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Lo Spazio dell’Immagine

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di Gabriele Doria

There is no such thing as an empty space.

John Cage

Questa storia comincia, ovviamente, con un uovo.

Per essere precisi, un uovo appeso ad una grande conchiglia.

L’uovo fluttua sopra una scena affollata: vediamo vecchi dalle vesti lacere e sciancate, crani spaccati, piaghe in suppurazione; lievemente distaccato, un nobile privo di un occhio (il destro) porta con se’ il proprio elmo malinconicamente ammaccato. L’uovo sembra essere proprio sopra di loro ma è un’illusione: è molto più lontano, le architetture sullo sfondo della scena si rivelano dunque monumentali. Si tratta di un espediente ottico, per far coincidere l’uovo sospeso con un altro uovo, più in basso.  L’altro uovo è un viso di donna (una Vergine). Il convergere prospettico identifica il punto di fuga nel suo occhio sinistro. La Vergine, ovviamente, contempla un Bambino; il corallo che questi porta al collo rimanda a una rinascita di là da venire. Sull’orlo del visibile parlare, contemplazione e memoria chiuse nella fissità innaturale di una certificata presenza dell’assente: qui nessuno sembra volerlo dire, ma si sta piangendo un morto. Una morta. L’uovo sospeso, proiettato nel diafano che dovrebbe parlarci di un di là, emerge dal nero, da un fuori-scena, occhio che (stra) vede una lacerazione, perché l’immagine è sempre frantume, del presente con-temporaneo.

La Pala di Brera di Piero della Francesca sembra essere stata commissionata dal duca di Urbino (il nobile senza occhio, solo profilo) dopo la prematura scomparsa della moglie Battista Sforza, morta nel dare alla luce Guidobaldo I di Montefeltro. Ancora un’uscita dal nero: l’uovo tradizionalmente ha a che fare con la nascita (ovviamente). Istruzioni pagane: il mito di Leda, moglie di Tindaro, re di Sparta (dove appeso in un tempio si trovava un identico uovo) viene fecondata da Zeus sotto forma di cigno, precorrendo la fecondazione di Maria tramite i raggi divini emanati dalla colomba dello Spirito Santo.

Se il nostro uovo lo ritroviamo, facendo un lieve salto, zoomato, stra-visto, in copertina al catalogo della mostra di arte contemporanea lo Spazio dell’Immagine, allestita a Foligno nel 1967, è per la comune origine centro-italica, per il riferimento al rapporto fra l’oggetto e lo spazio, fra lo spazio e la luce, o per il rifarsi al dogma della verginità? E l’immagine è vergine? Non è impossibile trovare un collegamento tra l’arte ambientale e la maternità. Nel 1959 alla Galerie Drouin di Parigi Pinot Gallizio (pittore a sessant’anni, “il primo e forse l’ultimo pittore che abbia mai conosciuto” Carla Lonzi) espone un ambiente realizzato con 145 metri di tela dipinta, utilizzata per ricoprire completamente pareti soffitto e pavimento. Ciò che rimane è uno “spazio di intensa ed esplosiva energia organica”, “matrice pulsante di valori primordiali magici e mitici” (Francesco Poli): un grande “utero cosmico” dell’antimondo, metafora del grande cahos vehefactus lucreziano brulicante di possibilità. La Caverna dell’Antimateria viene così descritta dall’artista in una lettera: “Imprevedibile per toni e contrasti di colore […] per violenza, violenza (…) materie in eruzione come lava, in esplosione, per effetti sorprendenti di colori dai più tenui ai più scuri (…) pittura atomizzata, disintegrata! Le reazioni a catena descritte sulle pareti illustreranno agli attori-visitatori un dramma vissuto a loro insaputa” E se nel ‘59 si parla già di “attori visitatori” non sarà inopportuno arrivare al 1967 in cui Michael Fried pubblica, su Artforum, Art and Objecthood, furiosa invettiva in cui lamenta una “condizione generale e onnipresente” dell’arte contemporanea. Nell’arte precedente, ciò che si poteva trarre dall’opera “era strettamente all’interno di essa”. Ora, invece, la nuova sensibilità “è portata a considerare le circostanze reali in cui lo spettatore incontra l’opera”, producendo situazioni in cui lo spettatore è naturalmente incluso. La nuova arte “è in realtà un pretesto per un nuovo genere di teatro, e il teatro ora è la negazione dell’arte”. Non è questa la sede per attraversare la storia dell’arte ambientale. Basti dire che, come spesso accade quando si parla di ricerche nel contemporaneo, Duchamp dà un contributo decisivo, con gli interventi di allestimento per l’Esposizione internazionale del Surrealismo nel 1938 dove in una grande sala sono appesi al soffitto 1200 sacchi di carbone, e per la mostra “First Papers of Surrealism” a New York nel 1942, dove lo spazio è attraversato in tutti i sensi da ben 12 miglia di filo, disposto come una sorta di ragnatela. Per non parlare (parlandone) di Dati: 1. La caduta d’acqua, 2. Il gas d’illuminazione, opera nascosta nel buco di una serratura a cui lavorò per un ventennio, fessura-buca nel nero, altra luce altra lacerazione altra fessa. A proposito di dogmi, qui il visuale apre alla dimensione della violenza inaudita, l’occhio-pene nell’atto di registrare non un eden diafano ma una diretta del contemporaneo parodisticamente televisiva-cinematografica, quindi un presente sempre in ritardo, nell’attimo successivo allo stupro. Fine della storia.

Pinot Gallizio certamente conosceva Fontana e certamente conosceva Klein, che l’anno prima aveva esposto a Parigi Le Vide ou La Spécialisation de la sensibilité à l’état matiére premiére en sensibilité picturale stabilisée, ovvero il vuoto, per dimostrare l’esistenza di “un’essenza immateriale dell’arte”, fruibile da parte degli spettatori attraverso un’esperienza  allo stesso tempo sensoriale e spirituale. Dai situazionisti quella di Klein sarà definita “mistica incantatoria”, e quindi “mistificatoria” perchè invece che stimolare situazioni creative attive esaltava una “passività contemplativa”.

Klein provava un profondo interesse per le dottrine esoteriche, teosofia e alchimia, e per gli scritti di Gaston Bachelard, nome che ritroviamo anche in una conferenza del 1967 di Michel Foucault, “Des espaces autres”.

A Foucault interessano quei luoghi, tra tutti, che “hanno la curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri luoghi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare, sovvertire  tutte le relazioni che si trovano da loro realizzate o riflesse”: le eterotopie. Proprie di ogni società e anzi cresciute in seno a ogni società, costituiscono “contro-locazioni”: le eterotopie sono luoghi fuori da tutti i luoghi in cui le altre posizioni sono contemporaneamente “rappresentate, contestate e invertite”, eppure localizzabili.

Lo specchio, ad esempio,  è un’utopia, poiché è un luogo senza luogo. Nello specchio, io vedo “dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie; Sono là fuori, dove non sono, una specie di ombra che mi dà la mia visibilità, che mi permette di guardarmi lì dove sono assente: l’utopia dello specchio.” Ma è anche un’eterotopia, “nella misura in cui lo specchio esiste realmente, e nella misura in cui esiste, nel luogo in cui Io occupo una sorta di effetto reciproco: è dallo specchio che scopro assente nel luogo in cui mi trovo poiché mi vedo lì. Da questo sguardo che in un certo senso è focalizzato su di me, dalle profondità di questo spazio virtuale che è dall’altra parte del ghiaccio, torno da me e ricomincio a indossare i miei occhi verso me stesso e per ricostituirmi dove sono.

Il Teatro, quella cosa “scandalosa, come è scandalosa ogni cosa divina” (Carmelo Bene) è un altro esempio perfetto di eterotopia, così come gli spazi ambientali, realizzati dagli artisti, in cui gli spettatori interagiscono, in cui le opere incarnano volta per volta universi totalizzanti. Superata l’ambizione di una equazione arte-vita, nostalgie di avanguardie di inizio secolo, l’arte ora gioca a farsi teatro, a superare il teatro, adoperando “supporti veri” (nella definizione del filosofo americano Kendall L. Walton) “nel gioco immaginario di far finta”: “ I partecipanti a un gioco possono interessarsi alle torte di fango unicamente sulla base della verità che attribuiscono al modo di fare finta”.  Sovviene la risposta che Pino Pascali diede a Carla Lonzi, riportata in Autoritratto: “Anche i bambini giocano seriamente, è un sistema conoscitivo, i loro giochi sono fatti proprio per sperimentare le cose, per conoscerle e nello stesso tempo per andare oltre»

Così come l’epitaffio intessuto da Palma Bucarelli l’anno successivo alla scomparsa dell’artista pugliese (riportato da Andrea Cortellessa nel suo saggio su Pascali per Antinomie[1]): «Chi può dire che il gioco cancelli il tragico dell’esistenza? Quando si è nel gioco bisogna giocare, e la necessità non è libertà. Giocare è giocarsi.”

(Bataille ne “La crudele pratica dell’arte”: “vogliamo decifrare cieli e dipinti, andare oltre questi sfondi stellati e, come bambini che cercano una fessura in una recinzione, provare a guardare attraverso le crepe del mondo”.)

 

Per qualcuno può essere lo Spazio. Se la mostra sopra menzionata, Lo Spazio dell’Immagine, è considerata epocale, lo è soprattutto per un paio di ragioni: la prima, biecamente storica, è perché “si tratta della prima mostra italiana di opere installate in situ intorno a un unico tema: l’integrazione dello spazio, del colore e dello spettatore in un ambiente totalizzante” (Romy Golan); la seconda è la congerie di fatalità che raduna in un ambiente provinciale alcuni dei più grandi artisti italiani dell’epoca (Foligno è una città umbra, snodo commerciale e ferroviario in recessione economica dopo aver particolarmente patito i bombardamenti alleati del 1944). Senza voler fare un’epica del decentramento, il fatto è che all’epoca la fragorosa mancanza di una rete di istituzioni italiane per l’arte contemporanea lasciava mano molto libera ai molti attori orbitanti attorno ad essa, rendendo episodi simili, ancorché clamorosi, addirittura vantaggiosi (Romy Golan in un articolo per Flash Art[2] ripercorre altre due mostre di quegli anni nate in ambienti provinciali, come Arte povera più azioni povere (1968), agli Arsenali di Amalfi, e Amore mio (1970), a Montepulciano).

L’evento fu possibile grazie all’iniziativa del designer Dino Gavina, che aveva impiantato una factory nelle vicinanze (parodiato nel geniale libro AntiGavina Design di Corrado Costa, dove si propone la via per un totale Falli & Mento s.p.a. con sede legale a Torino: “L’arredamento di un interno coi prodotti Antigavina crea irritazione nel single, malumore nella coppia, intolleranza in un nucleo familiare di tre persone e mezzo. Chi regala uno dei nostri prodotti lo fa per disprezzo. In una società di malvagi i prodotti Antigavina andranno a ruba. L’oggetto Antigavina stimola l’istinto di distruzione. […]”), unita al coordinamento di Gino Marotta e all’interessamento di critici come Maurizio Calvesi, Gillo Dorfles, Umbro Apollonio e Palma Bucarelli, oltre a Giulio Carlo Argan.

E’ ignoto a chi, fra questi nomi e altri ancora che parteciparono alla mostra, si debba la scelta del nostro uovo come simbolo, riportato su manifesti e cataloghi. Il taglio che lo scontorna dalla dimensione religiosa, lo vorrebbe forse riportare alle sue radici pagane?

La mostra venne realizzata all’interno di un palazzo patrizio tardo-medievale, decorato da preziosi affreschi rinascimentali. Per quanto gran parte della mostra abbia oscurato le opere già presenti nelle stanze, decidendo di fare a meno del dialogo, non c’è nudità più esibita di quella s-velata, e gli dei pagani fuggiti dagli affreschi e nascosti da un telo attendono oltre il limite oscuro dell’occhio-voyeur, continuando a infestare il palazzo. Ne è una prova Cinque pozzi (1966) di Michelangelo Pistoletto, allestito nella Sala delle Arti e dei Pianeti. Allo spettatore che si fosse affacciato a uno dei cinque cilindri bianchi in fibroresina dal fondo specchiato (dunque eterotopico), ciascun pozzo poteva restituire, oltre al personale fantasma di ciascuno, parti di soffitto: lo sguardo della maestosa figura della Filosofia, o le parvenze di sette splendide donne che iniziano fanciulli alle arti liberali, o ancora sette pianeti, ciascuno accanto a una scena delle età dell’uomo associata a una specifica ora del giorno. Fascino del “guardarsi”, tornando a indossare i propri occhi, del sentirsi nello spessore fantomatico dell’immagine, nella trama di un “fantastic voyage” di cui si è passeggeri/piloti, dentro di essa.

 

Nel Medioevo lo spazio della superstizione era lo spazio della terra, l’angoscia della calamità biologica trovava sfogo nella lotta tra Chiesa e miscredenza per il predomio simbolico: influenza dell’uomo nell’ambiente, culto dei morti, fertilità, succedersi delle generazioni. Nella conferenza sugli spazi autre, Foucault traccia una storia dello spazio occidentale a partire da quello fortemente gerarchizzato del Medioevo, definito di localisation, formato da ambienti urbani e rurali, protetti e indifesi, sacri e profani (come pure è fortemente gerarchizzato lo spazio di Leon Battista Alberti e, ovviamente, di Piero della Francesca).

Lotta per lo Spazio e per il Tempo: il tempo che fa e disfa, il tempo a venire dei sogni e delle divinazioni continuamente strappato agli occulta dei, i segreti di dio. I laghi, le fonti, i fiumi, i boschi, erano luoghi infestati da rimanenze pagane, ben più difficili da abbattere dei templi degli idoli: nel gran lago Elario – racconta Gregorio di Tours – una folla di contadini  gettava biancheria e stoffe destinate ad abiti maschili per scampare a una tempesta di pietre; nella vita di San Lucio si parla di un “bosco di Marte” dove i bovari andavano per adorare vitelli come fossero dei; e non potendo impedire a San Martino di abbattere il pino sacro, i contadini meditavano di schiacciare il sant’uomo sotto quello stesso albero, ma ecco, accade il miracolo: il pino viene risospinto all’indietro e per poco non schiaccia i pagani…

Per la mostra di Foligno Gino Marotta (geniale scenografo per la Salomé di Carmelo Bene, ancora teatro) realizza Naturale-Artificiale, ambiente spaziale che rappresenta una foresta ghiacciata in perspex, fatta di sagome di alberi in plastica bianca trasparente. Una foresta fantasma. Nel testo scritto per il catalogo della mostra, Marotta fa riferimento al tempo orizzontale della memoria, all’interno del quale risiedono il passato, il futuro e la misura dell’esistenza. È quindi necessario osservare l’opera come campo di ricerca per “inseguire significati, illuminazioni, simboli e miti per il nuovo corso della vita”.

Palma Bucarelli dedica un saggio nel catalogo della mostra all’opera di Ettore Colla, ultimo “buon samaritano dell’epoca del Ferro”, viandante delle periferie dove raccoglie i materiali dell’industria al loro ultimo stadio di degrado.

Il museo diventa un cimitero di carcasse, la cui morte si trasforma in morte eterna. Gli oggetti dimenticati diventano segni derivati dalla città industriale che disprezza l’oggetto. Il suo ideale è un mausoleo a cielo aperto. Colla parla di una decomposizione feconda “il relitto, la cosa-segno, è ricomposto nel tempo così come si ricompone e si geometrizza nello spazio. […]”

Ma il relitto è anche quello della cultura classica, che si interpone in titoli mitologici: Orfeo, Pigmalione, Mosè… Scheletri svuotati non privi di monumentalità, descritti in vertici e spirali. Inoltre, come il collega Mattiacci, come un uomo del Quattrocento, Colla è affascinato dal cosmo e dai pianeti.

Odissea nello Spazio. “Non vogliamo abolire l’arte del passato o fermare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro. Un’espressione artistica aerea di un minuto è come se durasse un millennio, un’eternità. […] Lo spirito diffonde la propria luce nella libertà che ci è stata donata.” Fontana pubblica il Manifiesto Blanco a Buenos Aires, nel 1946, a cui seguirà, tornato a Milano, il Manifesto Spaziale l’anno successivo. In Fontana, grazie allo spazialismo, il materialismo radicato nell’arte figurativa/astratta scompare a favore di un senso di religiosità cosmica, nel gesto puro ed eterno che nasce da una necessità non solo artistica ma spirituale, metafisica. A Milano è in contatto con personalità come Gio Ponti, Ettore Sottsass e i membri del Gruppo T (T = tempo); a Milano presenta per la prima volta nel 1949 il suo Ambiente Spaziale a luce nera, costituito da un oggetto di cartapesta di forma astratta, dipinto in diversi colori, fluttuante all’interno di una stanza buia e rivelato da una luce al neon nera. È alla base del resto del suo lavoro e della sua ricerca, compresa la successiva serie Concetti Spaziali. In occasione della mostra del 1967 a Foligno, Fontana, che era vicino a Dino Gavina e Gino Marotta, decise di ricostruire l’Ambiente Spaziale a luce nera sotto la direzione di Giulio Carlo Argan, che dedicò all’artista un saggio nel catalogo della mostra. Conserviamo ancora parte del carteggio in cui l’artista dà istruzioni per la realizzazione dello spazio ambientale, specificando dimensioni e materiali. E’ anche in queste lettere che spiega come l’Ambiente spaziale fosse impossibile da fotografare a causa della presenza di luce nera (o luce di Wood); l’unico modo per ricostruirlo era seguire le sue istruzioni scritte e i suoi progetti, sorta di formula di evocazione.

[Altro fantasma. Si è ancora appesi, uscendo dal nero stavolta però per rientrare nel nero. E’ forse a questo buco bianco che pensarono di collegare l’uovo? Intanto, nel 1976, per la biennale di Gubbio, l’artista Mirella Bentivoglio decise di fare un omaggio “All’Adultera lapidata” presentando un grande uovo composto di detriti. La dedica era invisibile perché collocata all’interno della scultura, almeno, immaginiamo, fino a che non si sono potuti vedere i detriti. Perché l’uovo si ruppe, ed è stato solo recentemente restaurato]

Nell’Arte Povera (che sarà codificata di lì a pochi mesi, nel settembre 1967) l’unica certezza dell’artista è il significato dell’azione in relazione all’ambiente naturale. L’artista vuole in definitiva sentire di esistere in corrispondenza con altri esseri viventi. Si riscopre attraverso l’esperienza diretta, che non è più rappresentativa: vuole vivere e non vedere. Celant descrive l’opera di Pascali come una dimensione in cui una sensazione si realizza nella sua immediatezza. Pascali, che per tutta la breve vita terrà divisi il lavoro di scenografo per la televisione e quello di artista, a Foligno espone per la prima volta i 32 mq circa di mare, uno dei suoi capolavori più riconosciuti. L’anno successivo, pochi giorni prima della morte, tragica, in un incidente in motocicletta, Pascali inscenerà per la cinepresa di Luca Patella la sua unica performance, una sorta di inquietante rituale pagano di ritorno all’acqua, di tragedia e di risurrezione. Penone scriverà anni dopo che, benché lo lasci “deluso” scoprire come l’acqua del “mare” non fosse <<di mare»,  l’«estroversa e imperfetta tautologia» di Pascali «suscitava la magia del fare»: «una scenografia al di fuori degli studi televisivi, una scenografia per la vita di tutti i giorni» fa sì che «lo stupore di Pascali sia sincero, non sia calcolato, sia vissuto».

Un altro teatro immanente è quello di Ceroli. L’uomo misura di tutte le cose è a diretto contatto col materiale per lui più vicino alla vita, il legno, il legno dei boschi sacri. Come uno sciamano, evoca la propria ombra inesorabilmente imprigionata, all’interno di una Gabbia di legno (anticipatrice della Double Steel Cage di Bruce Nauman) in cui il visitatore è invitato a diventare parte integrante. Ancora, il tubo di Mattiacci è un mostro sorprendente elastico, un evento plastico passivo che accoglie qualsiasi ambiente, che invade e distrugge lo spazio riproducendosi continuamente, riaffermando la propria ubiquità. Un demone infestante del contemporaneo. Gilardi vuole anche lui rendere attivo lo spettatore: lo invita a visitare un prato verde ricoperto di fiori e foglie, cerca di riconnetterlo alla natura. Una natura falsata: il contatto svela immediatamente l’illusione, non si tratta di erba ma di muschio industriale. E’ l’inganno del genio maligno, è l’eden prodotto dal capitale.

Di Tano Festa c’è ancora chi racconta di come girasse per le strade di Roma a testa alta, come un presocratico, cercando di afferrare le nuvole che aveva tra le mani, le stesse nuvole che disegnava nei suoi dipinti e che si ritrovano nell’opera esposta a Foligno nel 1967. Festa non ha creato un vero e proprio spazio ambientale per la mostra, ma piuttosto un’opera-monumento, intitolata Il Cielo, su cui è stato dipinto un cielo azzurro con nuvole bianche. Si trattava di un’opera dedicata alla morte di Francesco Lo Savio, l’ultimo fantasma di questa storia, artista che si suicidò all’età di ventotto anni nella Cité Radieuse di Marsiglia. Un altro morto. Lo Savio fu grande amico anche del poeta clandestino Emilio Villa, il quale per difenderlo ebbe un alterco con Piero Manzoni. Festa, che negli anni Sessanta aveva ormai costantemente integrato nelle sue opere porte e finestre, a proposito di quest’opera scrive:

« […] Guardo ancora la porta chiusa e mi sembra che in questo momento non ci sia nulla dietro, né il corridoio né il resto della casa. Se lo aprissi, vedrei solo un grande cielo azzurro pieno di nuvole bianche […] »

Nel IX secolo l’arcivescovo di Magonza Rabano Mauro racconta come “una notte, tra l’imbrunire e l’inizio della notte”, fu messo in allarme da “una così spaventosa vociferazione del popolo, che la sua irreligione sembrava dovesse penetrare in cielo”; “Quando chiesi loro cosa volevano ottenere con quella chiassata, mi risposero che le loro grida dovevano venire in soccorso della luna sofferente, che si sforzavano di aiutare durante la sua eclissi”.

[Per una di quelle coincidenze mai davvero casuali, Lo Spazio dell’Immagine è anche il titolo di un libro di Saverio Zumbo su Michelangelo Antonioni, edito nel 1995 da Ripostes. Rimandando a un secondo momento l’esplorazione del legame tra il regista e l’arte contemporanea, chiudo con questa riflessione che Antonioni aveva premesso all’edizione einaudiana dei suoi Sei film:

Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.]

[1]https://antinomie.it/index.php/2024/09/18/pino-pascali-giocarsi-la-vita/#_ftnref16

[2]https://flash—art.it/article/fare-finta-nellarte-italiana/#_ednref

Pratolini poeta. Un mannello dimenticato

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di Marco Nicosia

Il mannello di Natascia e altre cronache in versi e prosa (1930–1980) rappresenta un’opera unica nella produzione di Vasco Pratolini. Lo spunto per questa breve recensione nasce da una piacevole sorpresa: la scoperta di questo libro raro, ricevuto in dono dalla moglie di un poeta recentemente scomparso, proveniente dalla sua libreria personale. Si tratta di un volume ormai introvabile, reperibile solo a caro prezzo nei negozi di libri usati. Mentre riordinavo i tanti volumi, mi sono dunque ritrovato tra le mani due copie autografate, corrispondenti alle due differenti edizioni del Mannello.

