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L’immagine contro il soggetto. Due graphic novel contemporanee.

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Daniele Barbieri

È difficile pensare a due graphic novel più differenti tra loro di Atto di Dio, di Giacomo Nanni (Rizzoli Lizard), e Hasib e la Regina dei serpenti, di David B. (Bao), entrambe uscite negli scorsi mesi. Eppure, sotto a questa evidente diversità, di temi come di modi, si nasconde un progetto comune, che in ambedue i casi sottolinea la radicale diversità tra il raccontare a fumetti e il classico raccontare a parole, come si fa nel romanzo, e anche tra il raccontare a fumetti e il raccontare audiovisivo, come si fa nel film.

Atto di Dio è una successione di eventi che potremmo definire quasi-non-storie, raccontate da voci narranti che non sono mai umane, e quindi impossibili: il capriolo smarrito, la montagna, la carabina, il terremoto, il piccolo crostaceo. Le immagini sono sgranate, colorate con un retino troppo grosso e spesso evidenti rielaborazioni da originali fotografici: riferimento sufficientemente evidente a sguardi che non appartengono a nessuno, oggetti pubblici, visioni da quotidiano o da rotocalco – ulteriormente allontanate da una qualsiasi soggettività dall’elaborazione straniante cui sono state sottoposte. L’evento principale a cui si lega il titolo della storia, cioè il terremoto nelle Marche, e in particolare sui Monti Sibillini, finisce per annegare in questa naturalità straniata dal contrasto tra una non-soggettività naturale e una falsa soggettività massmediatica.

Hasib è invece la narrazione a fumetti di un estratto da Le mille e una notte, in cui Sheherazade racconta, tra la notte quattrocentottantadue e la quattrocentonovantotto la miracolosa storia di Hasib, che incontra la Regina dei serpenti, la quale gli racconta la storia del re Buluquiyya, il quale, nel corso delle proprie avventure, sempre intrecciate con la vicenda della medesima Regina, incontra a sua volta il Principe Janshah, che si sta lasciando morire sulla tomba dell’amata, e racconterà pure lui la propria vicenda. Questa organizzazione narrativa a scatole cinesi è certamente parte del fascino della raccolta di fiabe arabe, intesa com’è a portare il lettore sempre più in là, sempre più addentro nel mondo favoloso del mito (come già capì bene a suo tempo Pier Paolo Pasolini, girando la propria celebre versione cinematografica). E la medesima immersione senza scampo viene riproposta qui dai disegni di David B., sospesi tra schematizzazione grafica e continua invenzione visiva, dove l’elemento narrativo si intreccia continuamente con una sorta di sontuosa decoratività, con riferimenti all’immaginario visivo di quella parte dell’Islam che non ha mai rinunciato alle figure, dall’Iran in poi procedendo verso Est.

 

 

Come nella tradizione, queste storie sono sempre un’implicita o esplicita lode del Profeta e di Dio; e questo certamente non scompare nel lavoro di David B. Eppure, certo non si tratta del lavoro di un credente, né musulmano né altro. Qui sembra piuttosto che il mito possa bastare a sé, costituendo una realtà alternativa in sé coerente; insomma, una favola, dovremmo dire. Eppure le favole portano in sé tipicamente una morale, e anche quelle delle Mille e una notte la portavano, spesso in maniera del tutto evidente. Ma qui quella morale pare essere diventata un motivo favoloso tra gli altri, un ulteriore richiamo al mondo da cui quella affabulazione proviene. Non si esce da Hasib con la sensazione di avere ricevuto una lezione morale, tanto poco quanto si esce da Atto di Dio con la medesima sensazione.

 

I due straniamenti sono certo antitetici. Giacomo Nanni raffredda e distanzia tutto, con un avvicendamento di eventi così minimale e poco connesso da quasi neutralizzare la sensazione di essere di fronte a una storia. David B. gioca invece a riscaldare visivamente il fantastico, a trascinarci in una dimensione in cui la storia evidentemente c’è; e tuttavia, alla fine, quello che tiene avvinto il lettore non è la prospettiva della conclusione delle vicende, bensì il semplice succedersi degli eventi, insieme con la loro visualizzazione. E Hasib diventa come una sorta di fantastico arazzo di Bayeux, dove però non si cantano le gesta di nessun eroe conquistatore, e le gesta hanno quasi valore di per sé, come autonomo favoloso evento e come autonoma favolosa rappresentazione visiva.

La dimensione visiva, disegnata, di questi testi, gioca un ruolo cruciale nella costruzione di questo effetto. In Atto di Dio, mentre la parola narrante mostra una (peraltro impossibile) soggettività, le immagini rimandano a un universo visivo massmediatico in cui la soggettività o manca o è quella falsa dei reportage televisivi. In Hasib, le immagini ricostruiscono, in uno stile complessivo che è immediatamente identificabile come quello del suo autore, un favoloso mondo orientale, privo per sua natura della soggettività di sguardo implicita in una prospettiva rinascimentale che non l’ha mai neppure sfiorato.

In tutti e due questi testi assistiamo insomma all’eclissi del soggetto. Non c’è il soggetto epico, che sta al centro dei nostri miti, e che ha caratterizzato il fumetto di avventura da quando esiste sino ad oggi. Ma non c’è nemmeno il soggetto psicologico, protagonista incontrastato del romanzo dalla fine del Settecento a oggi, e nuovo protagonista delle storie a fumetti in epoca di graphic novel. Gli io del testo verbale di Giacomo Nanni sono tutti impossibili; e le sue immagini sembrano comunque cancellare qualsiasi io. Ci sono invece dei soggetti agenti nella storia di David B., ma si perdono nell’arabesco dell’intreccio narrativo, mentre il disegno rende impossibile qualsiasi dinamica di tipo cinematografico basata sul punto di vista dell’inquadratura fotografica, inevitabile allusione (più o meno tematizzata, a seconda dei casi) a un occhio che guarda, e quindi a un soggetto osservatore.

L’io è insomma, evidentemente, qui, una costruzione testuale: il prodotto dell’intreccio di visione e racconto. E lo si può indebolire a volontà. Non lo si può fare scomparire, proprio come l’illusione della soggettività non può essere sottratta del tutto alle nostre coscienze. Ma se ne può mostrare la semitrasparenza, e quello che si intravede al di là, che sia angosciata favola del presente o trasognata favola del passato.

 

Nabokov in cattedra

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di Walter Nardon

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La nuova traduzione delle Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov (Adelphi, 2018) rimette nelle mani dei lettori un volume che in Italia mancava da troppo tempo e che nel suo genere, per felicità di intuizione e memorabilità di giudizio, ha pochi eguali. È uno dei libri che meglio possono spiegare a un lettore, intendo una persona che abbia già una qualche predisposizione per la lettura, per quale ragione si faccia letteratura e perché si senta ancora il bisogno di insegnarla; e lo fa naturalmente nel migliore dei modi, ossia senza parlare di tutto questo, lasciandolo intendere fra le righe di un discorso persuasivo.

Il Mussolini di Scurati

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di Roberto Antolini

L’uscita in settembre di “M il figlio del secolo” di Antonio Scurati (Bompiani, 839 p., € 24,00) è stato indubbiamente uno dei momenti significativi della stagione letteraria 2018. Per quello che Scurati ha tentato di fare con questo libro – coronato da un immediato successo di pubblico – intrecciando in modo nuovo Storia e Letteratura, come viene chiarito nella premessa: «Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte. Detto ciò, resta pur vero che la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non arbitraria però». Il progetto di Scurati, dunque, va oltre il programma del solito romanzo-storico, nel quale una vicenda di fiction viene inserita nel contesto di un’epoca storica ricostruita sullo sfondo in modo storiograficamente attendibile (almeno nelle intenzioni), e mescolando personaggi storici ad altri di fantasia. Scurati definisce diversamente il suo lavoro: “romanzo documentario”.
Non sono mancate le polemiche, arrivate fin alle bacchettate accademiche, piuttosto antipatiche, di Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Ma al di là di questo clamoroso quanto in fondo secondario incidente di percorso (che vedremo), il libro è stato anche molto apprezzato, curiosamente sia da destra – con Il Secolo d’Italia che lo ha definito con entusiasmo «un libro revisionista» – che da sinistra, dove ad apprezzare «per il clima che descrive» è stata Rossana Rossanda su Il Manifesto,  dicendo che «è illuminante l’immagine che egli trasmette dell’opinione italiana» del tempo, non mancando di notare come a questa efficacia non sia estranea l’impostazione tecnico-letteraria, basata su un «interessante ed acuto uso del montaggio fra le parole e i fatti». Vediamo come la cosa avviene.
Scurati costruisce il suo testo mettendo in sequenza oltre 120 capitoletti, di solito di poche pagine, ognuno diviso in due parti: una seconda di materiale documentario (articoli, memorie, documenti politico-amministrativi, discorsi parlamentari, lettere, e addirittura trascrizioni di telefonate a suo tempo intercettate), preceduta da una prima parte dedicata alla narrazione del personaggio citato poi nella documentazione, collocato in una data ed in un luogo precisi, al quale vengono appunto messe in bocca – come nota Rossanda – le parole stesse che escono dai documenti, in una ricostruzione narrativa fedele delle circostanze che dalla documentazione emergono, come in una specie di stampo linguistico-narrativo. L’arco cronologico della narrazione sono i 5 anni – 1919-1924 – che vanno dalla fondazione del primo Fascio di combattimento a Milano,  all’assassinio a Roma dell’on. Matteotti il 10 giugno del 1924, alla crisi di consenso che ne segue, fino alla sua rapida normalizzazione che rende evidente lo svuotamento ormai definitivo delle istituzioni democratiche, iniziando quella che viene chiamata l’epoca fascista. Il libro si legge quindi come sfogliando le pagine della cronaca di un quotidiano del tempo, affollato da un pugno di personaggi ricorrenti, in un intreccio di vicende che “fa” la storia del Paese. Anche se i veri “personaggi” – secondo me – sono due: Mussolini ovviamente, figlio del suo tempo, che sta non un passo avanti (come le avanguardie), ma un passo dietro le masse, pronto a prendere la direzione che esse indicano per cavalcarle, in un vuoto di idee e progetti che viene riempito dal puro esercizio del potere (inseguito e raggiunto), ma anche Matteotti, il suo alter-ego, il politico socialista che non si fa intimidire, denunciando fino all’ultimo la violenza che tutti avevano sotto gli occhi – e stava cambiando il paese – ma nessuno voleva vedere. Il tutto in una narrazione seccamente referente, in terza persona, con un ultimo brano però in cui Mussolini parla a se stesso in prima persona (diventa l’io narrante),  concludendo il libro con l’affermazione – che inquadra perfettamente la situazione – «Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io».
Nelle molte interviste a Scurati che si possono trovare in rete (per esempio qui), l’Autore spiega di essere stato attirato dalla dimensione romanzesca della scalata al potere di Mussolini, notando però contemporaneamente che nessun romanzo l’aveva ancora raccontata. Perché c’era dietro un tabù  ambientale, rimasto dalla guerra civile: bisognava fare preventivamente una dichiarazione di antifascismo. Ma la letteratura e l’arte non sopportano questo: non possono dare un giudizio preliminare, mettere un filtro ideologico. Così a lui è sembrato giunto il momento di “raccontare la storia ad altezza d’uomo”, evitando di farne una caricatura, un demone o un mito. Il giudizio sul personaggio e sull’epoca poi certo viene, ma viene dopo, alla fine e non all’inizio. Scurati dice che gli è sembrato  il paese fosse maturo per fare questo.
Insomma l’intreccio fra Storia e Letteratura è problematico, tecnicamente ed idealmente. La storiografia “accademica” (diciamo così, per intenderci), si ispira al metodo scientifico, quello delle scienze esatte (senza esserlo, in realtà). Con una grande attenzione -“oggettivizzante” – alle questioni tecniche e formali, cercando invece di eliminare quanto più possibile ogni residuato di soggettività, in primis l’emotività (semmai facendola diventare un’ulteriore disciplina: la storia dei sentimenti). Che invece è la sostanza della letteratura. Solo così si capisce la categoricità del confronto provocato da Galli della Loggia, nei suoi due interventi sul Corriere della Sera, rintracciando «nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, da settimane in cima alle classifiche delle vendite» errori che, secondo lui, «sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del 900». Ma allo stesso tempo anche la marginalità delle sue critiche, rispetto alla natura del romanzo.
Il professore denuncia una decina di errori storici nel testo. Alcuni dovuti a sviste, subito serenamente ammesse da Scurati, come l’errore sul mese della sconfitta di Caporetto nella Grande Guerra (spostata da ottobre a novembre). Altri, forse, non così scontati, ma frutto di diverse attitudini nei confronti di personaggi storici che entrano nella narrazione: come l’attributo di «politologo», affibbiato nel libro all’autore dei “Quaderni del carcere”, Antonio Gramsci (insieme ad una sfilza di altri: filosofo, giornalista, linguista, critico letterario e teatrale, animatore della rivista Ordine Nuovo … ecc. oltre che – dulcis in fundo – pensatore geniale); termine che certo allora non era in voga, ma che oggi non appare poi così bizzarro per il personaggio. Chi non avesse ancora acquistato il libro comunque può stare tranquillo: il volume è ora in libreria emendato, così come lo è nel formato elettronico. L’editore Bompiani infatti ha prontamente corretto gli errori riconosciuti da Scurati, facendo silenziosa ammenda della denuncia, contenuta nel primo intervento di Galli della Loggia, di una «devastante mancanza di editing nella maggior parte dell’editoria italiana». E quindi la polemica dovrebbe essere chiusa, ma non prima di notare la curiosa circostanza per la quale un illustre accademico si limita a fornire all’editore – presumo gratuitamente – una minuziosa attività di editing, lasciando al romanziere il compito di raccapezzarsi sul “senso” di un’epoca storica.
Scurati non usa il termine “senso”, è mio, lo uso qui perché a me pare il vero crinale proprio di un “romanzo documentario” come questo: proporre una riflessione sul senso di quella epoca devastata dalla prima guerra di sterminio di massa della storia, e durata fino alla ricostruzione, anche democratica, del Paese, dopo una seconda guerra. Una ricerca di senso che viene bene in luce nel brano che riporto per concludere, dedicato alla manifestazione socialista arrivata in piazza Duomo a Milano il 15 aprile 1919, che dà l’occasione al primo fenomeno di squadrismo assassino: «”Eccoli! Eccoli! Gli Arditi tirano fuori i revolver. Per un attimo le due fazioni si fronteggiano ai due lati del cordone di carabinieri che hanno sbarrato lo sbocco di via dei Mercanti. In testa alla colonna socialista ci sono ancora una volta le donne con alto il ritratto di Lenin e la bandiera rossa. Cantano sfrenate, gioiose, i loro canti di liberazione. Invocano una vita migliore per i propri bambini. Credono ancora di essere venute a fare le loro parate, i loro minuetti di rivoluzione. Alla testa dell’altro corteo, molto meno numeroso, ci sono uomini che negli ultimi quattro anni hanno convissuto quotidianamente con l’uccisione. La sproporzione è grottesca. A scavare un abisso tra le due schiere entra un diverso rapporto con la morte» (p.37).
Nella scrittura di Scurati, così seccamente referente da conservare spesso esattamente lo stesso stile delle scritture amministrative da cui prende le mosse, si aprono al momento giusto degli squarci che allargano gli orizzonti, collegando quel momento – visto isolatamente nella documentazione amministrativa, come in una istantanea fotografica – ad altri che lo hanno determinato nella vita delle persone (e del Paese), forgiando destini che le porta ad essere quello che sono in quel preciso momento. Tessere questo filo di connessione di cause/effetti, magari invisibili nella istantanea fotografica, ma determinanti, significa appunto cercare il senso delle storie: quelle individuali delle persone e quella collettiva del Paese, che ne è la risulta.

