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( amare le creature abolire le frontiere)

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di Gian Piero Fiorillo

Se sono giovani e stanno bene ti danno fastidio perché li vedi palestrati

Se chiedono l’elemosina li disprezzi perché sono mendicanti

Se protestano per vedere riconosciuti i diritti sul lavoro ti indignano perché loro almeno un                                                                  lavoro ce l’hanno e tanti italiani no, e poi tre euro all’ora per noi sono pochi ma in                                                                     Africa sono molti e le famiglie africane diventano ricche a nostre spese

Se vivono nelle baracche puzzano che non hai idea

Se dormono sulle panchine sono senza decoro

Se sono magri e allampanati facevano meglio a starsene a casa

Se rubano sono criminali

Se vestono all’occidentale sembrano scimmie del circo

Se portano i loro vestiti sono sospetti

Se occupano uno stabile sono fuorilegge

Se abitano in dieci un appartamento dividendo le spese devono essere sfrattati perché                                                                            rovinano l’immobile e lo deprezzano e poi in questo modo salgono gli affitti anche per                                                              mio figlio che va in città a studiare

Se mettono su un negozio sono foraggiati dalle mafie

Se rischiano di annegare per salvare un bagnante o si arrampicano per le balconate di un                                                                       palazzo per afferrare un bambino appeso alla ringhiera, che ti dicevo sono palestrati

Se muoiono dopo aver salvato un bagnante italiano, due piccioni con una fava

Se sono laureati, perché c’hanno pure l’Università in Africa?

Se sono poveri io che ci posso fare

Se vengono coi gommoni portano terroristi

Se dormono alla stazione portano la scabbia

Se sono negri come fanno a essere italiani, dico io – Io

 

Io non sono razzista ma prima gli italiani

Io non sono razzista ma ognuno deve stare a casa sua

Io non sono razzista ma le armi i soldi per comprarsele ce l’hanno

Io non sono razzista ma diciamocelo i neri hanno un odore tutto particolare

Io non sono razzista ma si scopano le nostre donne a tutto c’è un limite

Io non sono razzista ma ridono!

e con quei denti bianchi che se penso quanto ho speso di dentista mi viene il nervoso

Io non sono razzista ma questi ci hanno il cazzo quanto un manganello

Io non sono razzista ma aiutiamoli a morire a casa loro

Io conosco tante brave persone negre ma mica mi fido ciecamente, eh no

Io quando salgono i rom mi sposto dall’altra parte dell’autobus e ci sto molto attenta

Io i rumeni e polacchi sai che ci farei, ci hanno tutti l’aiddiesse se va bene

Io quelli che si trascinano i bambini sulla metropolitana per farti venire il senso di colpa e                                                                              spillarti un euro li metterei in galera e butterei la chiave

Io buoni i mendicanti, stanno meglio di te e di me, te lo dico Io –

Io che non sono razzista ma la mia è la razza italiana – e chi favorisce lo straniero è razzista al   contrario

Io questi buonisti di merda perché non se li prendono in casa vitto e alloggio tutto a spese loro

Io trentacinque euro al giorno per trecentosessantacinque giorni consecutivi chi li ha mai visti

Io un albergo di lusso a spese dei contribuenti me lo sogno

Io ai terremotati italiani chi ci pensa nessuno

Io non ce l’ho con loro ma bisogna difendere la nazione

Io ero di sinistra ma la sinistra a me mi ha deluso

Io in questo mondo di merda siamo diventati che chi viene da fuori detta legge

Io questo ius soli ma che cazzo voldì

Io altro che previdenza, nero è il colore del loro lavoro se no che sarebbero negri a fare

Io gli farebbe la castrazione chimica preventiva

Io al caporalato ci darei una medaglia, li facessero schiattare uno per uno sarei contento – Io

 

Io che non sono razzista ma l’infermiere nero non voglio che mi tocca

Io che non sono razzista ma se fossero pochi pure pure

Io che non sono razzista ma questi qui ci invadono il suolo

Io che non sono razzista ma si moltiplicano come le mosche

Io che non sono razzista ma portano un sacco di malattie

Io che non sono razzista ma me lo dici perché le carceri sono piene di stranieri

Io che non sono razzista ma mi ribolle il sangue quando vedo che i neri godono e gli italiani esplodono

Io quelli di seconda generazione sono i più pericolosi

Io lo dico per loro, è una deportazione programmata per abbassare il costo del lavoro

Io se muoiono in massa mi dispiace ma sono proprio tanti, nemmeno se ne accorgono

Io anche quelli che muoiono purtroppo si rimpiazzano

Io flussi programmati, vengono lavorano e quando finisce il lavoro tutti a casa, marsch, che ci                                                                          restano a fare qui, a rubare spacciare e molestare le donne?

 

Invece io radical chic

Invece io buonista dei tuoi coglioni

Invece io veterocomunista

Invece io mezzo liberale e mezzo socialista

e mezzo anarchico

Invece io ateo

Invece io cristiano

Invece io buono samaritano

Invece io crociano hegeliano marxista sensista

Invece io che mi si accappona la pelle quando vedo  

Invece io che ho buttato la televisione perché non voglio nemmeno più saperle certe cose

Invece io che vivo nella disperazione di un paese suicida per rancore, dove un Marcel diventa                                                                  ogni villan che parteggiando viene

Invece io, i miei giorni felici da bambino Marco Polo e Giulio Verne

            Ulisse Enea viaggi sentimentali e donchisciotti dietro a Dulcinea

             Furore e Joshua Slocum

Invece io,

              lo sai che cosa penso mentre mangio alla mensa della Caritas?

           

                                                 io penso che gli umani hanno un solo dovere

                                                 adesso, non domani, abolire le frontiere

 

 

***

 

 

Su “Fábrica de la seda (Con-memorias)” di Miguel Ángel Curiel

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di Ida Grasso

Si ritorna in certi luoghi per ritrovare tracce del proprio passato, per scrivere, ritrascrivere la propria vita a partire dalla consapevolezza di quanto, perduto per sempre, può nostalgicamente rivivere solo in una rimembranza intima e segreta. Esistono poi altri luoghi, in cui magari non si è mai stati, luoghi che malgrado l’ineluttabile scorrere del tempo resistono per testimoniare l’ombra di quanto, accaduto una volta, permane sul presente. Qui si va in pellegrinaggio non per tessere il filo della propria archeologia sentimentale, ma per prendere parte simbolicamente ad un lutto più grande, dentro il tempo della Storia e degli uomini: qui, come spiega Didi-Huberman, si va per vedere oltre le ferite e i segni impressi nello spazio, tra le scorze che, nonostante tutto, restano.
L’antica Fabbrica della seta di Talavera de la Reina, comune spagnolo nella regione di Castiglia-La Mancia, potrebbe essere uno di questi luoghi. Tra le mura dell’edificio, che gli anni hanno trasformato in una scuola, alla metà del 1937, in pieno conflitto civile, furono deportati oltre cinquemila prigionieri repubblicani, più della metà dei quali morirono per malattia ed esecuzioni.
A questa dimora del tempo, in cui è sepolto il destino e dolore di un gran numero di uomini, Miguel Ángel Curiel, una tra le voci più rilevanti del panorama poetico ispanico contemporaneo, intitola il suo ultimo libro, che il lettore italiano può leggere nella splendida traduzione di Paola Laskaris, impegnata da anni ad affiancare la docenza universitaria con la pratica della traduzione e della divulgazione dell’attuale lirica spagnola.
Lugar símbolico, la Fabbrica della seta è, come osserva Paola Laskaris nel prologo al libro, «fábrica de palabras donde se fragua el recuerdo de las heridas del pasado, para poder cauterizar y finalmente exorcizar su dolor»: luogo attraversato dal racconto, in cui la scrittura si fa strumento di analisi e di riparazione.
Il lettore, chiamato a farsi testimone di questo racconto – Con-memorias si intitolano non a caso le pagine introduttive della curatrice del volume – è introdotto all’opera, costituita da due prose liriche, per mezzo di soglie progressive, segnalate, oltre che dal prologo, da un folgorante esergo da Primo Levi («Porque la angustia de cada uno es la nuestra»), e dalle raffigurazioni di Juan Carlos Mestre, che potenziano nella loro allucinata visionarietà la dimensione tragica e luttuosa che avvolge il libro. Al centro, Golpes de sol e Fábrica de la seda, due distinti brani poetici, che sembrano originarsi da un unico fluire lirico: bagliori di luce improvvisi (colpi di sole) riscattati al nero fondo della memoria.
Posto di fronte al dovere e all’urgenza della testimonianza («He querido escribir de esto antes que sobre otra cosa») il poeta non arretra ma sin dall’inizio esita («Nunca sabré como comenzar a escribir esto») ritenendosi incapace di trovare nelle risorse del mezzo lirico la distanza necessaria per una narrazione compiuta e straniata («No guardo odio y mi memoria se parece cada día más a la ceniza que al dolor»). In questa desolata ammissione d’impotenza non va letta una rinuncia o una sfiducia nei confronti del genere lirico, quanto piuttosto una critica ad certo tipo di poesia commemorativa, facile, che si alimenta di frasi fatte e di circostanza, riflesso a-problematico della pratica odierna (e sempre più massiva) di istituzionalizzazione di quelli che Violi chiama i siti del trauma. Paradossali «lugares de paz», puliti e ordinati in modo osceno e quasi provocatorio («¿Acaso no sean estos lugares de paz obscenos y demasiado limpios?»), gli spazi in cui si è consumato il dolore si trasformano in «lugares sin memoria», dove il passato resta racconto vuoto, indicibile, «espacio sin palabras».
Curiel riscatta il luogo della memoria dal processo di sacralizzazione, trasformandolo nel codice poetico in soglia simbolica di un racconto, che travalica la dimensione privata e si fa meditazione ampia e consapevole sulla necessità della testimonianza.
La Fabbrica della seta di Talavera de la Reina non è un canonico luogo di pellegrinaggio: il poeta ci arriva per caso, un giorno, mentre sta remando lungo il fiume, come faceva da bambino.
Il potere evocativo del luogo trascende subito la dimensione autobiografica e soggettiva e si proietta all’esterno, nello scenario naturale, che si anima di morte presenze e di perturbanti richiami. Non nel luogo, che resta chiuso, ma fuori di esso, dentro il paesaggio, nei confini concreti di quello che Zanzotto ha definito l’«universo percettivo totale», prende corpo la voce del poeta che tra «palabras rotas» e «hilos de seda» corre lungo la pagina per sfuggire le trappole della poesia monumentale. Dal buio (yo este poema lo escribo a oscuras) s’origina un racconto frastornato, smarrito, sussurrato «en voz baja», dove brandelli di luce e di memoria s’inseguono vorticosi e assediano il soggetto imprigionato in una «noche larga, con un sol azul desencajado». Il poeta, testimone di secondo grado, ritrova dentro di sé i racconti ascoltati in passato («sólo oí, y ahora debo ser testigo de lo que oí»), dove i nomi di chi formava i plotoni d’esecuzione («sus nombres de pila») si mischiano a quelli dei prigionieri, per riemergere in modo confuso («ahora mezclo esos nombres, son tan parecidos entre sí, y los rostros tan iguales»), mentre l’angosciosa prossimità tra vittime e carnefici è come amplificata nello scenario naturale, dove l’eterno ripetersi di un tempo ciclico sembra nascondere ma non cancellare le tracce di ciò che è stato.
La proiezione del luogo all’esterno non indica affatto un depotenziamento della sua carica memoriale; al contrario, non solo le mura della Fabbrica della seta parlano del suo recente passato, ma si sedimentano di altre memorie, di altre storie di deportazioni e di persecuzioni, intessute tra loro come fili inestricabili («hay otras historias hiladas aquí»): quella di un liceo di Rue de Rosiers a Parigi, in cui una mattina del 7 aprile 1943 più di trecento bambini ebrei furono costretti ad uscire per essere trascinati nell’abisso della morte; quella di uno studente francese di Architettura, che in fuga a Jaraíz de Vera, cade nella neve, è fatto prigioniero, e muore ammazzato di percosse da un gruppo di fascisti.
Dunque Curiel, «poeta de muchos lugares», per usare la felice espressione di Laskaris, non ci parla di un solo luogo e di una sola storia. La Fábrica de la seda è soltanto uno dei tanti, anonimi, sconosciuti posti in cui la Guerra ha cancellato le vite di tanti, anonimi, uomini senza volto e senza memoria. A costoro, a «los desaparecidos», va riconosciuta la dignità del ricordo, come sottolinea nell’epilogo che chiude il libro, Emilio Silva Barrera, Presidente dell’Asociación para la recuperación de la memoria histórica. A queste donne e questi uomini, che «dieron un ejemplo al mundo modernizando a un país y enfrentándose en armas contra el fascismo», il libro di Curiel è idealmente dedicato, insieme a tutti quelli che contribuiscono a perpetuarne il ricordo, a eternarne la memoria: «más que un poeta, necesitamos ahora testigos».

M. A. Curiel, Fábrica de la seda (Con-memorias), ilustraciones de J. C. Mestre, Epílogo de E. Silva Barrera, traducción al italiano y edición al cuidado de P. Laskaris, Madrid, El sastre de Apollinaire, 2017.

Parole e basalti

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di Romano A. Fiocchi

Ezio SinigagliaEclissi, Nutrimenti, 2016.

Ci sono libri che si legano reciprocamente attraverso un’immagine:

1) “Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto dell’uomo che si era accasciato su un lato della poltrona”

2) “Lo trovarono così, aggrappato a se stesso come una roccia, qualche minuto dopo che la luce era tornata sul mondo, e che gli uccelli avevano ripreso a gracchiare e a cantare”.

Si tratta di due finali, la descrizione dell’avvenuta morte dei due rispettivi protagonisti. Il primo, memorabile perché ormai cristallizzato nella categoria dei classici. Il secondo, di pari bellezza, memorabile per quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo e di poterlo così associare al primo. Titoli e autori: Morte a Venezia di Thomas Mann ed Eclissi di Ezio Sinigaglia. Il Gustav Aschenbach di Thomas Mann muore così, contemplando la bellezza di Tadzio. L’Eugenio Akron di Sinigaglia, trovando la risposta alla domanda che lo assilla da cinquantun anni e due mesi.

Ma al di là di questa analogia, ad accostare i due testi è un insieme di fattori: la compostezza e l’eleganza stilistica, il fluire lento del ritmo narrativo, la solitudine interiore dei protagonisti, la lettura attenta e indagatrice dell’ambiente circostante, la capacità, infine, di creare un racconto dall’azione quasi nulla ma di straordinaria atmosfera.

Torniamo alla morte di Akron, immagine potente che da sola merita la lettura di tutto quanto la precede. L’architetto triestino Eugenio Akron muore nel buio, nel silenzio dell’eclissi, nella consapevolezza di farsi “un duro, muto, ottuso basalto”, di impietrirsi nell’attesa dell’ultimo istante. Nelle battute che precedono il momento finale la voce narrante inocula il sospetto che possa accadere qualcosa di improvviso, che Akron possa inciampare sul castello di poppa del peschereccio e cadere accidentalmente in mare, estinguendo finalmente l’antico rimorso in quel morire annegato come l’amico Beniamino. Invece Sinigaglia opta per una soluzione tutt’altro che eclatante: Akron se ne va seduto su uno sgabello, con una compostezza appena appena disturbata da “quel morso di belva nel petto”, si piega in avanti, si aggrappa a se stesso come una roccia, e si impietrisce nell’attesa del momento supremo quasi fosse una nuova eclissi – dopo aver colto la luce nell’oscurità dell’eclissi in corso.

A fare da contrasto alla staticità della scena è la figura di Mrs Clara Wilson, ottantenne ed eccentrica vedova americana, con le sue iridi d’erba che si riempiono di lacrime alla vista dell’immobilità innaturale di Akron. Mrs Wilson è un personaggio singolare, pedante e nel contempo poetico, e un inconsapevole deus ex machina in grado di dare una svolta al dramma interiore di Akron. Ma soprattutto è il personaggio che permette a Sinigaglia lo strano gioco linguistico del dialogo tra i due, con Akron che parla in inglese e Mrs Wilson che risponde in italiano. Un italiano anglicizzato, pretesto per giochi di parole e ironie di pronuncia. Gioco linguistico anche le battute in dialetto triestino che Akron scambia al telefono con il figlio, e quelle che tornano nei ricordi della sua amicizia con Beniamino, nei loro incontri sulle banchine del Porto Vecchio, nelle uscite in barca a vela, nell’osservare il cielo notturno sopra Trieste. Non sembra, ma queste incursioni in altri moduli linguistici alleggeriscono i dialoghi e li arricchiscono di immagini vivaci e di musicalità. C’è tutto il gusto di Sinigaglia per la parola, per il rapporto significante-significato, per le corrispondenze nascoste, come i diminutivi Ben e Eu (Beniamino e Eugenio) con cui i due amici rincorrono “attraverso la fausta parentela dei significati un arcano vincolo di sangue o un destino gemellare”. Infine il gusto per il suono della voce umana, da qualsiasi parte del mondo provenga.