La prima, pubblicata con il semplice titolo Il mannello di Natascia dalla galleria d’arte “Il Catalogo” di Salerno, fu stampata nel settembre 1980 in 350 esemplari fuori commercio. La seconda, considerata l’edizione definitiva, venne pubblicata da Mondadori nel febbraio 1985. L’edizione limitata della galleria d’arte — dedicata a Vittorio Sereni, coraggioso nell’esserne «estimatore» — è impreziosita da quattro acquerelli di Bruno Bècchi (Su una poesia di Pratolini, 1935; Spagna, 1938), Ottone Rosai (Bagnanti, 1932) e Renzo Grazzini (Via delle Casine, 1980), rendendola di fatto un vero pezzo da collezione. L’edizione pubblicata da Mondadori — dedicata anche a Ruggero Jacobbi, uno dei primi lettori — raccoglie cinque sezioni distinte, ciascuna legata a un diverso periodo della vita di Pratolini: a Il mannello di Natascia (19301936) — suddiviso in Elegia dell’adolescenza e L’epoca di Natascia — si aggiungono le plaquette La città ha i miei trent’anni (1944), Calendario del ’67, L’anno della senescenza (1978) e Ora che s’è fatto silenzio (1980).

Ad aprire la raccolta è un’avvertenza dell’autore, che ne spiega brevemente la storia: A proposito di un manoscritto tornato al suo autore come dentro una bottiglia. La prima sezione dell’antologia fu elaborata nella prima metà degli anni Trenta, quando Pratolini non aveva ancora esordito come romanziere, e fu dedicata e consegnata alla merlettaia fiorentina Maria Alfani, affettuosamente detta Natascia. Il «tesoro» fu poi restituito nel 1978 su suggerimento della nipote, «un mostro di ventidue sulle ventitré primavere costei, linguista glottologa studiosa degli stilnovisti e dei contemporanei, supplente alle medie, aggiunta all’università, inedito narratore, con maggior segretezza poeta, extraparlamentare di sinistra, mia demolitrice e mio amico». «Ti potrebbe che ne so servire», sono le parole che lo scrittore prende alla lettera.

È così che va alle stampe un esordiente Pratolini poeta, ormai più che settantenne, il quale, dopo questa raccolta, di inedito pubblicherà soltanto cronache minori. Una silloge di nostalgia per la temeraria giovinezza lontana, dunque, accresciuta da testi che offrono uno sguardo disincantato verso il presente. Un dono per collezionisti che l’autore di Metello può permettersi di indirizzare ai sopravvissuti lettori di poesia degli anni Ottanta, dopo che le sue più fortunate opere hanno scalato le vette dei manuali scolastici.

“Non conosci le stampe dei Lavatoi visti
da San Simone ora spariti? Né delle tante
e mai chiese la cupola il battistero
il campanile di sfondo ai venditori,
le loro gerle i gridi?
Nonno ce n’ha la casa piena.

Son pancia di Campi ecco il panfino
vendo le scoole e il pan di ramerino.

Centenario bacucco mamma dice si gingilla,
le ramazza spendendoci gli ultimi duini.
Fino all’altr’anno faceva il cenciaiolo.

Donne chi vuol comprar l’istoria bella
di Ippolito Dianora — e Chiarastella.

Babbo suo figlio più grande bravo
gli dice, lasciaci eredi, tu fuma e trinca.
Ogni sera torna che sbanda, dolce amoroso.

Un trapassato ritrarria da morte
questo ch’io vendo a fiaschi aceto forte.

Mica son versi di poeti mi confida,
ma io bambina mia li ho sentiti,
coteste figurine le seppi di persona.

A chi vuol colar brodi ecco lo staccio
al prezzo più discreto io ne fo spaccio.

Lasinio com’è scritto disegnò e incise
dal vero, ponici gli occhi sono
i tuoi avi, di quando berta filava e sul Mugnone
crescea erba trastulla. Con la panaia di Campi
giovani forti s’andò per prati.”

*
«Tornando a casa ne hai buscate?»
«Mah, il babbo, le solite cinghiate»

*
Il cielo basso il gelo nelle case,
impiastri mucillaggini suffumigi,
quando per Berlingaggio è festa
l’ospedale.
«Ti hanno fatto entrar solo? l’estremo
desiderio prima dell’estrema unzione.
Tu invece vivrai, nevvero? chissà quanto.
Peccato!»

*
E sulle labbra il suo ultimo fiato
aspro il commiato. «Sono fregata, Casco,
la morte non è un sollievo, è un’imboscata.»

Ora c’è un albero di mimosa nel campo dei giaggioli.

(Da Elegia dell’adolescenza, dedicata all’amica Bianca nel quinto anniversario dalla sua scomparsa)

Il Mannello offre un Pratolini che supera l’obsoleta etichetta di scrittore neorealista. Neoclassicheggiante crepuscolare, magari, eccentrico scapigliato e vociano nella sua adolescenza, che tuttavia non fa a meno delle innovazioni linguistiche e letterarie del suo tempo, strizzando l’occhio — soprattutto nelle ultime sezioni più tarde — alle nascenti avanguardie, se ne si considera l’impegno politico, nonché agli isolati massi Caproni e Penna, se negli scaffali lo si volesse mettere accanto ad altri autori del suo tempo.

Amara ironia, malinconia, lirismo cinico e smaliziato sono i caratteri preminenti delle centinaia di poesie confluite in quest’opera singolare nella produzione pratoliniana, fatta di omaggi alla città natale, delusioni romane, figure di spicco contemporanee, donne amate e morte, rassegnazioni, tempo che scorre inesorabile. La sintassi tipicamente spezzata della poesia lascia comunque spazio a un discorso piano, a un linguaggio semplice e scorrevole, ricco di dialettismi, neologismi, forestierismi inglesi e francesi, dialoghi diretti, coniugati a un ironico registro medio-basso che rende le composizioni colloquiali, in un tu-per-tu coi vari dedicatari delle poesie e di conseguenza con il lettore. A predominare sono i quadri della vita scapestrata di un moderno Cecco Angiolieri o, se si vuole, di un chierico vagante del XX secolo.

*

ALDO MI CALI UN FILINO?

Palazzeschi è bello come il sole,
l’uomo di fumo lasciateci divertire,
con Aldo si pensa con lui ci svaghiamo:
di fumo come mai e perché di fumo siamo?
perché ne parla tutta la città? Sentiamo.

[…]

Se quel filino un giorno un po’ s’allenta,
con penna carta inchiostro ci provo mi tenta.
E in questo mondo buio ove la fame cresce
la giustizia stenta, viva colui che mesce
sberleffi e fantasia — madonnabella!
come son belli Palazzeschi e il sole.

*

ABBASSO L’ACCADEMIA

[…] Roma doma non c’è discussione
grande folla, ventitré marzo,
enormi bandieroni. Ma squillano
di più le idee il sangue
oppure le fanfare i fanfaorini?

Anche a me Bontempelli vestito
da Starace mi disturba assai,
crepi l’orbace, lui di così fertile
ingegno, europeo dai selvaggi odiato,
magico realista surreale,
col fez in testa fucile nella mano
come un balillino di stagno,
un ojetti qualunque, tempo dannato.

Pirandello pure ci va bene, come
ci va bene Marconi, è gente di scienza
di teatro piena di colpi di scena
d’invenzoni d’urli di scoperte umane:
la psiche il telegrafo senza fili la radio.

*

RIVOLUZIONE

E mentre io parlo parlo e m’arrovello
più m’escon fiamme e fuoco dal cervello
ridendo a larghe cosce a piena gola
più il tuo “grullo grullo” mi sconsola:
«Ghigliottina, Maria», ieri, sotto Montesenario.
«Dici sul serio? Non ti conoscevo sanguinario.»

*

PER GLORIA INATTESA AL CAPEZZALE

[…] Càpita nella vita trovarsi
entro un odoroso porcile ove si sguazza
beati col senso come di morire. Di abbruttire.

4

E corso e corso sopra la tua saura puledra
allentati gli sproni si cadeva sul dorso
il fiato scosso dalla gioia postuma del sangue
fermentato. Fu la volta che dicesti, press’a poco:
«Torbide dolci bollenti acque, maschili penne,
mona la donna angelicata, trenta e lode.»

5

«Mi danno per spacciato, Gloria, tu ci credi?»
Una mano sulla fronte l’altra sul pube:
«La mia diagnosi è no. Prescrivo carne vino
amore in forti dose.» Col moccio al naso, sorridi.

6

e seppure…
«Il marengo giovinezza intero spese
e nell’azzardo perse questa vita»
direte amici, io riderò cavalcando
un arcangelo biondo e femmino.

(Da L’epoca di Natascia)

*

what’s in a name?

Mattino di Trinidad
che d’un nonnulla tocca la memoria
— sulla pista dell’aeroporto la donna
a cui incredibile somigli «Every day
its own dawn» disse «I got you not you»,
volava il DC8 sulla rotta di Portorico
e già stentavo a ricordarne il nome:
Florence? o il tuo?

*

…a specchio del nostro happening festoso
il reale che ci assedia, le br Moro rapito
l’infame potere che invece di tremarne
se ne giova, la classe operaia e il suo grande
Partito forti al punto da volersi sussidiari,
i compagni cèchi e d’Argentina…
…a tutto quanto insomma popola
la mia cronica inerzia la tua ancor bella persona
sembrò offrire l’ennesimo diversivo, poi la gioia
di mirarti in viso, accoglierti sul petto, affidarmi
alle tue mani — né tu né io abbiamo barato.

*

A Villa Sciarra dove Scipione dormiva coi pavoni,
ancora in macchina, muso a muso con un tratto
delle Mura Gianicolensi, nostro luogo deputato
— sino a quelle tue ciglia da Bradamante inumidite,
che misero the end, cara. E lancinante, e così,
nel mio squallido lessico non esiste altra parola.

*

IL COLLE DELL’OMBRELLINO

D’altronde basta averne coscienza e proibirsi
di sfidare l’esistenza coi languori, anacronistico
spirito. «Non è concesso» lei dice, neanche con le ossa
rotte neanche coi “nervi a pezzi” il parletico
alle mani, neanche avendo una vita tutta da rimeditare.
«Cioè» mi spiega, insegna va a caccia di supplenze
sta in un collettivo. «Il processo siamo noi che lo facciamo,
movimento settantasette, non lo dimenticare…»

(Da L’anno della senescenza, 1978)

Un inizio

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di Edoardo d’Amore

È una storia piccola, troppo minuta e fragile perché se ne sia parlato. Si può non credere a queste parole e andarla a cercare tra mondi virtuali e mondi reali, ma si scoprirà solo quanto già detto. Non quotidiani o riviste, né blog o social network e tantomeno i telegiornali, hanno trattato questa vicenda in alcun modo. È rimasta all’interno delle conoscenze di nicchia, senza suo malgrado o fortuna riuscire a uscirne. Ha avuto la stessa vita di quei templi che per fato o volontà si ritrovano a essere sperduti in una giungla fitta, coperti non dalla sola vegetazione ma da un destino verde che li occulta.

Come le vecchie leggende, una volta sentito l’episodio qualcuno lo dimenticò, molti altri lo ignorarono e solo alcuni cercarono di capire se potesse essere adatto alle loro necessità. I complottisti vedendo che non vi era niente all’interno della sua narrazione che potesse mettere in dubbio i sistemi precostituiti della società contemporanea, lo considerarono inutile alle loro esigenze di complotto. Con diverso proposito ma medesima conclusione fu analizzato anche dall’antica stirpe dei fondatori di sette che, in riunione plenaria, trovò il racconto «un po’ troppo sopra le righe e di scarso interesse» per considerare di poterci fare un qualche tipo di guadagno. Infine vi furono i massoni che, impegnati com’erano a mantenere i loro numerosi segreti sul mondo, sospettandone un ennesimo e temendo un’involontaria rivelazione degli altri, scapparono in gruppo a gambe levate senza neanche ascoltare di cosa si trattasse.

Fra le poche persone comuni che ne vennero a conoscenza, molte equipararono la storia alla stregua di quelle favolette che si raccontano ai bambini la sera per farli addormentare. Qualche disperato, probabilmente privato del riposo dalle urla incessanti dei propri pargoli, nello stato catatonico nel quale si trovava, utilizzò davvero il racconto della vicenda per accompagnare i propri figli nel sonno. La storia non turbava i bambini anche perché, per la mancanza di lucidità che la mente aveva in quelle occasioni, veniva raccontata con lo stesso trasporto che si ha nella lettura del menù di un ristorante etnico nel quale si entra per la prima volta per caso.

Se, come detto, qualcuno non considerò l’avvenimento come reale, qualcun altro invece lo fece.

Un giovane sceneggiatore, ad esempio, ne arrivò a conoscenza accidentalmente ascoltando le chiacchiere di alcuni avventori in un importante caffè romano. Lavorava lì da diverso tempo per arrotondare una paga che il mondo dello spettacolo gli dava a intermittenza. Il giovane non si sentiva frustrato da quel lavoro ma considerava quel tempo come tirocinio formativo: non scriveva storie ma esplorava il diverso materiale umano che aveva attorno ascoltando i racconti più disparati. Se le reazioni e i commenti alle partite di calcio o agli avvenimenti della politica locale ed estera erano all’ordine del giorno, ogni tanto gli capitava di ascoltare di circostanze alle quali la sua scrittura avrebbe potuto ispirarsi. Così fu per la storia della signora che pensava che suo marito si fosse reincarnato nel pappagallo e con il quale dialogava con disinvoltura durante le ore del giorno; per quella del ricettatore di diamanti che aveva partecipato a una rapina e non sapeva se avesse «trasformato in un ghiacciolo» il gioielliere oppure no; per quella dell’uomo che riteneva di essere l’ideatore di un noto medicinale contro la febbre e il mal di testa a cui non era stato riconosciuto alcun merito; e per la nostra vicenda. Delle quattro solo l’ultima gli diede un incentivo per mettersi alla scrivania a descriverne gli avvenimenti. Lo fece solo dopo aver verificato in banca di avere abbastanza liquidi per prendersi un breve periodo di aspettativa, che il suo datore di lavoro gli concesse non senza qualche perplessità.

Nonostante sul conto avesse un saldo che gli avrebbe permesso di vivere solo per un mese, impiegò poco meno di cinquanta giorni per raccontare la storia come l’aveva in testa. Rimase alla scrivania più che poté limitandosi a distaccarsene solo per dormire e andare in bagno, ma anche in quei casi lo faceva non scollando mai l’attenzione dal proprio lavoro, rimanendoci su in modo continuativo. Anche se la storia era giunta alle sue orecchie di sfuggita, se la figurò così bene in mente che arrivò inconsapevolmente a raccontarla in modo molto vicino a come si svolsero realmente i fatti ma sempre con la finzione scenica che è propria dei copioni cinematografici. Però, la soddisfazione di avere qualcosa di interessante tra le mani l’ebbe alla quarta stesura del copione, ottenendo una versione definitiva solo alla sua sesta riscrittura.

Rileggendo il testo per l’ultima volta, lo considerò impossibile da migliorare ulteriormente. E così era.

Il giovane si sentì per la prima volta con il mondo in pugno, immaginando come sarebbe stato il suo grande successo. Qualcosa che ogni regista conosciuto avrebbe desiderato ritrovarsi tra le mani e che lui avrebbe donato al più meritevole o a chi gli avesse fatto l’offerta più cospicua. Se poi fosse stata l’unione delle due cose, tanto meglio.

L’euforia del ragazzo però durò poco infatti, come i migliori eventi di causa effetto, non riuscì mai a sottoporre il testo a nessun produttore: morì sotto casa sua, appena a pochi passi di distanza dal portone d’ingresso del suo palazzo. Non venne ucciso dalla distrazione, ma essa fu largamente responsabile del fatto che un autobus lo investisse. Nella sua casa diviso per tanto tempo dalle cose del mondo, colto dalla felicità di quanto prodotto, si dimenticò dei pericoli della strada.

Così va la vita a volte.

Con la morte del giovane, il copione sparì. Probabilmente venne buttato o abbandonato in qualche scatolone, come spesso succede agli oggetti lasciati dai defunti e di cui chi rimane non ne capisce il valore o non sa cosa farne.

Se il giovane sceneggiatore fu il migliore esempio fra quelli che presero seriamente la vicenda, intenzionato com’era a renderla conosciuta, molti altri lo fecero a loro volta senza loro malgrado avere alcun tipo di forza o capacità per divulgarla. Per questi, la storia rimase un elemento astratto, qualcosa a cui appigliarsi con la propria fantasia. Un’entità che popolava i loro pensieri, cullandoli o tramortendoli prima del sonno, senza mai avere un effetto o un’intensità tale da costringerli a trovare un modo per farla uscire dalle proprie carni.

Quanto rimane a noi, purtroppo, sono solo voci e dicerie. E così, ci ritroviamo a intuire solamente come la vita spesso segua dei percorsi inattesi che conosce solo lei. Strade che appaiono dal nulla, che ne dissolvono delle altre. Strade che impongono di venir attraversate, lasciando come possibilità solo il paesaggio. Strade la cui accettazione non è un fine, ma l’unica speranza.

Strade che pur sempre sono quello che sono, e che in qualche modo hanno lasciato traccia del passaggio di qualcuno. Dei suoi atti.

 

Nelle pieghe degli anni Ottanta

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Sage Sohier, photo from her Americans Seen series. © Sage Sohier

Sage Sohier, photo from her Americans Seen series. © Sage Sohier

 

di Pasquale Palmieri

Gli anni Ottanta sono ancora fra noi. Li ritroviamo nei consumi e nelle abitudini quotidiane ammantate di “retromania” (stando alla fortunata formula usata dallo scrittore e giornalista inglese Simon Reynolds), fra gelati e bibite, abiti e calzature, canzoni e cartoni animati, videogiochi e film, libri e programmi televisivi. Sono ormai proiettati in una dimensione mitica, che conserva una solidità intatta ai nostri sguardi, forse perché si lega a un sistema di valori che risulta ancora egemone nel nostro presente. In virtù di una poderosa idealizzazione, quel preciso segmento del nostro passato conserva una sua centralità nel nostro immaginario, legandosi in maniera pressoché indissolubile all’idea di serenità e leggerezza, o alle promesse di successo e ricchezza.

Ciò nonostante, l’interesse per il decennio va ben oltre la semplice volontà di evasione e include anche il bisogno di analizzare un tornante storico complesso, segnato da profondi cambiamenti economici, sociali, politici e culturali. È proprio questo l’obiettivo del libro collettaneo Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, curato dalla redazione di Machina per DeriveApprodi (Bologna, 2024), che prova a esplorare le ambivalenze e le contraddizioni di un’epoca “smarrita”. Le autrici e gli autori coinvolti nell’impresa partono infatti dal presupposto che quella stessa epoca non sia riducibile alle sole tendenze verso l’ottimismo e l’edonismo, ma sia allo stesso tempo attraversata anche da pesanti conflitti che ridefiniscono il rapporto fra individui e collettività.

Il contributo di Jadel Andreetto – Suoni, rumori, musiche e devastazioni di un decennio a rotta di collo – prova a entrare nel panorama musicale degli anni Ottanta, senza fermare lo sguardo sui prodotti premiati dal grande mercato e orientati al conformismo. A emergere è quindi un sottosuolo molto ricco, caratterizzato da una “creatività esasperata”, spinta da una forte propensione allo sperimentalismo e alla contaminazione, tale da far pensare a un’ultima accelerazione del rock nel segno dell’anarchia espressiva, senza precise direzioni, prima delle codificazioni operate dal grunge e dal brit pop. Rudi Ghedini offre invece una mappatura della produzione cinematografica – Gli anni Ottanta in 99 film – che strizza l’occhio alla forma enciclopedica, rivolgendo la sua attenzione tanto alla fortuna del remake e del citazionismo, quanto all’influenza esercitata sui lungometraggi dalla grammatica del videoclip. I progressi tecnologici e l’accresciuto uso di effetti speciali non sono tuttavia sufficienti a ridimensionare l’importanza del piano contenutistico, volto a privilegiare il “grande sentimento di nostalgia” che si configura come tratto distintivo di un’intera epoca. Partendo da un tale assunto, la pellicola degna di maggiori attenzioni non può che essere Il Grande freddo di Lawrence Kasdan (1983): un gruppo di ex sessantottini si ritrova al funerale di un amico, morto suicida, cogliendo l’occasione per ripensare alla vita universitaria, alla gioventù e ai sogni infranti.

Manuela Gandini – Il silenzio di Cage. Vite anni Ottanta – orienta la sua indagine verso fenomeni mediatici non facilmente catalogabili, al confine fra teatro, commercio e costume. I veri tratti distintivi degli anni Ottanta italiani, secondo l’autrice, si scorgono nelle vicende di Wanna Marchi e delle sue creme miracolose, nella voce asmatica di Roberto da Crema detto “il Baffo”, in Guido Angeli del mobilificio Aiazzone e nel suo “Provare per credere”, in Francesco Boni di Telemarket che propone al pubblico preziosi dipinti da comprare. Ogni legittima ambizione si costruisce nel grande calderone della pubblicità e ha il suo approdo nel denaro. Persino le distanze fra attività finanziarie e pratiche artistiche finiscono per essere cancellate: vale la pena di coltivare le passioni solo se si ha la possibilità di schiacciare la concorrenza e di primeggiare.

Il saggio di Giorgio Mascitelli – I due inizi del postmoderno: gli anni Ottanta e Novanta – entra nella crisi e nella ristrutturazione del sistema letterario del Novecento, chiarendo come il postmoderno non sia una corrente culturale, bensì una “condizione storica della cultura” in una precisa fase evolutiva del capitalismo. Gli esempi più eloquenti a sostegno di questo argomento arrivano dalle pratiche camp, che si configurano come usi consapevoli e sofisticati del prodotto kitsch da parte di soggetti colti (o che almeno si autodefiniscono tali), disposti a instaurare “un rapporto estetico” con la merce, individuando anche nel cattivo gusto qualcosa di desiderabile. Il tutto rientra, secondo l’autore, in un “nichilismo light” che palesa una “divertita accettazione” del mondo così com’è, utile a mettere da parte qualsiasi velleità di cambiamento. Altrettanto decisive sono le osservazioni proposte da Federico Battistutta – Linee di fuga. Gli anni Ottanta, il riflusso e i movimenti – in un contributo di notevole spessore teorico, arricchito da un esplicito impeto militante, volto a esplorare le nuove possibili pratiche di conflitto, alla luce dei lasciti dell’era dell’edonismo e della perestrojka. Fra i percorsi possibili, si intravede anche l’importanza della riscoperta della spiritualità, che può andare ben oltre i confini della sfera personale, sfociando in una ristrutturazione dei desideri e delle relazioni, capace di metterci “in condizione di re-immaginare e reincantare il mondo”.

Roberto Ciccarelli – 1985: Felix Guattari, nuovi spazi di libertà negli anni di inverno – si sofferma sul ruolo cruciale della soggettività nei periodi di “letargo politico”, evidenziando gli esiti comuni a tutte le lotte segmentate, concentrate su obiettivi specifici (come quelle ecologiche o quelle per la legalità, ad esempio) e ormai rinunciatarie di fronte all’ipotesi di una trasformazione complessiva del sistema socio-economico. I gruppi di attivisti che rifiutano qualsiasi apparato organizzativo o istituzionale stimolano il proliferare di opinioni caotiche, amplificando il settarismo, le divisioni, e “il narcisismo delle piccole differenze”. Su linee argomentative simili si muove il dialogo fra Adelino Zanini e Mario Tronti (La politica al tramonto): i due filosofi provano a individuare le connessioni fra passato e presente, interrogandosi sulle occasioni perdute alla fine del secolo scorso, e su quelle ancora disponibili al giorno d’oggi, da sfruttare al meglio per affermare istanze di cambiamento.