 

la donna del baltico

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disegni e testi di Elena Tognoli

Hanno trovato una donna
nel Mar Baltico, era piena
di piccole uova.

I pescatori l’hanno raccolta
nelle acque fredde
a forma di
drago.

Il lettore di Dante

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di Alberto Cristofori

A partire dal 5 febbraio 2019, Alberto Cristofori legge la Divina Commedia alla libreria Tempo Ritrovato di corso Garibaldi, Milano. Conta di terminare nel settembre del 2021, in occasione del 700° anniversario della morte del poeta. Questo scritto sintetizza alcune delle ragioni del suo progetto.

“Il lettore di Dante” nasce in difesa della Divina Commedia. Ma perché mai, direte, la Divina Commedia dev’essere difesa? E da chi, di grazia?

Vi racconterò alcune cose che mi sono successe.

Quando ho fatto la terza media il latino esisteva ancora come materia facoltativa. Perché studiarlo? La grande argomentazione di chi lo evitava era: “non serve a niente”. La grande argomentazione di chi, come i miei genitori, invitava a studiarlo, era: “ti quadra la testa” (traduco per chi non frequenta l’idioletto di certa borghesia lombarda: ti insegna a pensare in maniera logica e rigorosa).

Capite che ho avuto i miei momenti difficili, in gioventù.

Molti anni dopo, ho fatto per un breve periodo il lavoratore dipendente. Frequentavo il sindacato. A un’assemblea, una volta, un rappresentante ha citato un mio vecchio amico ebreo: “Non di solo pane vive l’uomo!” E intendeva, poveretto, che si aveva diritto anche al companatico, cioè (traduco) a qualche aperitivo, qualche vestito firmato, qualche viaggetto. Applausi scroscianti. Era il 1988 o 89, avete presente? Milano da bere eccetera…

Altra epoca, siamo ormai nel nuovo millennio, altra voce, quella di un ministro dell’economia berlusconiano: “la Divina Commedia non ha mai dato da mangiare a nessuno”.

L’affermazione è falsa in sé, da un punto di vista strettamente economicistico (era infatti un pessimo ministro dell’economia, quello di cui parlo). Non per fare i conti in tasca ad altri, ma chiedete a Sermonti o a Benigni…

Soprattutto però è falso il rozzo materialismo di cui quel ministro era la rozzissima espressione. La riduzione della cultura a qualcosa che serve – per guadagnare dei soldi, per trovare lavoro, per “quadrarsi la testa”…

La Divina Commedia, per fortuna, non serve a niente: come non servono a niente le sinfonie di Beethoven e le Ninfee di Monet. Essendo umani, e non ditteri, non possiamo accontentarci del pane – abbiamo bisogno di dare un senso alla nostra vita e per farlo ricorriamo anche a cose inutili come l’arte, la musica, la poesia.

In segno di protesta, nel 2015 ho organizzato “Milano per Dante. 100 voci per 100 canti”, chiamando cento esponenti della società civile a leggere un canto della Divina Commedia ciascuno. Molti, tra il pubblico, e anche alcuni partecipanti, si sono stupiti che non lo facessi per guadagnare dei soldi.

Dante va difeso anche da un’altra forma di materialismo, più sottile. Quella dei “matematici impertinenti” che lo considerano diseducativo. E che conducono i loro attacchi in televisione, nelle ore di punta – mica su qualche rivista specializzata.

Quelle che Dante racconta, dicono, sono vecchie fole prive di fondamento scientifico, espressione di una mentalità superstiziosa, a tratti addirittura fanatica. Lasciamo che se ne occupino gli specialisti, ma smettiamo di proporla nelle scuole. I giovani, dicono, potrebbero prendere sul serio i segni zodiacali, convincersi che esistano l’inferno e il paradiso, gli angeli e i diavoli. Con tante verità di cui parlare, perché perdere tempo con queste fantasticherie? Studino la chimica, la fisica… che sono utili…

Dante, come tutti i grandi artisti e come tutti i grandi scienziati, sa che bellezza è verità e verità bellezza. Sono i mediocri che difendono il proprio campicello sminuendo l’attività altrui, contrapponendo cultura umanistica e cultura scientifica. Galilei scriveva poesie (bruttarelle) e saggi di critica letteraria (ottimi). Goethe era un esperto di botanica e di ottica. Einstein suonava (bene) il violino. I piccini della televisione vorrebbero proteggere i suggestionabili pargoli cancellando dai programmi scolastici Dante (e, a rigor di logica, anche Omero, per evitare ondate di neopaganesimo, Shakespeare, antisemita e maschilista, Dostoevskij, per carità…).

Vi dirò fino in fondo quello che penso.

Da ateo, ateo convinto. A chi mi parla di segni zodiacali rido in faccia. A chi mi parla di miracoli, angeli e apparizioni madonnesche guardo con una certa superiorità compassionevole, lo ammetto.

Ma se c’è una cosa che mi sento in dovere di trasmettere alle giovani generazioni è proprio l’ammirazione per l’esercizio di pensiero da cui è nata l’opera tutta di Dante, e la Commedia in particolare. Per la grandiosità della concezione, per l’ambizione ad affrontare tutti gli argomenti, tutti gli aspetti della vita e del mondo. E per la radicalità con cui Dante va a fondo dei problemi che affronta, sfidando convenzioni, schemi, pregiudizi. Certo, con gli strumenti che aveva a disposizione. Nell’ambito del suo tempo, come chiunque.

Perché mai dovrebbe essere una perdita di tempo imparare a capire come pensava un genio? Tanto meglio se la sua visione del mondo è lontana dalla nostra. A cosa si vuole educare, se no – alla mediocrità? all’adesione acritica al nostro paradigma?

 

Poi ci sono le attualizzazioni volgari. Anche a queste la televisione dà sempre molto spazio. Berlusconi all’inferno, dove lo mettiamo? Fra i lussuriosi, sì, no, si fa per scherzare.

Si commentano pochi versi, naturalmente: i passi più famosi. La selva oscura, Caronte, Francesca, Ulisse, Ugolino. Quelli che gli spettatori conoscono già, o credono di conoscere. La preghiera alla Vergine. Niente sodomiti, niente usurai, niente musulmani – troppo rischiosi, troppo attuali, paradossalmente.

E si dice, e si ripete, e si urla addirittura, che son cose grandi, grandissime, belle, bellissime, senza mai spiegare perché sono grandi, dove sta la bellezza. Mica che a qualcuno venga in mente di farsi delle domande: si ride, ci si commuove, ci si entusiasma d’essere italiani (noi s’è avuto Dante, come se fosse un merito) e tanto basta.

E adesso devo parlarvi della scuola.

La mia professoressa del liceo amava il Novecento e del Medioevo sapeva poco e aveva capito meno. Dedicava a Dante un’ora alla settimana – quando non c’erano compiti in classe o altri impegni eccezionali. L’ora era l’ultima del sabato, dalle dodici all’una. Ne ho un ricordo di fame e di noia.

Di noia, soprattutto, perché ogni terzina, ogni verso, erano sezionati, analizzati, notomizzati, con l’aiuto di note infinite. Guai a ignorare le fonti da cui Dante aveva tratto l’idea che la durata ideale della vita umana fosse di settant’anni. Ore intere sulle ipotesi che nel corso dei secoli sono state avanzate per spiegare la profezia del veltro. Francesismi, provenzalismi, latinismi, neologismi, sicilianismi, tutta una classificazione che neanche in un obitorio.

E io, badate, già minacciavo qualche interesse letterario, qualche perversa tendenza alle facoltà umanistiche. Posso solo immaginare il disgusto di chi all’università avrebbe scelto fisica o economia, ed era costretto non a leggere Dante, ma a farsi dantista, a concentrare l’attenzione non sul testo, ma sugli apparati – le note, i commenti, le interpretazioni, la critica…

Ammettiamo che la lettura antologica sia inevitabile. Ma Dante certo non prevedeva che i suoi lettori avrebbero avuto bisogno di note. Perché trasmettere il messaggio che la Commedia non si possa più leggere, ma solo studiare? Vale a dire: che sia un testo ormai morto, che i non specialisti possono solo ammirare da lontano, come certe mummie nelle teche dei musei, fragilissime, a cui solo gli egittologi possono accostare le mani?

Senza dubbio qualche aiuto è indispensabile per colmare la distanza linguistica e di enciclopedia che ci separa da Dante. Giustamente Borges lamentava che la felicità di leggere Dante “in perfetta innocenza” ci è ormai negata.

Ma è altrettanto indubbio che vi siano eccessi, nel modo in cui viene presentato il testo del poema – eccessi che spaventano il potenziale lettore e che rivelano, ancora una volta, una sostanziale sfiducia nel testo stesso. Come se le parole di Dante, anche laddove sono chiarissime, non possano essere intese nel loro vero significato se non dagli studiosi, dai filologi, dagli happy few.

Leggere la Divina Commedia è per me un atto politico, nel senso più profondo del termine. Di politica culturale, se volete, ma io dico di politica tout court.

La mia scommessa è che, con pochi aiuti essenziali, sia possibile tornare a leggere, appunto, e non solo a studiare, la Divina Commedia: recuperare un rapporto più diretto con il testo e con la sua poesia.

Leggere la Divina Commedia significa, per esempio, non sostituire a espressioni perfettamente comprensibili, come “andavam forte”, la piatta parafrasi “camminavamo velocemente”. Significa non tradire l’intenzione di Dante, forzando a un senso chiaro quanto il poeta voleva che restasse oscuro, come il celebre Pape Satàn, pape Satàn aleppe. Significa, infine, non anticipare ciò che il testo non ha ancora spiegato, privando le parole della loro carica emotiva: la “Caina” evocata da Francesca perde tutta la sua forza suggestiva se ci viene subito detto che è una delle zone in cui è diviso l’ultimo cerchio; chi, commentando il canto di Ulisse, spiega che le stesse espressioni “com’altrui piacque” eccetera torneranno all’inizio del Purgatorio, spoilera quanto chi svelasse l’assassino all’inizio di un giallo.

 

Ho chiamato questo progetto “Il lettore di Dante” perché proverò a rimettermi nella condizione del lettore ideale che Dante ha immaginato per il suo poema. Diciamo meglio: dei diversi lettori ideali che emergono nel corso dell’opera, col passaggio dalla prima alla terza cantica.

Questa lettura è anche un modo per mettere alla prova il testo: per verificare cioè se la Divina Commedia sia un’opera ormai capace di parlarci solo attraverso infinite mediazioni; o se viceversa sia un’opera ancora viva – e in che misura, e a che condizioni, possa dire qualcosa di importante a noi lettori del xxi secolo.