Ma veniamo all’ambientazione. L’intera vicenda si svolge in una sconosciuta isola nordica, “latitudine sessantadue gradi dieci primi Nord, longitudine pochi gradi meno di zero”. Toponimi e nomi di monumenti possono essere danesi norvegesi svedesi (Mikkelkirke, Storbygd, Nykonnergily) ma non esistono. Eppure tutto è di una concretezza e di una solidità tridimensionali, come la descrizione del paesaggio:

“I basalti emersero nudi e crudi in tutta la loro bellezza. Visti da lontano apparivano lisci, come immensi animali di favola, più grandi e possenti del più gigantesco titano, che dormissero torpidi e sazi, con la pelle ben tesa, solo punteggiata di pori e solcata di rughe sottili, il muso puntato all’oceano, stirandosi inerti nel piacere inatteso del sole. Ora invece, venendo incontro alla prua a pochi metri dagli occhi, mettevano in mostra la trama variegata e complessa della loro primordiale tessitura: quella levigatezza apparente era fatta punto per punto di grumi, di nodi, di buchi, di dolci fossette che sembravano scavate da un dito e di cavità più profonde che aprivano squarci nella materia e rami di vuoto nel pieno”.

Già, i neri basalti. Sono il leitmotiv di tutto il libro. Non solo, sono metafora della scrittura di Sinigaglia. Anch’essa “levigatezza apparente” ma in realtà scrittura granitica, incisa nel nero basalto. Una scrittura dove forma e sostanza si fanno un’unica materia che non si può plasmare ma solo scolpire. Appunto come il basalto. Una scrittura elegante e carica di energia. Mi si consenta di parafrasare De Sanctis: la grande maniera di Sinigaglia.

E qui tocchiamo un tasto che lascia perplessi. Più sopra ho parlato di “quei pochi che hanno avuto la fortuna di leggerlo” perché Sinigaglia, forse per la sua riservatezza e il suo essere controcorrente, è autore misconosciuto. Il suo esordio letterario risale a oltre trent’anni fa con Il Pantarei, una sorta di metaromanzo sul romanzo del Novecento. Il testo, dopo aver collezionato decine e decine di rifiuti, uscì nel 1985 per una piccola casa editrice di Milano, SPS, poi Sapiens. Qualche apprezzamento, quindi più nulla. Sinigaglia ha continuato a scrivere e a svolgere varie attività nell’ambito editoriale e educativo senza più pubblicare un solo volume. L’uscita di Eclissi per l’autorevole editore Nutrimenti l’ha riportato alla ribalta, tant’è che Il Pantarei verrà ripubblicato da TerraRossa Edizioni nei primi mesi del 2019 (Nazione Indiana ne parla qui). Non so se servirà a rilanciare la figura di questo straordinario scrittore, ormai settantenne, ma so che tra gli scaffali della mia libreria il suo nuovo Pantarei ha già uno spazio riservato.

Gamba tesa: Lotta di classi (prima puntata)

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immagine di Beniamino Servino
ceci n’est pas (encore) un livre

 

 

 

Hip-Hop, Urrah

di

Francesco Forlani

C’è una lunga strada che attraversa la foresta che unisce e separa le due scuole in cui ho insegnato quest’anno. Per percorrerla tutta ci metti circa un quarto d’ora, precisamente sedici minuti e cinquanta a una velocità di cinquanta chilometri all’ora. Quanti chilometri è lunga la strada? Ma saperlo è davvero essenziale al nostro racconto? E se l’essenziale fosse altrove, ovvero nel fatto che una distanza separi le due scuole, una qualificata REP + e l’altra no. REP ( Réseaux d’Éducation Prioritaire) sono quegli istituti che secondo l’Education Nationale ( La Pubblica Istruzione, in Francia) sono confrontati a situazioni culturali e sociali particolarmente critiche e difficili al punto di richiedere la messa in opera di diversi dispositivi d’aiuto, economici e professionali, per tentare di combattere la diseguaglianza sociale con l’obiettivo di offrire anche ai ragazzi “svantaggiati” una pari opportunità di successo nella vita scolastica e a seguire professionale.

Io per un anno ho lavorato in una REP + dove il piccolo segnetto finale stava ad indicare in realtà un meno, ancor più meno fortuna dei REP semplice, controbilanciato da un più di mezzi a disposizione della direzione e del corpo docente.

Tutto questo vorrei diventasse un racconto che in realtà sto già scrivendo in francese e che vuole descrivere attraverso questa metafora della foresta, una fase della vita, l’adolescenza, che nelle scuole medie incarna la grande incognita dell’unica vera lotta delle classi che abbia una qualche importanza ai nostri giorni, una lotta che nella migliore delle ipotesi tutti vorremmo che finisse con un bel pareggio, égalité appunto delle opportunità e della libertà di scegliere davvero cosa fare della vita. Mai come ora ho vissuto sulla mia pelle – in realtà sulla pelle spesso nera dei miei studenti –  cosa volesse mai significare una frase sentita per anni, quella frase d’eco nietzschiana che più o meno invocava di fare “della necessità e del caso della vita l’esercizio della volontà e della libertà del destino”.

Questa premessa mi è servita per  tentarmi di spiegare  perché quando chi dal centro si avventura nelle periferie caschi nella maggior parte dei casi nella trappola mortale della tristesse dei luoghi, conferendo al proprio racconto una ulteriore tristezza dello sguardo, che per lo più e ai più rende ancora più insopportabile quella realtà.

Il caso ha voluto, poche settimane fa che due narrazioni completamente agli antipodi di uno stesso luogo si presentassero alla mia attenzione e  come lo scontro delle due – lotte di classe anch’esse – mi facessero capire che cosa mi accadeva quotidianamente, quando da una scuola all’altra, dall’al di qua all’al di là della foresta, passavo da un paesaggio all’altro della mia personale éducation nationale.

Quando Giuseppe Schillaci, cineasta, scrittore, nonché amico e redattore di Nazione Indiana mi aveva mostrato l’anteprima di alcuni videoclip girati dai nuovi migranti, materiali per un suo documentario per il canale franco tedesco ARTE,  avevo pochi giorni prima visionato sul sito di Repubblica Lo speciale, Prof in trincea: viaggio nelle scuole di frontiera. Il caso, sempre lui, ha fatto che dello speciale vedessi proprio la puntata sicula che è possibile seguire qui.

Partiamo allora da questa prima parte ma per arrivare da quell’altra, cominciamo da Caporetto peró magari con la testa già oltre il Piave. Quello che mi ha colpito di più nel materiale di presentazione del documentario su Arte era questo passaggio: « J’ai déjà joué pour des gens qui étaient arrivés depuis trois jours et qui trouvaient la force, après tout ce qu’ils ont vécu, de danser, de chanter et d’être heureux ! » ( Mi è già capitato di suonare per gente  sbarcata da tre giorni e che  trovava la forza, dopo tutto quello che aveva vissuto, di ballare, cantare, essere felice.) Quando ho visto alcune delle puntate dedicate alla questione dei REP italiani, ovvero di quelle scuole, soprattutto di primo grado, sorte nei quartieri periferici più a rischio, la prima cosa che mi ha colpito è stato il contrasto netto tra la vivacità dei ragazzi ripresi, per lo più non in chiaro, dalle telecamere e le espressioni disfatte, sconfitte, anche se non completamente, degli insegnanti. Prima di esporre allora la mia teoria devo dire che quella faccia la conosco, e conosco e ammiro l’impegno di chi lavora in questa realtà che il resto del mondo vorrebbe dimenticare per sempre.

Dal REP al RAP

La mia riflessione a questo punto riguarda il tono che la sinistra, l’ideologia detta di sinistra o quel che resta, utilizza per la narrazione del sociale.

(continua)

 

 

 

 

 

Luigi Luca Cavalli Sforza

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di Telmo Pievani
(è scomparso il 31 agosto scorso Luigi Luca Cavalli-Sforza, grande scienziato e grande uomo per il quale nutro una grandissima stima, per averlo sentito raccontare le sue idee e per aver letto molti dei suoi scritti. Ho chiesto a Telmo Pievani, ordinario di filosofia della biologia all’Università di Padova e collaboratore e amico suo, di scrivere per Nazione Indiana un post che ricordi un così importante maestro. A.S.)

Un maestro lo vedi dalla libertà e dalla curiosità. Di lui ricordo un insegnamento cruciale: quando intravedi un tema di ricerca promettente in cui ancora nessuno si è cimentato – diceva – quella è la direzione in cui puntare senza remore. Io ci ho provato con la mia filosofia della biologia, e mi è andata bene. Lo devo anche a quel consiglio, benché Luca Cavalli Sforza fosse molto sospettoso sul ruolo e sull’utilità della filosofia. Lo rassicuravo dicendogli che nella mia di filosofia c’era ben poca metafisica, ma non bastava. Provavo a cavarmela dicendogli che nella sua opera di ricercatore c’era un sacco di ottima filosofia della scienza, da lavorarci per anni. Ed ecco che allora tornava per un attimo quel suo sorriso intriso di curiosità e di sempre nuove domande di ricerca.

Mrogn

1

di Federico Federici

(dintorni: topografie, corsivo)

Rimandata la partenza.
Senza indizi. Senza inizio
i dirupi, l’abitato, il campo.
Per segnarlo o cancellarlo
sulla carta ogni luogo è
un altro, ogni casa tronco.

Siamo già nel bosco?

***

(la casa cantoniera)

Pochi passi al muro
ben piantato in terra.
Ha pulito la radura l’ascia,
corre a filo d’erba il vento.

Non si penetra nell’ombra.
Entra in noi l’ombra del bosco.

***

(presso una casella sul pendio)

La radice sotto i piedi
penetra nel mondo.

Sembra quasi che sia
lì tra i sassi il passo,
i passi dove siamo
già passati.

***

(altri rilievi, non prove)

Che parola mise sulle tracce,
o che parole erano le tracce?
Chi parlò,
senza coprirsi di silenzio?
Le radici, i fili, i rami,
dure dita di insepolti,
non trattengono le frane.
Non ha ossa il bosco.
Non c’è luogo nel paesaggio,
strada o varco: solo buchi
nella polvere dei gechi,
solo fischi dietro ortiche
e sterpi: aria o serpi?
Ogni tanto a una spari,
per vedere se sia viva
o ha forma, se esca fuoco
o sangue. Mentre salta
ancora da quel colpo colta
in testa, pensi: siamo tutti
serpi?

***

(secondo testimone: un veterinario)

«L’altra cosa aspetta
noi che la cerchiamo
dove fa la tana, vera
o falsa, forse cieca
all’ombra che la copre,
al passo che la sfiora
inerme, si compatta
alle radici, ferma
il cuore, fa una crepa,
asciuga la saliva in terra.»

Testi tratti da Federico Federici, Mrogn (Zona, 2017)

Eroi del nostro tempo

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di Giorgio Mascitelli

Ho sempre pensato che l’unica vera lettura generazionale di quanti facevano le superiori negli anni ottanta siano stati i fumetti di Andrea Pazienza. Non so se tale impressione sia fondata o, come talvolta accade, frutto di uno sguardo falsato, di nicchia, ma per me era chiaro fin da ragazzo che quelle storie parlavano del mio tempo. Ciò vale in particolare per le storie di Zanardi, anche se questo personaggio in un senso rigorosamente sociologico non è certo un prodotto realistico ( un malavitoso di estrazione borghese, di giovane età, eppure, già consumato in tutte le astuzie e le crudeltà di un criminale incallito che  però si muove in un ambiente studentesco), d’altra parte sicuramente realistica è l’ambientazione. Era però proprio il personaggio di Zanardi a sembrarmi intensamente contemporaneo, tant’è vero che era l’unico fumetto che allora annoverassi tra le mie letture importanti.

Il fascino di Zanardi stava nella sua sicurezza esistenziale, nella sua spregiudicatezza e nel suo saper vivere, che facevano passare in secondo piano non solo gli orribili ricatti e i commerci che intesseva, ma anche il suo sostanziale nichilismo che si giustificava con il perbenismo e l’ipocrisia delle società intorno e talvolta delle sue vittime. Per esempio nella boccaccesca Cuore di mamma ( boccacesca non solo per la tematica del ricatto erotico, ma anche per la crudeltà dissimulata sotto le apparenze della beffa da un understatement del narratore) la madre giustifica il piacere provato nell’amplesso estorto con il ricatto di pubblicare fotografie osé della figlia da Zanardi e dai suoi inseparabili compagni Colasanti e Petrilli con il sacrificio per difendere il buon nome della ragazza, in questo modo, però, narrativamente giustifica l’azione di Zanardi e sodali con il proprio perbenismo.

Se mi fosse stato chiesto allora cosa aveva di profondamente contemporaneo, di così legato alla società italiana degli anni ottanta questo personaggio, è probabile che avrei risposto, come molti,  la ricerca del piacere e la noia come moventi unici delle sue azioni, in altre parole l’assenza di valori. Eppure se guardiamo alla letteratura non mancano certo personaggi cinici e annoiati, ma non privi di un loro fascino negativo, e l’elenco non comprenderebbe solo figure recenti o contemporanee. Anzi forse il più vicino di tutti a Zanardi è Grigorij Pečorin, il protagonista del romanzo russo intitolato non a caso Un eroe del nostro tempo di Lermontov, la cui data di pubblicazione è il 1839. Anche in Pečorin domina lo stesso impasto di cinismo e di azioni negative, naturalmente in chiave russa e romantica, ma il suo è un nichilismo assolutamente affascinante come quello di Zanardi. Non credo peraltro che Lermontov abbia influenzato Pazienza e allora può essere interessante chiedersi come mai esistono due eroi dei nostri tempi dai tratti così simili e collocati in tempi così diversi.

Una prima risposta quasi banale sta nell’età dei due personaggi, che sono giovani. I giovani visti come portatori di una specificità umana e culturale a suo modo annunciante un futuro diverso sono uno dei frutti della rivoluzione wertheriana e roussoniana, che in vari modi introduceva nell’immaginario culturale quella del giovane come figura specifica e distinta dall’adulto e dal bambino. In qualche modo possiamo qui vedere in questa convergenza di due figure così diverse i tempi lunghi della cultura al di sotto dei cambiamenti storici più visibili.

Questi personaggi sono certo antiwertheriani nella misura in cui rifiutano la sensibilità e la tensione al giusto del loro implicito antimodello, ma allo stesso tempo ne mantengono un carattere fondante che è quello della ribellione alle convenzioni sociali. Naturalmente la loro non è una ribellione programmatica, ma è piuttosto una conseguenza del loro nichilismo ( si è visto come in Zanardi le sue malefatte risultino una cartina tornasole dell’ipocrisia della società e qualcosa di questo genere si può riscontrare anche in Pečorin senza esagerare troppo con i parallelismi), che tuttavia assume una posizione centrale nella loro rappresentazione di fronte al lettore. Questo ribellismo nichilista ha però anche una funzione abbagliante in quanto mette nell’ombra un’altra caratteristica saliente: infondo le qualità, la spregiudicatezza, la decisione nell’azione, la spietatezza e l’astuzia, che Zanardi e Pečorin spendono nelle loro attività antisociali potrebbero essere riconvertite e usate in forme più accettabili e meno criminali per fare carriera. Per intenderci, il sognatore Penthotal autocritico e in fuga da sé e dal mondo non sarebbe mai assimilabile alle logiche di potere come il suo successore Zanardi.

E’ essenziale però che questi personaggi non si mettano mai al servizio del potere vigente, perché altrimenti perderebbero il loro fascino di antimodelli ( non a caso Schnitzler, quando vuole distruggere Casanova, lo fa diventare un informatore della polizia veneziana),  ma che le loro azioni abbiano tratti comuni con quelle del potere conferisce a questi eroi un aspetto che sembra essere fortemente realistico, anche se in realtà nasconde una forma di idealizzazione. E’ l’invulnerabilità unita alla spregiudicatezza l’elemento idealizzato che si cela dietro al fatto che questi personaggi sembrano parlare la stessa grammatica del potere: la loro invulnerabilità di eroi conserva qualcosa dell’impunità degli uomini di potere. Questa è però anche l’altra ragione per cui essi ci appaiono sempre contemporanei: benché ciò che chiamiamo potere muti di epoca in epoca profondamente, alcune sue dinamiche relazionali restano uguali nel tempo e su questo crinale giocano la loro partita Zanardi, Pečorin e gli altri. La loro contemporaneità sta dunque nel loro nichilismo che richiama alla mente e adombra quello veramente invulnerabile e onnipresente del potere.