Chiara Martucci e Bruna Mura si occupano invece di Femminismi fra “differenza” e istituzioni, provando a comprendere quale energia conflittuale si possa ancora mettere in gioco dopo un lungo periodo di conquiste civili e riconoscimenti normativi, che possono apparire rassicuranti, ma restano in realtà vincolati a un regime giuridico incerto. Esiste infatti un rischio concreto: veder ridimensionata l’eredità dei movimenti legati alla tradizione marxista, che possedevano una grande forza rivendicativa, ma ambivano anche a cambiare in profondità i rapporti sociali. Lo stesso uso semplificato di alcuni termini, primo fra tutti patriarcato, rischia di diventare funzionale alle esigenze del sistema politico-mediatico, puntando al puro risarcimento simbolico e depotenziando la diffusione nel discorso pubblico di istanze di lotta.

Vanno a completare un quadro decisamente ricco il contributo di Ubaldo Fadini dedicato ai mutamenti del soggetto nel contesto del capitalismo postfordista (Anni a perdere? Uno sguardo retrospettivo, ma non troppo), quello di Rita di Leo sul definitivo declino sovietico (Che cosa è successo all’esperimento sovietico?) e quello di Romeo Orlandi sulle trasformazioni del gigantesco apparato cinese alla fine del Novecento (La Cina della globalizzazione). Massimo Ilardi, Paolo Virno, Marco Mazzeo e Adriano Bertolini (È tempo di rivolte e il territorio torna a essere bottino di guerra; Il decennio della controrivoluzione) tornano invece a riflettere sul libro che, a tutti gli effetti, ha aperto la strada allo studio degli anni Ottanta, pubblicato per la prima volta nel 1990 con un inaspettato successo, e di recente riproposto proprio dalla casa editrice DeriveApprodi (2023): I sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell’età del disincanto. Persone di diversa formazione culturale e orientate verso molteplici interessi – da Massimo De Carolis a Rossana Rossanda, fino a Domenico Starnone – avevano provato a mettere insieme le loro intelligenze per individuare le “tonalità emotive” di un’epoca attraversata da trasformazioni traumatiche, segnata da uno “sradicamento senza precedenti”. E si erano chieste se la capacità di muoversi nei labirinti del possibile potesse stimolare non solo ansie di arrivismo e chiusure solipsistiche, ma anche nuove forme di dissenso di fronte agli equilibri vigenti.

Nel sottosopra degli anni Ottanta raccoglie, in buona sostanza, gli stimoli teorici più fecondi dei Sentimenti dell’aldiqua, invitandoci a rivolgere lo sguardo verso il futuro. La parte più propositiva di questo nuovo volume collettaneo si ritrova, non a caso, nel saggio conclusivo di Christian Marazzi (La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica), che fa i conti con la propensione del nostro sistema economico a produrre forme crescenti di precarizzazione, includendo nel ciclo produttivo anche l’attività comunicativa che accompagna la quotidianità delle nostre esistenze. Produciamo e condividiamo una quantità incommensurabile di dati, portando alle estreme conseguenze processi che prima avvenivano “in maniera molto più informale e grezza”. Si tratta di un lavoro non riconosciuto, gratuito, eppure “del tutto pervasivo”, dal quale non riusciamo a liberarci. Urge dunque “un’iniziativa a livello planetario” per cancellare il “codice a barre” tatuato sul corpo di ciascuno di noi e acquisire nuove consapevolezze. L’obiettivo è più che chiaro: ricomporre i diversi fronti di lotta e riprenderci “il tempo di vita” che ci viene ingiustamente sottratto.

 

Solo in poesia coincidono così gli opposti

1

di Pietro Cagni

 

Quale movimento sospinge, cosa sostiene i versi della prima sezione dei Frammenti di nobili cose di Massimo Morasso. Il poeta ha affidato al libro un’esigenza duplice: compiere un’esperienza piena della poesia e, insieme, individuare la sua fondazione. Un libro da cui imparare, ammirando, le possibilità di ogni evento poetico e le ineludibili questioni che sempre lo attraversano. Res e verba, parole e cose: non c’è altro tema. Tanto più oggi che il reale mostra la sua ultima indecifrabilità. Come mai prima d’ora, è stato scritto, “abbiamo smesso di capire il mondo”. I nostri sistemi di comprensione non ne reggono l’urto, e più affondiamo gli occhi, più allontaniamo la possibilità di afferrare qualcosa, e il caos si moltiplica. Le cose mortali, povere e meschine, ora appaiono anche terribilmente sole. Dobbiamo arrenderci alla fisica quantistica, aspra severa e controintuitiva, che disinnesca i nostri tentativi. Ma se anche così non fosse, cosa ci resterebbe tra le mani: un mondo comunque malato, insufficiente, una promessa non mantenuta. Possiamo solo “patire il mondo”, come indica il titolo della sezione, Geopatia, come soffrendo una malattia indimostrabile ma vera: «le cose si sfracellano». Eppure, scrive Morasso, in noi si agita una «nostalgia celeste» che impone una scelta: l’attraversamento del mondo o il suo pensiero.

Nel paesaggio in cui siamo sperduti Morasso continua ad abitare, e ci restituisce i frantumi del conflitto, in cui qualcosa è apparsa. La prima poesia del libro sembra dire di una sconfitta:

 

Per anni, in cerca di sollievo,

ho tratto dai ricordi le parole,

ma adesso il mio paesaggio si è invertito.

 

Ora ho levato

il mondo e

vivo solo negli anfratti

meno esposti del reale:

sono una nostalgia celeste

ardentemente arresa al suo delirio.

 

Ritirarsi dalle cose, “levare il mondo”, lasciare che la «nostalgia celeste» diventi delirio: se questo accade, non è possibile la poesia ma la bestemmia o la finzione, fino al silenzio («Troppo facile / pensarti un animale, / troppo difficile / uno spirito di carne.»). La poesia che apre il libro descrive un tradimento dell’ansia verticale e abissale che ci costituisce e che, nonostante tutto, permane. Al suo mistero Morasso potrà faticosamente obbedire. Avviene già nella quinta poesia del libro, che non a caso trova una forma più ampia e distesa, meno assertiva, mossa da un ritrovato procedimento interrogativo: in questa e in altre poesie della sezione la realtà irrompe come nuovo respiro, nella sua evidenza materiale (alcuni luoghi vengono indicati, al termine, col loro nome), e chiama il poeta a partecipare gioiosamente al suo movimento. Chiede una resa incondizionata, vuole far tacere le armi della mente, così che possa risuonare il canto e non il lamento, un amore possibile tra verba e res:

 

Il vento che mi detta

soffia, stamattina, ricordandomi:

per me tu parli,

per me tu susciti i significati

e unifichi le cose alle parole

sposandole nei nomi.

Il refolo che soffia

al mio risveglio ha sussurrato:

per me tu insegui il vero,

la luce del tuo fuoco,

la tua chiarezza oscura, solo tua,

di te che incontri un tu

nella semenza, provvida, del Bene.

 

Lo sai: la lettera è mortale.

E, dunque, perché non smetti

di sparlare? Perché ti areni come

tanti, fra chi bestemmia il mondo

e chi lo finge?

 

Io tremo come un corpo, sinopia della polvere.

Io scorro nel tuo sangue

e genero realtà

con un’arcana sottigliezza verticale.

E tu, non hai piacere di seguirmi?

Di diventare un uomo, o di provare

a esserlo di più?

 

Nel mio messaggio, l’anima si affina,

cerca le vie per crescere, si tempra,

sfociando nell’immagine sorgiva

di un puro, interminabile fluire.

 

Si alza come nell’Infinito la voce del vento. Ed è possibile allora fidarsi del mondo, delle creature che lo abitano. La confusione si disperde, il verso trova un nuovo slancio. Da bambino, in campagna, mio padre mi diceva di “fare andare gli occhi”: non più frenati dai palazzi nelle strade della città, potevano andare lontano. Allo stesso modo, dopo la sconfitta dell’inizio, Morasso ritrova la misura spalancata (che prende il ritmo dell’endecasillabo, attorno a cui costruisce i versi), una nuova possibilità per gli occhi. Si insinua una voce, estranea, segnalata dal corsivo, che vorrebbe ribaltare la prospettiva, convincere ad arrendersi, ad accettare il fallimento. Si sente puzza di slogan. L’io resiste, fedele alla vita, non vuole arrendersi a un esilio: «Non so. Mi esercito. Mi sporgo». La vera soluzione è affondare gli occhi nella realtà, sporgersi dalla finestra, scoprire la screziatura del mondo (la parola marcata di Gerard Manley Hopkins), puntare non a ciò che è “alto” ma a ciò che è “lontano”. Gli occhi devono andare lontano, bisogna farli andare.

 

Giorni scorati. Ama il caduco

e non il trascendente, mi si dice.

O anzi, addirittura, sii felice

di cadere. Non so. Mi esercito. Mi sporgo

alla finestra come da un esilio.

Mentre gli uccelli impazzano,

screziano d’ali l’aria nel via vai

e a me viene la voglia d’inseguirli,

simile a un raptus, a un sogno d’aeroplano,

a un gorgo spirituale cui m’affido

con tutti i sensi tesi verso l’alto,

non perché è in alto ma perché è lontano.

 

Solo in poesia coincidono così gli opposti, in espressioni fulminanti e prodigiose che moltiplicano le possibilità di significazione. Accade anche in un successivo componimento di questa prima sezione, in cui il verso ripetuto, mentre dice di risalire, al contrario scende, si inabissa, e la finitezza della terra per un attimo sfiora una fecondità senza fine. Un’obbedienza a ciò che è scritto nel sangue, la legge micidiale che ci portiamo dentro.

 

Internandomi

salgo

salgo

salgo.

 

Ogni passo

vorrei fosse una svolta:

il centro è il Bene,

e il Bene

sta nell’alto esattamente com’è appeso

al filo della legge, micidiale, del mio sangue.

 

Come il frutto di una semina

terrena, senza fine.

 

Morasso vuole cedere, come scrive in un’altra poesia, al bene di vivere. Non è appena l’inversione di polarità che l’autore imprime all’evidentissima sporgenza montaliana, ma tutta la scena che la inquadra assume una direzione nuova: «Spesso / mi è capitato di incontrare / il bene di vivere»: il soggetto adesso ha ruolo di complemento, e il verbo assume forma impersonale, distendendosi in una struttura fraseologica. L’evento adesso viene còlto nel suo farsi incontro, indipendente e gratuito. Questa rinnovata disponibilità al mondo dà risarcimento, e fa esclamare «tutto / il visibile s’intreccia nell’ordito / della vita, niente non va» o, più avanti, «le cose belle danno gioia sempre»… terso endecasillabo di parole sorelle, legate tra loro da una fitta tessitura di vocali, in ritmo serrato e al contempo disteso. Le cose chiedono di essere dette, e c’è chi è chiamato a cogliere questa responsabilità. Non è un’acquisizione definitiva, ma drammatica, seguendo Luzi e Caproni. C’è spazio per la fatica e il ripensamento («Potessi smettere di credere al mondo […] Potessi / girarmi dall’altro lato del qui / e addormentarmi, fluttuando / nel centro buio della notte… ») e per il sogno oscuro, che porta cancellazione. Vengono meno le forze, ma sono ancora possibili la musica e la meraviglia, a cui ci si può abbandonare con fiducia: «Principessa, desiderio, / fiamma indomabile e mistero», «Luce, però, tu non abbandonarmi / al mio sgomento: avvicinami.».

 

Due ultime poesie, per concludere questa lettura di Geopatia, che sanno commuovere: il compito dei poeti, il mondo che si fa spazio nel loro assenso, il mondo che si fa incontro e si offre alle nostre parole.

 

Se la smettessi di scrivere poesie

diventerei un ostaggio del pensiero

che tende a far del Tutto una materia

per comunicare: il reservoir

di uno sproloquio cosmico, infinito.

Se all’improvviso, in un sentiero di campagna,

dietro a una curva mi apparisse un sorbo

forse neanche me ne accorgerei,

e il sorbo rimarrebbe lì a guardarmi

dalla compressa densità di un cosmo

chiuso in sé, anch’esso in viaggio, come me,

meno terragno, chiamato ad evocarne la bellezza

in qualche frase esatta, solidale.

 

 

***

 

per Mario Benedetti

 

Dico, un

amico che è lontano. Uno che

poeta lo è stato per davvero –

uno che anche adesso lo è,

e lo resta per sempre.

 

Comprendimi. Non intendo

un cembalo squillante

come tanti, ma un uomo

simile a una foglia

quando il vento l’incalza,

 

un essere che trema

perché è vivo,

e quando trema e si raccoglie

parla, perché è bello –

perché, fra noi, chi deve farlo, fa così.

 

 

Dogpatch

0

di Elizabeth McKenzie (traduzione di Michela Martini)

 

 

 

 

 

 

 

 

In quegli anni passavo da un ufficio all’altro per sostituire impiegati in malattia, in congedo di maternità, con emergenze familiari o che semplicemente avevano detto “Mi licenzio” e se ne erano andati. Ero veloce alla tastiera del computer e imparavo facilmente senza bisogno di molte ore di formazione. Come sostituta mi feci un’ottima reputazione nel raggio di tre isolati nel centro di San Francisco negli anni 90’. Uno di questi pullulava di piccole imprese e organizzazioni non profit, un altro di uffici medici e l’ultimo di uffici legali. Prima che me ne rendessi conto, non avevo più ore libere, quasi che tutti stessero pianificando le loro crisi familiari e gravidanze in base ai buchi del mio calendario.
Non direi mai niente di così presuntuoso se si trattasse di qualcosa che m’importava davvero; mi sentirei troppo vulnerabile e superstiziosa. Ma se ripenso a quei giorni, se parliamo di competenze di base in ufficio, non vedo motivo per non vantarmi.
A quei tempi ero single; avevo avuto qualche relazione sentimentale e non avevo urgenza di iniziarne una nuova. Mi piaceva tenermi impegnata con il lavoro, così non dovevo pianificare il tempo libero. Avevo un contratto d’affitto mensile per una stanza a North Beach; a volte saltavo la cena sostituendola con qualche cocktail e ignoravo le telefonate dei miei genitori fuori di testa. Ero giovane.
Al lavoro avevo trasformato la mia capacità organizzativa in un’arte. Non ero pignola in nessun altro ambito e quindi rimasi sorpresa quando i colleghi cominciarono a chiedermi di rivedere il loro lavoro, come se io fossi la pedanteria fatta persona. A volte sentivo di dovermi ribellare a questa reputazione per non passare per una che si fissava sulle piccolezze. Così, per esempio, quando uscivo con gente che avevo incontrato al lavoro, bevevo un po’ più del dovuto, lasciandomi dietro una scia di confusione con la speranza di crearmi delle amicizie autentiche. E sul lavoro non c’erano ripercussioni. Andavo d’accordo con gli impiegati interinali dell’agenzia che lavoravano per risparmiare i soldi per i loro viaggi in Tailandia o per altri obiettivi importanti. Ero molto richiesta. A volte l’agenzia mi toglieva addirittura un incarico per darmene uno con un cliente più importante.
Forse tutto cominciò con Eleanor, una delle addette al coordinamento del personale a TempRight. Era stranamente entusiasta nei miei confronti.
“Cara, hai diverse opportunità per la prossima settimana”, solitamente esordiva così. “Potresti andare a fare una sostituzione da Curtis per due settimane, la ragazza del front office si sposa e se ne va in luna di miele, e loro pagano più degli altri. Oppure potresti farti un mese da Shoreline, l’azienda specializzata nelle banche dati. Ti era piaciuto l’altra volta. Oppure, vediamo, oggi è arrivata una nuova richiesta da Haarton Medical, a questo punto ci faranno sapere giorno per giorno. Ma avere tutti quei bei medici attorno! Quale scegli?”.
C’era una cosa che m’infastidiva. Avevo l’impressione che Eleanor, avendomi vista salire di grado, pensasse che io avessi pianificato di lavorare per TempRight a tempo indeterminato, come se fosse lo scopo della mia vita. D’altra parte i miei obiettivi erano molto vaghi a quel punto. Fare toccate e fughe era diventata la mia specialità.
Un giorno Eleanor mi chiamò per dirmi di un nuovo cliente con sede nel quartiere di San Francisco noto come Dogpatch, una zona industriale a sud di Market Street dove l’agenzia aveva delle mire di espansione. Disse che TempRight voleva mandare me come loro ambasciatrice. Poteva trattarsi di una svolta decisiva per l’azienda. Di certo avrei fatto una bella impressione… come se io mi preoccupassi del buon nome dell’agenzia e volessi addirittura darmi da fare per promuoverla! Ero contenta che TempRight mi stimasse, ma che razza di posto era se consideravano me la loro arma segreta? E avrei dovuto anche accollarmi i loro problemi? Ma non era proprio quello il punto di fare la freelance: essere libera da grane di questo genere?
L’azienda in questione si chiamava Abernathy e produceva lacche e altri rivestimenti. Niente di emozionante. Un mese forse era anche troppo, ma accettai.

***

Il primo giorno di lavoro arrivai in ufficio con largo anticipo, essendo partita presto da casa con i mezzi pubblici perché non conoscevo questa parte squallida e abbandonata della città. La zona era disseminata di lattine e cartacce e, fedele al suo nome di Dogpatch, di cani randagi che annusavano i marciapiedi e frugavano tra l’immondizia in cerca di cibo in uno stato di perfetto distacco. Prima di arrivare all’indirizzo che cercavo, ossia a un edificio in blocchi di cemento adiacente a un magazzino, in successione oltrepassai un vecchio parcheggio coperto, un’officina rumorosa, un bar chiamato La grotta e un centro di duplicazione chiavi. L’ufficio aveva un portone di vetro e una reception ben visibile dalla strada. Quando entrai, mi presentai alla giovane donna seduta allo sportello. Aveva la pelle chiara e una peluria evidente sulle guance. Disse che il suo nome era Melody e questo era un giorno speciale per lei perché Abernathy le aveva dato un posto fisso e un ufficio tutto suo da qualche parte sul retro. A quel punto, arrivò una donna un po’ più avanti negli anni. Mi colpì molto con i suoi capelli scuri ben acconciati, la gonna color smeraldo, la camicetta bianca, un filo di perle, il rossetto rosso, i collant di nylon e le scarpe nere con il tacco. Disse: “Jan Wyatt?  Sono la signora Kennedy. Le chiedo di sedersi, per favore. Mi complimento con Lei per il suo entusiasmo, ma devo chiederle di aspettare.”
Entusiasmo? Che ridere! Mi divertiva l’idea di incoraggiare l’impressione che davo regolarmente in tutti gli uffici. “Certo”, risposi educatamente.
Dopo aver raccolto le sue cose, Melody fece scivolare la sua sedia sotto la scrivania. “Buona fortuna”, mi disse allegramente, e io risposi “Ci vediamo”. Entrarono in un corridoio e poi udii una porta grande e pesante richiudersi dietro di loro.
La reception non era molto interessante, con l’eccezione degli oggetti laccati appesi sul muro dietro alla scrivania: vassoi di legno, maschere e sculture, probabilmente provenienti da diverse parti del mondo. C’era anche una placcanon contenente coleotteri e altri insetti immortalati in manti lucidi. Forse l’articolo più singolare era una rosa rossa, legata a un gancio con un filo invisibile. Era levigata e lucente come vetro, ma quando mi avvicinai, vidi che c’erano i segni di scavo fatti da qualche insetto sul suo lungo stelo verde. Il che mi portò alla sorprendente conclusione che doveva trattarsi di un fiore vero, sospeso nel tempo grazie alla magia dei sigillanti.
Sospettavo che non sarei rimasta a lungo in quel posto. Cominciai a pensare a una scusa per Eleanor, ma poi sentii la porta che si apriva e richiudeva. La signora Kennedy ritornò da me di ottimo umore, come se l’aver scortato Melody verso il luogo che segnava la sua promozione l’avesse ingolfata di una sorta di estasi amministrativa. Quasi senza fiato disse: “Benvenuta ad Abernathy, una delle maggiori aziende produttrici di sigillanti della West Coast! Signorina Wyatt, io lavoro qui da quasi trent’anni. L’azienda impiega oltre cento dipendenti a tempo pieno e anche molti di loro sono qui da parecchio. Lei si occuperà della reception dove risponderà al telefono, smisterà gli ordini, inserirà dati nel computer e si incaricherà di vari lavori di dattilografia. La Sua agenzia ci ha detto che Lei è una delle migliori.”
“Grazie”, dissi io, arrossendo più per l’assurdità del complimento che per il complimento stesso.
Mentre la signora Kennedy descriveva altri aspetti dell’azienda e del mio lavoro, io l’ascoltavo sorpresa dalla sua insolita compostezza e dizione formale. Sembrava una che avrebbe dovuto ospitare cene eleganti a Washington, piuttosto che nascondersi in questo ufficio insulso in una zona malfamata. La ascoltai come se le istruzioni che mi dava fossero una questione di sicurezza nazionale.
L’iniziazione includeva un breve tour del magazzino. La signora Kennedy mi condusse nel corridoio ed estrasse un mazzo di chiavi per aprire la porta che prima avevo sentito chiudersi. Rimasi sbalordita dall’intensità dei fumi che ci circondavano quando entrammo nella fabbrica, che era decisamente più fredda dell’ufficio e immersa in una luce grigia che scendeva dai lucernari sporchi. Nonostante la temperatura, c’erano ovunque segnali di pericolo che allertavano sulle sostanze infiammabili. Macchine gigantesche ronzavano e sferragliavano rumorosamente; nastri trasportatori vibravano spostando i barattoli di metallo sotto enormi cilindri con imbuto, dove venivano riempiti e chiusi da bracci meccanici, etichettati dalle etichettatrici, raggruppati, messi su bancali e poi impilati dai carrelli elevatori in mucchi torreggianti vicino alle banchine di carico sul retro. Ventilatori imponenti ruotavano sul soffitto, ma i fumi riempivano l’aria. Attorno a me c’erano persone di età e sesso indefiniti che indossavano mascherine, cuffie e camici bianchi.
Mentre seguivo la signora Kennedy per il magazzino, di sfuggita le chiesi dove si trovava il nuovo ufficio di Melody. Lei si voltò e disse: “Si trova in un’altra sede. Mi dispiace, ma non potrà parlarle.”
“Va bene”, dissi io, mentre notavo che l’avevo fatta mettere sulla difensiva. Forse aveva pensato che io la criticassi per non aver organizzato un incontro tra me e Melody, che avrebbe potuto addestrarmi come era uso comune presso altri uffici. Forse avevo frainteso Melody quando aveva parlato del suo nuovo ufficio. “Non c’è problema”, rassicurai la signora Kennedy.
Ritornammo all’oasi della reception. Che posto miserabile là dietro, pensai tra me e me. Chissà come faranno gli impiegati a resistere? Presi posto alla scrivania, ricevetti una lista di nuovi clienti da inserire in un database e mi misi all’opera. Da lì non sentivo il frastuono del magazzino.