Per informazioni:

Tempo Ritrovato Libri

Corso Garibaldi 17 – Milano

Tel: 02-99293575

Email: info@temporitrovatolibri.it

 

Milano per Dante

Email: milanoperdante@gmail.com

https://www.facebook.com/pg/milanoperdante

 

 

 

“Wandering lines.” Conversazione con Andrew Kötting

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Andrew Kotting and Eden Kotting, taken in Hasting using Sebastian Edge 18x22" Wet Collodion and the Darkvan on 22/11/09

a cura di Giorgiomaria Cornelio
in collaborazione con il progetto di ricerca cinematografica ⇨ La Camera Ardente

Andrew Kotting and Eden Kotting, taken in Hasting using Sebastian Edge 18×22″ Wet Collodion and the Darkvan on 22/11/09

 
L’arte di Andrew Kötting è fulgido esempio di come l’indirizzo cinematografico non possa mai pienamente appartenere a se stesso, al laccio stretto dei propri luoghi marcati o rilevati, finendo così per spillare altrove, per mischiarsi con gesto del vagare, alimentando altri vasi traboccanti. Erede di Derek Jarman, Kötting porta la sua carovana di fotogrammi attraverso la fitta notte della storia umana. Gli fanno compagnia (in questa nomadia edificata di opera in opera) altri viandanti: Alan Moore, Iain Sinclair, Stewart Lee, Ben Rivers… quasi una comunità impegnata a far cantare sentieri. E poi c’è sua figlia Eden, che è ospite privilegiato in questa conversazione…
 
Salve, Andrew. Inizierei questa conversazione dalle linee vaganti che attraversano la superficie della tua arte. Non mi riferisco soltanto ai viaggi o ai pellegrinaggi dei tuoi film (il cammino di 90 miglia percorso da John Clare in “By our Selves”, per esempio), ma anche ai disegni di tua figlia Eden che tu hai elaborato per altri lavori (come il magnifico “Dog Ate Dog”) e ai vostri libri quasi animati. Il cinema ha un luogo, o è forse una soglia tra le cose?
 
Da dove incominciare? Forse i “Journey Works” (Jaunt – Gallivant – Swandown – Offshore – By Our Selves e Edith Walks) potrebbero essere visti come la mia versione delle “songlines”, le vie dei canti di Bruce Chatwin:
 
“Il nostro errare ha sparso le vie dei canti per tutto il globo (generalmente da sud-ovest a nord-est), raggiungendo infine l’Australia, dove ora sono preservate nella cultura più antica del mondo”
 
I “Journey works” sono il mio tentativo di definire, descrivere, disporre e delineare i paesaggi attraverso i quali mi muovo con la mia famiglia e i miei amici. Essi sono psicogeografici nella natura e attingono dalla mia esperienza nell’emisfero settentrionale (ma soprattutto qui in UK). Sono pertanto influenzati dal folkloristico, dal reale, dall’irreale, dal mitologico e dall’allegorico, e dipendono dalla mia fascinazione verso il comporre le cose direttamente mentre si procede nel cammino, verso l’improvvisazione, il collage e, in ultimo, verso il processo di editing e d’ingegneria inversa per produrre senso e ordinare l’evento, sia esso un pellegrinaggio o un happening.
 
Sono anche attirato dal carnale, dal corporeo e dall’elementare come mezzi di produzione. Devi esserci resistenza, risonanza, assurdità e difficoltà in egual misura, ed è attraverso questo processo che il lavoro viene realizzato.
 
Ho creato un mio ⇨ “alphabetrarium” che potrebbe essere d’aiuto per comprendere quanto sto dicendo…
 
E per quanto riguarda il lavoro che sto facendo con mia figlia Eden, posso dire che è un modo di celebrarla e stimolarla come essere umano e come artista. Nonostante la sua severa disabilità e i suoi limitati mezzi di comunicazione, io spero di trasportare il pubblico nel regno dell’Altro dove nuove maniere di osservare ed ascoltare possono essere vissute. I suoi disegni e i suoi dipinti sono connessi tematicamente ai vari progetti ai quali sto lavorando singolarmente, ma i film che realizziamo insieme riguardano tanto “un’atmosfera” quanto l’atto di raccontare storie.
 
Esiste certamente un luogo per il cinema ma nel mio lavoro sono molto più interessato a rompere le convenzioni di ciò che il cinema “mainstream” è divenuto. Voglio condurre il mio pubblico in luoghi dove le persone non sono mai state. Il suono è la chiave…

Nel tuo alphabetrarium scrivi: “M sta per realtà multiple, disfunzioni audio / visive, fessurazioni in sequenza e tagliar via il lineare per scoprire che molte cose sono possibili”. Cosa significa tagliare e perforare il “lineare” nell’era dell’immagine digitale e di Internet, che potrebbe essere già considerato un dispositivo nomade?

 
Sospetto che intendessi: “girovagare e vagabondare come meditazioni organizzate ma scadenti – con gli Angeli del Caso come guida o bussola …!”
 
Quali sono le altre maniere di osservare ed ascoltare che tua figlia Eden ti ha indicato?
 
Eden disegna, dipinge e crea collage perché ciò le porta felicità, gioia e senso di realizzazione. È anche una terapia per entrambi, tiene cioè il cane nero lontano dalla porta: se non avesse interesse per queste cose penso che sarei impazzito molto tempo fa. Eden è entusiasta nel guardare i suoi disegni prendere vita – il fatto che si muovano la fa ridere -, e anche se ha ben poca consapevolezza della complessità della mia ambizione (quando sovrappongo il suono e le voci nel tentativo di dare al lavoro un ‘significato’ o una messa a fuoco), a lei piace il fatto che ci sia molto da fare…forse un buon esempio di questo processo è il film che ho fatto insieme al mio amico Ben Rivers, che Eden conosce oramai da molto tempo e ama impressionare.
 
Eden ha poca comprensione del sottotesto filmico, della sua ambizione esistenziale o della critica dei sistemi di credenze religiose creati dall’uomo monoteista, ma se lei è con un pubblico che ride è felice della reazione divertita, ed è questa innocenza che mi fornisce un ingrediente vitale per la collaborazione: la nostra relazione funziona come se stessi lavorando con del materiale d’archivio o found-footage, ma naturalmente sono in grado di incoraggiare Eden a lavorare su di un tema specifico. Quando sono presente nella colonna sonora o quando -vestito da Orso di Paglia- le stringo la mano mentre camminiamo lungo una spiaggia, allora il potere della nostra relazione padre / figlia inizia a prendere piede e un’altra serie di emozioni viene vissuta dal pubblico. C’è il paradosso di una collaborazione tra un “artista insider” e un “artista outsider” al lavoro, e questo elemento è qualcosa che manifesta nuove e “altre” qualità.
 

 
Nei tuoi film, la critica dei “sistemi monoteistici” che hai citato è attivata attraverso una coagulazione di immagini le cui radici si intrecciano, quasi fossero zone indiscernibili tra di loro. È possibile “superare” questa realtà monoteistica attraverso il cinema?
 
Tutto può essere superato nella vita e non solo nel cinema, anche se alcune cose richiedono molto più tempo!
La gioia di essere nati!
Una vita piena di anatemi e ammirazioni!
Continuiamo a prescindere a dire sciocchezze – le parole sono vitali – specialmente quando tentano di indebolire i sistemi monoteistici (monotheisticemansystems) che si riappropriano continuamente di tutti i cambiamenti in un disperato tentativo di fingere che tutto fosse già nel loro grande Libro fin dall’inizio perché il profeta ha detto così e così!
 
Le collaborazioni (Alan Moore, Iain Sinclair, Stewart Lee …) sono una componente cruciale del tuo cinema. L’atto di fare un film è l’invenzione di una comunità a venire?
 
Le collaborazioni sono sempre state una parte vitale del mio processo: meno l’invenzione di una comunità a venire quanto piuttosto la base della mia evoluzione. Senza di loro mi sento privato di qualcosa, forse perché avendo Eden nella mia vita sono sempre aperto all’apparire dell’Altro.
 
Le varie abilità che i collaboratori apportano al lavoro sono allo stesso tempo positive e stimolanti. La loro generosità di spirito e la fiducia nelle mie ambizioni è anche molto rassicurante. Potrebbe essere perché sono consapevole che ogni progetto è sempre e solo un’approssimazione di ciò che pensiamo o vogliamo. I risultati non sono prescrittivi e la loro contingenza significa che c’è sempre spazio per permettere che le cose accadano. C’è molto spazio anche per l’improvvisazione, perfino se sto lavorando con una sceneggiatura, e ciò ci consente di perfezionare o aggiungere altri passaggi.
 
Stewart Lee riassume perfettamente tutto ciò alla fine del film “Swandown”, quando dice: “Penso che Andrew Kötting veda solo quello che succede, invertendo poi l’ingegneria del significato una volta che ha collezionato e messo insieme i frammenti dell’evento …”
 

 
Dato che “c’è molto spazio per l’improvvisazione”, pensi che un film debba essere un progetto senza fine, qualcosa sempre aperto all’essere rovesciato?
 
Certamente! In effetti tutte le opere finiscono per alimentarsi a vicenda. Le immagini traboccano. Il lavoro è senza fine sino a quando decido di portarlo a termine; ma anche in quel momento il film potrebbe andare avanti ancora un po’, per poi spegnersi definitivamente. La finitudine abbonda:
 
N sta per narrativa Non finita, né una cosa e neppure l’altra. N sta per ‘da una parte all’altra’ dentro le Neverneverlands dello spillamento, oltre le polemiche e la critica storica. N sta per Nuovo e Nomadico, ma anche per continuare a far girare la storia creativa dell’umanità. N sta per i Nuovi racconti dalle end-zones e per le storie Notturne tessute dal fuoco per scavare nella torba più oscura!”
 

Conversazione a cura di Giorgiomaria Cornelio

 

 

ENGLISH VERSION
In collaboration with ⇨ La Camera Ardente

 
Andrew Kötting’s art is a luminous example of how the cinematographical project could never fully belong to itself and to its narrow boundaries, thus spilling elsewhere, becoming one thing with the act of wandering. Like Derek Jarman, Kötting leads his caravan of frames through the thick night of humanity. In this nomadic travel built “film after film”, there are other wanderers that make the paths sing a never-ending poem: Alan Moore, Iain Sinclair, Stewart Lee, Ben Rivers, and of course Eden Kötting, who is a special guest of this conversation.
 
Hello, Andrew. I would like to begin this conversation from the wandering lines that pass through the very surface of your art. I am not referring only to the journeys or the pilgrimages of your films (the 90-mile walk of John Clare in “By Our Selves”, for example), but also to the drawings of your daughter Eden that you edited for other works (like the marvellous “Dog Ate Dog”) and to your quasi-animated books. Does cinema have a place? Or -maybe- is it a threshold between things?
 
Where to begin?! Perhaps the ‘Journey Works’ (Jaunt – Gallivant – Swandown – Offshore – By Our Selves and Edith Walks) might be seen as my versions of ‘songlines’.
 
“Our wanderings spread “songlines” across the globe (generally from southwest to northeast), eventually reaching Australia, where they are now preserved in the world’s oldest living culture”.
 
They are my attempt at defining, describing, deliberating and delineating the landscapes that I move through with friends and family. They are psychogeographical in nature and draw upon my own experiences here in the northern hemisphere, but perhaps more importantly here in the UK. They are informed by the folkloric, the real, the unreal, the mythological and the allegorical and they are dependent on my fascination with making-things-up-as-I-go-along, improvisation, collage and ultimately at the edit stage, the process of reverse engineering to make sense and order of the event, pilgrimage or happening.
 
I’m also drawn to the physical, the corporeal and the elemental as a means of making. There has to be endurance, resonance, absurdity and difficulty in equal measure, and it is through this process that the work gets made….
 
I’ve created ‘an ⇨ alphabetrarium of kötting’ that might help.
 
And as far as the work that I have been making with my daughter Eden, it is a way to activate, stimulate and celebrate her as an artist and human being. Despite her severe disability and limited means of communicating I hope to transport the audience into the realms of the ‘other’ where new ways of looking and listening might be experienced. Her drawings and paintings are thematically connected to the various projects that I might be working on but the films that we make together are as much about ‘atmosphere’ as they are about story telling.
 
There is a place for cinema in my work but I am more interested in breaking with the conventions of what mainstream cinema has become. I want my audiences to be taken to a place that they have not been before. The sound is key….
 

 
In your alphabetrarium, you write: “M is for Multiple realities, audio/visual dysfunction, fissures in sequence, and cutting away from the linear to discover that most things are possible”. What does it mean to cut and pierce the “linear” in the age of the digital image and the Internet, which could be already considered a nomadic device?
 
I suspect that I meant: meanderings and wanderings as organised yet shoddy musings – with the Angels of Happenstance as guide or compass…!
 
What are the ‘other’ new ways of looking and listening that your daughter Eden has indicated to you?
 
– Eden draws and paints and makes collage because it brings her happiness and joy and a sense of achievement – it is also therapy for the both us – it keeps the black dog away from the door – if she had no interest in these things then I think I would have gone mad a long time ago – with the films that we make together she is also excited by watching her drawings come alive – the fact that they move makes her laugh – she has very little understanding of the complexities of my ambition when layering the sound and voices in an attempt to give the work ‘meaning’ or focus BUT she likes the fact that there is a lot going on….perhaps a good example of this process is a film I made together with my friend Ben Rivers – who Eden has known for a very long time and likes to impress.
 