Il nichilismo è una possibilità logica, infatti, che si dà ogni volta che non si percepiscono prospettive e dunque è contemporaneo se non a tutte, a molte epoche.   In particolare tipico dell’età giovanile, ma non esclusivo, è quello eroico dell’individuo contro il mondo,  perché la giovinezza è il tempo in cui si ha molto da guardare avanti con un sentimento di sfida e paura; esso differisce profondamente da quello cinico di chi magari a vent’anni gridava ‘no future’ e dopo ha percepito la prospettiva di una poltrona o di altri benefit, imparando nel frattempo le leggi della convenienza. Il nichilismo di Zanardi e Pečorin pertanto si pone come intermedio tra i due perché rinuncia all’impeto ideale e autolesionistico in nome della sopravvivenza e di un certo calcolo, si pone cioè vicino alla vita che di per sé spontaneamente è nichilista.

Zanardi in particolare, però, in questo modo diventa una sorta di parafulmine che riceve su di sé il male di questo nichilismo della vita, consentendo al lettore di esserne risparmiato. Alla fine di Verde matematico al professore che gli ricorda che il destino di ciascuno può essere limitato soltanto da un impegno positivo dell’uomo Zanardi risponde con ‘Se il destino avesse una sua logica consequenziale in questo momento dovrebbero bussare alla porta, entrare due carabinieri e portarmi via’ ( ma naturalmente non succederà): in questo modo Zanardi prende su di sé questo male e ci consente di vivere una vita dotata di senso seguendo le opinioni del professore.

Interviste impossibili: Luigi Vanvitelli

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L’Intervista
[Antonio Buonocore fa le domande/SERVéN risponde con gli abiti di Luigi Vanvitelli]

Luigi Vanvitelli, nato Lodewijk van Wittel (Napoli, 12 maggio 1700 – Caserta, 1 marzo 1773)

Lei ha iniziato come pittore e poi è diventato architetto. La pittura ha avuto un’influenza nella sua professione?

Io ho iniziato come pittore perché mio padre faceva il pittore, e io, che non sapevo che cazzo fare, ho incominciato a fare il pittore pure io. Ma pittavo pittavo, senza passione, senza sangue. E mio padre allora mi ha detto: uagliò, vedi di trovarti un’altra arte chè come pittore non vali quattro soldi…
[ Delle volte la crudeltà dei genitori è necessaria. Ma lo capisci solo molto tempo dopo. All’epoca l’ho odiato odiato odiato…]

Nel 1750 il re di Napoli Carlo di Borbone le richiese il progetto di una nuova reggia che aveva pensato nella zona di Caserta, facilmente raggiungibile dalla capitale, ma separata da essa, come lo era Versailles da Parigi. Innanzitutto come fu l’incontro?
Come fu il rapporto con il suo committente durante la costruzione?

Allora, io prima di venire a Caserta stavo a Roma, alla corte di Benedetto XIV e facevo per lui dei lavoretti, ero sempre là, in giro. Al Papa però forse non andavo troppo a genio, non saprei dirti perché, non ci sono state mai esternazioni eclatanti, ma avevo come la sensazione, è vero!, che non mi sopportasse molto. Poi ci fu la situazione della cupola. Sai bene che la cupola del maestro Michelangelo aveva qualche problemino di stabilità. E io feci la mia proposta di consolidamento. Lui, il Papa, aveva già chiamato uno di Venezia, un certo ingegnere Giovanni Poleni che aveva fatto, è vero!, un progetto di consolidamento. Sai come sono gli ingegneri, aveva fatto una cosa molto sobria, manco si vedeva. Io invece avevo fatto un cazzo di progetto, impottante. Poi ho saputo, è vero!, che il Papa si era lamentato con il veneziano, diceva a lui che se mi avesse lasciato fare non si sarebbe più vista la cupola tanto erano massicci i muri che avevo pogettato per sostenerla. Ma erano solo dicerie… è vero!
Intanto però lui, sempre il Papa, chiese al suo amico Carlo di Borbone se mi prendeva. E Carlo per tenerselo buono, al Papa, mi mandò a chiamare.
A Napoli eravamo in tre, io il re e Ferdinando. Ferdinando Fuga. Ferdinando e il re erano molto intimi, affiatati, complici. A me non mi pensavano proprio.

[ Ferdinando si atteggiava: lui faceva le O O O P E R E S O C I A A A L I: l’albergo dei poveri, i granili, le 366 fosse… quel comunista! Intanto a Napoli piazza Vanvitelli è ‘na piazza grandiosa; piazza Fuga? una piazzetta!A Caserta poi, non ne parliamo proprio, via Fuga è una viarella sperduta…, quella, poi, la Madonna è giusta!]

Allora io mi lamentai con il Papa,
è vero! Il Papa chiamò il re, il re chiamò a ‘mme e mi disse: mò lo sai che facciamo caro vanvitello [ così mi chiamava, vanvitello! ]? Ci andiamo a fare una bella scampagnata a Caserta… e tutto ebbe inizio.

Oggi il complesso della reggia è visitato da un milione di turisti all’anno, ospita mostre d’arte e è sede della sovrintendenza e di alcune sezioni di uffici dell’esercito. Come crede che debbano essere utilizzati oggi i monumenti?

Oggi la reggia è troppo aperta. Tutta quella gente. I neri, gli ambulanti, gente che gioca a pallone, carrozzelle [ con quegli animali che urlano…]
Ma su! Un po’ di rispetto!

Scusi se mi permetto, ma a me personalmente piace l’immagine del palazzo da via Mazzini guardando verso via Mazzocchi, posto in cui se ne coglie uno scorcio, tra le case. Mi ha un po’ stancato l’immagine monumentale del fronte principale. Quali sono i punti forti della reggia?

Gli scorci? Ma gli scorci sono cose comuniste. La Reggia, il Palazzo, il mio Palazzo va visto da punti ben precisi, ordinati. Anzi, io avevo fatto un disegno di una città intera intorno al Palazzo. Ma, sai com’è, è vero!, il padreterno mi ha chiamato a sé e… addio!
Altro che scorci…!

Contestualmente alla reggia lei progettò l’acquedotto carolino: di particolare pregio architettonico, dal 1997 patrimonio mondiale dell’UNESCO. E’ il ponte che, attraversando la Valle di Maddaloni, congiunge il monte Logano (ad est) con il monte Garzano (ad ovest). All’epoca fu il ponte più lungo d’Europa.
Lo sa però che ora l’area circostante il ponte e il ponte stesso versano in condizioni di degrado e di abbandono, e spesso ospitano piccole discariche abusive?

Io, quasi duemila anni dopo i romani, ho fatto un acquedotto a un certo livello. Grandioso, come il Palazzo. Però, pure per i ponti della valle ci fu qualcuno che ebbe da ridire. Gli ingegneri…! Dicevano che non conoscevo l’idraulica…, che gli acquedotti non erano più necessari… Ma chi se ne fotte! Vuoi mettere tutti quegli archi! Impottante! È vero!



Si dice che, al momento dell’inaugurazione, l’acqua tardava ad arrivare alla fine della condotta nei pressi della reggia… è vero questo episodio? In quel caso lei tirò un sospiro di sollievo, ma quali sono stati gli errori più grossi della sua carriera?

Gli ingegneri, mi volevano sabotare, è vero! Quei invidiosi, ma la madonna è giusta!

La stazione di Caserta è stata inaugurata il 20 dicembre 1843 e si trova proprio di fronte alla reggia, sullo stesso asse che virtualmente la collegava a Napoli. Le piace questa posizione?

Vuoi sapere chi ha progettato la stazione di Caserta? Indovina! Poi dicono che esagero, ma sono sempre loro…! Gli ingegneri.

Alla sua morte suo figlio Carlo ha proseguito la direzione dei lavori per la reggia. Lei quanto ha contato per la formazione di Carlo? Cosa ne pensa dei figli che proseguono il lavoro dei padri?

Carlino ha incominciato a fare l’architetto perché io facevo l’architetto, e lui, che non sapeva che cazzo fare, ha detto mò faccio l’architetto pure io. E io, a differenza di mio padre, ho agevolato la sua scelta. Io faccio parte della nuova generazione di padri. Non duri, ma affettuosi. Quello vuole fare l’architetto?, fai l’architetto a papà!

Tra i suoi incarichi c’è stato quello di riprogettare Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, una basilica romana che si trova in piazza della Repubblica a Roma in cui aveva operato nientedimeno che Michelangelo. Come si è rapportato con l’opera di questo grande maestro?

Michelangelo? Un’altra volta?! Lasciamo stare, già con la cupola…

I suoi edifici oggi sono tutelati e nessuna sovrintendenza si sognerebbe di modificare le fabbriche da lei realizzate. Ma se ci fosse la possibilità, come suggerirebbe di trasformare per usi contemporanei le sue opere?

Trasformare? Ma si pazzo! Quelle già non le hanno completate come io le avevo progettate. Conservate, devono essere conservate così come sono! Menomale che ci sono i sovraintendenti…! Se fosse per voi!
[Scusa, ma fossi comunista anche tu?]

Dopo la dipartita di Carlo di Borbone per la successione al trono di Spagna, re di Napoli divenne Ferdinando IV che per la sua giovane età non era in grado di prendere decisioni, quindi il potere passò a Bernardo Tanucci, presidente del consiglio di reggenza del regno. Dalla sua biografia si evince il difficile rapporto con Tanucci, il quale le preferiva l’architetto Ferdinando Fuga, toscano come lui. Lei come giudica l’opera di Ferdinando Fuga?

Aeeeh! Ancora quel comunista! Ma tu hai capito cosa dicevano all’epoca? Che io mi facevo spiegare le cose da lui… solo perché una volta mi feci dare un consiglio. Io stavo facendo la villa Campolieto a Ercolano. Lui stava lì vicino, stava facendo la villa Favorita. Lui veniva a sbirciare. Una volta l’ho fatto entrare e gli ho chiesto un consiglio su come attaccare un colonnato alla palazzina… ma come si atteggiava…!

Tornando alla reggia, abbiamo raccolto alcune opinioni discordanti sulle sue opere di alcuni architetti contemporanei casertani. Lei cosa risponde a chi pensa che la reggia e lo stile borbonico abbiano inquinato irrimediabilmente il nostro territorio?

Quella se non c’era la reggia, Caserta manco la mettevano sulle cartine geografiche, è vero…!

1217 stanze e 1898 finestre. Ha mai proposto al suo committente di fare la reggia un po’ più piccola?

Più piccola? Uagliò, ma allora tu veramente sei un comunista! Quella è così bella, impottante!

OCCUPAZIONE POPOLARE DEI MONUMENTI, Beniamino Servino

La tragedia del ponte Morandi

3

di Guido Caserza

LA TRAGEDIA DEL PONTE MORANDI

 

Dio Basko sta lassù meraviglioso,
a pochi passi dalla morte immoto:
il buon dio delle merci conosceva
l’istante e il luogo,
con la pioggia e il tuono:
allora Basko chiamò a sé i suoi buri
e “Spalancate le bocche” a noi disse,
“quest’oggi è il gran saldo di ferragosto”,
coi teschi e i meloni
l’Italia arrosto.
Per un istante sopra il vuoto sotto
il nulla Basko mostrò merci morte
alla fine del viaggio: fu l’orrore
dell’uomo nudo con sé stesso, spenti
la cassa e il tornaconto,
l’uomo nudo con le sue tasche, spenti
gli uomini e il rendiconto,
la cassa nuda con i suoi chiodi: ma ora,
chiuse le bare tra i fischi e gli applausi,
cantato il RIP,
torniam burini a te supplici, o Basko:
orsù, riprendi il moto,
mentre a saldo di offerte 2 x 1
ci recherai la morte ad 1 ad 1.

 

 

 

 

Da L’inganno della rosa (di prossima pubblicazione per la casa editrice Dei Merangoli)

 

 

Le tue calze potrebbero anche

donarmi. Non dire, no no, che io

sia folle, imitare una donna, sai, è arte

dell’amore: a te assomiglia quell’arte.

Che io sia folle

solo perché vado con le parole? Ebbene,

ovunque vado vado per

tam

burellare di te, anche il tuo

battito mi dona, oh sì, quanto mi dona:

bat ti to del tuo cuore, batti batti

tam

burello. Contempla

le mie calze, mio bel donnino,

belle calze di donna, bel

cuoricino a tamburello e piedi di poeta:

al monte di pietà ho lasciato l’elisir di baci,

ora me ne vado coi

tuoi piedini inguainati, sempre in cam

mino sempre in cam

mino e, mamma, quanta strada per

dirti t’amo.

Ma ciancia ciancia che ti passa

mio bel poeta: da seduto è assodato, non

diresti più che l’ami,

e un salice di versi

pianteresti a piangere, cretino,

per non aver capito

da seduto l’amore.

 

Ballata

1

George Oppen

 

Astrolabi e glossari
Un tempo nelle magioni –

Un povero pescatore di aragoste

Incontrato per caso
Sull’isola di Swan

Dov’era nato
Vedemmo la vecchia fattoria

Stagliarsi sulla cima della collina
Su quell’isola
Dove passa il traghetto

Un povero pescatore di aragoste

I denti anneriti

Ci portò per l’isola
Su di una vecchia macchina

L’ermeneutica poetica e i suoi limiti

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di Daniele Barbieri

Non è vero che i cosiddetti contenuti non hanno alcun valore in poesia. Ma l’errore opposto a questo è peggiore e molto più diffuso. Nelle nostre scuole si studia il Pessimismo Leopardiano e pure quello di Eugenio Montale. Nei testi critici i poeti vengono presentati come filosofi (minori) che si esprimono in versi. Tutto il discorso critico si concentra su quello che nei loro versi viene detto.

Come se fossero versetti biblici da cui è necessario ricavare ermeneuticamente (così come ci insegnò a fare Origene nel Terzo Secolo) delle profonde verità nascoste, i versi dei poeti diventano profetici e ieratici: la sensualità della vita in D’Annunzio, le piccole cose quotidiane dei Crepuscolari, la follia di Dino Campana, il senso tragico della vita in Montale, i rapporti familiari in Saba, la tradizione gitana in García Lorca, lo svuotamento del senso della vita in Eliot, l’esaurimento storico in Sanguineti… Questo è – quando va bene – ciò che si deve ricordare dei poeti.

Proprio perché si tratta di grandi poeti, ciascuno di loro ha provocato in noi, prima o poi, almeno un fremito, e lo abbiamo amato per questo. Questo, io credo, è ciò che la poesia dovrebbe fare: provocare fremiti. Non si tratta di orgasmi da quattro soldi; la poesia non è eroina. Quando la poesia ci procura un fremito è perché ha smosso qualcosa di profondo; ha spostato delle pietre assestate sul fondo della nostra coscienza, pietre di cui talvolta nemmeno ricordavamo l’esistenza. Ma non è affatto detto che queste pietre concettuali che vengono smosse abbiano qualche campo in comune con ciò di cui la poesia parla.

Più volte mi sono ritrovato a pensare che amo Leopardi nonostante il suo pulcioso pessimismo, che adoro Montale nonostante la sua retorica del male di vivere (e quella, proprio quella, resta una delle sue poesie più belle, a dispetto del fatto che ne faccia il suo tema esplicito), che imparo a memoria García Lorca benché sia perfettamente consapevole che senza le sue poesie non avrei gran interesse per i gitani andalusi. Poi mi rendo conto che sto andando troppo in là, e che senza pulcioso pessimismo, retorico male di vivere e senza gitani andalusi, non avrei né Leopardi, né Montale, né García Lorca.

D’altra parte, nemmeno se non avessero respirato, mangiato e complessivamente vissuto, avrei i miei poeti. Ma questo non autorizza la critica a trovare il senso della loro opera nel modo in cui essi hanno vissuto (in verità certa critica a volte lo fa, ahinoi!), mangiato e respirato. Il problema della parola (a differenza della musica o della pittura astratta) è che per parlare sembra proprio che si debba parlare di qualcosa. E siccome normalmente quando si parla di qualcosa è per dirne qualcosa, ecco che pure la poesia viene trattata nello stesso modo: spiegata per quello che dice di quello di cui parla. È una soluzione facile ed efficace: una volta stabilito questo, potremo interpretare nel medesimo senso anche tutte le scelte che non riguardano i cosiddetti contenuti. Si tratterà di scelte formali finalizzate a una migliore espressione, a una più efficace, più memorabile espressione.