***

Quel mese mi svegliai ogni mattina contenta di avere un posto in cui andare e altrettanto contenta che presto tutto sarebbe finito. Non sono sicura di poter spiegare lo strano rapporto che avevo con questo tipo di lavoro. Ogni giorno ero consapevole di essere sul precipizio di dover prendere una decisione. In qualsiasi momento, se non fossero stati contenti di quello che facevo, avrei potuto chiedere un lavoro diverso a Eleanor. Se lei avesse detto di no, avrei abbandonato TempRight e mi sarei rivolta a un’altra agenzia. Non ero di proprietà di nessuno ed era proprio quello che volevo. Allo stesso tempo, però, mi piaceva essere desiderata e sapevo che questa era la mia debolezza. Era facile manipolarmi facendomi sentire necessaria. Questo dissidio interiore era una costante, ma in qualche modo mi aiutò a tenermi in riga.
La domanda e l’offerta di sigillanti divenne il leitmotiv delle mie giornate. Per movimentarle un po’ mi concentravo su dettagli marginali nella corrispondenza e nelle polizze di carico, come gli indirizzi ai quali i prodotti venivano spediti: Atlanta, Georgia. Oak Lawn, Illinois. Bisbee, Arizona. Binghamton, New York. Toledo, Ohio. Hammond, Louisiana. Crofton, Maryland. Mi immaginavo le varie città e poi sceglievo quella in cui mi sarei trasferita nel caso qualcuno dicesse che dovevo farlo. (Oak Lawn mi ispirava abbastanza, ma un po’ mi faceva anche pensare a un cimitero). Forse era colpa dei fumi tossici.
Infatti, di tanto in tanto, mi sentivo stordita, e mi chiedevo se i vapori stessero penetrando nell’ufficio e avessero qualche effetto su di me, ma poi la sensazione passava e riprendevo a lavorare. Le mie dita volavano sulla tastiera del computer. A volte mettevo alla prova le mie capacità: memorizzavo una riga che avrei dovuto digitare, poi la scrivevo senza guardare e infine controllavo per vedere se avevo fatto un casino. In genere ci azzeccavo. Altre volte, invece, producevo delle stupidaggini che chiamavo “la lingua dei tasti”. Tutto diventava completamente incomprensibile se spostavo le dita a destra o a sinistra di un solo tasto: YJsmld upi gpt upit trvrmy ptfrt pg zkimr…
I grossisti che si rifornivano da noi regolarmente impararono il mio nome e cancellarono quello di Melody dalle loro rubriche. Al telefono ci scambiavamo vari convenevoli per dare un’anima a transazioni altrimenti molto aride. All’ora di pranzo, andavo dal food truck all’angolo e ordinavo tre tacos con carne di maiale. La prima settimana gironzolai per il magazzino per vedere se tra quelli che respiravano i fumi tutto il giorno alcuni mangiassero insieme all’aperto, ma non era quel tipo di ufficio. Così, iniziai a portarmi dietro un romanzo da leggere o le parole incrociate e a mangiare alla mia scrivania.
La signora Kennedy mi faceva sempre i complimenti per una cosa o per l’altra: un giorno era la sciarpa, un’altra volta la gonna. Una volta mi tirò una frecciatina: “Naturalmente per una giovane non è poi così difficile essere attraente, ma ci vuole una vita intera di scelte intelligenti per esserlo durante la mezza età.” E in effetti sembrava avere molta cura del suo aspetto e si vestiva come Jackie Kennedy con completi in stile Coco Chanel o Oleg Cassini. Anche la sua pettinatura me la ricordava. Pensai che il farsi bella per andare in ufficio per lei fosse un modo per combattere la noia. Altrimenti, come avrebbe fatto a sopportarlo? Trent’anni in quel posto – in realtà in qualunque posto – a gestire l’ufficio e le buste paga?
Mi dispiace dirlo, ma la cosa più strana era che la signora Kennedy sembrava essere sempre circondata da un odore sgradevole. Quando parlava, un lezzo acre e di muffa sembrava emanare non solo dalla sua bocca, ma dal suo intero essere. Mi ricordava qualcosa e, ogni volta che lo sentivo, cercavo di capire quale fosse l’origine di quel fetore mortifero. Un giorno ebbi un’illuminazione: ripensai ad alcune scatole piene di cose mie che avevo lasciato dai miei genitori; a un certo punto si erano bagnate a causa di un’infiltrazione, e quando mi presentai per riprenderle tutto il loro contenuto era stato devastato dalla muffa. Ecco, nonostante la sua eleganza e la sua bellezza, le esalazioni della signora puzzavano di marciume. Mi chiesi se potesse essere affetta da qualche malattia non diagnosticata, un’infermità che divorava le sue viscere. O forse era solo la stagnazione causata da trent’anni passati nello stesso posto?

***

Un giorno arrivò il proprietario dell’azienda, il signor John R. Connelly. Avrà avuto un’ottantina d’anni, con capelli bianco ghiaccio e occhi azzurri ancora più freddi, denti bianchissimi che – nonostante la sua età – sembravano ancora in perfetta forma. Senza dubbio sarà stato un bell’uomo in gioventù e probabilmente si considerava ancora tale. Mi fece un po’ di domande sulle mie origini e sulla professione dei miei genitori, chiamandoli “i tuoi” e facendomi gelare il sangue. Io diedi una risposta vaga ma educata.
Si vedeva che era intenzionato a educarmi, con i suoi modi di anziano saggio.
“Vediamo, signorina, qual è la funzione di un sigillante? Sì, proteggere e preservare. In sostanza ho dedicato a questo i miei anni migliori. Quando ero giovane lavorare in banca era un’attività per galantuomini. Noi abbiamo protetto giovani famiglie e le abbiamo aiutate a diventare indipendenti finanziariamente. Poi arrivò la guerra. Quando finì e pensai a ciò che avevo visto in Europa, mi resi conto di aver assistito alla distruzione elevata a una forma d’arte.” Continuò dicendo che le cose cambiarono nel settore bancario dopo il conflitto. Divenne tutta una questione di crescita e profitto sregolati. Così, quando ebbe l’opportunità di unirsi alla comunità dei produttori di solventi, grazie alla famiglia della sua cara consorte ormai defunta, la accettò con entusiasmo e una visione ampia: la missione dell’azienda lo intrigava. Sigillanti, lucidanti, lacche: proteggere e preservare.
Poi mi chiese di indovinare chi l’aveva ispirato di più nel corso della sua vita, ma io non ne avevo idea. Il tono della sua voce cambiò e disse: “‘I tempi richiedono invenzione, innovazione, immaginazione, decisione. Chiedo a ciascuno di voi di diventare pionieri di questa Nuova frontiera.’ Sa di chi sono queste parole?”
Scossi la testa.
“È un peccato. Sono di John Fitzgerald Kennedy. Una volta incontrai lui e sua moglie. Erano il ritratto perfetto di gioventù, idealismo e bellezza.”
Ebbi un conato di vomito interiore. I miei genitori, che erano dei malcontenti di origini irlandesi, in qualche modo erano riusciti a fare spazio nel loro innato cinismo per il culto dei Kennedy. Per tutta la vita dovetti ascoltare il ritornello Se Kennedy fosse sopravvissuto, tutto sarebbe stato diverso, una scusa per la loro abitudine all’alcolismo, al gioco d’azzardo e ad altri vizi.
“Un momento breve e luminoso”, continuò.
“Ora capisco perché la signora Kennedy sia stata assunta qui”, sbottai io stupidamente.
“Che cosa?” disse lui, appoggiandosi a me.
“La signora Kennedy”, dissi io. “Il suo nome.”
Il suo sorriso era appena accennato, non ero sicura che mi avesse sentito. Mi disse che gli sembravo una brava ragazza ed ebbe la faccia tosta di farmi l’occhiolino mentre lasciava la stanza. Perfino in vista dei novant’anni, un uomo di successo dava per scontato che il mondo e tutto ciò che conteneva fossero a sua disposizione.
Più tardi quel giorno, la signora Kennedy mi disse che gli avevo fatto una buona impressione e allora, per deviare quel complimento superficiale, io ribattei: “Di certo ha la passione per i Kennedy.”
“Sì, è vero.”
“Pensa di essere stata assunta grazie al suo cognome?”
Era una provocazione ridicola, ma intanto i miei giorni in quel posto erano contati.
“Non mi chiamavo Kennedy quando sono stata assunta,” replicò.
“Oh, naturalmente, è il suo cognome da sposata.” A quel punto avrei voluto chiederle se avesse sposato un uomo con quel cognome per far piacere al signor Connelly, ma mi trattenni.

***

Gli anni ’90 furono meravigliosi e terribili per San Francisco. Persi molti amici. D’altra parte, avevo perso di vista così tanta gente che è difficile dire esattamente quanti ne fossero scomparsi per davvero. Il boom tecnologico non c’era ancora stato e l’aspetto della città era ancora strano e pittoresco. Non sono sicura che fossimo davvero in grado di apprezzare i prezzi bassi dei monolocali e il fatto che anche gente non carrierista come me potesse avere ancora un posto in città. Una sera, nel mio locale preferito, raccontai ai miei amici degli strani individui che lavoravano ad Abernathy, ma probabilmente nessuno mi sentì a causa del frastuono.
Il giorno prima della fine del mio contratto, la signora Kennedy fece la sua mossa. “Vieni nel mio ufficio, Jan. È ora di fare una chiacchierata.”
Naturalmente sapevo cosa intendeva, o almeno pensavo di saperlo. Mi avrebbe chiesto se volessi un posto fisso con loro. Ma la cosa non mi interessava minimamente. Sarebbe stato facile dirle che volevo rimanere con TempRight per lealtà, senza dover parlare di quello che davvero pensavo del loro lavoro mortifero.
La seguii lungo il corridoio fino al suo ufficio. Era la prima volta ci entravo. Era un ambiente scialbo, soprattutto considerando la durata della sua permanenza nell’azienda. Aveva una scrivania standard con sopra una pinzatrice, un grosso computer del tipo che si usava allora, una stampante, un vassoio per la posta in arrivo, una tazza che fungeva da portapenne. C’era una pianta da interni presso la finestra, una bromelia con foglie grandi come teste di coccodrillo. E c’era una sedia con sopra impilate riviste di settore e un tavolino su cui si trovava una piccola collezione di ditali, disposti in cerchio su un centrino.
Rimandai l’inevitabile chiedendole informazioni sul signor Connelly. A quei tempi, non si poteva semplicemente cercare qualcuno su Internet.
Le si illuminarono gli occhi. Lo descrisse come un uomo che veniva da un’antica famiglia di banchieri del Midwest, era stato un campione di football negli anni del college in Wisconsin, dove si era laureato in economia. Aveva trovato moglie nei quartieri alti di San Francisco ed era entrato nel settore di vernici e lacche con il suocero subito dopo la guerra, quando il mercato immobiliare in California era in piena espansione. Avevano accumulato una fortuna, ma John R. Connelly era più di un uomo d’affari, mi assicurò. Era un leader, un rotariano, un conservazionista, un anticonformista.
Ebbi la sensazione che fosse stata innamorata di lui, forse lo era ancora.
Dopo di che, disse: “Jan, fammi arrivare al punto. Il tuo contratto finisce domani, ma non può finire così. Tu hai tutto ciò che il signor Connelly – ed io – consideriamo essenziale per garantire il successo di questa azienda. Sono sicura che mi capisci.”
Meglio tagliare la testa al toro il più velocemente possibile. Espressi la mia gratitudine, ma spiegai che ero soddisfatta come impiegata di TempRight.
“Ma l’agenzia ci ha dato il permesso di offrirti un posto fisso. Naturalmente riceveranno una provvigione. Non sapevi che sono anche cacciatori di teste?”
Il suo volto, per quanto più composto che mai, era così pieno di falsità che difficilmente riuscii a nascondere il disprezzo che provavo. Risposi: “Mi spiace, ma non c’è modo che Eleanor si sia accordata su una cosa del genere senza prima chiedere a me. Chiamiamola adesso, chiediamoglielo.”
Mise la mano sul telefono, ma a quel punto mi sentii travolgere da un forte senso di vertigine e rimasi seduta. I fumi delle vernici erano più intensi nel suo ufficio che nel mio.
“Devo uscire di qui”, dissi.
“Signorina Wyatt, per favore”, disse lei con voce lenta e ferma. “Non c’è motivo di litigare. Questa è una grande opportunità per una nella Sua situazione. Non è facile passare da una compagnia all’altra, lo so bene…”
Un attimo dopo, ero di nuovo alla mia scrivania. Mi sentii come se fossi uscita da un banco di nebbia. A poco a poco rimisi a fuoco la realtà. Guardai l’orologio e mi resi conto che era passata quasi un’ora. L’orologio segnava qualche minuto dopo le cinque. Rabbrividii e indossai il cappotto. Cosa era successo esattamente?
Mentre camminavo sul marciapiede mi fermai in una desolante cabina telefonica. Puzzava di urina e l’apparecchio era incrostato di chewing gum. Una borsa unta era stata infilata tra il telefono e la piattaforma di metallo sottostante, e un elenco telefonico penzolava da un cavo sporco di un liquido rosso e appiccicoso come ketchup. Chiamai Eleanor e le raccontai la vicenda, chiedendole se davvero avesse fatto un’offerta ad Abernathy per piazzarmi da loro.
M’immaginavo mi porgesse delle scuse, ma mi sbagliavo. Eleanor mi aveva tradita. Mi disse: “Cara, la signora Kennedy mi ha detto che ti sei trovata bene, che sembravi a tuo agio. Mi dispiace se ho capito male, ma dobbiamo cercare di accontentare questa gente. Vogliamo restare in affari con loro. Per favore, domani ritorna in ufficio a completare il tuo incarico. Okay? Sei la migliore, Jan!”.
Uscii dalla cabina. Fino ad ora mi ero fatta l’idea che Eleanor volesse tenermi per sempre con TempRight. Non avevo mai immaginato che potesse cedermi a qualcun altro in questa maniera. Pensavo che stesse dalla mia parte, quasi come una mentore. Ma che stupida ero stata! Mi ero proprio illusa. Un’altra fregatura. Mi sentii rifiutata, ma anche in trappola. Che poi era anche come mi sentivo in genere, in un modo o nell’altro.

***

E così arrivò il mio ultimo giorno ad Abernathy. Mi presentai in pessima forma. Ero andata a letto tardi, dopo aver bevuto troppo e, in serata, avevo quasi fatto l’errore di chiamare i miei in un momento di debolezza.
Alla mia scrivania trovai un mazzo di rose e una busta con sopra il mio nome. Mi tolsi il cappotto e annusai le rose. Mentre aprivo la busta, mi sentii invadere da una sensazione piacevole. Mi sembrò quasi normale che il biglietto dicesse: Siamo contenti di averti con noi, Jan. Tu sei parte del successo di Abernathy.
Mi sedetti e risi. Non ero più arrabbiata. Provai a mettere insieme i pezzi degli strani eventi che avevano portato a questo malinteso, ma allo stesso tempo mi sentii spiazzata, pronta ad arrendermi. In fondo che importava, ora che mi apprestavo a strisciare in questo posto giorno dopo giorno? Quando la signora Kennedy entrò nella stanza, sembrò più smagliante e più Jackie che mai. Mi diede un abbraccio di circostanza, io trattenni il respiro e sentii il suo scheletro sotto il tailleur rosa. Disse: “Prendi le tue cose, Jan. Vieni con me.”
Vittima della mia insicurezza, obbedii. Dopo tutto, nella religione di TempRight, stavo finalmente raggiungendo uno stato simile al nirvana. Presi la borsetta e il cappotto e le andai dietro. Ritornammo nel magazzino e la seguii a distanza ravvicinata mentre ci aggiravamo tra i macchinari e i lavoratori vestiti di bianco, finché arrivammo dietro a una pila di barili in un angolo lontano. Dietro c’era una porta della quale lei aveva le chiavi. Mi fece entrare per prima.
Si trattava di una stanza piccola e soffocante con finestre dalle tende pesanti e due piccole poltrone. Le pareti e varie porte erano state dipinte di un rosso scuro e tetro. Sembrava la sala d’attesa di un’impresa di pompe funebri.
“Dove siamo?”, chiesi io.
“Siediti, per favore,” disse lei. “Questa stanza ha un posto molto speciale nella storia di Abernathy.”
Poi procedette ad armeggiare con qualcosa sul bancone, forse una teiera, mentre io – tra il divertito e l’indifferente – aspettavo di essere vezzeggiata. Sul muro c’era un grande ritratto del signor Connelly, giovane e attraente, un mito in divenire.
La signora Kennedy si avvicinò e prese l’altra sedia. Aveva in mano una macchina fotografica. “Jan, stai diventando parte di una grande tradizione qui ad Abernathy. Dovresti esserne fiera. Non offriamo la permanenza con leggerezza. Al contrario. Solo a coloro che hanno le qualità giuste e la grazia naturale che il signor Connelly considera un valore eterno. Ti chiedo di ripetere con me alcune parole che lui ha sempre trovato di ispirazione e che ancora gli fanno da guida. Sei pronta?”
“Devo esserlo”, risposi, non riconoscendo la mia stessa voce.
Saremo come una città sulla montagna. Vai avanti, dillo”, disse lei.
“Saremo come una città sulla montagna”, ripetei io, mentre lei sollevava la macchina fotografica e mi accecava con il flash.
“Gli occhi di tutti sono puntati su di noi”, intonò la signora Kennedy.
“Gli occhi di tutti sono puntati su di noi”.
“Per favore, ripetilo”, mi disse, mentre scattava altre fotografie.
“Saremo come una città sulla montagna”, dissi. “Gli occhi di tutti sono su di noi”.
“Molto bene. Ancora.”
Di nuovo ebbi un senso di vertigine. “Potrei prendere un po’ d’aria fresca?”, le chiesi.
“Jan, questa è una cosa che le nostre ragazze devono interiorizzare prima di fare l’ultimo passo. È un discorso toccante di John Winthrop, uno dei primi coloni del Massachusetts che vide il potenziale del nostro giovane paese di diventare un faro di speranza per il mondo, una cosa che il signor Connelly ha sempre voluto preservare. Ancora una volta.”
“Noi siamo…”, sbuffai, sentendomi un po’ agitata “… una città in un posto per cani, gli occhi di tutti i cani sono puntati su di noi.”
Ignorò la mia battutina, ma la sua voce cambiò. “Va bene, vieni con me.”
Si alzò, aprì un’altra porta e mi fece entrare. C’era uno spazio sulla destra che sembrava un ibrido tra un negozio di costumi e un laboratorio. “Avanti”, mi disse la signora Kennedy, ma in quei pochi istanti notai diverse cose strane: abiti da donna che pendevano da ganci, parrucche, scaffali pieni di scarpe, un grande tavolo di acciaio inossidabile e, lo giuro, un banco di lavoro con sopra coltelli, altri strumenti e fluidi vari. Vidi persino dei ditali e un grosso rocchetto di filo spesso rosa.
“Di qua, per favore”, disse lei mentre entravamo in una stanza buia e fredda. Chiuse la porta dietro di noi e accese la luce, al che mi si presentò uno degli spettacoli più insoliti che avessi mai visto. Per prima cosa vidi vetrate in grande quantità, come quelle delle vetrine dei musei di storia naturale che contengono creature abilmente imbalsamate e posizionate nei loro habitat. Ma qui dietro al vetro c’erano giovani donne agghindate per bene nell’ambiente di un ufficio, impegnate dietro a scrivanie, accanto a schedari o nell’atto di rispondere al telefono. Indossavano gonne a quadri, twin set e mocassini. Sembravano vere da tanto erano riprodotte nei minimi dettagli. Non avevano l’uniformità tipica dei manichini. Era uno spettacolo macabro ma anche ridicolo. Che tipo di ideale perverso doveva rappresentare? Un altro riferimento dell’azienda all’innocenza perduta della nazione, il feticismo di un pervertito o tutti e due? Ci saranno state almeno venti figure di ragazza in mostra, con gli occhi scintillanti e la pelle lucida e radiosa come la rosa nella reception.
La signora Kennedy disse: “Immagino che tu sia molto impressionata.”
“Cosa vi fa pensare che questa sia una buona idea?”, dissi io senza riflettere, chiedendomi quale delle mie molte scelte sbagliate mi avesse portata in questa situazione grottesca. Mi sentii imbarazzata, la testimone di un segreto indecente.
“Il signor Connelly ha iniziato la collezione anni fa, consapevole dello sforzo che ci sarebbe voluto per trattenere le migliori e le più capaci, e per preservare i suoi ideali contro un futuro incerto. Ma io ho avuto un ruolo importante in tutto ciò. Tra queste giovani ci sono delle privilegiate, che hanno studiato nelle scuole private, e quelle che sono state date in affido, le indesiderate. Quelle che sono passate di mano in mano come un fardello, che non sapevano più di chi fidarsi e si sono sentite deluse e tradite tra una fase e l’altra di relativa calma e di gentilezza occasionale da parte di sconosciuti.”
“Allora è questo che pensa di me?”
“Questo è il motivo per cui un posto fisso è un tale onore. Rappresenta la fine della sofferenza, della solitudine e di quell’assenza di proposito che ti tormenta mentre cerchi di capire che cosa ha in serbo per te la vita. Un posto fisso è davvero la cosa migliore per una come te, Jan. Sarai molto felice qui. Non ci saranno più preoccupazioni, tristezza o paura per te…”
Stavo guardando l’ultima figura nella vetrina, quella con il cardigan blu e la gonna a quadri in tartan Black Watch. Era Melody. Sussultai violentemente. Notai la consistenza della sua pelle sotto la patina lucida e i peli lanuginosi sulle sue guance.
“Non può farlo”, dissi io con voce rauca.
“Che cosa, Jan?”
Cominciai ad allontanarmi da lei e a cercare qualcosa che potessi usare per difendermi.
“Ricordati”, disse la signora Kennedy, “tu sei una giovane donna molto comune, ordinaria.”
Penso di aver urlato a quel punto.
“Cosa ti succede, Jan?”, mi chiese. “Sembra che tu non capisca. Jan? Torna qui. Torna qui!”.
Corsi verso la porta, mentre il tono della sua voce si alzava alle mie spalle. Uscii in fretta dalla funerea stanza rossa e raggiunsi la fabbrica. Ansimavo, avevo l’impressione di averla scampata per un soffio. Tuttavia, quando arrivai tra loro, senza disturbare nessuno, mi resi conto che gli operai e i macchinari erano impegnati in una danza complicata. Niente, neanche una donna ansimante e terrorizzata, in fuga da una stanza piena di segretarie imbalsamate, poteva fermarli. I camici bianchi degli operai erano immacolati. Le macchine procedevano a un ritmo costante, mentre la luce grigia dei lucernari gettava ombre fredde sul pavimento. I ventilatori sul soffitto ticchettavano, disperdendo i fumi dei solventi per tutto il magazzino. Un enorme tubo di scarico ruggente incombeva sullo spazio come una luna scura. Rimasi affascinata dalla perfetta fluidità del meccanismo e d’improvviso intuii la pace che si poteva ottenere nell’adattarvisi.
Mi voltai per vedere se la signora Kennedy mi avesse seguita, ma ero sola in compagnia di questi zelanti lavoratori. E visto che non mi aveva seguita, la mia fuga sembrò ridicola. Non era determinata ad aggiungermi alla loro collezione? Avevo calcolato male il suo impegno e il suo desiderio, davvero si stava arrendendo così facilmente? Ero ancora una volta così facile da rimpiazzare? A questo punto ero riuscita a padroneggiare il mio respiro e a trovare una fontanella, di cui bevvi l’acqua ghiacciata a grandi sorsi finché mi ritrovai con il palato congelato. Su una parete vicina era montato un orologio marcatempo. Ogni lavoratore aveva il proprio cartellino, sistemato in ordine alfabetico in una rastrelliera grigia e con i timbri che segnavano l’accumulo delle ore lavorative. Fui colpita dall’insidiosa semplicità della cosa. Mi spinsi oltre le varie porte, oltre la reception e finalmente arrivai in strada.
Avevo già usato la cabina telefonica nei paraggi. Avrei potuto entrarci dentro con tutta la potenziale libertà che avevo conquistato. Ero libera di chiamare chiunque, se avessi avuto qualcuno da chiamare. Ero libera di scegliere la mia prossima mossa, se ci fosse stato un posto in cui andare. Chi aveva bisogno di me adesso? La cagnolina randagia e arruffata che si aggirava per la strada? Come avrei potuto avvicinarla? “Vieni qui, cucciola”, chiamai. “Vieni qui. Sei proprio una brava ragazza. Sì, una brava ragazza, ecco cosa sei, vieni da me!”.