Eden would have little comprehension of the film’s subtexts or its’ existential ambition or critique of monotheistic manmade religious belief systems – BUT if she is with an audience and they laugh she is just happy that they laugh – and it is this innocence that provides me with a vital ingredient for the collaboration – the relationship works in a similar way to the way in which I might work with archive or found-footage BUT of course I am in a position to encourage her to work to a specific brief or theme. When I am present on the soundtrack or dressed as a Straw Bear and holding her hand as we walk along a beach, then the power of our father/daughter relationship begins to take hold and another set of emotions are experienced by the audience. There is the paradox of a collaboration between an ‘insider artist’ and an ‘outsider artist’ at work and this is something that offers the work new and ‘other’ qualities.
 

 
In your films, the critique of the “Manmade monotheistic mansystems” is activated through a coagulation of images whose roots are intertwined like areas of indiscernibility. Is it possible to “overcome” this monotheistic reality through cinema?
 
Everything can be overcome in life and not just in cinema, some things just take a lot longer!
The joy of being born!
A life full of anathemas and admirations!
We blunder on regardless – words are vital – especially when they attempt to undermine the ongoing monotheisticemansystems which continually re-imagine and re-appropriate all THE changes in a desperate attempt to pretend that ALL was there in THEIR BIG book from the get-go because THE prophet said so!
 
Collaborations (Alan Moore, Iain Sinclair, Stewart Lee…) are a crucial component of your cinema. Is the act of making a film the invention of a community-to-come?
 
Collaborations have always been a vital part of my process – less the invention of a community-to-come rather the bedrock of my evolution. Without them I feel bereft, perhaps it is because having Eden in my life I’m always open to the ‘opening up’ of the ‘other’. The various skills that the collaborators bring to the work is both life-affirming and inspiring. Their generosity of spirit and indeed trust in my ambition is also very reassuring. It might be because I’m content in the knowledge that each project is only ever an approximation of what I think I/we want. The outcomes are not prescriptive and their contingency means that there is always room to allow things to happen. There is much room for improvisation, even if I am working with a script and this affords plenty of room for adjustment and addition. Stewart Lee sums it up perfectly at the end of the Swandown film when he says: I think Andrew Kötting, he just sees what happens and reverse engineers the meaning once he’s collated the event….
 

 
Since “there is much room for improvisation”, do you think that a film should be a never-ending project, something always open to being upturned?
 
YES – indeed all works feed in and out of each other. Spillage abounds. The work is never-ending up until the point that I end at which point it might well blunder on for a little longer and then end. Endness abounds!
 
N is for never a finite narrative, neither one thing nor another. N is for hither and dither within the Neverneverlands of spillage, post polemics and critical histories. N is for NEW and Nomadic and keeping the creative human story turning. N is for new tales from the end-zones and night-time fire-yarns for folk to dig into like the darkest peat.”
 

Interview by Giorgiomaria Cornelio

Dalle terre di mezzo della prosa

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di Andrea Inglese

[Presento qui parte di un intervento pubblicato nel n°69 di “Nuova Prosa”. Queste considerazioni generali su prosa & dintorni sono seguite da brevi paragrafi che introducono dei testi inediti di Alessandro Broggi, Fiammetta Cirilli, Manuel Micaletto e un’intervista realizzata con Giuseppe Montesano. Per questi materiali e gli altri raccolti dal Cartello (Forlani, Sartori, Schillaci e il sottoscritto) si rimanda alla rivista.]

Vivere è incoerente. È frammentario. Ma è lecito che sia tale. Fa parte del disordine naturale dei giorni e degli anni; e vorrei che mi fosse concesso, innaturalmente, di godere di questa delizia: divagare.

Giorgio Manganelli

 

Nel regno delle ombre

Magari non se ne è accorto nessuno, e parlo per gli specialisti della narrativa, e di quella nostrana ovviamente, ma sono successe cose strane e pertinenti nel mondo della prosa, almeno nel corso degli ultimi dieci, quindici anni.

Considerazioni sul sovranismo percepito

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di Giorgio Mascitelli

Narra la storia che Jean-Baptiste Lully morì di cancrena a un piede, che il compositore italofrancese si era ferito da sé con la mazza di ferro con la quale soleva battere il tempo dell’orchestra rifiutando in seguito di farsi amputare la gamba, come proposto dai medici. Devo confessare che l’Italia sotto le cure di Salvini evoca ai miei occhi più che un immaginario mussoliniano proprio lo spettro della fine di Lully. Mi sembra questa la morale che insegna la vicenda della recente legge finanziaria: dalle roboanti dichiarazioni di non arretramento nemmeno di un millimetro fino all’accordo che introduce nuovi obblighi finanziari per un’Italia, che nel frattempo è completamente isolata in Europa ( si sa che gli amici austriaci e ungheresi di Salvini considerano esauriti i loro doveri amicali una volta fattisi un selfie con il ministro degli interni e per tutto il resto si attengono scrupolosamente alle indicazioni della Germania).

Se questo esito, del tutto prevedibile per come è stata condotta la tattica italiana di rapporti con la commissione europea, è verosimilmente indifferente al cinismo politico di Salvini, che considera la finanziaria un argomento qualsiasi della sua campagna elettorale  permanente, è probabile che per altri esponenti del governo, che si sono posti seriamente la questione dell’approvazione della legge, il momento della ritirata del progetto sia coinciso con il fallimento dell’asta dei BTP Italia di novembre. I BTP Italia sono infatti dei titoli rivolti ai piccoli risparmiatori, che lanciati con successo negli anni scorsi avevano avuto la funzione utile di segnalare che attacchi speculativi di breve periodo contro l’Italia erano destinati all’insuccesso per la capacità d finanziarsi sul mercato interno. In altri termini quell’Italia settentrionale e benestante di provincia che ha votato massicciamente per Salvini ha abbandonato il governo su un’iniziativa che numerosi esponenti della Lega avevano lasciato intendere essere un modo per offrire gambe solide su cui far marciare l’idea sovranista. Questo sovranismo del cuore ma non del portafoglio è del resto comprensibile sul piano degli interessi di classe perché per il momento per le persone sopra un certo livello economico quella europea resta la soluzione più conveniente e l’idea di investire i propri soldi in titoli emessi da un governo che va a uno scontro frontale con l’Europa, per quanto astrattamente a qualcuno possa piacere questa prospettiva, non è certo rassicurante. D’altra parte Salvini, se vuole continuare a togliere voti ai cinquestelle, non può rinunciare a quei toni che servono a intercettare le fasce della popolazione più in difficoltà.

In realtà questa scelta di Salvini non è solo frutto delle necessità tattiche di fare concorrenza agli alleati di governo, ma la sua efficacia risiede nel fatto che la borghesia nell’era della globalizzazione ha perduto la capacità simbolica e peraltro anche quella politica di costruire grande aggregazioni egemoniche sul piano nazionale che governino la società: di conseguenza chi vuole vincere deve fare riferimento a istanze simboliche di altro genere. Questo in quanto la borghesia  nell’era della globalizzazione ossia dell’abolizione del mercato interno è per forza transnazionale, tranne nei paesi centrali del sistema come gli Stati Uniti, la Cina e forse la Germania e il Giappone, ma questo nel concreto significa una sua tendenziale convergenza con obiettivi e interessi stranieri che si pongono, in un’ottica sovranista, in oggettiva opposizione con lo sviluppo del paese.

Visto che Salvini è innanzi tutto espressione della parte culturalmente e politicamente più retriva di questa borghesia, sarà costretto per non perdere la sua base a una politica sovranista limitata ad alcuni aspetti politici tralasciando quelli economici. Insomma avremo con ogni probabilità quello che si potrebbe chiamare un sovranismo sovrastrutturale che punterà molto sul razzismo e sulla lotta contro gli emigranti extracomunitari come forma di compensazione simbolica per le classi subordinate e di fatto abbandonate a se stesse, anche se è verosimile che verranno introdotti altri temi di forte impatto simbolico, per esempio è da seguire con attenzione in cosa effettivamente si tradurrà l’annunciata misura di introdurre l’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza in tutte le scuole con personale formato ad hoc. Insomma è probabile che la Lega rafforzerà sul piano della rappresentazione politica le istanze sovraniste e su quello della volontà economica si atterrà alle linee neoliberiste, come dimostra anche il progetto di legge sull’autonomia differenziata delle regioni del nord.

In linea teorica questa politica salviniana non è affatto irresistibile e anzi fino a pochi anni fa non avrebbe avuto spazio di manovra, ma oggi la crisi del partito democratico la rende senza avversari. Il partito democratico sotto la guida di Renzi ha compiuto l’errore di trasformarsi nel campione nazionale di questa borghesia transnazionale abbandonando la propria base tradizionale con gli esiti che sono sotto gli occhi di tutti e in ciò condividendo lo stesso destino di altri partiti di centrosinistra in altri nazioni che hanno compiuto il medesimo errore, con l’aggiunta che nello specifico italiano questa borghesia transnazionale è  in fuga dal paese  anche in senso fisico e dunque progressivamente disinteressata alla sua evoluzione o involuzione. Del resto queste posizioni alla Emma Bonino, nelle quali la globalizzazione è una trionfale cavalcata in cui le occasioni fioccano a saperle cogliere, possono godere di grande popolarità in qualche redazione o in qualche istituto di ricerca di Milano e Roma, ma non sono adatte a governare una nazione, che resta anche nella globalizzazione una dimensione di governo irrinunciabile. Insomma questo sovranismo sovrastrutturale e zoppicante è tenuto in piedi involontariamente dagli apologeti della globalizzazione esattamente come è accaduto in Ungheria.

Ne La grande proletaria s’è mossa, il discorso con cui Giovanni Pascoli elogiava la guerra di Libia, si trova una contraddizione rivelatrice : all’inizio il poeta ricorda come gli emigranti italiani all’estero in quanto poveri lavoratori sono soggetti a discriminazioni e forme di razzismo da parte degli stranieri, nella seconda parte del testo il poeta ricorda la superiorità culturale dell’Italia su berberi e turchi con i toni tipici del paternalismo imperialista dell’epoca. Questo stato d’animo contraddittorio, ovviamente in forme storicamente diverse, sussiste anche oggi in Italia e tutta la capacità comunicativa di Salvini, così sottolineata da numerosi commentatori, consiste nello sfruttarlo. Questa operazione, per quanto condotta con abilità, troverà un suo limite oggettivo quando il sovranismo salviniano rivelerà la sua natura sovrastrutturale ossia la sua non volontà di toccare i rapporti di forza decisi dalle attuali politiche europee e globali. Eppure anche il raggiungimento di questo limite rischia di non bloccare la sua operazione politica se si troverà di fronte un’opposizione politicamente corretta che continua a considerare l’Europa neoliberista dei nostri giorni il migliore dei mondi possibili e incapace di ricordare che l’unico cambiamento dei rapporti di forza possibile in Europa nascerà da una politica delle alleanze con chi in Europa vive problemi analoghi ai nostri.

 

Mia madre è il Novecento. Dialogo con Natascha Wodin

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di Davide Orecchio

Lo scorso dicembre Natascha Wodin ha presentato Veniva da Mariupol (L’Orma editore 2018) a Roma, nell’ambito di Più libri più liberi. È stato il primo appuntamento italiano per l’autrice tedesca e il libro, dunque un’occasione per conoscerla e ascoltarla. Trascrivo qui stralci dalla nostra conversazione. Con una precisazione. Le mie domande erano preparate, quindi scritte. Mentre Wodin ovviamente ha risposto a braccio, ed è stata poi tradotta da Marco Federici Solari.

→ → → Natascha Wodin è nata in Baviera nel 1945 da genitori ucraini deportati come forza lavoro durante la Seconda guerra mondiale e ha trascorso l’infanzia in un campo per sfollati. Nella sua opera si è confrontata a più riprese con il materiale autobiografico. Ha conseguito, tra gli altri, i prestigiosi Hermann-Hesse-Preis e Alfred-Döblin-Preis. Veniva da Mariupol ha vinto il Premio della Fiera di Lipsia 2017. È il suo decimo libro. In Italia è uscito un altro titolo: Avrò vissuto un giorno (Einaudi 1995, traduzione di Paola Albarella). Poi una lunga parentesi che si chiude con la pubblicazione di Veniva da Mariupol, nella traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat.

Straordinario romanzo-ricerca sul passato, Veniva da Mariupol ricostruisce l’epopea di una famiglia di origini russe e ucraine prima incenerita dal regime sovietico, poi ridotta in schiavitù, insieme a migliaia di Ostarbeiter, nei lager e nelle fabbriche dei nazisti. È la famiglia della scrittrice. Sua madre, suo padre; e poi, lasciati indietro nel tempo e nelle geografie: cugine, zie, nonni ucraini, russi, italiani… Una storia che riemerge dalla memoria e dall’uso sapiente di Internet. Una vera e propria inchiesta digitale che consente all’autrice di ritrovare vicende e persone. Navigando su un sito internet russo, Wodin si imbatte in una traccia della madre, morta da decenni, di cui ignora pressoché tutto. Digita il suo nome e le appare un risultato che restituisce la sua data di nascita, il 1920, e il luogo, Mariupol, porto ucraino del Mar Nero. Inizia così una quest tanto appassionante quanto inevitabile per l’autrice tra le peripezie di una donna e della sua famiglia dispersa e travolta dalle guerre, dalla rivoluzione e infine dal crollo dell’impero sovietico. Per approfondire i temi del libro si vedano la recensione di Valentina Parisi, Il trauma e le radici (Nazione Indiana, 2018), e il saggio di Paola Albarella, Mariupol e l’oblio della storia (Doppiozero, 2017). ← ← ←

D.O. Possiamo definirlo un romanzo?

