questo fanatismo dell’apparente regolarità e simmetricità.
Se non vedessero solo la facciata – è la nostra salvezza -, verrebbero a mettere ordine anche giù da noi, sotto i loro piedi. Farebbero avanzare le radici tutte dritte, come i soldati a una parata, obbligherebbero i lombrichi a scavare gallerie rigorosamente parallele, ognuna identificata con un codice a barre, raderebbero le barbe delle micorrize perché siano della stessa lunghezza, rinchiuderebbero i vari animali in gabbiette separate, ognuna con la sua bella etichettina e il suo QR Code. E metterebbero delle luci dappertutto, perché hanno la smania dell’illuminazione, anche quando non c’è alcun bisogno.
Per finire spargerebbero i loro prodotti per sterminare tutte le nostre amichette e tutti i nostri amichetti, a cominciare da quelli microscopici: la chiamano pulizia, o disinfezione, o pastorizzazione. Fortunatamente non possono vedere un bel niente sotto terra, altrimenti per noi sarebbe la fine.»

I materiali testuali e grafici che presentiamo sono stati elaborati nel corso della residenza artistica “Terra Alta” al Centro CA’MON (Monno, Valcamonica, 2023-2024), che terminerà questo settembre, finanziata dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (Creating Living Lab, quinta edizione). Essi entreranno, assieme alle interviste agli specialisti di varie discipline (agroecologia, economia responsabile, arte…) che sono stati coinvolti nel progetto, in un volume in preparazione. Il direttore artistico di CA’MON è Stefano Boccalini, mentre tutte le nostre attività sono state coordinate da Elena Turetti, responsabile della progettazione, e da Marco Milzani, direttore della Cooperativa Sociale Il Cardo (Edolo, Valcamonica).

Abbiamo iniziato questo lavoro sulla terra (con la t minuscola) e i viventi, a cavallo tra arte scrittura e scienza, nella primavera del 2021, nell’immediato dopocovid, con la residenza “Panorama” (PETR Cœur des Hauts de France, DRAC Hauts de France, 2021-2022), e lo abbiamo poi continuato nell’ambito della residenza A.R.T.S (2022 – 2023) a Lilla (Ville de Lille, DRAC Hauts de France).

Elena Tognoli e Giacomo Sartori (ETGS)