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L’ultimo romanzo della scrittrice americana Elizabeth McKenzie s’intitola The Dog of the North ed è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 2023 da Penguin Press. Precedentemente McKenzie ha pubblicato, sempre con Penguin Press, The Portable Veblen, uscito in Italia per Marsilio con il titolo L’amore al tempo degli scoiattoli. Oltre a questi e ad altri tre libri, l’autrice ha firmato saggi e racconti per riviste come The New Yorker, The Atlantic Monthly, The Best American Nonrequired Reading e l’Pushcart Prize Anthology, ricevendo numerosi premi nel settore.

Michela Martini ha insegnato lingua e cultura italiana presso la Suffolk University, l’Indiana University, Cabrillo College e la University of California SC. Ha co-fondato e diretto la Dante Alighieri Society of Santa Cruz. Le sue traduzioni dall’inglese all’italiano includono poesie e racconti di autori quali Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni, Gabriella Leto, Patrizia Valduga, Rossana Campo e Emanuele Trevi. Sono apparse in numerose riviste e volumi antologici quali The Literary ReviewPoetry InternationalGradivaCatamaran Literary ReaderChicago Quarterly Review, Journal of Italian TranslationItalian Poetry Review e The FSG Book of 20th-Century Italian Poetry.

Un bon élève

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di Simone Redaelli

Sono sdraiato a letto e penso che le pale attaccate al soffitto che vorticano sopra i miei occhi d’un tratto potrebbero staccarsi e cadermi addosso, non ci avevo mai pensato prima ma oggi ci penso in continuazione, da qualche tempo è come se l’ordine stabilito della realtà avesse perso di consistenza e le cose, in principio coerenti con un sistema prevedibile di mondo, ora dovessero realizzarsi secondo dettami a me sconosciuti e invariabilmente insondabili.

Mentre espongo ad alta voce questa teoria dell’anima, non tanto per condividerla con qualcuno ma piuttosto per testarne la consistenza, voglio ancora credere che essa rappresenti solo un’ipotesi di lavoro, un modello semplificatorio e sperabilmente incapace di generalizzare una realtà. Ma ben presto qualcosa in me diviene sottile, quasi il mio eloquio si facesse scherno di questa ormai defunta reputazione di uomo ordinario.

Mi tiro a sedere, guardo fuori dalla finestra e tutto ciò che registro mi appare immancabilmente inutile: so che è insensato pensarci ma se potessi entrare nel cuore pulsante di tutto ciò che vedo, nei muri, negli alberi, nell’indole di questi esseri umani che procedono dentro le loro esistenze, insomma se potessi sentire come tutti gli altri elementi del mondo sentono, voglio credere che anche in loro troverei un sentimento di precarietà, di non necessità, di piatto incedere. Un sentimento di mancato abbandono, di rassegnata accettabilità.

Ma questa è una menzogna. Nulla nel mondo ha di queste sensazioni. Tutto continua a girare: gli esseri umani procedono indisturbati, gli alberi generano foglie, i muri continuano a reggersi.

Allora, provo a rieducare i miei pensieri, per un attimo mi convinco che è solo questione di intenzioni. D’altronde è proprio quello che mi diceva sempre la maestra d’italiano alla scuola primaria, nonostante io mi ostinassi ad avere ansia a fronte di qualsiasi prova di maturità o d’indipendenza che fossi chiamato a superare.

Diceva: L’angelo custode, sei l’angelo custode, lo dichiarava a chiare lettere e a voce alta, davanti a tutta la classe, davanti a tutti gli altri alunni, ed è un ricordo folgorante il fuoco aperto sopra i loro visi, visi compiaciuti e pieni di quella forma di superiorità così sincera che può provare solo il bambino ancora intoccato dalle correzioni del mondo.

La cattedra, il mio banco, la maestra. E io, a fianco. Sì, aveva ragione lei. É così che si cura l’ansia, è proprio così che si ristabilisce un ordine e s’annulla qualunque involontario capriccio dell’anima.

Ma oggi non funziona e ho la netta sensazione che se le pale si staccassero dal soffitto e mi crollassero addosso, capirei qualcosa che ancora mi sfugge ma che nondimeno è insito nel procedere cieco degli ingranaggi. Perché anche se ci riempiamo la bocca di senso e di grandi sogni, anche se abbracciamo a cuore aperto quest’epoca di speranze e di rinnovata autenticità, la vita dei comuni mortali si piega senza resistenze a un incedere naturale, nel quale l’ordinario è tutta la verità. E non ci sono terrori sepolti nell’inconscio, paure perdute o tormenti antichi. No, semplicemente le persone stanno bene.

Io invece ho voluto troppo e penso che se aprissi queste pale a martellate, se ne interrompessi innaturalmente il funzionamento, se sondassi dentro gli ingranaggi, dentro la meccanica di base, allora di certo troverei la spiegazione del loro movimento. Eppure, la vita non funziona così. No, non funziona così. Solo un bambino può pensare un’assurdità del genere. E io ho trentatré anni.

Ed è esattamente ciò a cui penso, proprio ora, mentre guardo le pale che girano, cioè penso alla mia età e a questa mia insegnante di francese, e penso che se mi dedicassi a vivere anziché a prendere appunti, se per una volta assecondassi quelle intuizioni che anticipano i passi concreti della vita, quelli giusti, quelli che gli esseri umani sentono naturalmente da sé, senza cercar spiegazioni, se solo la guardassi negli occhi e facessi esattamente quello che dovrei, allora la mia esistenza cambierebbe: potrei smettere di ripetermi ogni istante che sono vivo, e vivere e basta. Ma dal momento che il passo mi risulta inavvicinabile, mi lusingo dentro un’ipotesi di compimento, abbandonandomi alle leggerezze della mente. Perché è giunto il momento di dirlo: non avremo una vita insieme. No, non ce l’avremo.

E nonostante questa sentenza, il pensiero delle divaricazioni teoriche è talmente violento e costitutivo che mi basta a soppiantare ogni prassi concreta e a lasciarmi dire che sono un bravo studente, che ho fatto bene i compiti a casa, Ça marche bien, Simone!, e non posso negarlo, no, c’è qualcosa d’imperituro ed esatto, qualcosa di necessario, nel sentirmi dire che è tutto al proprio posto, nel vederla sorridere e annuire, nell’udire le sue parole, nel vagare sulle sue labbra, perché saremo una cosa sola. E lei mi vorrà bene.

Ma anche questa è un’illusione. Ci fosse stato un insegnante che m’avesse detto che avevo un talento, no, tutti a compiacersi del bon élève dal futuro irto d’intuizioni e prodigi, sì, bisogna pensare quando si educano i ragazzini, pensare, bisogna alimentare le uniche fiamme che cercano disperatamente di guadagnarsi una buona uscita. Tutto il resto è ciò che comunemente chiamiamo vita adulta. O letteratura.

Sì, è proprio così. Altrimenti si finisce per crescere degli ottimi teorici del mondo, gente buona a concepire visioni sulle più vaste correnti dell’universo, dedita alle interferenze alte del pensiero, all’esercizio fine della sublimazione, divinatori, mistici, uomini d’arte, di scienza, d’intelletto e d’acume, che finiranno per sentenziare sul mondo inorridendo alla sola idea di toccarlo.

È così che si prospera. Studiando.

C’è però un limite varcato il quale il mio cervello andrà in frantumi. È un limite senza nome, conturbante nel buio, che guardo dal basso verso l’alto come a una forma diversa e pericolante, dalla materia indicibile ma a tratti familiare, persino quotidiana.

Una coscienza nascosta dentro ai miei occhi.

Ed io e lei siamo a un battito di distanza. Sì, ci siamo quasi.

Allora cosa dovrei fare? Aspettare che venga giù? No, resterà lì dov’è. Come queste pale che non cessano di ancorarsi al soffitto. E girare.

Da “80 fiori”

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di Louis Zukofsky

Traduzione: Rita Florit

Per l’editore Benway Series, Colorno : Tielleci, 2024, presentiamo un estratto da 80 fiori = 80 Flowers di Louis Zukofsky. Traduzione: Rita Florit; postfazione: Paul Vangelisti.


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⇔  ⇔  ⇔

Clover

Clover nitrogen soak airily pumps

phosphor dark shiner niter direland

forage 4-5-6 rarely more leaflets

shamrock doublin’ confusion red globe

blossom trifling home prate tense

dutchwhite repents yellow’s nonesuch black

medic disputes none ’s shamrock

perennial springers onto bog falls

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Snowflake

Wanting throat crown narcissus proves

snowflake essáy a pace so cloud

pool ignorance spring surprise

in vent toss wit a white-green

6-star-widened nodding flowerfoot papersheath’d

leaf rapier next greater celandine

cobweb-kell ’d own May’s snowflake

white yellow stacked glimpse shut

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Lilies

Called Niobe high more callous

gnar’s th’sum talk’s shrill pine

bog-asphodel echo echo serious

light jacob’s rod sceptre go on

so made of days lilies

do not mourn orange-yellow lilac-blue-white

pleached meek stone deepened asphodel

anthers’ coast tallest of all

white yellow stacked glimpse shut

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Poppy Anemone

Poppy anemone chorine airy any

moan knee thinkglimpsing night wake

to short-wages no papàver world-wars

opiate bloodroot puccoon indian-dyed fragile

solitary gloss-sea powderhorn yellow-orange West

earthquake-state sun-yellow tall-khan poppy corona

airier composite eyelidless bride bridge

it uncrowned birdfoot spurs dayseye

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Immagine: Mariangela Guatteri

Strutture narrative e costruzione del personaggio ne Il Gesuita di Franco Buffoni

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di Daniele Ventre

Il Gesuita, romanzo di Franco Buffoni uscito nel 2023 nella collana Gli Oltre di FVE editori, si articola in quattro tempi narrativi. L’esordio in medias res, nel mezzo del cammino dell’adolescenza del protagonista Franco, si colloca storicamente nel 1964 a Gallarate: l’indicazione cronologica incipitaria è volutamente nello stile del romanzo tradizionale. Tradizionale è anche l’io narrante e la focalizzazione interna fissa, che però comporta in qualche modo che il narratore intradiegetico si ponga come protagonista agito dalle circostanze, punto di vista che squaderna esperienze, in un flusso di accadimenti ridotti a stream of consciousness.

In prima battuta, per il protagonista de Il Gesuita, in realtà le categorie lacaniane da richiamare sono due: dell’una, l’essere agito, abbiamo già detto, e vi si potrebbe aggiungere il corollario heideggeriano della gettatezza; l’altra, la forclusione (non nel linguaggio del romanzo, ma di fatto nella psiche del narratore interno), legata alla presenza esterna, ipercontrollatrice, di un padre mai nominato (è semplicemente “il padre”) che da ufficiale di fanteria è “abituato a dare ordini”.

Nelle prime pagine sembra agire sotto traccia la dittologia virilismo dispotico e allusione all’elemento “guerresco”: nel primo capitolo l’io narrante, che “stava con la Michela”, ha la sua prima esperienza omosessuale durante la proiezione di un film di guerra al Cinema Impero di Gallarate, il cui nome e la cui aura architettonica, entrambi echi del ventennio, come riecheggiamenti dei Cinema Impero di Asmara e di Roma, creano una struttura reticolare implicita di richiami storici che alludono al substrato ademocratico e ideologicamente tossico alle radici di una parte consistente dell’Italia contemporanea. In un simile contesto, il protagonista si viene strutturando, nei capitoli 1-6, in una sorta di dualismo fra il suo orientamento sessuale, scoperto in modo improvviso e semi-traumatico, e la proiezione sociale del suo rapporto con la propria identità. Il suo primo impatto con sé stesso è rappresentato nel flusso di coscienza-discorso indiretto libero del capitolo d’esordio; nell’erlebte Rede viene però incapsulato, spontaneamente, anche il dialogo monosyllabos con il partner occasionale (“Apri bene… Apri bene…”, “No/ Dai, stai buono”), con abolizione parziale della punteggiatura, fornendo all’intera scena, greve di mera fisicità, la connotazione di un fenomeno puramente intrapsichico. L’effetto contrastivo fra l’esperienza omosessuale e il biglietto en français della Michela (“Quand tu serais à la mer avec une belle suédoise, te souviéndras-tu de moi?”) condensa infine l’intero sistema delle circostanze esistenziali in cui l’io narrante è per il momento gettato: 1) la sua omosessualità, per ora socialmente latente; 2) l’attesa sociale verso un’eterosessualità seduttiva di conquête; 3) l’obbiettivo di questa eterosessualità seduttiva, la bella svedese, ovvio bersaglio del latin lover soggetto di due ben note narrazioni cinematografiche che, guarda caso, si collocano nell’orbita temporale dell’epoca di inizio del romanzo. Al 1963 data infatti I mostri di Dino Risi, in cui l’episodio Latin lovers-amanti latini, vede protagonisti due personaggi interpretati da Tognazzi e Gassman che su una spiaggia tentano di sedurre la stessa bella bagnante, la quale si dilegua, così che i due uomini si ritrovano mano nella mano. Del 1965 è la parodia di cassetta di Franchi e Ingrassia, in cui l’ambiguità del mito machista italiota si manifesta nel suo aspetto comico, mentito e atteggiato. In questo rimpallo di ipogrammi della cultura popolare e del cinema, attraverso un gioco di allusioni, nel capitolo de La Michela, si delineano, a cerchi concentrici, l’ambiente storico e antropologico, il sistema di attese che circondano il giovane uomo in fase di maturazione, la dinamica discriminatoria del virilismo, e al centro il personaggio stesso, con i suoi gusci proiettivi e il suo friabile mimetismo. Sul piano narratologico, assistamo a una peculiare modalità di narrazione segmentata; il sistema di attese (della Michela, implicitamente del padre) che circondano l’io narrante, la struttura reale del suo desiderio, gli ipogrammi del cinema anni ’60, costruiscono una parvenza dissociata, dietro il cui manifestarsi esteriore si cela una identità non ancora pienamente centrata.

Il mancato centramento è anzitutto relazionale: in primo luogo nel vagheggiamento per l’Alberto (cap. 2), con la sua fisicità da atleta, vagheggiamento che rimane inappagato, e si concreta in una gestualità furtiva, slittata feticisticamente su una lettera che il giovane scrive al protagonista, sulla scrittura (“scrivo una poesia pensando all’Alberto”), sul “telefono a muro” (cap. 3) tramite cui i due ragazzi comunicano. È nell’episodio del telefono a muro che interviene, come mera fonte di divieto generalizzato, il padre, che viene subito liquidato (“a Chianciano due settimane a curarsi il fegato”) ed è oggetto di odio per i suoi immotivati editti di interdetto. L’Alberto si caratterizza come l’opposto del protagonista Franco: vive fuori della storia, lo hanno “cannato a scuola”, ignora che nel vicinato vive il poeta David Maria Turoldo, o che nel mondo gli equilibri geopolitici sono stati alterati dalla caduta di Krushëv. L’alberto (“con la a minuscola”, come si auto-definisce in una lettera al protagonista), rappresenta quasi l’intemporalità del desiderio come tale: infine si rivelerà come colui che “non ha capito nulla”. Non corrisponde al desiderio, e ha tutti i connotati prevedibili del “povero ma bello” di risiana memoria. Nello slittamento progressivo del desiderio, l’Alberto si annoda, lungo il primo dipanarsi della trama, con altre tre presenze: la Patrizia, di cui il protagonista, che ha deciso di conformarsi esteriormente all’attesa sociale dell’eterosessualità, dice apertamente: “non so se la amo: io la devo amare”; il compagno di classe, Roberto, per cui il protagonista Franco rappresenta, senza saperlo, ciò che per Franco stesso rappresenta l’Alberto; la fugace ricomparsa dell’uomo della prima esperienza, stavolta cercato, non sensa che il protagonista si autoflagelli (“sei un invertito, un finocchio…”). È quasi il caso di saphēnízein Buffoni ek Buffoni sottolineando, per quanto sia banale, che al momento iniziale de Il Gesuita l’io narrante, sedicenne, ancora in costruzione esistenziale, è lo stesso io poetante-narrativo, la stessa persona loquens di alcuni versi di Jucci: “In una poesia dei sedicianni/ scrivendo come se io e il mio ipotetico lettore/ fossimo etero, sillabavo:/“Dietro un muretto, due invertiti smaniano”./ poi – e già ti conoscevo – da proustiano/ divenni gidiano…” e il richiamo è tanto più diretto, quando si pensi, in quanto la presenza dei “due invertiti” è evocata dalla stessa Patrizia, come puntualizzazione dell’ordine pubblico omofobico. Nel racconto di Patrizia, i due uomini nudi in macchina, sorpresi dai carabinieri, sono collocati, quasi in allegoria, nel luogo “dove capita che i ladri abbandonino le auto rubate” e viene spontaneo cogliere qui un’ulteriore allusione alla quasi coeva, o di poco successiva, aneddotica pasoliniana e penniana in cui pederasta e ladro/bandito sono in qualche modo associati, nell’immaginario dei pregiudizi omofobici radicati nell’Italia  del boom economico, dalla loro dimensione furtiva e marginale. In questo succedersi di vicende interiori ed esteriori, procedono le prime sei lasse di prosa del romanzo, saldate da una sorta di struttura ad anello con movimento processuale, secondo uno schema facilmente sintetizzabile nelle grandi linee: a) Michela “donna dello schermo” + prima traumatica esperienza omoerotica con uno sconosciuto; b) passione non corrisposta di Franco per l’Alberto; c) presenza interdittiva del padre; b1) passione non corrisposta di Roberto per Franco + seconda, stavolta cercata, ma ammantata di sensi di colpa-autodenigrazione, esperienza omoerotica del protagonista con lo stesso sconosciuto; a1) Patrizia “donna dello schermo”. Questa cellula narrativa tradizionale, già attiva negli incunaboli del romanzo occidentale, dal Satyricon al Lazarillo de Tormes, rivela il fatto che Il Gesuita, più che un banale Bildungsroman a tema, è una sorta di versione sublimata del romanzo picaresco; o meglio, se di Bildung si deve parlare, va intesa nel senso primitivo di “costruzione/assemblaggio” progressivo sul piano narratologico, e sul piano ontologico, più che nel senso banale, catacrestico, di “formare/educare”, che ha nel sassone moderno il verbo bilden.

Che sia in qualche modo questa la chiave di lettura, lo si intuisce nel capitoletto intitolato a Guido Guinizelli. Lo scarto narrativo, rispetto alle prime sei lasse, è riassorbito dalla struttura a schidionata dei capitoletti, l’unico trait d’union essendo sempre il centro coscienziale del flusso ideativo del protagonista. La virata logica verso la cripto-gnosi dello stilnovo, la cui comprensione critica è organata sul precisare “la differenza tra concezione ontologica e concezione gnoseologica dell’amore” e sulla struttura delle “immagini naturali (sole fuoco selva luce pietra stella calamita)”, fa emergere per mera contiguità associativa il processo per cui Franco cerca di inscrivere l’aspetto sublimato, ingenuo, del suo amore per l’Alberto, nelle categorie che il primo contatto con la letteratura gli fornisce. Tale sublimazione, nella letteratura medievale, è per alcuni ancora una volta espressione del corpo forcluso; in realtà qui il protagonista ne coglie lo spirito autentico, come autofondazione esistenziale attraverso la relazione d’amore. L’inserzione ex abrupto di visioni metafisiche, evocate tramite gli snodi narrativi di un’estemporaneità quotidiana (lettura occasionale, lettura di scuola), si ritrova anche in altri narratori europei contemporanei: si può citare a titolo di esempio l’Arno Schmidt di Dalla vita di un fauno. Qui tuttavia l’inserzione della metafisica dell’amore degli stilnovisti assume una maschera di ironia affettuosa, specie se si riflette sulla natura di flashback autobiografico finzionale che la narrazione assume. Segue in effetti al capitolo Guinizelli l’invio delle poesie d’amore di Franco all’Alberto con tutte le ‘o’ al loro posto, in una lassa narrativa in cui lo stato sentimentale del protagonista rasenta i canoni dell’amor de lonh (“Il Roberto, la Patrizia, è bello stare con loro perché esiste l’Alberto, è lontano, ma c’è”; lo strano entimema “Alberto esiste perché è lontano”). Immediatamente dopo, però, la Patrizia dilegua dall’orizzonte ottico con il tradimento: la sua breve lettera d’addio è un passo di scrittura tematica, che prelude alla conclusione della prima parte del romanzo, come avremo modo di chiarire fra poco. In sfrigolio contrastivo con la desolazione lasciata da Patrizia, oggetto del disprezzo di Franco, il ritorno di Alberto (con la sua “sana” ignoranza politica, che lo tiene lontano dalle inquietudini dell’epoca, condensate in scritte murali come “La Cina è vicina/ è già in Albania”) si traduce in un momento di gioia suprema. Il capitolo 9, Vacanze di carnevale, in cui questi due momenti si concentrano, segna l’inizio di una nuova linea narrativa marcata dall’usuale circolarità progressuale. Tale linea narrativa conduce: 1) allo sgretolamento del microcosmo relazionale di Franco, per come si delineava nei capitoli 1-6; 2) all’emergere dell’odio nei confronti della figura ipercontrollatrice del padre; 3) all’apparire di Klaus, il gesuita, 4) alla dissoluzione dell’immagine dell’Alberto come oggetto d’amore (l’Alberto è infine nel novero dei “nemici”). Questa nuova, più articolata, cellula narrativa, segue lo snodo metafisico del capitolo 7, e si dipana dal cap. 8 al capitolo 30. La comparsa di Klaus che scrive al protagonista, trasforma le pulsioni del personaggio narrante, attuando quella sublimazione che era cominciata idealmente nella digressione su Guinizelli. Klaus è in teoria in corrispondenza ideale: apprezza le poesie, e in genere le passioni artistiche, del personaggio narrante, ma nella sua lettera, sin da subito, questo apprezzamento si manifesta con un verbo che ha connotati fortemente fisici: “palpare”, che nel contesto in cui è usato viola una serie di blande restrizioni semantico-sintattiche. La “vita con Klaus” procede in questa dimensione ambigua, in cui il gesuitam scrivendo al protagonsita, usa la parola “spirito” virgolettata; nel frattempo si viene profilando l’estinzione della pulsione a cercare esperienze in contesti di marginalità (il cinema, il cimitero) e della violenza implicita in tali esperienze (che alla violenza si riducono: “un vecchio che salta fuori all’improvviso, spingendomi alla fuga”; “un altro giovane che … mi dà un pugno sul naso… e mi porta via i soldi e l’orologio”). Questo breve passaggio conclusivo, richiama in negativo le esperienze omoerotiche occasionali ad apertura e chiusura dei sei capitoli iniziali; soprattutto smentisce in rebus l’associazione spontanea fra omosessualità e mondo marginale/criminale, che è immediata nell’immaginario in bianco e nero degli anni in cui la narrazione muove i primi passi. In questo processo, il gesuita viene rivestendo un semi-volontario ruolo di maestro/costruttore; gli appartiene una visione esterna obbiettiva delle cose (coglie per es. la potenziale relazione di Roberto, immaginando sia quest’ultimo, e non Alberto, il destinatario), gli regala, per il compleanno (nuovo momento cronologicamente scadito: 3 marzo 1965) le poesie del poeta gesuita G. M. Hopkins, antifrastiche rispetto al dono di Roberto, le poesie di Lorca; si intuisce che i personaggi sono di fatto associati all’identità del loro ideale alter ego poetico, proiettato verso l’altro come dono del proprio intimo processo identificativo sul piano culturale. In questo sistema, quasi una sorta di conflation ring, i messaggi inviati tramite il dono soffrono di eterogenesi dei fini: il gesuita offre una sorta di insegnamento; la risposta di Franco, con la sua traduzione “calcistico-dissacratoria” semi-consciamente orientata, per transfert, al mondo agonistico dell’Alberto, suscita l’ilarità di Klaus (cap. 13: Che terribile che sei); per ovvie ragioni Roberto regala Lorca, con tutto il complesso di implicazioni che ne deriva, considerando ciò che per Roberto il protagonista rappresenta; prima di questi doni di compleanno, però, un libro di poesie era stato già regalato, quello di Franco, all’alberto (con a decisamente minuscola), ed è quest’ultimo a essere estraneo al gioco. Non è casuale se poco dopo il narratore interno, incontrando un compagno delle medie di Alberto, che lo conosce nella dimensione quotidiana e abitudinaria, prenda atto della sua realtà ordinaria e constati con disappunto: “Lui così non esiste”. Intrecciata con la figura del gesuita, la figura dell’Alberto viene così erodendosi progressivamente. Mentre l’evoluzione dei personaggi procede, si manifesta ancora una volta, come presenza turbativa e fonte di divieti unilaterali, la figura del padre (cap. 15-16): ancora una volta il padre interviene, convocando il figlio e dando ordini (“Mi dice che quel gesuita non lo devo più frequentare”), per poi agire dietro le quinte, da “onnipotente”, facendo trasferire Klaus a Roma; la presenza del padre (“la macchina di tuo padre”) impedisce anche a Roberto di avvicinarsi; la lettera di addio di Klaus, trasferito d’autorità, è poi causa dello sfogo (scritto) del protagonista; sfogo che produce l’effetto dell’ “odio” verso il padre simbolo della “virilità anni Sessanta” evocata nei capp. 1.6. Di questo odio del figlio il padre stesso prende coscienza, uscendone distrutto (19-21), per effetto della sua volontà di vigilare su ciò che il figlio scrive in segreto.