N.W. È il libro più autobiografico che ho scritto. Non c’è quasi niente di inventato. Ho fatto molte ricerche per scriverlo e tutto quello che ho scoperto l’ho messo nel libro. Ma, inevitabilmente,  la ricerca non era completa. Ci sono dei buchi che ho dovuto riempire con la fantasia. Con una fantasia, però, molto realistica, attenta alla verosimiglianza. Per questi motivi credo che si possa definire un romanzo.

D.O. Quando inizia questo viaggio nell’archeologia familiare? Forse potremmo trovare un indizio in una pagina del libro, dove lei racconta che i suoi genitori possedevano una scatola nella quale conservavano gli unici documenti salvati nella fuga dall’Ucraina, le uniche carte che provassero la loro identità e vita passate. Era una scatola preziosa, come immaginerete. «Un giorno – scrive Wodin -, a circa otto anni, decisi che non avevamo più bisogno di quelle vecchie cartacce, o perlomeno che non ne avevo più bisogno io. Quando per l’ennesima volta fui mandata in cantina a prendere il carbone commisi uno dei peggiori crimini della mia infanzia. Sollevai la scatola con i documenti e la gettai nel bidone della spazzatura nel sottoscala. Nessuna prova delle mie tanto odiate origini doveva sopravvivere, ogni traccia doveva scomparire per sempre». Forse il viaggio alla riscoperta delle sue origini inizia subito dopo quel gesto così lontano nel tempo, e così determinato nel volerle cancellare per sempre. Le origini: prima gettate nella spazzatura, da bambina e figlia di sfollati. Poi, per il resto della vita, inseguite e recuperate nella memoria e nella scrittura…

N.W. In realtà non è stato così. Da giovane non volevo avere niente a che fare con la Russia. Volevo eliminare dalla mia vita tutto ciò che riguardava la Russia. In quel tempo è come se avessi dormito. È stata la generazione del ‘68, il movimento, a risvegliarmi. Nella scuola tedesca ti insegnavano che era stata la Russia ad avere attaccato e invaso la Germania. Per questo sentivo la mia provenienza come una colpa. Solo a partire dal ‘68 si è cominciato a parlare in modo diverso dell’Urss, e ho scoperto che era stata la Germania a invaderla. Però è dovuto trascorrere molto tempo prima che riuscissi ad affrontare la storia dei miei genitori, che di loro stessi raccontavano solo di essere degli emigranti. Cinque anni fa, quando ho cominciato le ricerche per questo libro, già sapevo molto di più sulla mia famiglia. Sapevo che erano stati lavoratori forzati. Mi ero informata. Conoscevo la storia degli Zwangsarbeiter in Germania. Avevo cominciato a comprendere i numeri spaventosi di questo fenomeno. In Germania durante la Seconda guerra mondiale c’erano 42.500 campi. L’intero paese era un lager a cielo aperto. Nel lavoro coatto fu impiegata una percentuale molto alta di slavi, che erano considerati al livello più basso della società, appena prima degli ebrei. Ma per l’opinione pubblica tedesca questa storia quasi non esisteva. Abbiamo avuto moltissime riflessioni e testimonianze sulla Shoah, ovviamente, ma dell’enorme ingiustizia subìta dagli Ostarbeiter non si sapeva nulla. Mi sono detta: chi, se non io che ho questa storia alle spalle, può raccontare tutto ciò? Così ho pensato di scrivere la storia di mia madre, e attraverso la sua di raccontare la vicenda degli schiavi dei nazisti deportati dall’Europa dell’Est. Mentre pensavo a questo progetto, in una notte di mezza estate, ho davvero un po’ per gioco digitato il nome di mia madre in un sito russo, e sono rimasta scioccata nel trovare informazioni su una donna nata settant’anni fa.

D.O. Non posso soffermarmi su tutti i personaggi del libro. Ho pensato di proporvene solo due, a mio parere speculari. La madre, Evgenia. E sua sorella Lidia. Hanno due destini comuni ma opposti. Ci mostrano come di fronte allo sterminio, alla violenza, alla guerra non si hanno terze vie a disposizione: o si soccombe, o si lotta per sopravvivere. Insomma il codice di questa storia è binario. Evgenia soccomberà. Non resiste alla duplice violenza, prima sovietica e stalinista, e poi dei nazisti e dell’esilio in Germania. Lidia invece sopravvive al Gulag. Trova un compagno. Morirà solo nel 2001. Se una sorella si arrende e si toglie la vita, l’altra invece si ostina a durare.

N.W. Tra le due sorelle c’era una grande differenza caratteriale, e anche di età (8 anni). Mia madre era l’ultima figlia. E’ stata per certi versi la cocca di casa. Se avesse vissuto almeno un poco del benessere e della sicurezza goduti dalla sua famiglia benestante, se avesse camminato su fondamenta più solide, la sua sarebbe stata un’infanzia protetta. Ma nacque in un mondo pericoloso, tre anni dopo la rivoluzione bolscevica, in un momento in cui essere ricchi e nobili equivaleva a un crimine e comportava la persecuzione come nemici del popolo, se non addirittura il rischio di perdere la vita. Quanto a mia zia Lidia, ho avuto la fortuna, o la bravura, di trovare tre suoi diari finiti in Siberia, su un armadio. Ricostruiscono la sua vita da studentessa a Mariupol, e poi gli anni della deportazione. Mi hanno consentito di raccontare la sua biografia accanto a quella di mia madre, e poi di raffrontare i due sistemi concentrazionari, quello nazista e quello sovietico, il che mi è parso molto interessante. Lidia fu senz’altro più fortunata di mia madre. Nonostante quanto passò nel regime stalinista. Visse fino a 91 anni. Di mia madre invece – e l’ho scritto anche nel libro – ricordo ancora la frase con la quale mi salutava ogni giorno prima di uscire: “Vado nell’acqua”. Come se stesse annunciando il suicidio. Mia madre davvero non resse a tutto quello che le toccò di vivere. La guerra civile dopo la rivoluzione d’ottobre, la perdita della madre, la distruzione di tutta la famiglia, il lavoro forzato, l’essere una sfollata. Soprattutto, una volta divenuta displaced person, ebbe la percezione netta che non ci fosse più alcuna prospettiva, che quello per lei fosse il capolinea. Una volta usciti dal lager, tutti noi eravamo come dei reietti nella società tedesca. Ci lanciavano addosso le pietre. Ci insultavano. Era una situazione insostenibile. E mia madre non ce l’ha fatta.

D.O. [Un ragazzo dal pubblico chiede a Wodin che rapporto abbia con la cittadinanza. Se si senta più russa o tedesca o italiana. A questa domanda aggiungo una considerazione che non ho avuto il tempo di fare]. Si può trovare rifugio in una lingua. W. scrive che sin da bambina si ostina ad apprendere il tedesco perché le appare come «una corda sicura e resistente a cui aggrapparsi per saltare dall’altra parte». Allo stesso modo la storia della zia Lidia mostra come ci si possa trarre in salvo adeguandosi tra le lingue: il russo e l’ucraino tra i quali la donna oscilla per sopravvivere al nuovo potere rivoluzionario e alle sue regole. Dunque una lingua, seppure non quella materna, può essere la salvezza di una persona, e può diventare il suo territorio di asilo.

N.W. Sono nata e cresciuta in Germania. Parlo tedesco. Penso in tedesco. Sogno in tedesco. Scrivo in tedesco. Da quando è caduto il Muro, però, ho anche una vita russa. Perché in Germania, a Berlino, sono arrivati molti russi. Così ho ripreso a parlare quella lingua ogni giorno. Ho la fortuna di vivere in due mondi contemporaneamente. Ma sono un po’ italiana, pure. Amo l’Italia e la sua lingua, che purtroppo non parlo bene come vorrei. E sento una forte affinità con l’Ucraina, paese di origine di una parte della mia famiglia.

D.O. [Anche questa domanda, purtroppo, non ho avuto il tempo di farla. La aggiungo qui in conclusione]. W. scrive: «Da che ho memoria, ho sempre avuto voglia di andare via, solo andare via, per tutta la mia infanzia non ho desiderato altro che diventare adulta per poter finalmente andare via. Volevo andare via dalla scuola tedesca, via da “Le case”, via dai miei genitori, via da tutto ciò che mi definiva e che mi sembrava un errore di cui ero prigioniera. Se anche avessi potuto sapere chi fossero i miei genitori e i miei avi, non avrei voluto saperlo, non mi interessava, non mi importava proprio, era una cosa che non mi riguardava in nessuna maniera. Volevo solo andarmene, lasciarmi tutto alle spalle, strapparmi da quel luogo e rifugiarmi in un’esistenza tutta mia che da qualche parte là fuori doveva starmi aspettando».

La vita dipende dal movimento. Tutta la genealogia di questa famiglia si regge sul movimento. Si muovono gli antenati: i nonni italiani, navigatori e commercianti. Si muove Lidia per salvarsi dal regime staliniano. Si muovono il padre e la madre dell’autrice. È una giostra di fughe, di traiettorie nella storia, nella guerra, nella geografia. Anche lei, l’autrice, come emerge dalla citazione che ho letto, avrebbe forse desiderato movimento. Ma la sua voce, che si prende sulle spalle questa storia, appartiene invece a un presente fermo, che ha il privilegio dell’immobilità, della calma, che naviga e si muove solo nella rete virtuale, un presente dunque che può essere introspettivo, che può concedersi il tempo del racconto. A me pare che ci sia un equilibrio necessario tra il movimento delle storie, le fughe illustrate, e la calma statica della voce narrante, della stessa autrice. Ma è davvero così?

Lontano da Crum

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di Edoardo Zambelli

Lee Maynard, Lontano da Crum, Mattioli 1885, 2018, 199 pagine

La vita a Crum era uno spasso, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che traboccano di emozioni, sesso che trabocca di amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto.

Lontano da Crum (in originale semplicemente Crum), pubblicato per la prima volta nel 1988 – e già apparso in Italia qualche anno fa per Barney Edizioni – torna adesso nelle librerie italiane per l’editore Mattioli 1855, tradotto da Nicola Manuppelli (che già ne aveva curato la precedente traduzione) e con una prefazione di Gian Paolo Serino. Prima parte di una trilogia, il libro – e con lui il suo autore – si porta dietro un po’ la leggenda di libro maledetto. Al suo apparire negli Stati Uniti, infatti, fu accusato di volgarità e vietato in molte librerie e università, diventando così un libro di culto, quasi sotterraneo. Divieti che comunque non hanno impedito a lui – lui il libro – e a Maynard di essere rivalutati in tempi più recenti.

Durante gli inverni a Crum, le giornate erano lunghe, noiose e fredde. Durante le estati le giornate erano lunghe, noiose e calde. A Crum, solo la temperatura cambiava.

Dopo un primo capitolo che è piuttosto un prologo descrittivo, una lunga carrellata che introduce il lettore a Crum – sonnolenta cittadina al confine tra West Virginia e Kentucky -, fornendogli le coordinate spaziali della storia, inizia il racconto di Jesse Stone, orfano adolescente che del romanzo è la voce narrante. Il libro, in poco meno di duecento pagine, copre un arco temporale di un anno, scandito dalle didascalie che segnalano il passaggio delle stagioni. Si inizia di estate e si finisce l’estate dopo.

Cosa racconta precisamente Lontano da Crum? La risposta è: praticamente niente. Però attenzione, con questo non intendo indicarne un difetto, tutt’altro, direi che il niente che il libro racconta ne è la peculiarità strutturale. Non c’è una trama forte, nessun particolare punto di svolta, il libro si compone di quadretti, piccoli squarci di vita a Crum, a volte crudi, a volte divertenti, a volte di un duro e ruvido lirismo. Certe volte, tutte queste cose insieme.

La voce di Jesse introduce poco per volta in un mondo fatto di ragazzini che di giorno in giorno cercano di inventarsi la vita. Una vita da cui gli adulti sono assenti, appena appena semplici spettatori. Qualunque cosa va bene, purché sia un diversivo dalla noia, e allora si racconta di “assalti” a un camion che trasporta carne, della costruzione di un rifugio segreto, di passeggiate nei boschi e di altri espedienti simili per far passare il tempo. Particolarmente spassose (ma a ben guardare anche poetiche) sono le parti dedicate alle “imprese” di Benny, il ragazzino che non riesce a tenere le mani lontane dalle proprie mutande.

E poi, ovviamente, ci sono le ragazze. Nel racconto di Maynard i personaggi femminili appaiono come un mondo a parte, vicino a quello di Jesse (e dei suoi amici) ma mai abbastanza per essere davvero posseduto o compreso. Proprio al rapporto con l’universo femminile sono dedicati alcuni degli episodi più belli del romanzo – su tutti la scena d’amore tra Jesse e Yvonne. Maynard è bravissimo a comporre scene in cui si alternano dolcezza e grottesco, in cui lo sguardo del protagonista si divide, quasi, tra i sentimenti profondi che a stento sa nominare e gli istinti più urgenti dettati dall’età.