Si tratta la poesia come se fosse propaganda su un certo tema, insomma, magari libera propaganda (non asservita a un padrone o a un partito) ma pur sempre tale. Eppure, esistono modi migliori e decisamente più efficaci di fare propaganda (anche quella buona, libera, apprezzabile), che magari possono sfruttare espedienti sviluppati proprio in campo poetico. E certamente ci sono poeti in cui qua e là, la poesia sfuma verso la (buona) propaganda, ed è difficile dire dove sia il confine.

Ma non è per il suo eventuale fare propaganda che la poesia può diventare memorabile, e non è nemmeno per quello che la poesia esiste. Non so quanto sia chiaro che questa visione (anche troppo diffusa) della poesia è figlia del pregiudizio secondo cui la poesia è il prodotto di un soggetto che si esprime nei confronti del mondo, ed esprimendosi trasmette il proprio pensiero (ricco di tutte le sensazioni, emozioni ecc. che lo accompagnano). Si tratta di un pregiudizio che ha trovato nel Romanticismo la sua forma più compiuta, ma che serpeggia nell’Occidente greco e poi cristiano almeno da quando Platone ha inventato l’idea di anima.

Proviamo a leggere un testo poetico dimenticando che ha un autore. Quando ascoltiamo musica, mica la ascoltiamo come se fosse un discorso che il compositore ci sta facendo. Anche se un po’, da Haydn in poi, lo facciamo (e ci insegnano a farlo), la gran parte della nostra attenzione sta comunque nell’andamento della musica e nelle variazioni che vi si succedono, e in ciò che quell’andamento sta producendo in noi che, nell’ascolto, vi ci accordiamo. E questo accade persino quando ascoltiamo Boulez, o Grisey, o Francesconi.

In musica, i compositori parlano dei cosiddetti materiali. Si tratta di un termine generico, cui è difficile dare un contenuto preciso: potrà trattarsi di motivi, di semplici sonorità, di gruppi di rumori, di andamenti ritmici, di strutture. Materiali grezzi, comunque, abbozzi di elaborazione, spunti, frammenti; quelle cose che poi il lavoro di composizione assembla per montare l’opera vera e propria – e magari, proprio nel lavoro di assemblaggio, questi materiali fruttificano, producendo nuovi motivi, sonorità, rumori, ritmi, strutture… Ma i materiali non sono il senso dell’opera: ne sono soltanto i mattoni, anzi parte dei mattoni. Il senso dell’opera, sempre che abbia senso trovarlo, è un prodotto dell’uso dei materiali, semmai.

Io credo che dovremmo considerare i cosiddetti contenuti del testo poetico alla stesso modo dei materiali musicali. Sono mattoni da costruzione, come lo è la metrica, l’uso delle rime, l’andamento prosodico. Per questo certamente non è vero che i contenuti non hanno valore in poesia. Hanno il valore che hanno tutti i materiali da costruzione. Sono strumenti di cui il testo fa uso per permettere la dinamica di accordo e tensione e magari sorpresa che qualche volta produce in noi un fremito, smuovendo delle fondamenta assestate da sempre. Sono forme che attraversano la storia, né più né meno che quelle metriche, sistemi di possibilità di cui gli storici fanno bene a segnalare l’emergenza e le eventuali variazioni rispetto alle emergenze precedenti, ma poco hanno a che fare con il giudizio estetico – e infatti li ritroviamo nei versi di valore come in quelli da dimenticare.

Quanta parte della critica letteraria storica è da buttar via? Le poesie non sono la Bibbia. E anche il Libro, poverino, potrebbe forse guadagnare in capacità di sommuoverci se lo si potesse leggere disincrostato da due millenni di ermeneutica.

«La stiva e l’abisso», visioni e vertigini di Michele Mari

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di Antonella Falco

L’affabulazione, ossia un’invenzione favolosa, una costruzione della fantasia, ma anche l’organizzazione di un soggetto in un intreccio che si presti ad una rappresentazione scenica: quanto è forte il potere affabulatorio delle parole? Quanto è pervasiva la magia del narrare? Da dove provengono le storie che ci ammaliano? Come nasce la fascinazione imperitura che esse esercitano sulla nostra mente? Sembrano essere queste domande la scaturigine profonda di uno dei libri più belli e sbalorditivi di Michele Mari, La stiva e l’abisso, che Einaudi ha di recente ripubblicato restituendo al pubblico dei lettori un testo di cui molti sentivano la mancanza (la prima edizione, uscita per Bompiani, risale infatti al 1992, mentre del 2002 è la prima edizione einaudiana).

Il libro si presenta come un romanzo d’avventura marinara, di ambientazione seicentesca: un galeone spagnolo è costretto all’immobilità in mezzo all’oceano a causa di una misteriosa e perdurante bonaccia. All’immobilità della nave sembra corrispondere quella del suo capitano, il nobile e colto Torquemada, inchiodato al letto da una dilagante cancrena. Tocca pertanto al suo secondo, Menzio, uomo di modi triviali ed eloquio sguaiato, animato da crasse ambizioni, riferirgli tutto quanto accade a bordo. Le informazioni che il secondo fornisce al capitano sono però deliberatamente vaghe e obbligano Torquemada a sopperire alla mancanza di dettagli con la sua febbricitante fantasia e con quanto riesce a sapere dal giovane mozzo. Intanto la maggior parte dell’equipaggio, ad eccezione di Menzio e di pochi altri, riceve nottetempo la visita di bizzarri e coloratissimi pesci dotati di magiche virtù affabulatorie, i quali, mediante intimi e clandestini commerci con i marinai, trasmettono loro un variegato patrimonio di storie, a volte gioiose, altre volte dolenti, ma sempre estremamente ammalianti. Sono storie che queste misteriose e affascinanti creature marine hanno assimilato cibandosi dei cadaveri di marinai periti nel corso di naufragi o di battaglie. Complice la bonaccia che li costringe ad una protratta inattività, gli uomini della nave abbandonano qualsiasi occupazione che non sia il sognante vaneggiamento delle storie narrate loro dai pesci, e uno dopo l’altro si lasciano morire d’inedia. Ignorato dalle favolose creature, forse per via dell’indole triviale, Menzio è l’unico che conservi intatta la sua lucidità mentale e si ostina nella ricerca di un fantomatico tesoro nascosto, ricerca che lo impegna in efferate torture, giri di chiglia e propositi di ammutinamento.

Tra i personaggi, oltre alle figure chiaramente contrapposte di Torquemada e Menzio, raffinato ed erudito il primo, incline ad abbandonarsi ad iperboliche e deliranti fantasie relative alla propria gamba incancrenita e al modo di disfarsene (che dal punto di vista stilistico e lessicale rappresentano alcuni dei momenti apicali dell’intero romanzo), grossolano e illetterato il secondo, e non privo di una a volte inconsapevole comicità che si palesa soprattutto in talune sue uscite linguistiche, nell’invenzione di neologismi e nel sottile gioco degli equivoci (a loro volta i momenti più spassosi di tutto il libro), altri due personaggi spiccano sugli altri. Uno è l’ufficiale al sestante Emanuele Torriani, che chiuso nel suo studiolo, scrive il trattatello sul ‹‹pesce implicito›› e sul ‹‹pesce ottativo›› per poi calarsi in mare all’interno della ‹‹Batispecola››: un rudimentale prototipo di batisfera da lui stesso ideato e costruito incollando pezzi di vetro con pece, cera e catrame. A bordo della Batispecola, Torriani scompare tra gli abissi, congedandosi da Torquemada con una lettera nella quale fra le altre cose scrive: ‹‹io scendo per mera fascinazione, come una falena attirata da un lume››. L’altro è il clandestino Ismahíl – clandestino ‹‹per professione›› e con esperienza ormai trentennale – che così ci viene descritto: ‹‹avrà forse sessant’anni, anche se le fittissime rughe che gli scavano tutto il viso, unitamente alla prolissità della chioma e della barba, che gli giungono alle ginocchia, lo fanno sembrare molto più vecchio: una cert’aria da Matusalemme, a pensarci bene, ce l’ha. Ma ciò che ne fa l’unicità è il suo eloquio: Ismahíl, infatti, si esprime in quella straordinaria favella, parlata in alcuni lembi costieri dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, che è la lingua franca, ove, come in una speziería, mescono i loro aromi un po’ di francese, un po’ d’arabo, un po’ di latino, un po’ di veneziano, un po’ di greco, un po’ di napoletano, un po’ di giudeo, un po’ di genovese…››

Per quanto riguarda i marinai, bisogna sottolineare come al loro progressivo decadimento fisico non corrisponda tuttavia una altrettanto evidente prostrazione morale: al contrario, le storie narrate dai notturni visitatori marini, liete o tristi che siano, innescano negli uomini dell’equipaggio un intenso processo di elevazione spirituale, corrispondendo viepiù al disprezzo delle cose materiali un crescente arricchimento della loro vita interiore.

Quello che viene a delinearsi a bordo della nave è dunque uno scontro tra le astratte istanze della fantasia, dell’affabulazione e del sogno da un lato, e le più concrete e materiali istanze del realismo dall’altro.

‹‹Sognare è vivere un’altra vita, altre vite…››, dice un marinaio a Menzio che tenta di venire a capo del mistero dei pesci. Ma è Torquemada, in virtù del suo nobile spirito e della sua indole speculativa, colui che più profondamente si interroga su quanto sta accadendo al proprio equipaggio: ‹‹è anche vero, però, che raccontarsi storie e storie su storie significa essere pazzi. Non è forse pazzia, un’ininterrotta vertigine favolosa, un delirante pascolo di forme che vogliono essere il mondo, che vogliono essere il Paradiso e l’Inferno? Sí, è pazzia, ma d’altronde, che favola è quella che s’affianca docile e inerte a questa nostra vita, che t’avverte prudente: attento, sono una favola, assaggiami e via, passa oltre, io qui peraltro finisco, ritorno la nebbiolina che fui, che favola è questa mi chiedo, che non ne genera altre con la collaborazione del tuo sangue già infetto, del tuo sangue ormai favoloso?›› E d’altra parte sono proprio le favole che fanno bella la vita e che permettono di lenire, con le pietose illusioni che regalano agli uomini, la dolente consapevolezza che sempre accompagna ogni umana sapienza: ‹‹più cose si imparano e più si è tristi››, constatano due marinai dialogando fra loro, e pressappoco le stesse parole rivolge il capitano Torquemada a Menzio: ‹‹il sapere è permeato di angoscia, sempre››.

Come anche altri critici hanno notato, i primi tre romanzi di Michele Mari, sebbene questa sia in realtà una considerazione estensibile, in maggiore o minore misura, all’intera opera dello scrittore milanese, costituiscono un omaggio agli autori, alle opere e ai generi letterari che più intensamente hanno influenzato il suo immaginario di precoce e famelico lettore. Così Di bestia in bestia (1989) costituisce l’atto di ossequio nei confronti del romanzo gotico, Io venía pien d’angoscia a rimirarti (1990) è il riverente omaggio al nume tutelare Giacomo Leopardi, e La stiva e l’abisso rende il meritato onore alla narrativa di mare e d’avventura. Fra gli autori ai quali Mari deve essersi ispirato vi è senza alcun dubbio Herman Melville, del quale vengono richiamati elementi di almeno due suoi romanzi: Moby Dick e Benito Cereno. Al primo sembra riconducibile l’impianto dell’opera, con la sua scrittura che speditamente trapassa da un registro cronachistico – da diario di bordo – ad uno lirico, ad un altro che risente del trattato scientifico, ma soprattutto viene naturale istituire una correlazione fra i due capitani, Achab e Torquemada: Achab, ‹‹che con la sua mutilazione e la sua protesi in osso di capodoglio porta in sé lo stigma del nemico così come lo interiorizza con i suoi deliri e i suoi farneticamenti›› (sono le parole di Mari ne I demoni e la pasta sfoglia), Torquemada con la ‹‹gangrena›› che gli divora la gamba, oggetto di reiterate e deliranti fantasie, si direbbe quasi delle vere e proprie allucinazioni, relative alle più bizzarre e improbabili modalità di amputazione dell’arto. L’ossessione di Achab è la balena bianca, di cui la sua protesi d’osso è simbolo e compendio; l’ossessione di Torquemada è la propria gamba incancrenita e la conseguente immobilità cui è costretto, simbolo a sua volta della stasi dell’intero equipaggio e della nave stessa, prigionieri, l’uno e l’altra, della misteriosa e interminabile bonaccia. E proprio la bonaccia, con il clima di sospensione fisica e metafisica che determina, e che fiacca le membra dei marinai, rappresenta il debito che Mari contrae nei confronti dell’altro romanzo melvilliano, il Benito Cereno, sebbene tanto la bonaccia quanto l’estenuante torpore dell’equipaggio appaiono riconducibili anche ad un’altra opera di un autore sicuramente caro a Mari, La linea d’ombra di Joseph Conrad. A L’isola del tesoro di Stevenson si devono invece i tratti pirateschi di alcuni personaggi e il mito ossessivo della ricerca di un tesoro nascosto: ovviamente l’omaggio, in quest’ultimo caso, trascende nella parodia. Per quanto concerne le favolose creature marine che visitano di notte i marinai, esse troverebbero facilmente posto nel Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, accanto ad esseri mitologici quali il Catopleba, l’Anfesibena e le Sirene (queste ultime citate non a caso poiché i pesci ammaliano con i racconti come le Sirene ammaliano col canto).

A parte queste ascendenze palesemente evidenti, ve ne è però un’altra, forse più carsica ma non meno feconda, quella nei confronti di Edgar Allan Poe. A veicolarla è il concetto di delirio. È lo stesso Mari a spiegarcelo in una pagina de I demoni e la pasta sfoglia in cui parla del Gordon Pym: ‹‹…l’intenzione avventurosa, o epico-marinara, o picaresca, è fin dall’inizio frustrata, o meglio corrotta, dal genio di Poe per il delirio. Il delirio è vago, solipsistico, morboso, dove l’avventura vuole robustezza e precisione di coordinate, oggettivazione di contrasti, ariosità di spazi; soprattutto, il delirio è narrativamente improduttivo, tende al lirico o al sublime, disdegna il principio di causalità››; e, poco più avanti, a proposito del personaggio di Arthur Gordon Pym, scrive: ‹‹La sua è una vicenda senza progresso e senza dialettica››. Potremmo dire lo stesso del capitano Torquemada, né occorre aggiungere altro circa la sua falotica attività onirica ad occhi aperti. Un delirio, appunto.

Gran parte dell’unicità de La stiva e l’abisso si deve agli aspetti linguistici e stilistici, alla filologica precisione del lessico marinaresco e mercantile e al rigore scientifico della nomenclatura relativa alla fauna marina, fino ai veri e propri virtuosismi verbali che sostanziano le fantasie di Torquemada intorno alle proprie carni marcescenti. E poi non mancano neologismi, iperbati, allitterazioni, nonsense. Appare ormai superfluo sottolineare come tale meticolosa accuratezza filologica, tale esuberanza verbale e tali virtuosistiche altezze di stile siano ormai da lungo tempo prerogativa pressoché esclusiva della scrittura di Mari, che in simili frangenti, dove altri impallidirebbero di fronte a tanta ardita impresa nomenclatoria, sembra divertirsi, avvezzo com’è a maneggiare la lingua quasi fosse duttile argilla da plasmare secondo il proprio ludico diletto.

Viene da chiedersi se Mari in questo romanzo che ha del tautologico – nella misura in cui le tautologie logiche ragionano circolarmente intorno ad un argomento, e qui si ragiona, e si scrive, circolarmente sull’arte dell’affabulare, in una sorta di grandiosa metanarrazione non esente neppure da rimandi al teatro cinque-seicentesco – non abbia costruito una sua personalissima teratologia dell’affabulazione. In fondo i pesci affabulatori sono dei mostri, non già per la spaventosità dell’aspetto che anzi ha un che di estetizzante e di barocco dovuto all’iridescenza dei colori e alla forma affusolata dei corpi, quanto piuttosto, nel senso etimologico del termine, per il loro carattere assolutamente prodigioso.