L’azione del padre come figura genitoriale distorta, controllatrice, vittima psicologica paradossa della sua stessa, destinale deriva dispotica, si condensa nella dittologia verbale che fa da titolo al cap. 16, “troncare, sopire”, in sinistra assonanza e quasi in parallelo isocolo e isoritmico con il sorvegliare e punire di foucaultiana memoria; il suo sgretolamento è anticipato da un passo di scrittura tematica all’inizio del cap. 17, con il crollo del reguitti, del servo muto, che a sua volta riprende il “crollo, bum, tutto rotto, confuso” che segue, nel cap. 3, al primo divieto del padre, di interagire con l’Alberto. L’elaborazione-rifiuto della figura paterna, al culmine dell’ “odio” filiale, è condotta attraverso una analisi impietosa, in cui si stigmatizzano “l’incubo di essere ancora… giudicato dal padre”, “i suoi maldestri atti d’amore”, l’ostentazione del rampollo e i ricordi infantili (“mi chiedevo quante volte dovrò far salire l’elicotterino… perché lui pensi che sono contento che me l’ha regalato”), l’inefficacia delle sue azioni disciplinari (tenere occupato il figlio e impedirgli di leggere); in parallelo, la paternità esteriore e assente lascia al protagonista uno spazio sotterraneo dove la sua identità si sviluppa in modo latente. Il parricidio interiore che il protagonista compie, con tanto di immaginazione della pena che ai parricidi infliggevano i romani (“Essere gettati nel tevere in un sacco insieme a un cane, un gallo, una vipera e un serpente”) è immune di principio anche al perdono incondizionato (“i padri sanno perdonare tutto… ma tanto ti odio lo stesso”) e compie questa sorta di Entgötterung del paterno il cui progredire segna gli snodi narrativi dei primi trenta capitoli.

Nel frattempo, anche l’Alberto compie la sua parabola come personaggio: dalla sua freddezza (cap. 22, Mare), all’ebbrezza momentanea, condivisa con Franco, di Tandem (cap. 23), in cui ancora una volta il dettaglio biografico di un poeta, Pascoli (il suo legame con Severino “Ridiverde”), è proiezione e manifestazione indiretta del desiderio del protagonista, e in cui però l’Alberto esorta quest’ultima a farsi la ragazza per non “fare lo sfigato” -e appare qui una terza, ancora più evanescente, “donna dello schermo”, la Marie-France-, all’episodio della rondine, rimasta intrappolata nella camera della madre e poi liberata (un correlativo oggettivo, e un senhal, evidente dell’ingabbiamento esistenziale risolto), all’episodio della fonovaligia (cap. 25), in cui si attua una nuova triangolazione poetica: uno dei sonetti a Ganimede, di Richard Barnfield, è inviato da Klaus al protagonista (con evidente allusione a un eros sublimato e metaforizzato: ancora una volta, forcluso e al contempo evocato nel mito), il quale lo “trasmette” ad Alberto, che superficialmente non recepisce, si allontana, in cerca di una “nuova arrivata”. Gli ultimi capitoli (26-30) segnano una progressione rapidissima nel distacco dalla figura dell’Alberto: la manifestazione del trasporto fisico verso di lui da parte di Franco determina una reazione di rifiuto (cap. 26, La sdraio: “Lo abbraccio violento goffo. Mi respinge con forza”), a cui segue la tortura del cap. 27, con l’umoristico rovesciamento di ruolo (il padre immagina che il protagonista sia stato traviato dall’Alberto, mentre stava accadendo l’esatto contrario, con tutti i buffi contraccolpi, fra cui il vano tentativo di convincere la moglie a “cambiare mare”), e con un altro rovesciamento di ruolo: l’atteggiamento di disprezzo che all’inizio il protagonista aveva rivolto verso la sua seconda “donna dello schermo”, la Patrizia, è ora rivolto verso di lui dall’Alberto, che diviene in tutto e per tutto immagine virtualmente antisimmetrica di Franco, perfino nella complicità con il proprio padre, nel condannarlo (cap. 28: “Alberto confabula un momento con suo padre, entrambi mi guardano scuotendo la testa”). La confidenza con il prete “non vecchio, gentile”, che segue, ed è funzionale a una sorta di crisi di crescita del personaggio, si presenta come una sorta di surrogato del dialogo con Klaus, e si esaurisce in un ennesimo dono proiettivo, un anodino libro di Raoul Follereau, resistente e missionario impegnato contro la lebbra. Alberto si rivela infine un altro esempio di virilismo tossico anni Sessanta, e insieme al padre del protagonista si ritrova “per sempre dalla parte dei nemici”, per “lo stigma” che l’omosessualità comporta agli occhi del virilismo machista che l’Alberto comunque rappresenta. Come abbiamo cercato di mettere in evidenza, le macro-strutture narrative connotate da circolarità in progress continuano ad agire; abbiamo qui tre momenti, scanditi dall’affioramento delle memorie letterarie (i poeti), e in particolare: 1) Guinizelli-poeti dello stilnovo, gnosi dell’amore (contesto in cui sembra affiorare, nel retroterra, una sorta di tesi dei Fedeli d’amore à la Luigi Valli), a cui segue a) la contemplazione dell’Alberto che esiste in quanto lontano e straordinario, in quanto distanza e desiderio + ultima “donna dello schermo” (quasi inesistente “tanto per parlare in francese”: Marie-France) + sospirato ritorno di Alberto; b) apparizione del gesuita Klaus; c) vita con Klaus; 2) compleanno e triangolazione non recepita dei poeti, Klaus-Hopkins per Franco, Roberto-Lorca per Franco, (Franco) per Alberto a cui segue, a1) incontro con il compagno di scuola di Alberto = Alberto “quotidiano e ordinario” che “così non esiste”; b1) nuova presenza interdittiva del padre + allontanamento/obliterazione di Klaus + parricidio interiore da parte del protagonista; c1) rapporto altalenante con Alberto, in cui campeggia 3) un nuovo episodio non recepito relativo al mondo poetico, Zvanì-Pascoli – Severino-Ridiverde, a cui segue la disillusione risolutiva dopo 4) la lettura del sonetto a Ganimede di Barnfield. Questa macrostruttura di primo livello è incastonata in una struttura più semplice, che può così riassumersi: α) dissociazione fisico-psichica e sociale del corpo e dell’orientamento sessuale; β) esperienze violente/clandestine e associazione omosessualità-marginalità-crimine (lo stigma); γ) azioni interdittive dell’autorità paterna + manovre elusive di Franco; δ) passione per l’Alberto; ε) prima “fondazione” culturale dell’esperienza amorosa con Guinizelli; a cui corrispondono simmetricamente: α1) assestamento culturale della dimensione fisico-psichica, grazie alla figura sublimatrice del gesuita, β1) abolizione delle esperienze violente/clandestine; γ1) azioni interdittive dell’autorità paterna + ribellione dell’odio da parte di Franco; δ1) fine della passione per l’Alberto; ε1) fondazione di una “missione esistenziale”, ovvero il superamento dello stigma che la virilità anni Sessanta associa all’omosessualità. Le due sequenze sono opposte, simmetriche e speculari anche dal punto di vista del trattamento dell’enciclopedia della società anni Sessanta dal punto di vista dell’adolescente Franco: ipogrammi, o cripto-rimandi, culturalmente “deboli” o “banali” (il cinema per come riflette il senso comune distorto -le tracce se ne rinvengono in via ipotetica, per mera contiguità cronologica e interpretazione di atmosfera e Zeitgeist); sistema esplicito dei riferimenti poetici/culturali, con slittamento/fuga del destinatario rispetto al donatore e alla sua proiezione culturale ed esistenziale nel libro -un esempio per tutti: l’attrazione non riconosciuta di Roberto per Franco, che si trasforma nel dono delle poesie di Lorca -che fra l’altro dovrebbero essere quelle delle censurate Obras completas del 1953, in cui mancano i Sonetos del amor obscuro, di tema omosessuale. Nel complesso, le macrostrutture circolari in progressione delle prime quarantasette pagine del romanzo determinano il costituirsi di un personaggio centrato, con una missione in positivo, per quanto si sia originata da una sorta di assestamenti in negativo. Franco attua una triplice dialettica del no: 1) contro l’autorità del padre; contro il machismo di Alberto; contro lo stigma sociale espresso dalla virilità anni Sessanta, rappresentato dagli uomini e introiettato dalle donne, stigma che colloca l’omosessualità fra le devianze (Alberto guarda il protagonista con un misto di disprezzo e di pietà per il caso da curare) o in regioni contigue al furto e alla prostituzione, o quantomeno nella squallida clandestinità fisiologica di una toilette pubblica.

La seconda parte del romanzo sposta la narrazione su un piano intellettuale, tanto quanto l’esordio si colloca in una dimensione di fisicità traumatica e di dimensione dissociata. Il capitolo trentuno si incentra sulle coordinate dell’amore pederotico che è ordinaria amministrazione presso i greci, con la sua distinzione di ruoli fra erastés-maestro ed erómenos-discepolo. Il protagonista liquida la passione per Alberto come l’effetto di un errore di valutazione: l’essersi voluto annoverare fra gli erastài “senza averne l’età e l’autorevolezza”, in un contesto che peraltro è strutturalmente omofobico (lo stigma che abbiamo detto). L’attrazione per Alberto è in realtà, per un fenomeno proiettivo, un effetto dell’iniziale dissociazione/non centratezza del protagonista, così che si può tranquillamente affermare, che nel suo consuntivo di inizio seconda parte, Franco implicitamente stabilisca un ennesima, più sofferta posizione dialettica del no: il sistema sociale fondato su disvalori omofobici ritiene equivoca l’omosessualità; in realtà l’equivoco sussiste, ma come equivoco cognitivo-esistenziale, vale a dire come fraintendimento, prodotto della mancata accettazione di sé stesso e dell’introiezione dei sistemi repressivi (i gusci proiettivi, e protettivi, che occultano/forcludono la vera struttura del desiderio).

Una volta superato l’auto-fraintendimento, il protagonista immagina di potersi progettare come erómenos: in tale prospettiva, l’unico possibile erastés è Klaus, non fosse il suo allontanamento a opera del “padre molto reverendo” di Franco, padre incline al troncare/sopire, un sorvegliare/punire di fatto castrante. Nel frattempo, il padre equivoca, rassicurato, nell’interpretare la frequentazione di Franco con la Michela e la Patrizia, ora a tutti gli effetti “donne dello schermo” complici della dissimulazione onesta del protagonista narrante. Come si può notare, l’esordio del secondo macro-momento narrativo de Il gesuita riepiloga, nuovamente e contrario, con rovesciamento speculare e circolare, la sezione incipitaria. Gli elementi a supporto di questa mappatura narratologica sono molteplici: basterà qui richiamarne alcuni, i più emblematici. Infatti: Se all’inizio a) la presa di coscienza della propria omosessualità arriva al protagonista da un rapporto passivo casuale, imposto, e poi cercato, in una dimensione di fisicità bruta; qui a1) l’accettazione della propria identità conduce il portagonista a progettarsi come eròmeno di un personaggio connotato al massimo grado di profondità intellettuale, che si rivolge a lui sistematicamente come a uno “spirito” (agglutinando Klaus, Guinizelli e Petrarca, a uno “spirto gentile”); se b) all’inizio le storie con Michela e Patrizia sono accettate come mascheramento sociale del desiderio con la rassegnazione del conformismo; ora b1) sono cercate in una dinamica di scaltra complicità; se c) il padre è presenza interdittiva castrante, ora c1) è ridotto a “vecchierel canuto e bianco”/”vecchierel bianco e infermo” di petrarchesco-leopardiana memoria, così che se prima d) il suo andare a Chianciano per la cura del fegato è atteso come momento di liberazione ora d1) il suo ritorno da Chianciano diviene occasione propizia dello snodo narrativo destinato a far procedere la vicenda centrale del romanzo. Incidentalmente, sappiamo che anche il padre cela dietro i gusci proiettivi-protettivi dell’ipocrisia la struttura del suo desiderio: ha sposato la madre di Franco (nel romanzo, semplicemente “la madre”, ipostasi opposta al padre), la quale è dolce e remissiva, ma il suo ideale di donna è una personalità volitiva e decisa, come una certa albergatrice di Santa Maria Maggiore che è la sua vera compagna. Un’irregolarità latente che accomuna, e nello stesso tempo distingue, a causa dell’asimmetria uomo-donna imposta dalla virilità anni Sessanta, il padre e una sua cugina, Giulia, che dopo il liceo rimane incinta di “un bellimbusto che le aveva dato due gemelle prima di finire in galera per una gravissima rapina” e viene perciò ripudiata per anni dalla famiglia, salvo poi riacquistare rispettabilità come impiegata della Corte dei Conti (divenendo cioè, per parafrasare Gadda, una statale distintissima). Giulia, che abita a Roma e viene a Gallarate per visite a parenti vivi e morti, è avvicinata dal protagonista, così che questi ottiene di poter trascorrere con lei il periodo natalizio, avvicinandosi a Klaus, di cui solo ora scopriamo con evidenza che è stato allontanato per esplicita richiesta del padre, titolare della ditta ristrutturatrice degli impianti dell’Aloisianum, dove Klaus proseguiva i suoi studi. È interessante notare qui un’altra corrispondenza fra le due prime parti del romanzo: nei capitoli 1-6, nella storia  si definiva la trama antropologica del virilismo e la struttura delle relazioni interumane nello scenario degli anni Sessanta; qui (capp. 33-34) la prospettiva si allarga a una prospettiva implicita sull’intera società del boom economico e dintorni: la dimensione normativa condivisa copre l’anomalia come una foglia di fico troppo stretta; nello stesso tempo il sistema in transizione e sviluppo si fonda sul sopruso radicato nei rapporti interni all’economia, piccoli o grandi che siano. In questo panorama Franco comincia a porre in atto il suo progetto personale: “voglio amare ed essere amato”, riferimento a Hesse, ma di fatto anche ipogramma frommiano. Si viene delineando poco a poco, sempre in rebus e senza proclami ideologici, una concezione di fondo che potremmo definire neo-marxistica, e un’idea rivoluzionaria: una visione secondo cui la struttura del desiderio è riflessa in modo deforme ed è soggetta a torsione pulsionale ad opera della sovrastruttura antropologica della società e del suo pseudo-principio di realtà che in effetti è solo il sistema di direttive emesse dal centro di comando (e dei concreti rapporti di forza ad essa sottesi). In una generica prospettiva neo-marxistica, missione dell’intellettuale è scardinare le istituzioni culturali deformanti e rovesciare dialetticamente la concezione ideologica di principio di realtà che esse diffondono. Dal punto di vista del protagonista narrante, la rivoluzione consiste nel liberarsi dal padre (= dalla rete di ordini-comandi-soprusi di cui il padre è il centro geometrico) e nel contempo l’erastès di elezione, Klaus, deve “liberarsi dai gesuiti” (in ultima analisi, da un’altra maschera del padre); su un piano categoriale, la lotta per riappropriarsi della struttura del desiderio alienato è organica alla lotta per riappropriarsi di sé stesso e della propria unicità individuale -ed è del resto Klaus stesso ad aver prefigurato questa maturazione, definendo per tempo Franco, in modo mediato, attraverso l’analogia con Nietzsche (cap. 38), “robusto pensatore individualista” in un senso diverso da quello che ci si aspetterebbe, quasi da sinistra hegeliana, quasi, paradossalmente, neo-stirneriano, considerando che la riappropriazione di sé contro un conformismo alienante è quanto di più eversivo si possa determinare, in una società conformistica industriale di massa in via di formazione e assestamento. In tal senso, la lotta contro lo stigma, che poi alla fine sarà lotta per costruire istituzioni non omofobiche e in generale non discriminatorie, è sostanzialmente una lotta di avanguardia che ha come teatro l’orientazione pulsionale. La cosa è tanto più paradossale, se si pensa che all’epoca in cui il romanzo è ambientato i partiti comunisti e in genere gli orientamenti politici legati al socialismo reale (la cui presenaza è nello sfondo, fra le notizie su Krushev e le scritte anti-maoiste di cui alla prima parte) sono apertamente omofobi tanto quanto i loro opposti di estrema destra. In sostanza, nella sua lotta il protagonista è fondamentalmente solo, avendo contro un sistema che ex professo è alienante, il capitalismo industriale con il suo conformismo perbenista, ma anche il suo falso opposto, il cattivo comunismo della statalizzazione totalitaria sovietica.

Poste tali premesse, si comprende meglio il processo narrativo che si incentra nel rapporto con Klaus: all’annuncio che i “tempi remoti” del rivedersi non sono così remoti, Klaus risponde “un po’ da erastès (quale il protagonista vorrebbe che fosse), un po’ da prete (quale effettivamente è)”. L’intreccio epistolare fra il gesuita e il narratore interno, corrispondenza che in altri autori avrebbe seguito uno sviluppo a sé come forma narrativa goethiana e foscoliana, è qui condensato in poche lasse di prosa e prefigura l’apparizione di un nuovo personaggio fondamentale nella trama, Jason, l’archeologo americano impegnato in politica; il richiamo scoperto a Wilde e al suo vulgato aforisma sulle tentazioni, apre anche la via al nodo centrale di questa macro-sezione: “stanare Klaus” (cap. 36), ovvero combattere contro la sua fede, stante il fatto che la fede del protagonista non sussiste come problema, poiché semplicemente non è, “forse non c’è mai stata” (il parricidio metafisico alla base del parricidio psicologico). Il rapporto fra erastès potenziale e colui che si progetta eròmenos tende da principio a un rovesciamento di ruoli: il protagonista ha una visione neo-kantiana della legge morale (“sento fortemente dentro di me la legge morale”) senza bisogno di ordini tassativi da parte di una religione autoritaria. Così, per sgretolare la fede di Klaus, che gli è necessario per “crescere e conoscersi”, superando gli effetti delle sue esperienze “ributtanti” o insoddisfacenti, Franco scava proprio nella biblioteca dei gesuiti, cavandone fuori le argomentazioni di Marsilio da Padova sulla convenzionalità controllatrice delle religioni: si attua così una sorta di contro-maieutica (il presunto allievo cerca di stanare dalle sue convenzioni intellettuali il presunto maestro). La risposta di Klaus (cap. 38), Franco rassomiglia al padre più di quanto non immagini, ha funzione parimenti maieutica, di senso inverso, dall’individuale all’universale, per parafrasare i pensatori medievali; soprattutto, la risposta di Klaus, che si serve di Nietzsche come grimaldello concettuale e di Cecco Angiolieri come ironia affettuosa e rivelatrice, fa da contraltare alle ricerche di Franco. I capitoli del dialogo epistolare con Klaus assumono così la fisionomia di un dialogo platonico ed è come se nella sua ulteriore maturazione, il protagonista superasse la semplice dialettica del no, il conflitto, l’opposizione reattiva, per guadagnare la dimensione di una dialettica diairetica (di tipo platonico appunto) e nel contempo eretica. È una dimensione comunque rischiosa, poiché stavolta il nemico da affrontare non è un padre facilmente ridimensionabile, per quanto latore di una educazione all’ipocrisia, né la superficialità di un mancato partner come Alberto, ma uno Stato che ancora possiede nel suo ordinamento giuridico una legge ambigua (una sorta di dispositivo tuttofare per la carcerazione di “indesiderati” ideologici, fra cui gli omosessuali) come quella sul reato di plagio, per cui in quegli anni è perseguito Aldo Braibanti, accusato di “manipolazione psicologica” verso Piercarlo Toscani e Giovanni Sanfratello. Il rapporto Klaus-Franco potrebbe finire alla stessa maniera, e si muove sul filo sottile, rarefatto, di un intellettualismo soffuso, in cui i riferimenti evocati, dal Defensor pacis a Nietzsche a Cecco d’Ascoli, il razionalista ed eretico oppositore di Dante, fino ad arrivare allo Stephen Daedalus joyciano mediato da Pavese, identificano un terreno comune di confronto, in cui è paradossalmente l’eròmenos “candidato” a giocare all’attacco; stavolta, i poeti, o meglio gli autori, nel senso classico del termine, sono evocati come forme di fondazione, non più come mera proiezione individuale: così per esempio, si allude polemicamente alla coppia Dante-Manzoni come alla causa culturale dell’essere, quello italiano, un popolo di beghini, a differenza del popolo inglese, fondato su Shakespeare e su Walter Scott. Il capitolo 44 (Vedi che ti vengo incontro) corrisponde, a distanza, al capitolo su Guinizelli della prima parte, e costituisce una sorta di puntualizzazione ontologica; l’andamento che Klaus imprime al discorso riecheggia a distanza le intrusioni del latino medievale nella prosa de La vita nuova, fra il discorso dell’appetitus e il tema dei trascendentali come metacondizione della bontà, verità, unità dell’esistente. Ma nel corso delle schermaglie verbali a distanza, in cui la struttursa narrativa complessa della prima parte si è ridotta, volutamente, a dialogo platonico dislocato, botta e risposta, echi di maieutiche a ruoli invertiti, Klaus appare trincerato, nel senso filosofico e in un senso metaforico del termine: trincerato, nel senso del decostruzionismo, nei predicati della sua tradizione filosofica, ma anche arroccato nell’armatura istituzionale della sua fede, dell’ordine dei gesuiti e della chiesa. Sistematicamente, Klaus sposta e sublima l’attrazione verso lo “spirito”, il “cervellino”, tendenza che per Franco è insoddisfacente, così che in realtà, se la mappatura delle strutture narrative interne ai capp. 33-46 è abbastanza semplice (botta e risposta in un dialogo filosofico travasato in una sequenza epistolare), essa acquista profondità in rapporto alle strutture circolari progressive della prima parte, “picaresca”. Di fatto si possono notare, a largo raggio, disposizioni antisimmetriche: A) esperienze fisiche “ributtanti” con uomini vs. A1) costruzione ideale della relazione erastès-eròmenos; B) frequentazione a distanza e poi ravvicinata dell’Alberto, superficiale e indifferente destinatario delle attenzioni affettive e culturali del protagonista  vs. B1) frequentazione a distanza e poi ravvicinata di Klaus, ricettivo delle attenzioni affettive e culturali del protagonista (o più semplicemente: assenza di dialogo vs. dialogo profondo); C) triangolo “imperfetto” di mancate corrispondenze (Roberto-Franco-Alberto) vs. C1) triangolo di corrispondenze (Franco-Klaus-Jason, quest’ultimo a partire dal cap. 55). La parentesi epistolare si chiude con il cap. 46 (Ogni virtù barcolla), chiuso dalla citazione integrale di un sonetto scespiriano, in cui di fatto Klaus (ipoteticamente l’erastès) dichiara a Franco un bisogno più profondo di quanto Franco stesso (ipoteticamente l’eròmenos) non ne abbia di lui. Da un certo punto di vista, l’intera sezione che precede le “vacanze di Natale” e la partenza per Roma, è una sorta di casistica (gesuitico-stilnovistica) del servitium amoris (di cui al cap. 45: “sono pronto a servirti”). I capitoli 47-51, ultime lettere di transizione immediatamente prima della partenza, culminano nel dibattito sul Natale, in cui si contrappongono la visione olistica-tradizionale del gesuita e la decostruzione di Franco, che analizza tutti i fenomeni di sincretismo che il natale nasconde e più avanti (cap. 51) mette in discussione la coerenza morale e politica dell’ordine a cui Klaus appartiene. Di fatto si assiste al procedere della lotta del protagonista contro la fede di Klaus; che questa fede sia rivolta al Lui con la maiuscola (cap. 52), rende la situazione ancora più complessa e ambivalente. I capitoli della permanenza a Roma e del rapporto diretto con Klaus (dal 53 al 60) sono incentrati su una schermaglia a tre, Klaus-Franco-Jason, che come si è accennato schematicamente, è simmetrica e antifrastica al terzetto improprio Alberto-Franco-Roberto.