Il linguaggio di Maynard è secco, spietato, spesso volgare, come è giusto che sia per la materia del racconto. Ed è, il suo, un raccontare continuamente irrisolto, quando un episodio si chiude si passa ad altro, e ciò che è rimasto inespresso rimane lì, inghiottito dalla vita a Crum, che nella sua lentezza prosegue sbiadendo gli eventi precedenti. Questo, però, non è un male, credo anzi sia una delle cose più belle e riuscite del romanzo, la sua capacità cioè di trasmettere il passaggio del tempo, la noia per le giornate di stasi e l’esaltazione per quelle in cui succede “qualcosa”. Maynard racconta di un’America dimessa, rurale, certamente lontana dalla grande epica americana di altri autori più celebrati. Eppure, proprio raccontando questo microcosmo senza eroi, riesce nel miracolo di regalare a chi legge una storia universale, di crescita, necessità di fuga, amore e amicizia.

Credo che il lettore, a libro terminato, possa dire: ho passato un anno a Crum. E proprio come per Jesse, che alla fine del libro lancia un ultimo sguardo alla sua città e la trova inaspettatamente bella, così anche il lettore riguarderà quelle duecento pagine appena lette e penserà, con un po’ di nostalgia, che è stato proprio un bel posto dove stare.

Come si comincia?

2

di Mattia Paganelli

 

Come si comincia?

A Monologue for beginners?

A Monologue on new beginnings?

 

 

Come si comincia? How does one begin?

Qui e ora? Dall’inizio?

 

Si comincia dall’inizio?

E come si comincia dall’inizio? È forse diverso che cominciare dalla fine? Come si comincia dalla fine?

Da “La città delle mosche”

0

di Benny Nonasky

Pubblichiamo una selezione da La città delle mosche (Gilgamesh Edizioni 2017). Più un testo inedito.

É una città di
merda.

<<Me cumpà, i cosi
càngianu
si cangia
a genti.
Ma a genti
simu nui.
E a nui
sulu a morti
ndi cangia.>>1

Lo ripeto:
è una città di
merda.

**

E le mosche amano la merda.

Le mosche.

Le mosche
sono:
        il popolo.
Le mosche
sono:
        i gnuri.2

Le mosche
sono lo spazio e
i tre participi
temporali.

Presente. Futuro. Passato.

Concatenanti.
La pancia piena/A panza china
          Il pane sul tavolo/’U pani supa u tavulu
          Stiamo bene/Stacimu bonu
Nei nostri piatti.

Le mosche.

**

Le mosche amano la merda.

Nettare per le funzioni vitali;
vettori d’agenti patogeni nefasti.

Sempre lì a ciucciare,
sempre lì.

Purificandosi.
Ronzando.

Riducendo al minimo la grammatica
comunicativa morale.

Rapidi
a costruire nuovi
mostri sul mare
e
cocaina
e
appalti consiliari
a ridosso del mare.

Lavandosi le zampe ossessivamente.

Purificandosi.

**

Le mosche.
Le mosche sono gli
abitanti della città.

La proiezione geometrica
del potere:
dall’apice reale
agli strati invisibili
negl’acidi salienti.

In ascesa patronale.

Cognome fotte cognome.

Bestie putride.

<<Ccà nudu
sciacqua lattuchi. Capiscisti?>>3

Padre a figlio a Spirito Santo.

(Strali di merda e di merda e
di vergogna.
Capiscisti?)

**

Le mosche sono commensali.

Come donne rinchiuse in bozzoli
e tormenti.

<<E la vitti a la missa chi jìa,
chi natichi tundi e chi minni c’avia.>>4

Nell’astro dei cieli, il cuore strappato;
il cuore strappato.

Sei tu:
gelida/tenera come bianco languido
gelsomino. Il corpo t’appartiene.

Grida se puoi.

Sei tu: né
vanto né
salsedine o cipolla tirrenica:
dinastia vaginale, ecco cosa sei.

<<Pruté!>>5

Fìmmini.

**

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche grosse le
trovi tra i santi e gl’araldi
a divorare con novizia.

Le mosche piccole designano,
costrette,
a volte per un permesso,
a volte per due permessi.

Le mosche grosse sviluppano
patti e congiure.

A discapito di ognuno.

<<Ndannu a testa frisca.>>6

Il popolo.

Ci sono mosche piccole e
ci sono mosche grosse.

Le mosche piccole durano meno.

**

.L’autostrada del Sole.
(poesia inedita)

Quando sbarca la luna di ponente,
saltano fuori i briganti come
rane dal ventre della terra.
Danzano invocando un bottino –
un padrone da depredare.

La legge del taglione ha
lasciato molte mani a
frizzare al sole rivelatore.
La loro puzza attira bestie
e bambini affamati.

Nel millesettecentonovantanove
Murat, cognato del Bonaparte,
fu giustiziato a Pizzo Calabro.
A seguire fucilarono i fratelli
Bandiera. Poi giunse Garibaldi.
Ed è il momento di andare:
miseria, mannajia Giuda,
ancora miseria,
le pietre calde intuppano7
l’intestino, mannajia8 Giuda,
misera, andare
andare e quale
rivoluzione celebrare?

Nel 1861
c’era una sola strada che ci
attraversava da Nord a Sud.

Le mosche si sono sedute
sulle poltrone e hanno
lasciato fare. Nu
lavuru fetusu9.

Strada del Sole.
Strada del Sole.
Strada della minchia.

Le mosche hanno trovato un habitat
adatto per affinare il loro appetito.

Un ennesimo granello di Storia:
una strada,
tanti amici e
amici degli amici.


NOTE AI TESTI

1 Mio (caro) compare, le cose cambiano se cambia la gente. Ma la gente siamo noi. E a noi solo la morte ci cambia.

2 Erano coloro che avevano un titolo nobile (come dei principi) e detenevano grossi campi agricoli – nei quali lavorava il popolino.

3 Letteralmente: qua nessuno pulisce la lattuga. È un detto popolare che significa che nessuno sta mai con le mani in mano e che tutto ciò che compie non è cosa da poco, ma qualcosa d’importante.

4 Pezzo ripreso da un’antica canzone popolare calabrese. In italiano: “E l’ho vista andare a messa, che culo tondo e che grandi tette che aveva”.

5 Verso che usano i pecorari per richiamare le pecore. Un altro è “scité” (o qualcosa del genere – molto difficile da trascrivere).

6 Letteralmente: “hanno la testa fresca”. Anche questo è un detto popolare che significa avere la testa senza pensieri e preoccupazione. Un po’ come la napoletana “capa fresca”.

7 In italiano: intasano

8 Tipico intercalare calabro. In italiano: Mannaggia Giuda.

9 In italiano: lavoro sporco.

AMOS OZ [1939-2018] “Un disastro nucleare.”

1
Amos Oz e il suo gatto

img da qui

da Una storia di amore e di tenebra
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli 2002
 

Fra la stuoia, le gambe dei mobili e lo spazio sotto il letto, scoprivo a volte non soltanto isole senza nome, ma anche nuove stelle, ignoti sistemi solari, galassie intere. Se mi avessero rinchiuso in prigione, certo mi sarebbero mancate la libertà e svariate altre cose, ma non avrei patito la noia, sempre che mi avessero lasciato tenere, nella mia cella, una confezione di domino o un mazzo di carte, due scatole di fiammiferi, una dozzina di monete o un pugno di bottoni: avrei trascorso la mia giornata seduto a sistemarli. Li avrei combinati e poi divisi, montando e allontanando e avvicinando, elaborando piccole composizioni. Forse era tutto riconducibile alla mia condizione di figlio unico: non avevo fratelli o sorelle, e assai pochi amici, che dopo un po’ se ne andavano, perché volevano action e non reggevano tanto il ritmo epico dei miei giochi.
Capitava non di rado che cominciassi un gioco per terra il lunedì, e il martedì passassi tutte le ore del mattino, a scuola, a pensare al seguito di quel gioco; poi, durante il pomeriggio, facevo una mossa o due, lasciando il seguito per il mercoledì e il giovedì. I miei amici si stufavano, mi abbandonavano alle mie fantasie e se ne andavano a giocare a nascondino fuori, mentre io portavo avanti la mia storia pavimentale ancora per molti giorni, spostando truppe, cingendo d’assedio fortezze e capitali, conquistando e distruggendo, disponendo brigate per i monti, violando fortilizi e linee di fortificazione, liberando e conquistando di nuovo, allargando e stringendo confini segnati con i fiammiferi. Se per sbaglio uno dei miei genitori pestava il mio universo, dichiaravo uno sciopero della fame o una rivolta dello spazzolino da denti. Finché alla fine arrivava il giorno del giudizio, mamma non poteva più sopportare i fiocchi di polvere e spazzava via tutto – flotta, fanterie, città, monti e insenature, continenti interi. Un disastro nucleare.

 
[ La scrittura limpida e insieme oscura di Amos Oz – netta – “semplice” in superficie – piena di ironia – immaginifica – ma con un senso profondo di mancanza di speranza per l’umano – piena di amore ma con la tenebra sempre in agguato – che fa quasi sentire in salvo il suo lettore – una volta chiuso il libro – per contrasto – per misteriosa funzione apotropaica – la scrittura che nasce nella solitudine sul pavimento di figlio unico – geografia di piastrelle – di tessere del domino – monete – fiammiferi e bottoni – nella consapevolezza che tutto può essere spazzato via in un soffio – in un fiocco di polvere ]

Radio days: Gianni Maroccolo

0
Immagine di Marco Cazzato

Altrove

di Mirco Salvadori

 Lento sembra vagare per la tundra, lo sguardo calmo dal riflesso lucente. Da lontano appare come uno scuro batuffolo che si muove con leggera gentilezza, una delicata creatura giunta fin qui dopo miglia percorse nel lampo del tempo che trasforma lo zoccolo, da tenero supporto del sogno a possente appoggio capace di sostenere il lungo e faticoso viaggio di una vita attraverso il suono del proprio respiro.

 

I ricordi lo attendono acquattati tra i licheni che giacciono semi sommersi dall’umidità del terreno. Uno in particolare continua ad apparire in tutta la sua lucida violenza, un ricordo che risale alla sua gioventù, quando ancora l’innato bisogno di scoperta rendeva inutili i richiami e le raccomandazioni dei compagni. Era come un canto che all’improvviso iniziava a propagarsi lungo le pianure e i crinali delle montagne, una voce suadente che accarezzava tutto il corpo suscitando brividi di piacere. A volte si percepiva come armonia che scendeva leggera dal cielo azzurro, altre iniziava a farsi udire quando le nuvole si coloravano di nero, esplodendo in un furioso e incontenibile urlo. Impossibile resistergli, impossibile non cedere all’impeto della natura seguendolo per scoprire fin dove l’avrebbe trascinato. Iniziava così a filare precipitandosi verso i limiti invisibili, oltre le immense pianure che occupavano le stanze del suo mondo. Al galoppo, a testa bassa dentro il furore del vento del nord, sfidando le sue forze, mosso dall’incontenibile voglia di conoscere che rendeva inutili i moniti di chi prima di lui si era arreso, sfinito nella furia della tempesta.

 

Immagine di Marco Cazzato

 Il suono dolcemente iterato degli zoccoli che sprofondano nel manto nevoso lo aiutava a concentrarsi. Come sempre aveva trovato una radura discosta nella quale cercare qualche verde arbusto. Tutti sapevano che era un tipo solitario, alle domande seguivano sempre le sue lente risposte che sembravano giungere da luoghi lontani, inaccessibili. Per questo che lo chiamavano Altrove. Quel nome non gli dispiaceva: conteneva l’essenza delle sue visioni, racchiudeva in poche lettere quanto di più vasto e sconosciuto possa esistere oltre il limite della tundra, lì dove pochi erano giunti. Il silenzio era totale nella bianca e luccicante radura che lo accoglieva, la natura e gli esseri viventi che la abitavano sembravano immersi nell’immobilità assoluta, una frazione di vita sospesa che mantiene le sue pulsazioni grazie a qualche fremito di brezza tra le poche foglie ancora visibili e il calore che usciva in forma di vapore dalle narici di possenti creature destinate a sopravvivere in condizioni estreme.

 

Il silenzio é suono, pensava Altrove, porta con sé impercettibili segnali, basta ascoltarlo. Qualcosa stava succedendo ma il cielo era ancora troppo azzurro e il suo istinto troppo rilassato per presagire altro se non ricordi.

 

 

La tormenta non gli permetteva di vedere oltre il suo passo, ma sapeva che la linea di confine non distava molto, tre quattro giorni di marcia. La determinazione nel procedere lungo il terreno impervio, contro l’affronto delle continue raffiche di gelo e la mancanza costante di pace lo avevano reso apparentemente insensibile alla stanchezza. Mentre procedeva faticosamente, ricordava quanto gli era stato paventato da chi aveva tentato di percorrere quella stessa via. Una volta varcata la soglia dei territori sconosciuti, avrebbe trovato paura, indecisione e solitudine, mortali compagne con le quali confrontarsi. Gli occhi oramai quasi serrati nella morsa del ghiaccio, i muscoli inutilmente tesi nello sforzo supremo, lui continuava a profanare l’urlo del vento, lo penetrava aumentandone l’ira feroce. Doveva fermarsi, cedere per qualche minuto raccogliendo le forze e poi nuovamente continuare per raggiungere quel maledetto confine oltre il quale… la stanchezza lo colse repentina manifestandosi con le fattezze di una bianca creatura che allargava le braccia accogliendolo.Gli occhi si chiusero, le forti zampe cedettero sprofondando nell’inconsistenza del sonno che tutto libera e trasforma. Riusciva a vedere sé stesso sommerso nella neve gelida, riusciva a sentire l’urlo insistente che vorticoso faceva scomparire le tracce rendendo impossibile il ritorno. Percepiva il sopraggiungere della fine, ma in quel luogo la pace regnava sovrana. Socchiudendo gli occhi riuscì ad intravvedere la bianca figura raggomitolata attorno al suo corpo che lo stringeva a sé parlandogli con calma, lentamente, sottovoce. Durò solo la frazione di un istante ma bastò per permettergli di affrontare sconsolato la lunga via del ritorno. Molti anni erano trascorsi da quel viaggio nell’ignoto ma il ricordo di quell’abbraccio non svaniva, anzi si rafforzava con l’andare delle stagioni.