Visionario e vertiginoso, La stiva e l’abisso, è un romanzo nel quale Mari rende omaggio, fra i mostri che popolano i suoi libri, al mostro che tutti li sovrasta perché di tutti è l’origine indiscussa e indefessa: la letteratura, la quale facendo proprie l’iperbole e la morbosità che stanno alla base dell’arte moderna, si fa incarnazione di una realtà sfuggente e ambigua, nutrita di simboli onirici e votata a scandagliare gli spazi ignoti di quella landa brumosa che è la mente umana. Certo, sono solo storie, affabulazioni, sogni, ma il loro intento, come dice Magritte, non è quello di far dormire ma, al contrario, di svegliare.

Good Bye Keith Botsford

2

Quando l’amico Zachary Bos mi ha inoltrato il messaggio accorato del figlio primogenito di Keith Botsford, Aubrey che annunciava, lo scorso 19 agosto, la fine di un’esistenza – per molti di noi Keith era l’essenza stessa del fare letterario come ricordava Massimo Rizzante qualche tempo fa proprio qui su Nazione Indiana – ho provato una grande tristezza e insieme l’ingiustizia di tale sentimento. Perché incontrare Keith a Torino era sempre una gioia, come la volta in cui in un albergo a pochi metri dalla casa in cui Xavier de Maistre aveva scritto il mitico Voyage autour de ma chambre, mi aveva raccontato del suo incontro con Cesare Pavese, proprio l’estate in cui avrebbe posto fine ai suoi giorni.

“L’ho incontrato a Torino la settimana della sua morte, nello stesso albergo dove mi fermavo. La voce? Un poco roca, quasi senza accento piemontese – cioè senza rullare le “r”, come un fumatore francese. Retrospettivamente, la si sarebbe detta una voce da abbandono. Per niente eccitata, capace di ascoltare. Era seduto sul bordo del letto. La voce roca, a ripensarci: una voce che veniva da molto lontano. Per niente sonora. Un micro deshonore. L’esatto contrario dell’amico Beppe Fenoglio, un grande scrittore che bisognerebbe riscoprire. KB”

L’eleganza dandy, i capelli lunghi da poeta maledetto, l’amicizia con Saul Bellow, una conoscenza assoluta della letteratura che andava difesa, raccontata, sostenuta e la straordinaria capacità di parlare tutte le lingue del mondo costituivano un universo in cui  era magnifico entrare, e sentirne l’odore, il profumo, significava accedere a un enorme e insperato privilegio conquistato grazie a un racconto da me pubblicato sull’Atelier du Roman e tradotto da Keith e Zachary  per la loro rivista News from the Republic of Letters. Ogni volta che chiedevo un pezzo a Keith per Sud o per altri progetti dada in cui volevo coinvolgerlo reagiva da fuoriclasse e sempre con grande generosità. Come quando curai la pubblicazione di un Dico’ Erotique per una casa editrice di Milano e insieme ai testi di una settantina d’autori potemmo fregiarci anche di uno, magnifico di Keith. Il gioco consisteva nella scelta di una voce ispirata al Dictionnaire edito da Pauvert nel 1962. Lui scelse la voce che ho voluto condividere con voi quest’oggi, per rendere omaggio al suo stile formidabile e per ricordarlo con la gioia nel cuore .

effeffe

 

Eunuque

di Keith Botsford

traduzione di Norman Gobetti

Era un castrato, almeno secondo il mio amico Philo, che non aveva preso il nome dall’impasto per torte o dalla città dell’Amore Fraterno, Philadelphia. Certo, era solito dire con disinvoltura, non è possibile togliere femminilità a una donna, sebbene sia possibile aggiungerne. Sottrazione contro addizione. Per gli autori di reati sessuali – vi chiedo, come si può compiere un “reato” con il sesso? Oppure la legge significa che il sesso è un reato? – si chiede a gran voce l’orchiectomia (rimozione dell’organo incriminato, l’orchis (Gr), che per qualcuno potrebbe anche essere un sollievo. Niente più pulsioni inopportune. Una soluzione per i preti?
Il problema, secondo lui, era che un eunuco non veniva necessariamente trasformato in donna. Al giorno d’oggi, vi diranno che si può essere tutto ciò che si vuole: si va in una clinica californiana dal Dottor X e si esce con i bigodini in testa e la mascella ridisegnata, con il seno adeguatamente modellato e una figa penetrabile che comunque deve essere ben lubrificata. Non fa per me, ha detto Philo. Io credo nell’Oeil, il grande occhio, l’io, lo Je e il mio jeux. Ecco il privilegio di un eunuco: penetrare, visivamente e sensualmente, la vita quotidiana delle donne, in modo molto più efficace di un qualsiasi uomo.

Il guardiano della Camera da Letto, il voyeur autorizzato! Basta sbarazzarsi di quei fastidiosi testicoli. Il mio sarto di Londra, molto stile Savile Row, direbbe: “Da che parte li porta, Sir?” All’inizio mi vergognavo a chiedergli, portare cosa? Ehm, sì. Le orchidee sono bellissimi parassiti, giusto? Perché noi greci astuti vedemmo una somiglianza nei loro bulbi. Ma quando una civiltà idiota ha deciso (il Duca di Wellington, mi è stato detto) che la culotte doveva diventare pantaloni (perché hanno deux trous) e gli uomini dovevano indossarli, mi sono ribellato. Ho preferito le garze e le sete delicate, il flusso ininterrotto di un indumento.

Ovviamente io vivo nell’epoca sbagliata. L’etimologia di Eunuco è che egli è, ha, protegge il talamo (Eunus, Gr). Nell’epoca in cui avrei dovuto vivere, i bei ragazzi circassi erano una delizia d’importazione: biondi e con gli occhi azzurri venivano immediatamente evirati e diventavano grassocci, con la pelle vellutata. Non sapevano che farsene dei rasoi Gilette o delle lamette, e imparavano a spettegolare in molte lingue – le lingue dei luoghi esplorati dai loro padroni (perché erano tutti schiavi) che non si erano mai presi la briga di preservare per la loro futura dispotica (despotes, Gr) progenie. Despoti perché “proprietari”, così pensano le donne di coloro che conservano le loro brutte sacche pelose. Invece, in Camera da Letto, noi eunuchi condividiamo in ogni momento tutta la libertà di cui godono le donne: a parte, ovviamente, l’ora o la mezzora in cui il despota le convoca per una rapida scopata. Francamente, può essere un piccolo prezzo da pagare per la libertà femminile, ma la cosa non mi riguarda. Nulla viene fatto a un eunuco, è lui che fa le cose per gli altri.

Siamo una specie di animale generoso, non- violento, mellifluo (che contro-tenori e soprani diventiamo!), e senza discendenza – quindi utile. Noi non generiamo rivali per il trono, non fottiamo i nostri padroni, se non mentalmente. Riconosciamo che alcune forme di schiavitù sono un privilegio, superiori alla più brutale schiavitù della gravidanza o del parto: schiavi dei nostri sensi, del gusto, dell’olfatto e del tatto, la vana routine imitativa dell’immortalità attraverso i geni. Non prendiamo e non emettiamo nulla, ecco perché siamo affidabili. Come donne abbiamo un atteggiamento servile nei confronti dei nostri padroni, ma come uomini, possiamo esercitare un potere reale, quello della manipolazione. E intendo in entrambi i sensi: manipoliamo la corte e le sue donne. Con questi attributi uniti, arriviamo ai posti più alti dello Stato, per non parlare del gineceo.

Spesso mi viene chiesto cosa prova un eunuco, ha detto Philo. Ci chiedono: vivete tra le donne e non ne siete tentati? Certo che lo siamo. Proviamo tutto ciò che le donne provano. Accarezziamo le loro voglie, condividiamo le penetrazioni dei loro padroni (ma senza il dolore annesso). Anche noi abbiamo qualcosa di indeterminato tra cosce e ombelico, profumiamo i loro vuoti e le sontuose preoccupazioni con i nostri flaccidi membri di seta. Invecchiamo con grazia e non dobbiamo fare tutta la fatica che fanno i nostri padroni quando invecchiano per ottenere un po’ di sollievo con orgasmi tremanti, insoddisfacenti e occasionali: tanto lavoro per un risultato così insignificante! Nei nostri alloggi non c’è né fretta né confusione. Preparare una nuova concubina per le visite notturne al padrone è un’arte: spingersi fino a un certo punto e non oltre, sentirne il sospiro, “Adesso basta, caro Philo!” e spostarsi dalle sue labbra, superiori e inferiori, ai capezzoli o ai piedi, la piega della braccia, la curva delle natiche, senza paura di fallire o delle conseguenze.

La nostra è la forma più alta di sessualità, se deve essere ridotta a questo. E una forma più alta e distaccata di governo. Gli eunuchi sono desiderati, lusingati e muoiono intatti. Noi diventiamo ricchi e opulenti.
Amico mio, quando mi guardo attorno e penso alla pelosa castrazione dei potenti e ripenso all’uomo che ero e che doveva dimostrarsi degno portandosi a letto serve e muscolose Amazzoni che correvano e sudavano, mi chiedo come mai più di un uomo non ammetta semplicemente di essere stato castrato e muova quel singolo passo verso la costante beatitudine del disimpegno dal ferino e reale atto sessuale. Liberarsi di esso, te lo assicuro, è la più elevata e gratificante forma di libertà.

Sistema #1

3

di Antonio Sparzani

Sistema, che straordinaria parola nella lingua italiana e nelle altre lingue vicine alla nostra: la sua etimologia è certamente semplice, viene dal greco, e significa un insieme di cose che stanno assieme, sì, ma come stanno assieme? La parola sembra suggerire che stiano assieme con qualche criterio e anche sembra suggerire qualche analogia tra queste cose che stanno assieme; si dice sistema nervoso ma si dice invece apparato digerente, dato che quest’ultimo è formato da tanti oggetti differenti l’uno dall’altro. Si dice poi anche sistema solare, che è costituito da tanti oggetti che hanno in comune il muoversi in una certa regione di spazio; tra tutti questi oggetti esiste una qualche relazione, un qualche modo di stare assieme, che la nostra mente ha costruito in secoli di analisi, sempre un po’ meglio approssimata, e alla quale abbiamo dato il nome di interazione gravitazionale, e anche interazione elettromagnetica, parole inventate dagli uomini che di ciò si sono in vari modi occupati e che più comunemente vanno sotto il nome di attrazione e di scambio di luce e calore.
Esaminando questi e i moltissimi altri esempi che si possono facilmente trovare nella lingua, comincia a farsi strada un’idea che sembra comune a tutti, e cioè quella che un sistema è qualcosa a sé stante, in qualche misura isolato da tutto il resto, o per lo meno che può venir considerato indipendente da tutto quanto lo circonda, vicino o lontano.
E qui entra allora un tipo di scelta che dipende fortemente da quello che noi riteniamo importante per le nostre esigenze di descrizione del mondo, esigenze ben s’intende spesso squisitamente materiali e non tanto astratte quanto si potrebbe pensare. Più le esigenze dell’analisi sono fini e più è difficile considerare sistemi isolati. Prendiamo ad esempio il cosiddetto sistema solare, anzi, cominciamo a prendere la Terra da sola: è forse un sistema isolato? La risposta dipende dalle esigenze di descrizione che si hanno: la Terra è molto distante da tutti quanti gli altri corpi che le stanno intorno, rispetto alle distanze che siamo abituati a considerare su di essa, ma, come tutti sappiamo, è difficile dal nostro punto di vista di uomini che vivono respirando ed esigendo una certa temperatura, negare che la presenza del Sole risulta indispensabile. Sembrerebbe allora di poter considerare il sistema Terra-Sole; tuttavia un’analisi appena più fine mostra che ad esempio le maree, fenomeno certamente non trascurabile in molte regioni della Terra, dipendono in qualche modo dalla Luna, che ci gira intorno lontana (382000 km circa) e che tuttavia sembra proprio essere la causa di esse.
Allora, per dire, prendiamo il sistema Terra-Luna-Sole, è un sistema che possiamo considerare in qualche misura isolato? Certo lo è più del precedente, ma ecco che di nuovo un’analisi sempre più fine mostra che la presenza di altri corpi vaganti grosso modo in zona provoca piccoli, ma avvertibili cambiamenti anche in questo sistema fatto di tre corpi. Ci sono tanti altri corpi, piccoli e grandi che si muovono in qualche modo “in zona”, cui abbiamo imparato a dare il nome di pianeti, satelliti, asteroidi, comete e via dicendo. Visto ciò che sappiamo dell’attrazione gravitazionale è difficile pensare che essi non abbiano alcuna influenza sul nostro limitato sistema Terra-Sole-Luna e infatti, se si fanno misure abbastanza raffinate, si scopre che ce l’hanno e come. Allora tocca proprio considerare tutto il “sistema solare”, con dei confini su cui tra l’altro ancora si sta lavorando: Plutone non è più l’ultimo pianeta (anzi, siccome non è abbastanza grande è stato declassato e non è più un pianeta) c’è dell’altro un po più “fuori”. Però se si considera tutto il sistema solare, contando tutti gli oggetti che appunto occupano la zona, si arriva a un insieme di corpi dai quali tutti gli altri del cielo sono lontanissimi: la stella più vicina, Proxima Centauri, costellazione del Centauro, dista da noi poco più di 4 anni-luce, una distanza enorme se paragonata alle distanze usuali all’interno del nostro sistema: la luce, per andare da qui a Plutone ci mette qualche ora; ma in un anno ci sono circa 24×365 ore, ovvero 8760 ore, dunque, come ordini di grandezza, la distanza da Proxima Centauri è dell’ordine di 10000 volte il diametro del sistema solare. Possibile che ancora sia necessario tenere conto di tutto il resto dell’universo per quanto ci riguarda? Ebbene, come sempre tutto dipende da quello che si vuole sapere e con quale approssimazione lo si vuole sapere.
Il sistema solare, a quanto a tutt’oggi ne sappiamo è parte di una “sistema” molto più grande, noto dall’antichità come Via Lattea, e tutta questa enorme quantità di stelle, ognuna eventualmente con il suo corredo di pianeti, asteroidi e altro, ruota intorno a un centro, mettendoci 200000 anni terrestri a compiere l’intero giro, dunque il nostro sistema solare gira in tondo anche lui, non è al centro della Via Lattea, anzi è piuttosto sul bordo, e dunque ben si guarda dal filare dritto come farebbe un corpo non soggetto all’influenza di altri corpi.
E di sistemi come questo, detti galassie (l’etimologia risale sempre al latte, in greco gala) ce ne sono una quantità sterminata in giro per l’universo che riusciamo ormai a osservare con gli strumenti sempre più potenti che la tecnologia ci fornisce. E allora? Non si finisce più, anche le galassie si “ammassano”, ci sono gli “ammassi di galassie” e la luce di tutti questi oggetti sparsi in giro per il mondo arriva prima o poi dovunque, e dove arriva, cioè se arriva ad urtare qualche altra cosa, con essa interagisce. E allora, dove sta il vero sistema? Verrebbe da concludere naturalmente che l’unico vero “sistema isolato” è l’intero universo.
Ma a questo punto la nozione diventa inutile, non serve più a niente per la nostra indagine del mondo. Come si esce da questo lo vedremo la prossima volta.

Le nostre anime di notte

1

di Gianni Biondillo

 

Kent Haruf, Le nostre anime di notte, NN editore, 2017, 162 pagine, traduzione di Fabio Cremonesi

Addie è vedova e si sente sola. Ne parla con Louise, vedovo anch’esso. Gli propone di passare le notti con lei, nel letto di casa sua. Nulla a che vedere col sesso – alla loro età! – ma con la possibilità di superare in compagnia le infinite, insonni ore notturne. Chiacchierando, raccontandosi storie, tenendosi compagnia. Louis, titubante, accetta.

Le nostre anime di notte è il quarto romanzo ambientato da Kent Haruf nell’immaginaria cittadina di Holt, uno di quei posti identici a se stessi, sperduti nell’America profonda, assolata, dimenticata. Poco più di un puntino in una mappa, ma che è entrata prepotente nella geografia letteraria, grazie alle vite dei suoi abitanti descritti con ossessiva perizia da Haruf. Non è necessario aver letto la Trilogia che precede questo romanzo per apprezzarlo appieno. Ci si affeziona subito a questi due anziani che combattono la solitudine grazie ad un espediente semplice e al contempo spregiudicato.

È di affetti che parla questo romanzo. Di occasioni che non si possono più rimandare, in prossimità della fine della propria esistenza. La dolce vitalità dei protagonisti, che non fanno niente di male se non amarsi in un modo talmente puro che abbacina, contrasta con la meschinità della provincia profonda, quella che miope, da sempre, giudica e sentenzia. Una loro vecchia conoscente, Ruth, comprenderà e condividerà il loro gesto, un giovane nipote, Jamie, verrà a tenere loro compagnia, il figlio di Addie si metterà di traverso, indignato.