Il capitolo 53, con molteplici allusioni alla Roma di Nerone di cizekiana memoria, sembra avvalorare una chiave di lettura peculiare. Se nei capitoli 1-30 sembra di leggere una sorta di romanzo neo-realista, non lontano dall’atmosfera dei ragazzi di vita pasoliniani (né potrebbe essere altrimenti, vista la tradizione del genere letterario), il complesso dei capitoli 31-60 (ma in qualche modo anche la terza parte), vira verso una sorta di riscrittura à rebours del Satyricon: si può in effetti affermare, senza troppo andare errati dal vero, che comunque Il Gesuita nel suo insieme, fra dinamiche compositive tradizionali (circolarità, digressioni dotte), io narrante, casistiche,  prosimetro, citazionismo funzionale sul piano narrativo, capitoli brevi, lunghi al massimo due pagine, è un romanzo antico esteriormente contaminato da elementi moderni e tardo-moderni: se ne manifesta la consapevolezza metaletteraria al cap. 63 (lasse iniziali della terza parte), che guarda caso si intitola Puer furbo, in cui il protagonista si immagina al centro di un sermo milesius alla Apuleio, o alla Petronio, nel ruolo del puer inaffidabile. Tali figure di pueri sono diffuse nella novellistica di età tardo-repubblicana e alto imperiale; la citazione è patente: Giovenzio (Catullo), Marato (Tibullo) ma soprattutto l’ambiguo puer Pergamenus (Satyr. 85-87), in realtà il terzetto omosessuale nel mondo greco-romano imperiale è per eccellenza quello costituito da Encolpio-Gitone-Ascilto, poi mutato, nel corso della narrazione petroniana, in Encolpio-Gitone-Eumolpo. I riferimenti petroniani sono disseminati, dissimulati ed estremamente sottili: proprio al cap. 53, l’allusione al castrato sposo di Nerone, Sporo, destinato a una fine tragica insieme all’imperatore (un caso di martirio improprio, che prefigura il cap. 69, della terza parte, intitolato a sant’Elagabalo martire) richiama e contrario un passo del romanzo petroniano (Satyr. 108) in cui il puer furbo (Gitone) minaccia di evirarsi per rimuovere la causa del contendere fra i suoi molteplici amanti potenziali. Il Satyricon e la fabula milesia agiscono come meta-testo frammentario. Il tema “milesio” resta sospeso, per il momento, in questo passo di scrittura tematica, e procede latente (con il protagonista che ama essere al centro dell’attenzione-attrazione di Klaus e Jason), nelle schermaglie amorose e nella Wanderung culturale di Franco Klaus e Jason a Roma, è prefigurato, nel suo esito “fisico” al capitolo 56 (“suo padre teme…”), ed è destinato a svilupparsi nei capitoli dal 61-75 (terza parte). Nel frattempo, ai capp. 58-60, l’ultimo mediamente un po’ più lungo delle ordinare lasse narrative del romanzo, si viene prefigurando un’altra linea narrativa, che giungerà a compimento nei nove capitoli della quarta e ultima parte: quella dell’impegno politico e sociale, legata alla rivoluzione dei costumi partita dai campus univesitari americani a fine anni Sessanta; l’acquisizione di coscienza che le parole di Jason producono in Franco, prospettando un ulteriore fase evolutiva, si manifesta fra l’altro nell’acquisizione dell’anglismo gay nel senso di homosexual, una parziale novità all’epoca in cui il romanzo è ambientato, è segnata, fra l’altro dall’ennesima citazione narrativamente finalizzata: quella di un pentametro giambico di The Rape of the Lock di Pope: “Belinda smiled and all the world was gay”, cap. 58 “Belinda rise e gaio fu tutto il mondo”, unica accezione in cui l’aggettivo gay era in precedenza noto al personaggio narrante. Il ruolo di Jason, come maestro alternativo a Klaus (in effetti, come erastés più plausibile rispetto a Klaus) comincia a definirsi appunto in questo tratto finale della seconda parte: la storia di Hendrik Christian Andersen e di Henry James conosciutisi a Roma, diviene una sorta di anticipazione tematica del finale del romanzo. In questi capitoli centrali si definisce anche il “gioco adulto” per cui Klaus tende a cedere il suo potenziale eròmenos a Jason. “Adulto” è Leitwort delle fasi clou della seconda e terza parte (accompagna anche l’esperienza del “sesso adulto” con Klaus e poi con Jason ai capp. 71-74).

La terza parte è costruita in progressione speculare rispetto alla precedente e riprende, sia pur nel più breve giro di quindici capitoli, la dinamica di macrostrutture circolari che caratterizza la prima: A) il dialogo con Jason, nel capitolo 61 (Annamo bene!), presenta in forma eterodiretto il tema della doppia determinazione (in questo caso, il double bind non è del protagonista, ma di Klaus: se questi deve “cadere” o restare fedele alla sua vocazione, per opera o con l’aiuto di Jason); A1) nel capitolo 71, dieci lasse narrative dopo, Franco è per un momento, anche sul piano fisico, l’amante di Klaus, che cade effettivamente per opera di Jason; B) al capitolo 62, in cui Jason dichiara apertamente che Klaus (di cui ha chiarito che è di fatto innamorato quasi da subito del protagonista) sta “castrando la sua vita”, le “esperienze di baci” con Klaus e con Jason, anticipano (B1) la preparazione all’incontro con Klaus (cap. 70 e inizio del 71); i capitoli “culturali” in cui (C) Klaus si avvicina emotivamente a Franco (capp. 63-66), corrispondono a C1), all’ulteriore e definitivo capitolo “filosofico” in cui la resistenza emotiva di Klaus è sgretolata dalle argomentazioni di Franco e di Jason su “Sant’Elagabalo martire” di fatto sacrificatosi per una religione e una possibilità di costruzione del sacro che, avendo perso, non ha potuto creare un suo martirologio. Il capitolo 68 (Bar boy) con la visita e l’interazione fra i due “maestri” Jason e Klaus, e la “sorpresa” di quest’ultimo circa la “funzione mistica” di Ganimede (l’eromenos di Zeus) nel contesto del politeismo antico. L’esito conclusivo non è però quello previsto da Franco: i capitoli conclusivi (72-75), prefigurano l’abbandono di Klaus, tramite lettera. L’ultimo capitolo, dal titolo platonico (evocatore delle ultime parole di Socrate morente) ΑΣΚΛΗΠΙΩΙ ΣΩΤΗΡΙ, “ad Asclepio salvatore”, si chiude con il classico finale sospeso, ex abrupto, e richiama, all’interno della macro-struttura circolare che ingloba le due parti centrali del romanzo, l’esordio “platonico” relativo alla riflessione su eròmenoi ed erastài (cap. 31).

L’ultima parte, la più breve, di appena nove capitoletti, porta a compimento il processo narrativo circolare del romanzo. Le strutture narrative di questa parte conclusiva sono alquanto più semplici e lineari: si assiste semplicemente alla progressione della presa di coscienza del protagonista, accompagnato dalla voce di Klaus ormai virata verso il rosso dell’allontanamento (nelle sue tre lettere racconta di aver abbandonato l’ordine e il sacerdozio, per sposarsi e per avere un figlio, che chiamerà Franco: una nuova forma di sublimazione mediata) e dalle riflessioni di Jason, che è diventato il nuovo punto di riferimento amoroso di Franco. La progressione si compie nella presa di coscienza finale, che richiama il “voglio amare ed essere amato” delle fasi iniziali della seconda parte: “sono stato desiderato, dunque sono cresciuto”. Si tratta, stavolta, non di un semplice entimema (come ai tempi dell’Alberto: “Alberto esiste quando è lontano”), ma di un cristallino sillogismo, ellittico della premessa maggiore, ma di limpidezza catesiana ([chiunque sia desiderato, cresce – sono stato desiderato – dunque sono cresciuto: un sillogismo della figura Darii, alla stessa maniera di [omne quid cogitat est]- cogito- ergo sum). Klaus si trova, alla fine del romanzo, ad aver ceduto ai gusci antropologici delle attese della virilità anni Sessanta riguardo al ruolo dell’uomo (“ha bisogno di sentirsi protetto e cerca protezione nelle istituzioni che conosce: la chiesa cattolica, il sindacato, il matrimonio”). Il romanzo addita invece la “nobil natura” di coloro che sanno levare i loro occhi “incontra” alla reale struttura del desiderio e alla convenzionalità transitoria delle soprastruzioni valoriali, come l’eretico Cecco d’Ascoli, quasi un Lucrezio medievale, che con le sue terzine sillogistiche si oppose a Dante e all’autorità ecclesiastica, e pagò con il rogo.

Un’ultima osservazione resta da fare, proprio in termini di strutture triadiche e sillogistiche. Nel romanzo, a livello macro-strutturale, una sorta di battuta ternaria sembra agire, nella scansione narrativa: trenta capitoletti per la prima e la seconda parte, quindici per la terza, nove per l’ultima. La struttura triadica anima anche in qualche modo il procedere dell’intera narrazione: la circolarità delle sezioni connotate da Ringkomposition conosce momenti centrali meditativi, di stop and go; poco dopo la fine della prima parte, e verso il centro della terza, dialoghi filosofici criptati nel racconto costituiscono pause meditative altrettanto fondamentali, le cui reti di riferimenti tematici si estendono su larga scala. Soprattutto, è nella costruzione di terne di personaggi che il sistema narrativo procede: la terna dei desideri frustrati (come abbiamo detto, Roberto-Franco-Alberto; la terna dei desideri compiuti (Klaus-Franco-Jason). In questo sistema di tappe cristallinamente logiche si viene costituendo la vita nova di Franco, la presa di coscienza e la riappropriazione del desiderio contro le strutture alienanti delle distorte antropologie organiche alle reti di comando del dominio socio-economico.

Scoprire, conquistare, raccontare le Indie. Intervista a Emanuele Canzaniello

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di Pasquale Palmieri

“La scoperta delle Americhe è stata l’evento più simile a quello che potrà essere l’arrivo umano su altri pianeti. La cosa più simile, tra quelle già avvenute, alla scoperta di forme di vita organiche fuori dalla Terra che forse avverrà nel futuro. […] Riti, pratiche e dèi smisero di avere senso per le civiltà che crollarono; gente venuta dal mare, in una sincronia sbalorditiva con le loro profezie, mise fine a un’era cosmica, niente di più, niente di meno. Quella gente d’acciaio e cavalli, se non era divina, veniva a dimostrare di aver vinto in nome di un nuovo Dio, sancendo la sconfitta degli antichi dèi. Tutto mutò”. Queste frasi, tanto eloquenti quanto suggestive, ci aiutano a entrare nei primi capitoli del Breviario delle Indie di Emanuele Canzaniello appena uscito per Wojtek: un diario di bordo del lungo viaggio degli europei verso le Americhe, ma anche un racconto volutamente rapsodico, che insegue le tracce di un passato sfuggente, combinando fughe oniriche e lucidi desideri di ricerca del “reale” (o di ciò che riusciamo ad accettare come tale).
Emanuele Canzaniello è poeta, saggista, esperto di teoria e critica letteraria, autore di Per l’odio che vi porto (Oedipus 2017), I migliori film mai girati (Oedipus 2019, una raccolta di recensioni a pellicole immaginarie), In principio era la paura (PeQuod, 2023).
Abbiamo discusso insieme del Breviario.

“Non sapremo mai dire quali e quanti paradisi siano discesi da quei primi contatti, da quelle prime acque, dolci e salate mescolate insieme. Non sapremo calcolare quale immane sommovimento di forze la ricchezza benefica di quelle terre evocò. […] Non abbiamo più il giornale di bordo di Colombo, non nella sua prima versione, che è andata perduta. Come sia stato possibile è difficile, come tutto in questa storia, anche solo da immaginare, o forse è solo da immaginare”. In queste frasi mi sembra si possa scorgere il sottofondo emotivo del tuo Breviario, costruito sull’incertezza, sull’ostinazione della ricerca, sul desiderio di capire. Quando hai cominciato a comporlo? E, anche se può apparire banale chiedertelo, perché hai pensato di doverlo fare?

Credo di aver iniziato tre anni fa, o tre estati fa, come lo registra la memoria. Non sempre e non senza fatica riesco a precisare. Ma il momento lo ricordo con un’altra precisione. Era estate, la presenza del mare ha inciso. Il debito contratto con tutte le estati, e con le sensazioni e le storie che dovevo al mare, si è concentrato nel primo nucleo del Breviario. Il legame con le storie e con lo stupore per l’America, i viaggi di Colombo, sono ed erano un debito già presente e potente, quasi uno stimolo confuso con i ricordi dell’infanzia. Poi è arrivata un’occasione casuale, e iniziale, un insieme di letture giornalistiche banali, nel momento giusto.

“Il mondo, le storie, sono opera del fraintendimento, quanto e più che dell’inganno, come gli amori. I nomi delle piante, le piante stesse, il fogliame, le foglie individue, le venature senza nome della foglia unica, anche sfuggendo ai nomi delle cose, sono fraintendimenti della natura. […] Il coraggio e la scoperta vengono partorite dall’illusione”. Nel tuo libro emerge con forza il carattere fortuito, imprevedibile, sghembo dell’incontro/scontro con l’ignoto.

Sì. Credo che il Breviario sia un palinsesto di strati, formalmente e narrativamente, che vuole dare conto, per analogia, di quanto la conoscenza sia un accesso sempre incompiuto a strati ed esegesi possibili che tendono all’infinito. Ogni oggetto, ogni dato di quello che chiamiamo reale offre una necessità di interpretazione infinita che non può esaurirlo. Questo è uno degli sfondi del libro, che conduce alla vertigine e al sogno. Al senso che il reale sia inattingibile. Il racconto delle scoperte muove su questo sfondo. Da qui anche la natura essenziale del nostro fraintendere e conoscere attraverso l’illusione, che ha operato anche nelle grandi esplorazioni.  Si pensi anche solo al minuto errore di traduzione e di calcolo delle miglia marine, da un testo arabo, che è stato alla base delle valutazioni nautiche e operative di Colombo.

Nathan Wachtel, Tzvetan Todorov, David Abulafia, Massimo Livi Bacci, Glenn J. Ames, ma anche Yuval Noah Harari, Jared Diamond. Mi pare di aver colto echi delle loro opere saggistiche nelle tue pagine. Puoi farci entrare, almeno un po’, nel tuo laboratorio e farci capire quali bussole hai usato per muoverti nella storia della scoperta e della conquista delle “Indie”?

Volevo che il Breviario fosse un rifacimento, un rievocare le pagine dei primi diari di viaggio, delle prime lettere dai luoghi delle scoperte, dalle prime “Cronache” o “Storie delle Indie”, da cui anche il titolo, che è una Breve storia delle Indie condensata in Breviario, per frammenti e come per brani di preghiera, con influenze sull’idea di una prosa breve, ritmata, con un desiderio segreto di eufonia sapienziale il cui fantasma remoto è forse il versetto biblico, il ricordo di una poesia antichissima. Ma dall’altra il Breviario è anche, e volevo che fosse, un diario di bordo delle mie letture o delle letture che chiunque dovrebbe fare oggi – allo stadio delle nostre conoscenze attuali – per avvicinarsi e fare i conti con la mole di dati da affrontare per crearsi una mappa di un evento simile. Questo diario di bordo non sarebbe stato un nuovo saggio, ma avrebbe recato in sé le tracce dello sforzo di indagine, di lettura di quell’altro viaggio, quello attraverso le carte, i libri. E quindi sì Todorov su tutti, ma anche Abulafia, Bacci, Diamond per l’idea che quella scoperta mondiale si sia saldata alla nostra visione e riscoperta della preistoria, della prima premessa agli scenari aperti dopo.

“Nulla ci darà la vista dei cavalli, il terrore di vederne la forma, l’esistenza e il movimento, come di una mancata preistoria con i suoi lunghi terrori che venga a chiedere l’ultimo tributo. […] Il reale è cancellazione su cancellazione, palinsesto perduto su palinsesti perduti”. Fare i conti con le fonti storiche significa anche perdersi in un groviglio di silenzi insormontabili. Le tracce che ci guidano nel passato vengono meno proprio nel momento in cui avremmo più bisogno di loro. Hai mai provato sconforto di fronte a tutto questo?  

Il Breviario credo sia anche questo sconforto, è un guardare tutto quello che viene perduto, davanti a uno scenario storico enorme. Ma in nuce lo stimolo e lo struggimento per l’immaginazione è questa perdita, la ferita per tutto quello che viene costantemente perduto, e che noi chiamiamo Storia, e reale. Le fonti attestano con ancora più nostalgia la perdita, la scomparsa, l’irricostruibile. Il Breviario è anche un canto, una nostalgia funebre, nel bene e nel male, per quello che viene perduto e possiamo solo immaginare.

“Ogni luogo esige mappe infinite e che non saranno mai esaurite. Ogni luogo consente strati infiniti e che non saranno mai ricostruiti. Ogni luogo ha un aspetto che ne contiene e ne ha contenuti miriadi e non saranno mai più”. Esplorare e dominare il Nuovo Mondo significa anche conoscere i suoi spazi. Stando a un aneddoto molto noto nel mondo dei fumetti, Gianluigi Bonelli non era mai stato negli Stati Uniti quando fece nascere l’universo narrativo che ruotava intorno a Tex Willer: si accontentava di racconti, appunti, disegni, foto, filmati, mappe. Quanti e quali luoghi descritti nel Breviario hai visitato di persona?

Sono assolutamente dalla parte della tradizione che non dà nessun primato all’esperienza diretta, paradossalmente neanche a quella superstizione dello scrittore che si documenta. Per quanto credo che le cose più interessanti, e più tipiche, tra quelle che facciamo oggi, siano storie che facciano i conti con la vertigine del reale, quelle che chiamiamo non-fiction. Il Breviario è in quella zona, fino a voler dare la sensazione che il reale stesso abbia i caratteri della finzione, la più inarrivabile e onirica. Quindi, per rispondere alla tua domanda, ho attraversato sommariamente solo le due coste degli Stati Uniti, nient’altro.

La tua narrazione è accompagnata da numerose citazioni di fonti, che gli specialisti definirebbero “primarie”. Tuttavia quelle stesse fonti appaiono spesso come piccoli frammenti isolati di un discorso che si sviluppa in direzioni molteplici, senza avere alcuna pretesa di organicità. Leggendo il Breviario, ho avuto l’impressione che le armi più efficaci a tua disposizione per muoverti fra le tracce del passato siano l’immaginazione e la capacità di costruire congetture. Nel rendere espliciti i tuoi dubbi e le tue domande, manifesti la tua ansia di verità. È davvero così? Più in generale, quale ruolo può avere uno scrittore di fronte alla parzialità di queste fonti? Cosa può fare lo scrittore di diverso rispetto allo storico e, più in generale, allo studioso o al saggista?

Da un lato il Breviario vive della vertigine dei dati minimi, della pazienza della scienza, della faticosa acquisizione che ci ha offerto la Storia. Vive e omaggia quella moltitudine di notizie, ne fa una sostanza plasmabile che è già narrazione. Una delle cose che credo di aver fatto con questo libro è proprio questa. Volevo che l’aspetto che associamo alla fiction, alla narrazione, usasse quello stesso materiale – idee, prospettive, dati, teorie – che ci offre la scienza storica. Non c’è uno scontro o un movimento tra personaggi. Si muovono e si scontrano idee storiche maestose che hanno deciso del mondo. Mi sembra che non ci sia conflitto o avventura superiore a questa. Non ero interessato alle avventure o alle piccole idee di individui simulati, che chiamiamo personaggi. Qui si muove il genere umano, i suoi saperi attraverso i millenni, e i gesti che ne sono scaturiti. Quello fa la narrazione. Per fare questo ho immaginato, sì. Ho provato a vedere, a rivivere, a pormi nel gesto e nel sangue di uomini scomparsi e lontani da noi.
L’uso delle fonti, dei testi delle testimonianze dell’epoca rientra in quelle idee di cui ti parlavo. Creare un palinsesto anche formalmente, in cui si alternano e si mescolano le loro voci e la mia, e si annulla la distinzione tra i piani temporali, davanti a un nulla che ci ospita. Nessuna pretesa di organicità in questo palinsesto, brevità delle prose, ricorso al frammento. La tradizione a cui guardavo è quella. Anche nel saggio, per frammenti. L’immaginazione è alimentata dallo struggimento di vedere, rivivere, ricostruire. Anche nell’ansia della verità e anche pensando che la verità sia ontologicamente e storicamente sopravvalutata e inattingibile, come ti dicevo prima, per quell’idea di esegesi infinita.

L’Europa e l’Occidente provano a fare i conti con il proprio passato ormai da decenni. Riemergono i nodi del colonialismo, del neocolonialismo, insieme al trauma epocale dello sterminio dei nativi. Come dialoga il Breviario con questi temi centrali del dibattito pubblico del nostro tempo? 