 

 

 

Il silenzio é suono, pensa Altrove, porta con sé impercettibili segnali, basta ascoltarlo. Il primo strato di soffice coltre nevosa iniziò a danzare attorno ai suoi zoccoli, nel giro di pochi minuti l’azzurro nel cielo svanì cedendo il posto a cumuli di cupe nuvole gravide di nero intenso. Altrove le guardò ammassarsi sopra il piccolo angolo di mondo che conteneva il suo respiro e sorridendo accolse la bufera che improvvisa esplose, accompagnata del furioso urlo del vento. Era tempo di tornare lì dove la stanchezza lo aveva fermato, affrontando nuovamente l’instabile equilibrio dell’ignoto, doveva ritrovare quell’essere lucente per placare la sua inquietudine nel cristallino sussurro di quella voce.

 

 

Dopo giorni di duro cammino sentì di aver raggiunto un luogo oltre il quale era impossibile proseguire. Immerso nell’accecante fragore cercava di intravvedere qualcosa muoversi ma ciò che lo circondava era solo turbinio di neve.

La pesante testa lentamente si adagiò sulla soffice neve che l’accolse con calore inaspettato, il frastuono che da giorni regnava sovrano cessò all’istante e l’eco di un sussurro iniziò a vibrare nell’aria. Tu sei tempesta e tu sei l’urlo del vento. Tu sei la sterminata distesa nella quale vaghi da tempo immoto, tu sei la neve e tu sei il muschio che rigoglioso ricopre la terra. Tu sei l’acqua che si insinua sotto la sua superficie, tu sei il suo respiro, il suono che ne scaturisce. Tu sei un piccolo possente bue muschiato, sei l’universo che lo ospita, tu sei qui e tu sei Altrove. Lento sembra vagare per la tundra sconfinata quel poderoso e delicato bue muschiato, ma il suo sguardo ora sa dove posarsi. È giunto il tempo di seguire l’urlo della tempesta e il richiamo del silenzio, l’istinto che impone il balzo verso territori inesplorati, mantenendo sempre luminosa la scintilla della memoria che illumina il passo.

 

Visto da lontano ora appare come un bioccolo che procede avvolto nell’armonia che soffice lo accoglie nel perpetuo abbraccio della solitudine che stordisce, nutre e cura.

 

 

 

 

 

 

Da “La visione a distanza”

0

di Alessandro De Francesco

I 12 testi che presentiamo sono tratti da diverse sezioni del libro La visione a distanza (Arcipelago Itaca, 2018). Segue una nota dell’autore.

Il burattino, l’asino e i porno, o del nuovo puritanesimo

8

di Giorgiomaria Cornelio

All’età di 14 anni abbozzai, insieme ad un minuto gruppo di amici, il progetto di un cineforum che avrebbe dovuto includere “Ecco l’impero dei sensi” di Nagisa Oshima e “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini. Del primo titolo avevo ereditato una videocassetta pubblicata in una collana dell’Espresso dal titolo immaginifico: “I classici proibiti”. Del secondo tentammo di recuperare un dvd alla biblioteca cittadina, convinti della non eccezionalità della richiesta. Eravamo in torto: il film ci fu negato –ça va sans dire– per via della nostra età. Protestammo invano e chiassosamente, come sempre si protesta prima di comprendere la sbrigativa prammatica degli apparati burocratici. Avremmo realizzato in seguito, e non senza ricorrenti dimenticanze, che a denunciare i ladri è naturale che si finisca in galera, e che la parabola di Pinocchio è compendiario della giustizia umana:

“Il burattino e l’asino sono versioni equivalenti del medesimo archetipo: la fatica della vittoria sulla condizione puramente naturale e meccanica. L’una usata da Marco Aurelio, l’altra da Apuleio, al medesimo fine. Collodi adoperò entrambe. Faticosa vittoria! Collodi mostra come per ottenerla si deve rinunciare a ogni fede nelle istituzioni umane, liberarsi interamente dalla illusione della giustizia e dell’utopia.”

Resta il fatto che quella che veniva fatta passare come tutela della nostra “innocenza” era, al contrario, un modo di velare la speciosità d’un sistema paralitico di cui avvertivo, già da allora, la violenza e il ragguaglio, come se fossi spettatore malinformato, comunque inadatto alla “visione”.

Scrivo questo perché non deve giungere come una sorpresa la recente decisione di Tumblr di abolire dal suo sito tutti i contenuti per adulti, ennesima tappa di un processo di cesure industriali che tradisce -dietro al pretesto dell’inclusione- un puritanesimo démodé che credevamo malconcio e inadeguato. Lo ritroviamo invece agghindato di progressismo, come nell’esercizio di sfrondatura del vocabolario accademico, da cui spariscono parole (“frocio”, “troia” …) il cui carattere offensivo rivela nient’altro che la nostra incapacità di affrontarne gli strati densi di memoria e la nostra testardaggine a non voler riconoscere nei nomi una realtà che è più di se stessa.

Poco davvero bisogna sorprendersi, allora, quando a Milano viene ⇨ abolita una mostra per qualche segno pruriginoso e un intenzionale fraintendimento del contenuto, fraintendimento che ad ogni modo manifesta un rigurgito collettivo da cui non scampano neppure quelle opere che penseremo confortate dietro al titolo di “classici” (si veda ⇨ quanto è accaduto al Balthus).

Renderemo conto anche di questa violenza. Per l’immediato, l’alto edificio del progresso è validato dal complesso delle sue statistiche.
 
Fa ombra, è vero, ma per chi vuole sporgersi c’è ancora la Luna.

 

NOTE

Immagina

3

Denis Mukwege per il Nobel

3

di Antonio Sparzani
https://www.youtube.com/watch?v=dV5Qc7elwiI
ascoltate bene, niente di consolante.

A Girl Named Carla e The Girl Carla: analisi comparata e commento delle due traduzioni inglesi de La ragazza Carla di Elio Pagliarani

2

(Estratto di un articolo che apparirà completo su Testo a Fronte giugno 2019).

di Antonio Perrone

1. Storia traduttologica ed editoriale

1.1 Introduzione
Il poemetto di Pagliarani ha una storia traduttiva abbastanza cospicua: in circa un cinquantennio a partire dalla sua prima apparizione completa nel 1960, è stato tradotto in alcune delle principali lingue europee, come il castigliano , il tedesco e l’inglese . In quest’ultima si presenta in due edizioni ad opera di due diversi autori. La concentrazione di quattro traduzioni nell’arco di una sola decade testimonia l’interesse internazionale che l’autore ha riscontrato negli ultimi anni, in quanto uno dei principali esponenti di quella cultura “europea” (legata ai fenomeni di modernismo e metalinguaggio) che la poesia italiana, in netto ritardo sulla prosa, ha saputo produrre solo nell’ultimo scorcio di secolo .
Tale importanza è sostenuta oggi dall’attenzione che il Premio Pagliarani, a partire dal 2016, ha riservato alle traduzioni del poeta, aprendo una sezione apposita del bando alle traduzioni in lingua araba, francese, inglese, persiana, spagnola, tedesca, polacca e russa; apertura che, nel nostro caso, sottolinea la rilevanza dell’attività traduttiva come uno degli strumenti principali di conservazione non passiva del materiale letterario.
In questo contributo ci si propone di analizzare le due edizioni in lingua inglese, concentrandoci in particolare sugli strumenti principali di una traduzione poetica.

[…]

1.2.1 Storia traduttologica e prime considerazioni sui testi

Le traduzioni in inglese del poemetto appaiono rispettivamente nel 2006, a cura di Luca Paci in collaborazione con Huw Thomas, per l’editore inglese Transference e nel 2009, a cura di Patrick Allen Rumble, per i tipi di Angicourt, New York. Nell’introduzione a quest’ultima versione, sono indicate le ragioni (e i tempi) della operazione traduttiva:

The idea of translating Elio Pagliarani’s The Girl Carla dates from the fall of 1987 in a classroom in the Italian Department at the University of Toronto where Elio Pagliarani had been invited to read his poems […]. He started [to read] in a slow and quiet way when suddenly (I mean, really suddenly) something in him shifted, his body pushed forward and verses came out of his mouth in a machine-gun rhythm, the poet trying to keep up with words that seemed to force themselves out of his body violently, almost as if of their own accord until after several minutes, and again suddenly, the rhythm changed and, surely exhausted (we all thought), the poet brought his reading to a gentle ending. […] In the many years that have followed that first experience of Pagliarani’s energetic work, and in the subsequent ones in Italy and the United States (where I watched Pagliarani read many of these poems to enthusiastic audience), the idea of translating his poetry slowly took shape and, thanks to the encouragement and aid of poet-scholar Luigi Ballerini, it has now resulted in this volume.

[…]
2.1 Analisi e commento dei testi

Capitolo II.7, vv. 236-249 de La ragazza Carla:
Casa mia casa mia / per piccina che tu sia / c’è Nerina con la pancia / con lo schiaffo sulla guancia del marito che lavora / chi lo sa per quanto ancora / c’è la madre che permette / calze larghe calze strette / tutto bene come fosse / un bambino con la tosse / ogni giorno sempre uguale / c’è una volta carnevale / c’è una volta carnevale / c’è una volta.

Capitolo II.7, vv. 236-249 de A Girl Named Carla:
Little house of mine so dear / though so small you do appear / here’s Nerina with her babby / with a beating for the hubby / working working without pause / how much longer no-one knows / here’s the mum who thinks it right / stockings big and stockings tight / everything is right enough / like a baby with a cough / days come round no interval / only once comes carnival / only once comes carnival / only once

Capitolo II.7, vv. 236-249 de The Girl Carla:
Little home my little home / though you might be bleak / there’s Nerina with her belly / and a slap on her cheek / from her husband who’s working / but who knows how much longer / and there’s mother who’s allowing / stockings tight or much larger / it’s all just fine / like a baby with a cough / everyday’s the same / carnevale comes only once / carnevale comes only once / only once.

Questa porzione del poemetto presenta una strofe in ottonari con ritmo discendente e rima baciata, dunque con una struttura metrica rigida. Quanto subito risalta agli occhi è che Paci mantiene sia il ritmo che l’apparato delle rime, adattando, quindi, la struttura metrica del testo di partenza agli elementi ritmici della lingua inglese, i quali prevedono una facile conciliazione con una struttura di tipo giambico (hoùse of mìne hoùse of mìne) dove l’ultima vocale di un membro sillabico risulta spesso essere muta.

[…]
3.1 Proposta di una nuova traduzione (estratto non presente nell’articolo originale, secondo capitolo del poemetto)
II

1

Carla Dondi was formerly Ambrogio of years
seventeen shorthand as first job
below the Duomo’s shadow

Care and love, it’s love that you need at work
be quick, always smile and learn languages
languages in here languages nowadays
do you know where you are? TRANSOCEAN LIMITED
here the whole world…
sure you’ll be proud.

Lady , we’re subscribed to
The General Cleaning, twice
a week, but Mr. Praték is very
demanding – love at work is love to the world – then
in the closet you’ll find the mop and the duster
your first thought in the morning-

OFFICE A OFFICE B OFFICE C

Why ain’t you eatin’? Now that you work you need it
now that you work you deserve it
much more.

She washed up in the bathroom then straight to the bed
she touched herself all night long.
Nothing was missing, she still was there
as there she was the night earlier – with her hands and her mouth also
she’s seeking herself, she’s going to cry out
she’s going to self-pity
but there’s no fancy
how can she fancy to self-pity?

She pulls her neck back and that’s all.

2

Below the Duomo’s shadow, aside a Duomo’s wing
the colored light signals the tang electric signs
flashing on the front of that old building at the corner
between the unhappy Vittorio Emanuele road and Camposanto square,
Santa Radegonda street, Odeon bar cinema and theatre
a bombed out building that could be the Rinascente

a hundred brass nameplates like that
TRANSOCEAN LIMITED IMPORT EXPORT COMPANY
nine o’ clock the 3rd of february.

Civilization has moved to the north
as it was born in the south, because of the weather
how much spirit does it distill at morning
The february weather, here in the city?

Carla dusts the forniture
Aldous translates telegrams night letters with the codes
a lady in white has started calculations
on the swedish calculator.

It’s an enjoyable time: there’s silence
and the rhythm of a breath , if you look through glass
that people walking to their workplace
fixed eyes focused necessary
they got such warm breath in their mouths
when they say mornin’
it’s them who decide
and I’m with’ em
nothing else to say.

Then this contemporary sky
above, straighten up your back, above but not too much
this sky tin-metal colored

above the square above the city of Sesto above the Cinisello above the district of
[Bovisa
above each of the tram drivers above the terminus

Doesn’t it extend to the infinity
the sides the spires the skyscrapers the big Pirelli’s shed
tin metal covered?

It’s ours this steel sky that doesn’t feign
no Eden and doesn’t allow lost
it’s ours and it’s moral the sky
that’s not promising run from earth
just ‘cause there’s not on earth
no run from us in life.