Ma più che la trama è la lingua, prosciugata eppure mai asettica, che determina la qualità di questo romanzo scritto da Haruf in punto di morte. Di questo osa parlare: di Morte, di Vita, di Speranza. Lasciandoci in dono questo piccolo mondo coerente, descritto con una umana partecipazione che commuove.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, numero 13 del 28 marzo 2017)

Nessuno mi può giudicare: Michel Foucault

6

Nota introduttiva di effeffe

Mentre facevo delle ricerche per un progetto a cui sto lavorando mi sono imbattuto in questa intervista a Michel Foucault, tanto strana quanto illuminante rispetto al paesaggio letterario e politico della nostra Europa, particolarmente buio di questi ultimi mesi. Il filosofo pretende dal giornalista che l’intervista sia pubblicata mantenendo anonimo l’autore e, proprio nel passaggio in cui motiva la decisione presa, ho trovato che il pensiero di Foucault si facesse carico di quelle esperienze che oggi, nell’era dei social network, molto più di allora, stanno caratterizzando la nostra vita sociale.

“Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco, si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste.”

Il filosofo mascherato

(1980)
intervista a Michel Foucault di C. Delacampagne, in “Le Monde”,
n. 10945, 6 aprile 1980: “Le Monde-Dimanche”, pp.I e XVII.
Traduttore: Sabrina Loriga Curatore: Alessandro Pandolfi

Mi permetta, innanzitutto, di domandarle perché ha scelto l’anonimato.

Immagino che lei conosca la storia di quegli psicologi che hanno presentato un breve filmato in un villaggio nel cuore dell’Africa profonda. Domandano agli spettatori di raccontare la storia, come l’hanno capita. Ebbene, di una trama a tre personaggi, una sola cosa li aveva interessati: il passaggio delle ombre e delle luci attraverso gli alberi.
Da noi i personaggi dettano legge alla percezione. Gli occhi si rivolgono preferibilmente verso le figure che vanno e vengono, spuntano e scompaiono. Perché le ho suggerito di utilizzare l’anonimato? Per nostalgia del tempo in cui ero assolutamente sconosciuto e, quindi, quel che dicevo aveva qualche possibilità di essere inteso. Il contatto immediato con l’eventuale lettore non faceva grinze. Gli effetti del libro si riflettevano in luoghi imprevisti e disegnavano forme a cui non avevo mai pensato. Il nome costituisce una facilitazione.
Vorrei proporre un gioco: quello dell’“anno senza nome”. Per un anno si pubblicheranno soltanto libri privi del nome dell’autore. I critici dovranno sbrigarsela con una produzione completamente anonima. Ma penso che, forse, non avrebbero nulla da dire: tutti gli autori aspetterebbero l’anno successivo per pubblicare i loro libri…

Crede che, oggi, gli intellettuali parlino troppo? Che ci ingombrino con i loro discorsi al minimo pretesto e, spesso, anche senza il minimo pretesto?

La morte degli intellettuali mi sembra uno strano concetto. Di intellettuali, non ne ho mai incontrati. Ho incontrato persone che scrivono romanzi e persone che curano i malati. Persone che studiano economia e persone che compongono musica elettronica. Ho incontrato persone che insegnano, persone che dipingono e persone di cui non ho ben capito se facessero qualcosa. Ma non ho mai incontrato intellettuali. Viceversa, ho incontrato molte persone che parlano dell’intellettuale. E, a forza di ascoltarli, mi sono fatto un’idea di che tipo di animale si tratti. Non è difficile, è il colpevole. Colpevole un po’ di tutto: di parlare, di tacere, di non fare nulla, di impicciarsi di ogni cosa… Insomma, l’intellettuale è la materia prima da giudicare, da condannare, da escludere…Non penso che gli intellettuali parlino troppo, perché per me non esistono. Ma penso che il discorso sugli intellettuali stia passando il limite e sia poco rassicurante. Ho una brutta mania. Quando le persone parlano tanto per parlare, quando fanno discorsi campati per aria, cerco di immaginare dove porterebbero le loro parole se fossero trascritte nella realtà. Quando “criticano” qualcuno, quando “denunciano” le sue idee, quando “condannano” ciò che scrive, li immagino in una situazione ideale in cui hanno pieno potere su di lui. Riporto le loro parole al primo significato: “Demolire”, “abbattere”, “ridurre al silenzio”, “seppellire”. E vedo schiudersi la radiosa città in cui l’intellettuale sarebbe certamente imprigionato e impiccato, a maggior ragione se fosse anche un teorico. È vero, non viviamo in un regime in cui gli intellettuali vengono mandati nelle risaie; ma, in realtà, mi dica, ha mai sentito parlare di un certo Toni Negri? Non è forse in prigione proprio in quanto intellettuale?

Ma, allora, che cosa l’ha indotta a trincerarsi dietro l’anonimato? Un certo uso pubblicitario che, oggi, certi filosofi fanno o lasciano fare del loro nome?

Questo non mi turba minimamente. Nei corridoi del mio liceo ho visto grandi uomini di gesso. E ora, sulla prima pagina dei giornali, in basso, vedo la fotografia del pensatore. Non so se l’estetica sia migliorata. La razionalità economica lo è sicuramente…In fondo, mi colpisce profondamente una lettera scritta da Kant, quando era già molto vecchio: contro l’età, la vista che si abbassava e le idee che si confondevano, si affrettava, così racconta, a terminare un libro per la fiera del libro di Lipsia. Racconto questo episodio per dimostrare che non ha nessuna importanza. Pubblicità o no, fiera o no, il libro è tutt’altra cosa. Non riusciranno mai a farmi credere che un libro sia brutto perché si è visto il suo autore alla televisione. Ma neanche che sia buono per questa sola ragione.
Se ho scelto l’anonimato, non è per criticare questo o quello, cosa che non faccio mai. È un modo per rivolgermi più direttamente all’eventuale lettore, l’unico personaggio che mi interessa:
“Siccome non sai chi sono, non avrai la tentazione di cercare le ragioni per cui dico quello che leggi; lasciati andare, di’ semplicemente: è vero, è falso, mi piace, non mi piace. Punto e basta”.

Ma il pubblico non si aspetta che la critica fornisca dei giudizi precisi sul valore di un’opera?

Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco, si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe con sé i lampi di possibili tempeste.

Ma ci sono talmente tante cose da far conoscere, talmente tanti lavori interessanti, che i media dovrebbero parlare tutto il tempo di filosofia?

Certamente, tra la “critica” e coloro che scrivono libri esiste un disagio di lunga data. Gli uni non si sentono capiti e gli altri credono che si voglia fare pressioni su di loro. Ma il gioco è questo. Mi sembra che oggi la situazione sia abbastanza particolare. Abbiamo istituzioni povere, mentre ci troviamo in una situazione di sovrabbondanza. Tutti si sono accorti dell’esaltazione che spesso accompagna la pubblicazione (o la riedizione) di opere, che peraltro talvolta sono interessanti. Si tratta, sempre, nientemeno che della “sovversione di tutti i codici”, dell’“antagonista della cultura contemporanea”, della “discussione radicale di tutto il nostro modo di pensare”. Il suo autore deve essere un marginale incompreso.
In compenso, non c’è dubbio che gli altri debbano essere rispediti nell’oscurità da cui non avrebbero mai dovuto uscire; non erano nient’altro che la schiuma di “una moda irrilevante”, un semplice prodotto istituzionale, ecc.
Si dice che si tratta di un fenomeno parigino e superficiale. Io vi percepisco, invece, gli effetti di un’inquietudine profonda. Il sentimento del “nessun posto libero”, “o lui o me”, “uno alla volta”. Si sta in fila indiana, a causa dell’estrema esiguità di luoghi in cui poter ascoltare e farsi sentire.
Ne consegue una specie di angoscia che prorompe in mille sintomi, più o meno curiosi. Da qui, in coloro che scrivono, il sentimento della loro impotenza di fronte ai media, ai quali rimproverano di dominare il mondo dei libri e di far esistere o scomparire quelli che piacciono o dispiacciono. Da qui, nei critici, il sentimento di non riuscire a farsi ascoltare, a meno di alzare il tono e di tirar fuori dal cappello un coniglio alla settimana. Da qui anche la pseudopoliticizzazione, che maschera, dietro alla necessità di condurre una “battaglia ideologica” o di stanare i “pensieri pericolosi”, l’ansia profonda di non essere né letti né ascoltati. Da qui anche la fobia fantastica del potere: ogni persona che scrive esercita un potere inquietante a cui bisogna cercare di porre, se non un termine, almeno dei limiti. Da qui anche l’affermazione un po’ incantatrice che, attualmente, tutto è vuoto, desolato, privo di interesse e di importanza: affermazione che, evidentemente, proviene da coloro che, non facendo nulla, pensano che gli altri siano di troppo.

Ma non crede che la nostra epoca sia realmente priva di spiriti all’altezza dei suoi problemi e di grandi scrittori?

No, non credo al ritornello della decadenza, dell’assenza di scrittori, della sterilità del pensiero, dell’orizzonte cupo e tetro. Credo, al contrario, che ci sia un’abbondanza eccessiva. E che non soffriamo per il vuoto, ma perché i mezzi per pensare a tutto quello che accade sono troppo pochi. Ci sono moltissime cose da conoscere: fondamentali, terribili, meravigliose o strane,insieme minuscole e capitali. E poi c’è una curiosità immensa, un bisogno, un desiderio di conoscere. Ci si lamenta sempre che i media imbottiscono la testa delle persone. In questa idea c’è della misantropia. Credo, invece, che le persone reagiscano; più si cerca di convincerle, più si interrogano. Lo spirito non è una cera molle. È una sostanza reattiva. E il desiderio di saperne di più, meglio e diversamente, cresce man mano che si cerca di imbottire le teste.
Se questo è vero e se aggiungiamo a questo che, all’università e in altri luoghi, si stanno formando grandi quantità di persone che possono servire da scambiatori tra la massa di cose e l’avidità di sapere, si può ben presto dedurre che la disoccupazione degli studenti è la cosa più assurda che esista. Il problema è di moltiplicare i canali, le passerelle, i mezzi di informazione, le reti televisive e quelle radiofoniche, i giornali. La curiosità è stata un vizio stigmatizzato di volta in volta dal Cristianesimo, dalla filosofia e persino da una certa concezione della scienza. Curiosità, futilità. Eppure, la parola mi piace. Mi suggerisce una cosa affatto diversa: evoca la “cura”, l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso; una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale.
Sogno una nuova età della curiosità. I mezzi tecnici ci sono; il desiderio c’è; le cose da conoscere sono infinite; le persone che possono impegnarsi in questo lavoro esistono. Di che cosa soffriamo? Di scarsità: canali stretti, striminziti, quasi monopolistici, insufficienti. Non si tratta di adottare un atteggiamento protezionista per impedire alla “cattiva” informazione di invadere e di soffocare la “buona”. Bisogna, invece, moltiplicare i tragitti e le possibilità di andare e venire. Nessun colbertismo in quest’ambito. Il che non significa, come spesso si teme, uniformizzazione e livellamento verso il basso. Significa, al contrario, differenziazione e simultaneità di reti differenti. Immagino che, a questo livello, i media e le università potrebbero avere funzioni complementari, invece di continuare a opporsi.
Lei ricorda la mirabile frase di Sylvain Lévy: l’insegnamento comporta un uditore; appena ce ne sono due, diventa volgarizzazione. Anche i libri, l’università, le riviste colte sono dei media. Si dovrebbe evitare di chiamare media i canali di informazione ai quali non si può o non si vuole accedere. Bisogna capire come far agire le differenze; sapere se si debba instaurare una zona riservata, un “parco culturale” per le fragili specie dei colti, minacciati dai grandi rapaci dell’informazione, mentre tutto il resto dello spazio sarebbe una vasto mercato per la paccottiglia.
Non mi sembra che una simile ripartizione corrisponda alla realtà. Peggio: non mi sembra affatto augurabile. Per far agire le differenze utili non deve esserci nessuna ripartizione.
French philosopher Michel FOUCAULT at home Source: Martine Franck/Magnum Photos

Proviamo a fare qualche proposta concreta. Se tutto va male, da dove si può cominciare?

Ma no, non va tutto male. In ogni caso, credo che non si debba confondere la critica costruttiva contro le cose con le geremiadi ripetitive contro le persone. Per quanto riguarda le proposte concrete, esse appaiono come dei gadget, se prima non vengono precisati alcuni princìpi generali. Questo, prima di tutto: il diritto al sapere non deve essere riservato né a un’età della vita, né a certe categorie di individui; si deve poterlo esercitare ininterrottamente e in forme molteplici.

Ma questa voglia di sapere non è ambigua? Alla fine, che cosa se ne farà la gente di tutto questo sapere che sta acquisendo? A che cosa potrà servire?

Una delle funzioni principali dell’insegnamento consisteva in questo: la formazione dell’individuo andava di pari passo con la determinazione del suo posto nella società. Oggi bisognerebbe concepire l’insegnamento in modo tale da permettere all’individuo di modificarsi a suo piacimento; e questo è possibile soltanto alla condizione che l’insegnamento sia una possibilità offerta “in permanenza”.

Insomma, lei è per una società colta?

Dico che il collegamento alla cultura deve essere continuo e il più polimorfo possibile. Non dovrebbero esserci, da una parte, una formazione che si subisce e, dall’altra parte, un’informazione a cui si è sottomessi.

Che ne sarà, in una società colta, della filosofia eterna?… Abbiamo ancora bisogno di lei, dei suoi interrogativi senza risposta e dei suoi silenzi di fronte all’inconoscibile?

Che cos’è la filosofia, se non un modo di riflettere, non tanto su ciò che è vero e ciò che è falso, ma sul nostro rapporto con la verità? Talvolta ci si lamenta che in Francia non esista una filosofia dominante. Tanto meglio. Non c’è nessuna filosofia sovrana, è vero, ma c’è una filosofia o, piuttosto, della filosofia in attività. La filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco. La filosofia è lo spostamento e la trasformazione dei quadri di pensiero, il modificarsi dei valori ricevuti, tutto il lavoro che si fa per pensare diversamente, per fare diversamente, per diventare altro da quello che si è. Da questo punto di vista, gli ultimi trent’anni sono stati un periodo di intensa attività filosofica. L’interferenza tra l’analisi, la ricerca, la critica “colta” o “teorica” e i cambiamenti nel comportamento, la condotta reale delle persone, la loro maniera di essere, il loro rapporto con se stesse e con gli altri, è stata costante e considerevole. Un attimo fa dicevo che la filosofia è un modo di riflettere sulla nostra relazione con la verità. Bisogna aggiungere; è un modo di chiedersi: se questo è il rapporto che abbiamo con la verità, come dobbiamo comportarci? Credo che sia stato fatto e che si stia continuando a fare un lavoro considerevole e molteplice, che modifica, contemporaneamente, il nostro legame con la verità e la nostra maniera di comportarci. E questo in una congiunzione complessa tra una serie di ricerche e un insieme di movimenti sociali. È la vita stessa della filosofia. È comprensibile che alcuni piangano sul vuoto attuale e si augurino, nell’ordine delle idee, un po’ di monarchia. Ma quelli che, almeno una volta nella loro vita, hanno provato un tono nuovo, una nuova maniera di guardare, un altro modo di fare, quelli, credo, non sentiranno mai il bisogno di lamentarsi perché il mondo è errore, la storia satura di inesistenze; è tempo che gli altri tacciano, in modo da non sentire più il suono della loro riprovazione…

Stiamo scomparendo – Viaggio nell’Italia in minoranza

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Basilicata, Ginestra, strada per Maschito – ph. Emanuela Colombo