3

You can learn such thing in office
here’s the school of life
some you need to learn ’em quick
‘cause they mean preparing
the first one is to curry favor with Praték
with his cheapness
Money suits Praték
but never suits a worker, ‘cause at the end
of the month money whether a little or lot the worker
takes it away, then he look at it with his eyes
watery, money, and it doesn’t seem fair to him.
Women also suit Praték
but Lydia she was smart she knew it
then she ran out, the clock, not bad at the typing stool
with the fatty legs of hers.
But his wife with money she’s jealous
she watches over girls’ serenity,
Monsieur Praték – deep down, I’m a philosopher –
not for nothing he’s also been in jail
he respects institutions: Lydia exit
enter Carla: may be helpful to know:
with Doctor Pozzi all you need is grinding on him
getting him to sign quite everything.

4

Monsieur Goldstein a mild clerk betrayed by the name
he asked Aldous his age
twenty-two
I got a son who’s fighting in Tel Aviv
he’s also twenty-two, he said
will this world
yield a piece of earth for children
of ours?
This world has markets
and on the international the currencies
are they free or not, Cogheanu, it’s boss , got an intricate network
from an area to earth they transfer everyday
currencies this way:
Tel Aviv le quinze Avril or Bombay March twenty five
on notepads, scrap paper
Monsieur X veuillez payer à notre Monsieur Ypsilon
la somme de quatre vingt dix mille neuf cent cent cinq dollars
Signé Goldstein or Cogheanu

In Bombay in Tel Aviv in Casablanca a little Mister X
for that little paper pays pounds sterling
or rather dollars dollars, today it’s dollars that count

in the caustic soda deal, done and dusted in a sensitive time
the time when soda on the market was affected by the rise
of Yugoslavia and Germany was banging at the door
and Praték in Rome had already bought
with Italian lire and some coaxing
at the black market of licenses the export
license fort twenty thousand tons
this was the exchanging rate
dollar pound sterling – you buy in pounds you sell in dollars
in London is chancellor a fool –
he sank the deal: thirty thousand dollars in expenses
forty five thousand but not earned forty eight.

For Angel a whole rib-eye steak , with potatoes
for Carla a piece with marrow-bone just ‘cause she likes it
last piece for Nereine potatoes for her mother

nobody knows what does payment
against documents mean or why it’s used
but her mother proud watches Carla
grow up.

5

Perhaps it’s not quite sure that Carla
grows the way she has to grow or does she want or does she know
how to do it, how do you grow up at that age
and which things pass you by and which instead
will mark their passage, who knows it?

Twenty or twenty four years old how many have written
that they’re ready and they need to
go back on that rocky
Road, ‘till down the bowels
of those who’ve given birth to ‘em, in search of
moments of rupture solutions
of continuity
which history does not tell of
but sure they are there
if they are the way they are?

Carla,
sensitive testy unprepared
get lost but carries on, without saying
not once I like it I don’t
with few misunderstood guidelines
misunderstood as such, or unaccepted; specific
desires to be clarified she doesn’t have ‘em
at the end of the month

At the end of the month it’s blood
spotting between her pale legs
making her tremble and also Praték when
he calls her in the office for dictation.

6

For instance, you should hear him curse
such swear words as only a man
disgust to Carla and nothing to ask –
today not mild Aldous
when the cat’s away the mice will play
Mrs Camilla to calm him down
schmooze him the wrong way – with her back
holding back her shoulders, over the typewriter
Carla lays her face taking refuge
in the fastest keys
«There are things you’re overcoming only
in bed, wedged in a woman, and cursed
the fruit of her womb» – Aldous’ trembling
he doesn’t know how to vent

A third world war

FONDAMENTO DEL DIRITTO DELLE GENTI, L’ISTITUTO
DELLA GUERRA È ANTICO QUANTO GLI UOMINI: A DIRIMERE
LE CONTROVERSIE FRA GLI STATI SIA PURE COME EXTREMA RATIO
NULLA DI PIÙ RISOLUTIVO ED EFFICACE DEL RICORSO
A CODESTO, CHE LA DOTTRINA CONFIGURA E LA PRASSI TUTELA
COME SANZIONE DECISIVA CUI SI AFFIDA
IL RIPRISTINO DELLA VIOLATA LEGALITÀ INTERNAZIONALE
NON C’È DA FARSI ILLUSIONE, NON È TALE LA LEGGE SENZA SANZIONE –
E LA LEGGE SPECIFICA, I TRATTATI, DAL GROTIUS AI GIORNI NOSTRI
NE ILLUSTRANO LE RAGIONI E LA FUNZIONE (DELLA GUERRA SANZIONE).
INOLTRE, LA DOTTRINA PIÙ RECENTE, SULLA SCORTA DEGLI ACCADIMENTI
E DELL’ESPRESSA VOLONTÀ DEI SOGGETTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE
HA ELABORATO UNA NUOVA FIGURA DEFINITA GUERRA-RIVOLUZIONE
MASSIMA PRODUTTRICE, EX NOVO, DI DIRITTO: LADDOVE LA PRIMA
RIPRISTINA, LA SECONDA CREA, MIRABILMENTE INTEGRANDOSI
IL SORGERE DELLA LEGGE E IL SUO PROSEGUIMENTO

A third world war
is nécessary, né-ces-sa-ry, go on translate my friend
sticking her chest out like a roller and standing tough
but sure I did, translatin’ is my job,
another one is needed, another world war

There also are the ones who every night
remove an eye and put it by
the works of Churchill, on the night table,
meantime they smoke a cigarette:
it’s a false eye, made of glass, but what it’s true
is the eyehole on the face.

But doing it in the daytime, in the full sunlight
to dismay love
do you love me this way?

but doing it in the daytime to sell it
as a safe passage to the Germans
I’m not a whole man therefore
you’ll able to manage without killing
me

That the third world war is necessary
with my word he made
me telling this – in a corner in silence
Praték sayin’ yes with his eyes and that boeotian
both giggling at Biella «Let’s slow down, gentlemen,
no foolin’ around».

He calls a spade a spade
the Turk is quite powerful
getting smart won’t help him at all.

But then, who knows, never done before,
Aldous follows her to the door then offers her Campari and soda
Carla now says no – she already made her mind on her way out –
but then she says yes, to Cappellari
she takes her drink, she mix it
with a touch of shame
then on the tram her head got spinning

Luckily that the trams
luckily on the midday trams
people push you bump you touch you
they also block you with the elbow
they won’t let you fall.

7

Who knows what does weakness mean
strength, in people, backbone.
Who knows what they know the ones who know
what they want, who carry on the certainty
of being, as if they’d always been
men, and forever will be.

House of mine house of mine
even though you’re teeny-tiny
there’s Nereine with baby bump
on her chick she got a thump
from her husband who works hard
and who knows how much is hard
there’s the mom who thinks it’s right
stockings wide stockings tight
all is fine it’s fine enough
like a baby with hiccough
days come roun’ no interval
once upon on carnival
once upon on carnival
once upon

Home free

4

di Gianluca Veltri

“Sono tutti vittime delle circostanze
Di antiche campane che recano
Tutta la paura del mondo, timida e nuda

[…]

Ma i conigli hanno abbandonato le loro tane
Si sono riconsegnati alla terra”

(David Sylvian “Gone To Earth”)

Chiedo scusa se parlo di Maria, cantava Giorgio Gaber. Era una maniera per schermirsi, quando il suo tarlo tornava a galla, nel momento in cui quella cartina di tornasole ricompariva a reclamare la sua visione della vita. Come i saggi di Roland Barthes, che pretendevano di vedere il mondo attraverso una fava.

Ognuno ha la sua finestra affacciata sul mondo, la sua feritoia sulla vallata, e David Crosby è la mia.

La vita è un romanzo, dice Alain Resnais. Come l’avrebbe raccontata, lui, la vita di Baffo Van Cortland alias David Crosby? Riemerso da varie vite precedenti come in un serial che però era la sua esistenza, avviluppato sulla scala a spirale del proprio inferno personale. L’ho riascoltato in un disco registrato dal vivo nel 1986 a una radio americana. Si intitola, quel disco privo di grazia, “Silent Harmony”, ed è stato pubblicato solo nel 2017. Il 1986, l’anno a cui risale, è il nadir di David Crosby: sono trascorsi quasi dieci anni dal disco della barca con Stills e Nash: ogni cosa si è rabbuiata, si è spento il sole californiano, tutto è passato e futuro niente. Deriva, droga, carcere. Ascoltare “Silent Harmony” non è bello: quella glossa – “armonia silente” – contenuta nella celestiale “Guennevere” rimanda a tempi – il 1968 – in cui Crosby era al centro del suo mondo, ispirato come un poeta pieno di luce e ascoltato come un profeta o un guru, avvolto in un mantello di sapienza e carisma. Cos’era diventato, dopo? Un attaccabrighe di periferia; un tossico collerico che stava distruggendo la sua mente e il suo fisico. Un uomo infelice, pieno di rammarico e risentimento. Nel live del 1986, Croz è sovraeccitato, presenta in modo logorroico le sue canzoni, splendide ma suonate in modo approssimativo, con un tocco greve sulle corde. Non è più al centro del suo mondo; o forse è al centro di un altro mondo – brutto, buio, sbagliato, pieno di rabbia e rimpianti.

Dopo il suo ritorno sulle scene con “Oh Yes I Can” nel 1989, diciotto anni dopo “If I Could Only Remember My Name”, a Crosby capitavano un sacco di cose interessanti, tra le quali, più di tutte, riscoprire il figlio perduto James Raymond, destinato a diventare alter ego artistico inseparabile. Poi faceva incontri, con artisti già acclamati che volevano collaborare con lui, e con giovani talenti che lo consideravano il loro mentore.

E siamo ai giorni nostri.

È il 2014, e Crosby ha pubblicato a suo nome soltanto tre album:

“If I Could Only Remember My Name” (1971);

” Oh Yes I Can” (1989);

“Thousand Roads” (1993).

A partire da quell’anno – ha 73 anni – il songwriter californiano pubblica quattro album in un lustro scarso, fino al 2018. Più precisamente:

“Croz” (2014);

“Lighthouse” (2016);

“Sky Trails” (2017);

“Here If You Listen” (2018).

Considerando che “Croz” esce a oltre venti anni dal precedente album, è stupefacente registrare la freschezza senile e la felicissima prolificità di un musicista proverbialmente parco: tre dischi in quarantatre anni, quattro nei successivi cinque. Una parabola unica; una doppia anomalia. Ma adesso arriviamo all’incredibile: perché questi quattro album di un artista ultra75enne già leggendario sono tutti e quattro di una bellezza ispirata, stupefacente, abbagliante. È come se Crosby si fosse conservato tanta grazia a bella posta. Come avesse serbato dentro di sé e messo al sicuro una silente armonia, un universo intatto, un pozzo di perle, nascondendole ad arte nei giorni bui, per poi esporle in serie.

Di solito nelle ultime uscite discografiche dei grandi vecchi, dei mostri sacri, ci accontentiamo di qualche zampata, di un lampo antico in mezzo alla mediocrità inevitabile del presente: il passato parla per loro, non pretendiamo di più, ci basta avere un lavoro nuovo che testimonia la loro vitalità, la loro esistenza. Con David Crosby non funziona così, è tutto radicalmente diverso: la sua carriera ellittica si è popolata di capolavori con i Byrds (cinquant’anni fa!), con Stills, Nash e Young; con i tre primi album usciti a tanta distanza l’uno dall’altro. Long Time Gone. Mentre pensavamo a lui come a un vecchio bonario che aveva recuperato almeno la salute e la voglia di vivere, lui sforna quattro capolavori. È un artista che ha un mondo dentro di sé, ha il mondo dentro di sé, e non smette di raccontarcelo. Un’anima traboccante che non cessa di meravigliarci.

Il terzo capitolo di questo poker (“Sky Trails”) si chiude con uno dei suoi pezzi più meravigliosi. Si intitola “Home Free”, una glossa che può significare molte cose: “sicuro di farcela”, o anche “fuori pericolo, in salvo”. Crosby canta delle notti di pioggia e della splendida felicità di avere un tetto sopra la testa; della necessità di non smettere mai di ripetersi “come sono fortunato”. Si sente “come un neonato avvolto in una coperta che non ha niente da temere”; come “un albero che sa sempre dove cadranno le sue foglie”.

“Home Free” è il canto di un uomo che sa cosa significa non avere casa da nessuna parte; che è stato randagio e reietto, senza pace. Un uomo che per anni si è sentito ben diverso da un neonato avvolto in una coperta. È un brano, questo, che contiene la parola home, casa. In musica, quando si torna all’accordo principale del brano (l’accordo di tonica), si dice che l’armonia “torna a casa”, diventa tranquillizzante, ossia riporta tutto a posto, si pacifica, rassicura l’ascoltatore. L’accordo di tonica di “Home Free”, quello che dovrebbe “riportare tutto a casa”, contiene intervalli armonici estremamente dissonanti (è un accordo di sesta nona), che lasciano aperte sospensioni larghe e inquietudini profonde. Anche mentre canta la meraviglia di sentirsi a casa, di percepire se stesso aggrappato alla sua terra, Crosby non rinuncia all’ambivalenza delle sue note oblique. Non è mai rotondo, sarebbe troppo facile: è la sua cifra, è la sua grandezza.