Roland Barthes raccontava di una tribù aborigena che, ogni volta in cui moriva un suo membro, eliminava una parola dal proprio vocabolario, in segno di lutto. L’aneddoto, letto in un manuale di geografia, gli piaceva perché, dal suo punto di vista, una simile tradizione equivaleva a «mettere sullo stesso piano il linguaggio e la vita, affermare che gli uomini detengono il potere sulla lingua, che le danno degli ordini, piuttosto che riceverne».
Mettere sullo stesso pieno il linguaggio e la vita, ricordare che «ogni parola è una persona», scrive Valerio Millefoglie nel primo dei reportage contenuti in “Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”, dedicati alle lingue minoritarie che si parlano sul territorio italiano e che ancora contengono dei mondi. Dal walser all’occitano, dal tabarchino al grico, cominciando dall’arbëreshe: dei gusci-mondo linguistico-culturali, le lingue come trame indissolubilmente legate all’ordito di una comunità, al suo vissuto storico, alla sua esperienza.
Questo libro, incisivo sin dal progetto grafico di copertina, è il primo volume pubblicato da CTRL magazine; le narrazioni si accompagnano a una serie fotografica firmata da Emanuela Colombo, un contrappunto visivo mai didascalico, mai ammiccante, sempre poetico e profondamente onesto.
Propongo qui di seguito una prima parte del racconto/reportage di Valerio Millefoglie, ringraziando l’editore. [ornella tajani]

di Valerio Millefoglie

Se leggi non finisci più, Arbëreshe

Il mio viaggio abbecedario comincia dalla lettera di bukë, pane in lingua arbëreshe. A farmela scoprire è Arjana Bechere quando le chiedo qual è la parola della sua lingua che salverebbe dall’estinzione. Siamo in piedi, fuori dall’auto, in procinto di partire da Matera alla volta di San Paolo Albanese, il primo dei cinque comuni di origini arbëreshë della Basilicata che visiterò in questa ricerca di un dizionario a me oscuro. Ogni parola è una persona. Arjana descrive le pieghe delle mani di sua nonna e quelle del pane che prendeva forma, come se la pelle imprimesse i solchi degli anni all’acqua e alla farina, alla crosta e alla mollìca, in una casa di legno attraversata da geografie di tappeti, in un paesino ai confini del Montenegro. Così in una sola parola Arjana salva il cibo, il ricordo e un luogo che ha abbandonato all’età di undici anni per essere affidata a una famiglia italiana. Sul risvolto della giacca ha una spilla con sopra scritto Rete degli Imprenditori della Diaspora Albanese in Italia. «Avremo modo di parlare anche di questo», mi dice. Mai come in questo viaggio mi renderò invece conto che non c’è mai tempo per dire tutto. La mia agenda 2018, in pochi giorni, si riempie fino a dicembre non di impegni ma di termini sconosciuti. A volte vanno fuori dai bordi della pagina e allora cerco di depositarli nella memoria. «Questa è una lingua miracolo», mi dirà Donato Mazzeo, una delle tante persone che incontrerò, «Ha avuto la fortuna di avere un popolo combattente che senza libri, senza scuole, perché è sempre stata una lingua tramandata oralmente, l’ha tenuta in vita per secoli». Non la pagina scritta quindi, ma appunto la memoria. Non l’inchiostro ma il sangue. «Gjaku ynëi shprishur», il nostro sangue sparso. «È un modo di dire che indica come il nostro popolo, che ha lasciato la sua terra nel 1500 per non sottostare all’impero ottomano, sia ora ovunque», mi dice Rosangela Palmieri, responsabile del museo comunale della cultura arbëreshë di San Paolo Albanese. Per spiegarmelo meglio mi racconta di un 23 dicembre di molti anni fa, quando si ritrovò in un treno colmo di gente, non trovava posto a sedere e fu accolta in un vagone da alcuni studenti di cui riconobbe subito l’origine, «Parlavano in italiano fra l’altro, ma dal tono avvertivo una provenienza comune», ricorda. E mentre ci dirigiamo verso il museo ho l’impressione che il paese tutto sia un museo. Case in pietra, pietra che cade, travi in legno che sostengono architetture creando croci nel paesaggio, arcate del 1800, una piccola area giochi con due altalene, proprio quante i bambini residenti qui. La vecchia scuola diventerà una casa di riposo. Nessuno in piedi sui banchi, tutti stesi sul letto, il futuro è delle lenzuola e delle garze. Su un edificio leggo la scritta: “Benedetti coloro che riescono a dare ai propri figli ali e radici”. Il proprietario, scopro, non abita qui e non ha avuto figli. Un gatto ci segue, a volte ci precede, per animare al nostro arrivo le strade altrimenti silenziose. «Qui per quanti siamo rimasti o facciamo pace o facciamo pace. Non è che hai alternative. Già ci siamo divisi abbastanza», dice Annibale Formica, 72 anni, ex sindaco di San Paolo Albanese e fondatore del museo arbëreshë nel 1984. A lui, ad Arjana e a Rosangela chiedo come facciano ad avvertire la mancanza di qualcosa che in realtà non hanno mai vissuto. «Si tratta di un affetto remoto» risponde Formica, «Qualcosa che fa parte del tuo DNA e che ti crea una voglia, una nostalgia, un senso di appartenenza». Rosangela aggiunge: «Una volta a Bari c’erano due albanesi che camminavano davanti a me. Ho alzato il passo non perché mi interessasse sapere cosa si dicessero ma per sapere come lo dicevano, per sentire quel suono melodioso che ha qualcosa di me». L’arbëreshe infatti è una lingua arcaica, sopravvissuta anche all’albanese stesso. Su una parete del museo continuo la conoscenza della lettera di questo vocabolario immaginario, la di Bukura More, una canzone della tradizione popolare. «Le madri sollevavano i neonati sulle braccia per mostrargli dalle montagne lo Ionio che non avrebbero mai visto da vicino», mi spiegano, «Poi gli cantavano questa canzone». Mi faccio tradurre i primi versi, nel freddo di una sala in cui i visitatori, come la lingua, sono da rievocare: “Da che ti ho lasciata non ti ho più rivista, lì ho il mio signor padre, la mia signora madre, i miei fratelli. Tutti coperti, tutti sottoterra”.

«O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё) Mёnigjёtёpe, Atje kam unёzotin-tatё, Atje kam unёmёmёn time, Atje kam u tim vёlla, O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё)/ Mёnigjёtё».Me la canta Quirino Valvano, 54 anni, nella sua casa sulla riva del fiume Sarmento, a pochi metri dall’ingresso di San Costantino Albanese. A portarmi qui, a farmi intraprendere un sentiero di campagna dove le ruote dell’auto affondano nel fango causato dalle piogge dei giorni precedenti, è stata una voce, quella di Piero Abitante, che ho conosciuto solo telefonicamente perché da anni vive a Matera. Gli ho chiesto cosa gli mancasse del suo paese, «Tutto, è talmente piccolo che mi manca tutto». Gli ho chiesto allora di pensare a una persona per lui importante e mi ha raccontato di un costruttore di zampogne e di strumenti tipici come la ciaramella e la surdulina. «Quando eravamo più giovani io e i miei amici riscoprimmo le canzoni della nostra tradizione popolare e Quirino ci costruì le zampogne con cui suonammo in giro per il paese». L’acqua che scorre e il fruscio degli alberi sono il linguaggio che circonda la casa e il laboratorio di Quirino. «Nelle estati da adolescente», mi dice lui, «Venivamo fin qui dal paese a giocare sotto il ponte. Facevamo le capanne, i covi, avevamo le nostre armi, eravamo gli indiani. E adesso mi ritrovo ad abitare proprio qui. Questo appezzamento di terra era stato dato in concessione a mio nonno negli anni Cinquanta, quando ci giocavo io la casa c’era già ma all’epoca non conoscevo proprietà e confini, conoscevo soltanto il fiume». Come in un dizionario, dove le lettere mettono in fila parole di significato simile che poi da questo si allontanano per diventare e raccontare altro, Quirino mi indica il nome di un artigiano del posto. E il suo nome è il nome di un animale.

All’emporio acquisto una bottiglia di vino Aglianico e mi presento alla porta della tana del lupo. Proprio così c’è scritto: “La Tana del Lupo”. Su un’insegna c’è inciso: “Chi mi viene a trovare porti da bere o da mangiare”. Quando entro, Mario, il vero nome del lupo, sta lavorando l’argilla per darle la forma della testa di un demonio. Al muro c’è appesa la maschera di un lupo intagliata nel legno che gli calza perfettamente. Se dovesse salvare una sola parola di arbëreshsalverebbe libertà, anche se non sa esattamente come si scrive. «La mia infanzia qui è stata slegata, speciale, libera». Da adulto è emigrato in Francia, a Lione. «Ho messo su famiglia, ho fatto qualsiasi lavoro: scaricavo camion, lavoravo nella logistica, nei grandi depositi, facevo lo scalpellino in un’impresa. Finita la mia storia d’amore è finita anche la mia storia con il lavoro. Qualsiasi casa non mi piaceva, non avevo radici. Ho aspettato che mio figlio compisse 18 anni e lo scorso agosto, dopo ventidue anni, sono tornato qui». Quella che era la casa di famiglia, è tornata a essere la sua tana.

Seduto nella sala ristorante della locanda Tri Kartuche ho l’impressione di stare a bordo di una barca che salpa non per mari ma per montagne. Il camino è acceso. Dalle grandi vetrate si vede la riva degli alberi. Qualcuno mi racconta del giorno in cui è nato: il padre benda la madre, le mette davanti il calendario sul mese corrente e le dice di indicare un punto; il santo del giorno su cui finisce il dito materno diventa il suo nome.

«Non c’è niente di più giapponese dell’arbëreshe», mi dice un uomo al bancone. «Adesso vado che ho da lavorare per la NASA. Per lavorare alla NASA devi avere i documenti di Potenza». Gli chiedo che tipo di lavoro svolge per la NASA. «Tu fai domande troppo concrete», mi dice. «Io sono qui per fare le domande», gli dico. «Eh, e io faccio le risposte», conclude. Poi esce e quando dopo qualche minuto rientra dice «Stavo ragionando ora con la telecamera che c’era in piazza». In piazza una ragazza di 29 anni mi spiega che questa è la lingua dei nonni e che lei non la sa parlare bene. Un suo amico di 31 anni mi dice che è la lingua delle bestemmie, la usa ogni giorno al lavoro. Qualcun altro dice che è la lingua segreta con la quale ci si parla di nascosto quando ci sono i forestieri, come me. Trascorro la notte in una camera della locanda Tri Kartuce pensando a quello che mi hanno detto altri abitanti. «Dormirai nella casa accanto a quella dove si trova l’ultimo murale realizzato da Carlo Levi».
[…]

Do you remember Praga? Jan Němec

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L’invasione di Praga, un regista coraggioso e la staffetta italiana

21.08.1968 / 21.08.2018

Nota di Alessandro De Vito

Non desta grande sorpresa che il cinquantesimo anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che fece schiantare contro il muso dei carrarmati la Primavera di Praga, non sia stato ricordato quasi per nulla sulla stampa italiana, a differenza di molti altri paesi europei. Probabilmente il rumore di fondo del chiacchiericcio social e la politica a colpi di tweet a torso nudo fa sembrare remoto anche un evento di soli sei mesi fa (e questo “attualismo” di brevissimo respiro è forse un problema serissimo del nostro tempo).

Allo stesso tempo, in Repubblica Ceca infuriano le polemiche per gli atteggiamenti “filorussi” del vecchio presidente socialdemocratico (postcomunista) Zeman, che ha glissato sulla ricorrenza, e negli ultimi mesi ha consentito il rientro al governo per la prima volta dopo l’89 di un partito dichiaratamente comunista.

Il Novecento non è sepolto e la Storia non è affatto finita, come teorizzava qualcuno dopo l’89. E anche i fatti di Praga del ’68, dall’esperimento dubčekiano del “Socialismo dal volto umano” alla sua repressione militare da parte dei “popoli fratelli”, solo apparentemente si possono derubricare a evento secondario di un secolo definitivamente chiuso, di cui a stento le nuove generazioni potranno capire la grammatica delle idee e delle passioni pubbliche.

E se allora fosse andata diversamente, se la Primavera avesse vinto e avesse contagiato tutto il “campo socialista”? Come sarebbe cambiata la storia dell’Europa, e della Sinistra, fino al presente che viviamo, con un ’89 anticipato di vent’anni?

A 50 anni da allora, a quasi 30 dalla caduta del Muro di Berlino, e nel pieno di una situazione socio-politica instabile che spesso fa rivivere i fantasmi del passato, fa un certo effetto il racconto di quella giornata, da testimone e protagonista, dell’estroso regista ceco Jan Němec. Fu l’unico a riuscire a girare immagini dell’invasione, e riuscì rocambolescamente a portarle in occidente il giorno stesso, a Vienna, con l’aiuto di un italiano e della sua bella fidanzata ceca. Perché la passione totale per l’arte può essere unita a quella per la libertà, e in fondo per le donne, per la vita, con un mettersi in gioco (e in pericolo) di persona che spesso oggi manca.

Per cosa, e come, lottiamo, se lottiamo?

La staffetta italiana

da Volevo uccidere J.-L. Godard

di

Jan Němec

(traduzione dal ceco di Alessandro De Vito)

Il 21 agosto 1968, dalla notte all’alba, e fino a giorno, ha sorpreso ciascuno di noi in modo diverso. Il folklore letterario riporta che un amico bussò alla porta del celebre scrittore Milan K. in quel giorno fatale, urlando: « Milan, perdio, alzati, svegliati! », e lo scrittore di fama mondiale nonché erotomane gridò dal letto, dove non era solo: « Che cazzo ti viene in mente di svegliarmi così presto? ». « Milan, non fare lo stupido, – continuò l’amico, disperato – alzati, scappa! Le strade sono piene di carrarmati russi! » A queste parole Milan, sollevato, rispose con allegria dall’interno della sua garçonnière: « Ah, allora tutto a posto, va tutto bene. Pensavo fosse mia moglie… ».

Questo almeno è quanto riportano i pettegolezzi dei bassifondi letterari.

Stendhal, e dopo di lui Mario Puzo nel romanzo Il padrino, hanno detto che ogni buona storia comincia con un delitto. Io ci vedo, invece, un nesso diverso: la donna è stata, è e sarà sempre sullo sfondo della maggior parte dei momenti topici della storia. Eva, per esempio. È lei che ha sedotto il serpente, la storiella della mela è un’idiozia. Secondo me Adamo si è messo d’accordo con il Signore per gelosia, non poteva tollerare la concorrenza, il gelosone, e da allora tutti ci troviamo a strisciare nella polvere terrena. Oppure prendiamo Leoš Janaček: andò così a lungo a passeggio per parchi con l’oggetto del suo desiderio sentimentale e sensuale, finché non si prese un raffreddore e morì, senza poter finire di comporre la parte seconda della Sinfonietta.

Ma la vera eroina della storia è Jana, una ragazza molto cool. È un’eroina, perché ha trasformato in eroe il suo amante e successivamente marito, un alto italiano dai capelli neri di nome Enrico. La ammiravamo tutti, Jana, e tutti eravamo innamorati di lei. In confronto a lei, Brigitte Bardot era uno straccio di donna… La stessa statura, labbra sensuali e un viso meraviglioso, ma in più un’intelligenza e uno spirito fuori dal comune. L’amante di Jana, e suo futuro marito, giocò il ruolo chiave di “ staffetta italiana ”, grazie alla quale la Cecoslovacchia dopo il 21 agosto 1968 non fu annientata in un lampo. Degli italiani si dice che sono belli, maschi, amanti del vino e delle donne, e da un altro punto di vista su di loro domina il pregiudizio che non siano per nulla eroici, anzi, un po’ vigliacchi.

Il nostro eroe, Enrico, era un collaboratore di Petrarca, un funzionario all’Ambasciata italiana a Praga.

Il 21 agosto 1968, verso le tre del mattino, il mio assistente Petr mi svegliò, annunciandomi seccamente che i carrarmati sovietici si stavano dirigendo dall’aeroporto di Ruzyně verso il centro di Praga. Immediatamente misi in moto la mia cabriolet Fiat 850, carrozzeria Bertone, strappai la nostra bandiera dalla recinzione e mi avviai incontro agli intrusi. Si stavano avvicinando alla cosiddetta piazza Rotonda, a Dejvice.

Per un momento la mia piccola Fiat tagliò la strada ai tank, poi realizzai che di lei, e di me al suo interno, nel giro di poco non sarebbe restato che un po’ di lamiera e una macchia a imbrattare il selciato. Fatta eccezione per la bandiera cecoslovacca. Feci inversione, e per tutte le strade che percorrevo urlavo: « Sveglia gente! Son qua i russi! ».

« Stupido ubriacone, va’ a dormire! » rispondevano i cittadini svegliati. Nessuno mi credeva, e così Praga, intorno alle dieci del mattino del 21 agosto, venne occupata in modo definitivo.

Davanti al palazzo della radio, dove era cominciata l’insurrezione contro i nazisti nel maggio ’45, si era radunata una folla sterminata. La gente lo difendeva con il proprio corpo dai tank e dai soldati sovietici, che si diceva sparassero solo alle finestre, ma intanto uccisero dei civili disarmati – una scarica colpì direttamente in faccia un assistente cameraman. Nessuno di noi, davanti alla radio, aveva armi.

Molto velocemente riuscii a mettere insieme una piccola troupe cinematografica, per filmare l’eroico glorioso giorno della collaborazione internazionale tra cinque stati del Patto di Varsavia. L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per “ sparare ” e “ girare ”: shoot!

Nella mia borsa avevo 23 minuti su negativo del fraterno aiuto sovietico. Alle due del pomeriggio del 21 agosto 1968 si pose la maledetta domanda del buon Jan Neruda: dove portarlo[1]? Non potevo certo supporre che il maresciallo Grečko e i suoi invasori, per quel materiale, mi avrebbero insignito del premio Stalin. Quella testimonianza poteva avere solo un senso: portare l’informazione nella parte del globo ancora libera.

Ma come fare a portare fuori il negativo?

Donna, sopra ogni cosa bella e intelligente, sempre sia lodato il tuo nome, Mamma mia, Gelsomina morta. Mi ricordai di Jana e del suo prestante Enrico. Telefonarono a Petrarca, impiegato dell’Ambasciata italiana, che gli diede un’informazione importantissima: la frontiera, per uscire, fino a quel momento era ancora aperta. Per gli stranieri. Diversi italiani erano già passati.

La mia piccola cabriolet Fiat bianca italiana, carrozzeria Bertone, mi catapultò immediatamente nel nido d’amore di Jana ed Enrico. Il negativo, con quei 23 minuti di invasione sovietica, era in una borsa sportiva sporca. Enrico, innamorato pazzo, ma anche addestrato alla diplomazia – suo padre era stato ambasciatore italiano a Praga, motivo per cui era riuscito a far cadere nelle sue grinfie l’adorata Jana, sottraendola a noi tutti – quell’Enrico sul momento si rifiutò di portare fuori dal Paese il negativo simulando una missione diplomatica. Jana prese a urlargli contro: « Tu, vigliacco! A te quei maledetti russi non faranno niente! ». Enrico non si lasciò smuovere dal temperamento slavo, né si lasciò commuovere dal torto che ci era stato fatto. Forse ricordava l’insegnamento della storia: quando i soldati italiani avevano massacrato gli Abissini, il mondo non aveva fatto più di uno sbadiglio. « Non pretendete da me azioni eroiche, quando si usa la forza e durante un’invasione militare sono proprio i diplomatici a destare sospetti. Non voglio morire, sconosciuto eroe italiano, schiacciato da un carrarmato sovietico in una terra di cui, a parte Jana, non mi importa nulla ». Povero piccolo, mi sono detto. Un tipico italiano. Molto rumore e smanie dietro le gonne delle donne, e quando il gioco si fa duro, la tremarella. Gli ricordai subito il popolare libro per ragazzi Cuore, di Edmondo De Amicis. Storie eroiche e patriottiche di giovani ragazzi italiani che hanno sacrificato la vita per la loro patria. Mi misi quasi a piangere, raccontando una storia dopo l’altra, mentre continuavo a sbirciare l’orologio calcolando il tempo necessario per raggiungere in auto la frontiera tra Cecoslovacchia e Austria, dove era ancora consentito il libero transito per gli Italiani.

« Sei un uomo, Enrico, bello, alto, seducente e anche coraggioso. Ricordi? Hai recitato brillantemente un episodio nel mio film La collana della malinconia, con una coppa di champagne in mano mentre Marta Kubišová canta quella canzone straziante, Una lampada solo per te. Allora, mi presti il tuo passaporto, così posso uscire e consegnare al mondo il film? » gli gridai.

Jana lo abbracciò, e pronunciò le parole della madre nell’omonima commedia di Čapek: « Devi, caro! ».

In quel momento per noi luttuoso saltò fuori lo spirito da operetta di Enrico. Cominciò a macchinare. Al passaporto non volle rinunciare, ma come documento italiano mi propose il suo libretto militare. Lo accettai con grande piacere. La fotografia dell’alto e bell’italiano corrispondeva meravigliosamente alla mia faccia, pallida come una ricotta. L’abbraccio appassionato di Jana aveva infervorato Enrico; propose che se Jana fosse venuta con lui in quella missione mortale, a me avrebbe fatto guidare la sua auto, con targa di Roma, e lui si sarebbe seduto al volante della mia piccola Fiat. Insieme avremmo provato ad aprirci una strada tra le colonne sovietiche fino alla frontiera austriaca. Dovevamo spacciarci per tre italiani: ci avevano rubato la macchina compresi i due passaporti, e con quell’auto presa in prestito volevamo solo tornare a casa in Italia, non ci interessava altro.

La borsa col negativo era buttata nel bagagliaio della loro auto, sommersa di cianfrusaglie. E così ci mettemmo in marcia. Vorrei augurare questa esperienza a tutti gli amanti dei libri e dei film di fantascienza. Immaginate l’invasione di centinaia di migliaia di cavallette. Una terra presa d’assalto da milioni di api oscene. Strade, stradine, incroci, svincoli, paesini e cittadine traboccavano di maledetti russi. Erano ovunque.

Recitare la parte degli italiani impauriti funzionò a meraviglia. In principio al posto di guardia i sovietici non vollero lasciarci andare, e cacciarono le nostre auto in un campo. Dapprima Jana, italiana isterica, le tette che così per caso quasi uscivano dalla camicetta, si mise a piangere, chiamando la sua mamma italiana lontana. Enrico gridava lamentoso in corretto italiano, lingua di cui io conosco solo i titoli e alcune frasi dei più famosi film, che mi si sono fissati nella memoria. Ve la immaginate la scena? Nella terra di nessuno – nowhere – nei campi accanto alla strada per la frontiera austriaca, tra migliaia di calmucchi sovietici, ci sono due Fiat abbandonate e tre italiani impauriti che vagano per i prati piangendo. Piagnucolano, e per carità vogliono solo pregare: Mamma mia, Madonna mia, Roma città aperta, Gelsomina è morta, La dolce vita, Federico Fellini, La notte, Arrivato Zampanò, La strada

Gli ufficiali sovietici avevano l’ordine rigoroso di non sparare agli stranieri, e di impedire ai loro soldati di violentare le donne cecoslovacche. E così la nostra interpretazione a braccio riuscì a raggiungere il suo scopo. Sul finire del giorno giungemmo al confine.

I carrarmati erano fermi nel crepuscolo, le formalità di frontiera le svolgevano le guardie cecoslovacche. Tutti costoro, un giorno, meriterebbero un riconoscimento. In America esiste un ordine che si chiama Purple Heart, e viene assegnato per il coraggio dimostrato nel salvare il prossimo sotto il fuoco nemico. In quell’occasione i russi non sparavano, è vero, ma avrebbero potuto farlo in ogni momento, e in quella situazione i nostri doganieri, ufficiali e soldati di frontiera permisero a molti cittadini di uscire dal Paese, con documenti di ogni genere. La sera del 21 agosto 1968, giorno funesto, li lasciarono uscire da un inferno che sarebbe durato molti anni.

Davanti ai nostri, non fu necessario che noi tre recitassimo la parte dei falsi italiani. Entrambe le auto passarono liberamente, e mentre diventava completamente scuro e guardavo il profilo degli scellerati tank sovietici, salutai con la mano una delle guardie di frontiera cecoslovacche, che un tempo, durante la Primavera praghese del ’68, aveva creduto come noi tutti a quell’assurdità del socialismo dal volto umano. O forse in qualcos’altro, quello che avrebbe potuto essere la Primavera di Praga anche sotto le torrette dei carrarmati o sotto il tiro delle mitragliatrici. Lascia andare la mia gente: Let my people go.

Quella notte stessa il negativo del film fu sviluppato alla televisione austriaca, montato, commentato e firmato da me, e dalla mattina del 22 agosto cominciò a essere trasmesso ovunque e a circolare incessantemente rimbalzando da un satellite all’altro. La propaganda sovietica aveva già pronti filmati in innumerevoli versioni, cinematografiche e televisive. La più ridicola era stata fatta con riprese del maggio ’45, quando i carrarmati sovietici erano stati accolti con i fiori. Una seconda, molto più pericolosa, mostrava una messinscena di assalti armati contro l’esercito sovietico.

La verità l’ha potuta vedere tutto il mondo sugli schermi televisivi il 22 agosto: la prepotenza dei sovietici, la protesta non violenta di milioni di cittadini sgomenti, gli spari sui civili. Poteva finire in un massacro, chi può dirlo?, come in Ungheria nel ’56. Allora la televisione non aveva ancora quella forza. È possibile che dopo la diffusione del filmato i sovietici abbiano dovuto cambiare un po’ i loro piani, la loro strategia. Chissà se questo è un ragionamento sensato o no. Ma se lo è, tutto parte dal fatto che nella nostra bella terra che abbonda di latte e miele nasceranno sempre le più belle ragazze del mondo, che nelle circostanze più critiche riescono a convincere quel tal loro ignavo italiano a rischiare la vita, per far sì che la verità impressa su pellicola possa venire alla luce, impedendo ai barbari ulteriori e peggiori massacri.

 

 

[1]                Letteralmente “ Dove con lui? ”, dal titolo di un celebre feuilleton dello scrittore Jan Neruda, Kam s ním?, uscito a puntate negli anni Ottanta del xix secolo, e portato sul grande schermo nel 1922.

Passeggiando nelle strade della testa

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di Mariasole Ariot

Arriva il vuoto del mattino, dove si scioglie il tempo e si dilatano gli oggetti : una sfera al centro del volto, che smussa angoli e scompone, che ride allo specchio nei lobi oscuri, quando arrivano madri e padri a bussare alla porta rossa del risveglio – e quante mani addosso, quanta presa, quanto rumore.

Passeggiando nelle strade della testa fuggono i ricordi del futuro, si approssimano al passato, si legano gancio a gancio per restare, il dire ancora quando suona, il dire basta quando è carne, il dire no del non dire quando è troppo, passeggiando nelle strade del futuro, dove il grido di cicale si frantuma nello spazio e sbatte sulle tempie un nuovo vuoto, dolciastro di menzogne ripetute, di canti con la bocca spalancata, di giochi maledetti e ripetuti, quando accade il tempo, quanto tempo cade.

“Il modo in cui noi morti ci scriviamo”. Su Jack Spicer

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di Andrea Raos

Non doveva essere male fare il poeta a San Francisco tra la fine degli anni 50 e i primi 60.

A farmelo pensare è Jack Spicer (1925-1965) perché è uscita la prima traduzione italiana integrale del suo primo libro, del 1957: After Lorca. Con un’introduzione di Federico García Lorca, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini, traduzione e note di Andrea Franzoni, postfazione di Peter Gizzi, edizioni Gwynplaine e NieWiem.

Una programmata disarmonia: il Geco di Gualberto Alvino

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di Luigi Matt

 

Di romanzi sul disagio, oggi, ne escono sin troppi: non c’è dubbio che il tema del malessere esistenziale o psicologico goda di ottima fortuna; ma è anche innegabile che molto spesso viene trattato in modo banalizzante, enfatico o lacrimoso (o tutte queste cose insieme). Ogni oggetto di rappresentazione, naturalmente, si può prestare ad essere reso in molti modi diversi: di fronte ad un libro piuttosto che chiedersi di cosa parla, come quasi sempre si fa anche da parte dei critici, bisognerebbe guardare a come ne parla.

            Geco (Fermenti 2017), il secondo romanzo di Gualberto Alvino, è un ottimo esempio di come grazie a convincenti scelte stilistiche sia possibile dar vita in un modo non convenzionale e ricco di potenzialità conoscitive ad una narrazione incentrata su un personaggio che in sé rischierebbe di risultare un concentrato di stereotipi da fiction televisiva. La protagonista è infatti una donna oggetto sin dall’infanzia di abusi, anoressica, incline a comportamenti autolesionistici e all’accettazione di un rapporto con un uomo paranoico e violento.

La riuscita del romanzo è assicurata dalla sapienza con la quale è costruita la voce narrante, la quale è il risultato di una pluralità di elementi, in linea con la dissociazione psichica della protagonista. Tutto nel romanzo è dominato dalla contraddizione: la donna che racconta in prima persona è perennemente in balia di spinte opposte: la riflessività raziocinante e l’urgenza di pulsioni animalesche, la raffinata cultura e l’emergere di modi plebei. Allo stesso modo, il discorso è tenuto in precario equilibrio tra la pianificazione dello scritto e la spontaneità espressiva (i vari paragrafi altro non sono che lettere ad un’amica d’infanzia, ma si direbbero buttate giù di impulso e forse non rilette).

Se il tassonomista della narrativa italiana contemporanea può senz’altro inserire Geco nel filone del romanzo della marginalità (quello che ha come padri putativi il Sanguineti di Capriccio italiano, il Lucentini di Notizie dagli scavi e il Celati di Comiche), dovrà però avere l’avvertenza di registrarvi una diversa resa stilistica, a cui è sostanzialmente estranea la riproduzione del parlato.

D’altro canto, chi conosce l’intensissima attività critica di Alvino potrebbe essere portato ad attendersi dalla sua scrittura narrativa punte sperimentali o sontuosità linguistiche debitrici dei suoi scrittori d’elezione, come ad esempio i siciliani Pizzuto, D’Arrigo, Bufalino e Consolo. Niente di tutto questo: dal punto di vista lessicale, ad esclusione di un paio di regionalismi utili ad evocare la romanità della protagonista (sise ‘seni’ e tigna ‘testardaggine’) non si hanno elementi che evadano dall’italiano medio.

L’autore, in un’epigrafe, sembra voler offrire una chiave di lettura linguistica: «Un tuffo nello ‘stile semplice’. Con qualche impennata». Ma è sempre bene diffidare da quello che gli scrittori dicono delle proprie opere; Alvino attua qui un consapevole depistaggio: infatti alla medietà lessicale si coniuga una costruzione del discorso tutt’altro che semplice. Le spinte centrifughe evidenti nella mente della protagonista hanno pesanti ricadute nel procedere del discorso, che anche quando è costituito da singole frasi prive di qualsiasi scarto dalla norma trova una sua irregolarità negli accostamenti bruschi e disarmonici. Così, se la sintassi può ancora essere classificata come media (ma meno del lessico, per la presenza non sporadica di accumuli paratattici che rendono la concitazione di cui è preda la donna mentre scrive), è al livello superiore, quello della testualità, che le cose si complicano.

Nel romanzo viene messa in scena un’esistenza che si direbbe consacrata alla passività: molto più che vivere, la protagonista guarda la propria vita scorrere, senza possibilità di indirizzarla, e strologa su sé stessa e sugli altri. La sua quotidianità in effetti è regolata, tra le altre cose, dall’abitudine a spiare le esistenze delle persone a tiro di sguardo immaginandone lati oscuri e nascosti, riflesso di un’attenzione costantemente sovreccitata per ogni aspetto del mondo — si direbbe, spesso, senza alcuna gerarchia —, e del desiderio irrealizzabile di racchiudere tutto in un universo linguistico. A ciò si lega, però, la consapevolezza che il linguaggio non è mai neutro, e che ogni discorso, anche se animato dal desiderio di dar vita ad un nudo referto, genera da sé entità astratte e concrete: «Gesti, soliloqui, stracci di pensieri, associazioni. La parola dell’Altro, il suo feroce ronzio. Il lago di colla in cui siamo invischiati. Frasi mozze, interpunzione ai minimi termini: basta una virgola a staccare mondi diversi» (p. 55).

Da quest’ultimo aspetto discende anche il rigetto di ogni pretesa di oggettività, che unisce autore e voce narrante, e che viene richiesta anche al lettore che voglia comprendere ciò che gli scorre davanti agli occhi: per tutto il corso della narrazione si è incerti se ritenere le vicende raccontate veritiere o frutto dell’immaginazione patologica dalla protagonista. E ciò sin dalla prima pagina, ben prima di incontrare quest’ammissione rivelatrice: «ho l’impressione di non distinguere memoria e fantasia, cose e desideri» (p. 112).

Da tutti i punti di vista in Geco Alvino dimostra come — per tornare alle considerazioni da cui si era partiti — sia ben possibile dar vita a romanzi che pur non rifiutando del tutto le istanze della narratività, e confrontandosi con temi molto attuali, non rinunciano a sfruttare a fondo le risorse della letterarietà. Non è affatto necessario scegliere tra antiromanzo e feuilleton: le opzioni sono molte di più, anzi sono virtualmente illimitate. Peccato che troppo spesso gli scrittori e gli editori mostrino di non avvedersene.