Era una delle prospettive che alimentava l’inventio del Breviario. Affrontare un orizzonte vastissimo di saperi e scenari passati, che però sono al centro delle ansie e delle colpe e del modo di leggere la Storia del nostro presente. Niente di più plastico che ricorrere all’immagine delle statue abbattute, da quelle di Colombo fino ai ricordi del colonialismo inglese. Il Breviario forse riesce a proporre due atmosfere al lettore: riattraversare i saperi dei secoli, dall’antichità al Cinquecento, alle ansie giuridiche della Spagna e dell’Europa del Rinascimento, a quello che di medievale ancora le attraversava, e nel fare questo suggerire l’idea di una complessità che sfugge alle semplificazioni che operano nel dibattito del presente. E dall’altra impone al lettore di rivivere i termini, i saperi, i numeri di quel massacro, attraverso i dati storici che abbiamo, fino a uno sfaldarsi di ogni rassicurazione, un trasformarsi del testo in un testo che ha echi sadiani. Un’allusione al fatto che Sade si sia inverato retrospettivamente in quello che era già accaduto prima di lui nell’espansione europea mondiale, e insieme un uso di quella che potremmo definire pornografia, del sangue e dello sperma, per guardare ogni strato di quell’esegesi infinita, capire cosa sia stato un genocidio, cosa lo abbia alimentato, reso possibile, nella materia, nei corpi, e nei saperi. Davanti a quella disparità di forze, allo strapotere tecnologico, militare, di conoscenze di una civiltà rispetto alle altre, cosa ha liberato e reso possibile lo scatenamento di energie in quel bagno di sangue? Sade qui è evocato come simbolo dell’Occidente nella sua razionalità divoratrice, e come ispirazione per una tassonomia di tutte le violenze possibili che l’uomo – lontano dallo sguardo della vecchia metafisica – serba in sé, pronte ad emergere. Il Breviario ci costringe a vivere in noi quella crudeltà che è sempre stata pronta ad emergere, che ha reso possibile il massacro avvenuto, perché questo è l’unico attraversamento e l’unico modo di conoscenza che la letteratura ci offre.

 

Roma e Treja hanno in comune il mistero del nome. Intervista a Jean-Paul Manganaro

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Intervista di Elena Frontaloni

a Jean-Paul Manganaro

 


È uscito il 4 ottobre per Verdier Rome, rien d’autre, raccolta di elzeviri su Roma di Dolores Prato, a cura di Jean-Paul Manganaro e Laurent Lombard. Si tratta di scritture che, nel caso di Dolores Prato, non sono tanto d’occasione ma trovano in qualche evento d’attualità propizio l’occasione per sgorgare da appunti o progetti già abbozzati e che, tra l’altro, testimoniano un atteggiamento narrativo verso le fonti tipico dell’autrice: le raccoglie e fa finta di sperderle mentre in realtà le valorizza dentro racconti dal carattere «antico», in cui trovano veloce e meravigliato spazio saperi raffinatissimi, conflitti interpretativi insieme ad abbandoni voluti alla leggenda, alle personificazioni, alle paretimologie, così da manifestarsi come tratti di prosa fermati sulla carta per generare e rigenerare stupore su fatti all’apparenza bigi, o anche attenzione polemica su pensieri ricevuti e distruzioni inavvertite.

Se la morte di Dolores Prato ha impresso sulle sue carte una sorta di specializzazione dei due luoghi dentro sedi di scrittura dissimili – a Roma gli elzeviri e i progetti di pamphlet, a Treia le narrazioni, i lavori, i libri autobiografici (si legge nel racconto Una giornata di Dolores Prato, del 21 settembre 1978: «l’infanzia la passai a Treja e ora ci sto facendo un lavoro») –, vale la pena anche di ricordare che Giù la piazza non c’è nessuno filologicamente nasce dall’esplosione di un brogliaccio dal titolo E lui che c’entra? (1949) dove a un certo punto si parlava anche di Roma e, come urgenza di scrittura, dalla contestazione della lingua e dell’esperienza del collegio racchiusa negli appunti siglati Ed (stesi a partire dagli anni Quaranta), ma matura alcuni suoi tratti fondamentali – per esempio le epifanie treiesi nel tessuto romano – anche dentro il pensiero e la scrittura su Roma (recita un appunto degli anni Sessanta: «Nelle “Vie d’Italia” del 1957, a pag. 905, si parla di un fiume Treia che sarebbe vicinissimo a Roma, tra la Cassia e la Flaminia. // Leggere, fare accostamenti, forse si spiega «piazza dell’olmo di Treia» e soprattutto, vederlo. // Ne so oggi, per la prima volta, 3-6-60»). Un nome così familiare, era a due passi da me e non lo sapevo.).

Uscito nel 2022 a cura di Valentina Polci in Italia col titolo Roma, non altro (Quodlibet), Rome rien d’autre gode da ora non solo della traduzione in francese, ma anche della lettura di Jean-Paul Manganaro, che in questa intervista analizza le ragioni della traduzione, le contiguità e differenze tra gli elzeviri romani di Prato e Giù la piazza non c’è nessuno, fino a anticipare alcuni spunti critici su Educandato, prossimo libro di Dolores Prato in corso di pubblicazione per le sue cure, sempre presso Verdier. [ef]

Perché, dopo Giù la piazza non c’è nessuno, Verdier ha scelto di tradurre questo libro?

La fortuna di critica e di pubblico ottenuta da Giù la piazza imponeva di offrire una continuità alla traduzione e alla pubblicazione della suite editoriale, immediata ed evidente con Roma, non altro. Tanto più che in Giù la piazza l’autrice aveva già messo l’acquolina in bocca con alcune allusioni e soprattutto dando risalto alle posizioni assunte e ai rimproveri rivolti a chi aveva gestito le ultime decisioni sui destini della città. Il punto di vista essenziale scelto per giustificare impressioni e opinioni personali era così molto preciso: la cancellazione dell’universalismo di Roma – universalismo che la città ha ereditato dal suo passato «romano» e perseguito poi nell’universalità della religione cattolica – a causa della decisione di farne la capitale d’Italia: non più città universale, ma solo città «capitale d’Italia». Tanto preciso, inoltre, da alimentare le colpe attribuite senza mezzi termini dall’autrice ai Savoia re d’Italia, critiche che si riassumono nel loro «prendere indegnamente il posto» di papi e pontefici. Critiche a volte molto violente, vicine all’insulto. Questo aspetto era già delineato chiaramente in Giù la piazza: ecco in poche parole gli elementi di fondo che hanno giustificato la scelta editoriale.

Lei ha definito gli elzeviri di Prato un lungo «nastro narrativo» creato dall’autrice su Roma. La stessa definizione adottata per Giù la piazza non c’è nessuno e, in generale, per la scrittura dell’autrice. Sono più le differenze o le contiguità tra gli elzeviri di Prato, la visione che l’autrice dà di Roma e quella che dà di Treia, come emerge da Giù la piazza?

Non è lo stesso «spirito» che agisce nell’una e nell’altra situazione, nella rappresentazione che dell’una e dell’altra viene ad essere costruita. Mi sembra però che in tutti e due i casi ci sia la necessità di reperire un genius loci che si condensa in modalità diverse. In ambedue i casi c’è un’incidenza col nome, come se per nominare le cose bisognasse prima battezzarle: Roma è un nome falso, dice Dolores Prato, e non sapremo mai qual è il suo vero nome, confuso come è stato in diversi occultamenti spesso scaramantici. Vibra nelle frasi di Roma, non altro come un’ansietà mistica – una mistica non religiosa ma sicuramente misteriosofica, quasi una suggestione che farebbe sorgere l’ombra fervida di un Numa Pompilio e di una Ninfa Egeria. Parallelamente, Dolores Prato individua un problema con lo iòd di Treja che nessuno pronuncia più e vi lega qualcosa di profondamente sentimentale e rammaricato: ogni volta, l’incertezza di un qualcosa di strano che accorda dignità all’oggetto in analisi. Sempre sembra aleggiare un vago problema nel dire l’affetto che ci lega al nome del luogo in cui siamo nati o in cui viviamo, nel reperire l’incertezza di ogni origine, potente perché segnala una modalità dell’essere e dello spirito. C’è poi l’imponenza monumentale di Roma – c’è anche quando le vicende si svolgono in luoghi sotterranei – che traspare in quasi tutti i momenti evocati dall’autrice. Mentre per quel che riguarda Treja c’è un invasamento più sottile, più intimo, quasi una poetica dell’affetto e della dolcezza. C’è nelle evocazioni di Treja la meraviglia delle scoperte offerte dalla vita: la descrizione della grande piazza, la folgorazione del sole o di altri elementi naturali, la meraviglia delle rivelazioni infinite, c’è la costanza di una poetica dello stupore.

Negli elzeviri, scrive, emerge l’amore di Dolores Prato per il popolo, come in Giù la piazza, e la sua inimicizia per vulgate e retoriche in accordo con i tempi in cui l’autrice ha vissuto. Scrive anche che il suo sguardo pone problemi e temi per così dire ancora attuali. Quali sono? 

La scrittura di Roma è sostanzialmente diversa da quella di Giù la piazza. Non che non si ritrovino gli stilemi specifici dell’autrice, il suo tono, la sua tonalità sono assolutamente inconfondibili – è come ritrovare Puccini o Verdi o Bellini in appena poche note, Leonardo o Michelangelo o Artemisia nel minimo dettaglio –, ma incalzante è la volontà di costruzione mentale – che qui sfiora non la ricostruzione di un mondo passato, ma piuttosto di un mondo che non ha mai cessato di essere presente negli animi dei viventi. E non si troveranno pagine di andamento «turistico», come una guida, no, qui vale il consustanziarsi del sentimento glorioso e amoroso, non tanto il racconto della «cosa», ma le diverse esistenze delle cose che conferiscono loro un’eterna attualità. Valga per tutto, il «racconto» della discesa nell’oltretomba gioioso delle catacombe ne Il mondo sottoterra, uno dei racconti più intensi eppure più leggeri. La scena comincia e si svolge in silenzio, le parole non valgono in quanto tali ma, come è detto, per lasciare «affiorare il ricordo a commuovere». E poi, come un commento: «Eppure è un’idea sbagliata che qui possa esserci un quartiere dove la Roma del passato sia assente». Si scende, sì, nel passato, ma questo passato è un presente di quello stesso passato, trasecolato dalle ombre e dalle luci fioche che accarezzano i muri, angelicato dalle voci che intonano canti con accenti singolari come a evocare una religione forse dimenticata in cui paganesimo e cristianesimo confondono i loro moti. È un racconto importante anche perché, proprio qui, sono significate le differenze che costituiscono i vari personaggi esibiti o trascritti: signori della villa di sopra, poi, giù, popolo, tante persone degne e umili e fiere che scendono in fondo a quest’animo segreto. E il popolo diventa mondo, bianchi, cinesi, neri cantano liturgie con voci esalanti de profundis, un mescolarsi di elementi, di sensibilità, di emozioni. Verrebbe qui da evocare l’altro splendido racconto, Incontro con Marchesi, con una semplice citazione: «Il giorno che Marchesi se ne andò a me pareva che buttasse a tutti una speranza e un invito all’unione e che la folla lo raccogliesse». In altre pagine, poi, le accuse rivolte ai poteri che non curano questo immenso sito risonante, Roma, un groviglio di vari motivi che tracciano la volontà intima di non voler abbruttire la città.

Il prossimo libro che Verdier pubblicherà è Educandato. Le chiedo in anteprima la sua impressione critica e di traduttore su questo testo.

Direi che Educandato per la materia stessa che lo compone, è assai più vicino a Giù la piazza di quanto lo sia Roma, non altro… La geografia nella quale la trascrizione prende vita è la stessa, Treja, essendo stata essa oramai svelata con Giù la piazza, il mondo si restringe – o si dilata diversamente – in Educandato. Educandato potrebbe essere la descrizione dello spazio del corpo e dell’animo confrontato a quell’altro spazio – esterno e interno – che è il collegio, la cui natura, o almeno i regolamenti che lo gestiscono, possono corrispondere a quelli dettati da una prigione qualsiasi. E questa sensazione di corpo imprigionato vien fuori fin dalla prima scena in cui la zia la lascia o l’abbandona davanti o dietro il portone. Che Dolores Prato abbia avuto un problema fondamentale con le porte non è un mistero: fin dalla prima pagina di Giù la piazza si percepisce la violenza di questo meccanismo apparentemente banale dell’entrare e dell’uscire – ma che nutrono il timore costante di essere abbandonata. Questo viene ribadito con termini differentemente cruciali dalla protagonista: parole di una bimbetta nel caso di Giù la piazza, termini di una ragazzetta in Educandato, una ragazzetta che viene preparata – senza che però si prepari veramente – ad affrontare la vita, perché lì dentro non è vita. A tal proposito, lavorando sul testo, sono rimasto stupito dal numero infinito di volte in cui il collegio è indicato con un banale, semplice e distante «lì dentro». C’è poi la presenza della Madrina che ridice, raddoppiandola, la figura sovente lontana della zia, che trascrive un certo astio e il desiderio che questa condizione o questo sentimento fanno nascere; la Madrina si erge così come figura da imitare iscrivendosi però nella distanza, inarrivabile ma inavvicinabile, una distanza critica. Si può evidentemente pensare a un panoptikon foucaultiano, l’occhio della Madrina che determina ogni movimento e ogni giudizio, con il desiderio e l’aspirazione a venirne fuori – come poi accadrà con la messa in atto di una clamorosa fuga. Ecco il quadro generale. Ma c’è poi dell’altro. C’è una elaborazione attentissima del sapere che non ha in queste pagine nulla di gratuito: trascrivere queste liste, tutte queste liste – di oggetti, gesti, architetture, persone –, dove niente succede, trascrivere questa necessità assoluta del vivere anche senza storia, è un modus vivendi che appartiene al positivismo, a un tardo positivismo, epoca della pura razionalità convinta che le soluzioni siano tutte possibili a condizione di non aver tralasciato di nominare tutto nella lista, di enumerare ogni dettaglio dove le parole si ammassano e si assommano e diventano vita: per ritrovare ancora una volta il passato come presente pulsante e vivido, forse ancora non del tutto trascorso né del tutto trascritto, con la scrittura che dice appunto questo: l’infinità della vita, l’infinità del pensiero scrivente.

Gaza: Warfare

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Immagine di Carlos Bohorquez da Pixabay

di Flavio Torba

Quiete. Gli entra nelle narici una mistura di svapo e odore di rete metallica e gas di scarico: la città che si amalgama al vizio elettronico e alla visuale di gioco.

Ostile livella con lo sguardo la strada davanti a sé. È sgombra e totalmente visibile. Dal suo punto di osservazione non rileva particolari difficoltà nella geometria. Il terreno di scontro non offrirebbe né vantaggi né svantaggi per nessuna delle due fazioni. Solo buche nell’asfalto, che potrebbero mettere in difficoltà eventuali mezzi d’assalto leggeri.

Un’altra tirata.

La scuola è lugubre, un residuato degli anni Sessanta: un edificio civile riconvertito, rivestito di intonaco grigio scrostato. In alcuni punti si intravedono vertigini di mattoni forati sottostanti, ma è sostanzialmente integro.

Ostile ne scompone la geometria alla luce di varie ipotesi di attacco. 1) artiglieria pesante 2) bombardamento aereo 3) sisma naturale. Il crollo di almeno una facciata è inevitabile. Ostile lo disegna nella mente, riconfigurando la vista di ambienti interni, crateri e corpi, come la frammentazione di un progetto tridimensionale carbonizzato.

Una campanella antiaerea comunica che è ora di entrare a scuola. Ostile tira l’ultima boccata di caramello e mela prima di incamminarsi.

 

Kerem Shalom. La visione della striscia desertica è mediata dal mirino del kalashnikov. Ondeggia al ritmo della corsa del personaggio scelto, un adolescente magro con indosso una tuta in acetato.

Il puntatore inquadra il bulldozer (Caterpillar D-9).

Analisi armamento:

  • 1 AK-47 Kalashnikov 7.62 mm (600 colpi/min)

Arrivato ai piedi del mezzo, la canna del fucile scompare e le mani di Ostile – mani sporche, piene di tagli e croste – lo issano nella cabina di guida. Sbuffo di fatica digitale.

La modalità è impostata su facile, con frecce lampeggianti in sovraimpressione per suggerire i movimenti delle leve. Il bulldozer inizia a muoversi, avvolto nella nuvola nera del tubo di scarico che a tratti nasconde la visibilità della recinzione.

Il rombo sommerge gli Allahu akbar degli altri partecipanti alla missione.

Ostile sorride. È arrivato al bulldozer prima di altri giocatori più blasonati. Aver conquistato il mezzo vale almeno un balzo in classifica. Intorno al Caterpillar si affollano i nick sopra le teste degli altri giocatori. NotSoGalant. NetanBau. Pastore. Qassam87.

“Ti spacco la faccia se non la finisci”.

Un puntatore rosso indica la posizione del kibbutz all’orizzonte. Ostile indirizza la pala del bulldozer in direzione della lavagna interattiva. Il personaggio sobbalza sul sedile mentre tossisce per i gas di scarico, gas di cui Ostile vorrebbe invece riempirsi i polmoni per mandare via l’amaro del Ritalin gusto uva.

 

Territorio neutro. Ostile attraversa la strada e varca l’ingresso. Nel tardo pomeriggio la scuola è un emblema di desolazione caleidoscopica. Corridoi al neon e piastrelle economiche sconnesse. Porte di alluminio leggero sfondate da calci neanche troppo forti.

La missione è come sempre collezionare crediti, arrivare al diploma integri per poi realizzarsi in un lavoro di livello appena accettabile. Che sfami. Che dia un tetto. Che faccia guadagnare abbastanza da permettere upgrade appaganti.

Odore di ammoniaca e iprite dai bagni del pianterreno. È la trincea del corso serale.

C’è solo un bidello attempato, avvolto in lente e precise volute di una sciarpa piena di pallini di lana, intento a guardare sul giornale le facce terrorizzate al fronte.

Ostile lo saluta con un cenno. “Come andiamo?”

“Si combatte”.

Il contrasto tra i radi capelli bianchi e il volto scuro sa di deserto e roccia anche se fuori forse sta iniziando a piovere. Le prime gocce rigano le finestre. Le buche nella strada si riempiranno, rendendo più difficoltose le manovre di ritirata, se necessarie.

La classe d’espiazione è questa, a poche porte di distanza dalla presidenza, ma non è una garanzia di sicurezza. Anche nei territori neutri ci sono azioni di disturbo. Sabotaggi. Sobillatori. Propaganda violenta.

Ostile entra. Non c’è nessun altro. Sceglie un banco in prima fila, di fronte alla cattedra.

 

Spazio di manovra. Si era ripromesso di non voltarsi al rumore di passi ma è come un riflesso condizionato e allora il suo sguardo si incrocia con quello di Pastore prima e dell’Albanese dopo. Il biondo è una figura di contorno, un mero contorno alla potenza di fuoco di Pastore. Le mani grandi sono di Pastore, le nocche dure anche. Il supporto di Albanese è solo una risatina stridula di acufene.

Prendono posto due file più indietro.

Ostile aspetta che qualcun altro si aggiunga alla lezione, ma rimangono soli. Il corso ha subito molte perdite nell’ultimo periodo.

Forse non ci troviamo più in zona neutra ma all’interfaccia, pensa Ostile. Questo adesso è territorio di Pastore.

Si scambiano dichiarazioni di guerra con gli occhi. Il viso di Pastore è un campo minato dall’acne. La vita all’aria aperta non deve fargli un granché bene. Si tormenta un bubbone, mentre sibila un flusso ininterrotto su chi ucciderà chi.

Ostile ritorna alla sua posizione composta, tira fuori quaderno e penna dallo zaino. Dover dare le spalle al nemico è uno degli inconvenienti della posizione, ma è sempre meglio che trovarsi in fondo, nel suo spazio di manovra.

Pastore dovrebbe alzarsi e percorrere qualche metro per poter interagire fisicamente. Nel momento in cui Ostile dovesse sentire la sedia di Pastore spostarsi, sarebbe già pronto a scattare.

L’Albanese continua a ridere, mentre Ostile gratta con l’unghia il bordo di truciolato del banco. Non sente la minuscola scheggia che vi si infila sotto. Non sente la goccia di sangue che si forma sul polpastrello.

Il precipitare della situazione, l’avvicinarsi dell’orologio alla mezzanotte, è interrotto dall’ingresso della professoressa. Un elemento terzo di mediazione che opera solo di facciata per nascondere la sua totale e lontana inutilità.

Ma, per il momento, basta a fermare le manovre di Pastore.

 

Storia. La rete metallica, il filo spinato in quiete, diventano sempre più grandi finché il gas di scarico non riempie la visuale di gioco.

Tutte le recensioni online concordano su come la storia sia una riserva infinita di materiale videoludico. Nel caso particolare, la storia passa come un pezzo di manzo nel tritacarne di Dethesta per uscirne macinata in tante missioni geometriche caratterizzate da un obiettivo chiaro.

Sulla copertina del cofanetto deluxe di Gaza: Warfare c’è scritto:

GameZone (★★★★☆) – “Dethesta È la Storia”.

La recinzione cade, segnando un aumento vertiginoso dei punti di Ostile e sbloccando la nuova fase della missione, molto più impegnativa e interessante.

Da dietro una macchia di palme spunta in controluce un Merkava MK-4.

Il cannone spara i primi colpi e le vibrazioni fanno impazzire il controller tra le mani sudate di Ostile. Accanto al bulldozer si configurano crateri e corpi smembrati. Frammentazione di giocatori meno fortunati. Il torso carbonizzato di Pastore giace riverso tra le maglie della recinzione distrutta.

Il puntatore identifica il carro armato dell’IDF come nuovo obiettivo.

 

Attacco imminente. Il pennarello scorre sullo schermo fino a formare polinomi e griglie di scomposizione insensate, illeggibili, simili a slogan di Hezbollah sui muri perforati dall’artiglieria.

Ostile tamburella sul banco. Se ne accorge e smette. Tira l’elastico che ha al polso e lo rilascia per punirsi.

I segni ieratici del metodo di Ruffini si mescolano a bollettini di guerra, statistiche di gioco. Si fondono in analisi dettagliate degli eventi di partita.

Pollice e indice riprendono il ritmo. Pollice per la cassa, indice per il rullante.

“Finiscila, ritardato” grugnisce Pastore. Copre la minaccia con un colpo di tosse, ma la professoressa neanche si volta.

Ostile si guarda le dita. Tira l’elastico per la punizione. “Ho un problema clinico” sussurra.

Quando il ritmo riprende, si rende conto di riproporre ossessivamente la musica di inizio di Gaza: Warfare. Una sequenza drum’n bass misto a un canto lamentoso di muezzin.

“Ti spacco la faccia se non la finisci”.

“È un disturbo del neurosviluppo. Comporta disattenzione, tic nervosi, impulsività…”

“Deficiente”.

Sulla lavagna interattiva non c’è la mappa concettuale sulla scomposizione di polinomi di grado n-esimo ma la schermata di login di Gaza: Warfare.

Probabilità di attacco imminente al 78%.

Una bottiglia di plastica colpisce la schiena di Ostile. Nessun danno, solo sorpresa. Sotto la sedia, inizia ad allargarsi una pozza d’acqua.

Albanese ride nell’incavo del braccio.

 

Inferno. Un McDonnell Douglas F-15 Eagle vola sul centro di Gaza City, inquadrata e ingrandita sul monitor di Ostile in un pomeriggio di condomini color sabbia e antenne televisive.

Analisi armamento:

  • 1 M61 Vulcan da 20 mm (6000 colpi/Min)
  • 4 AIM-7 Sparrow
  • 4 AIM-9 Sidewinder
  • 4 AIM-120 AMRAAM

OPERATORE: “Ostile, muoviti al di sopra della strada principale verso la città. Conferma visuale della torre”.

Ostile porta il cursore sul pulsante di conferma. Guida il controller con movimenti lenti e precisi per stabilizzare il volo. Si abbassa fino a sfiorare i tetti. Facce di lana terrorizzate alle finestre.

NAVIGATORE: “Conferma. Vediamo l’obiettivo”.

OPERATORE: “Siete troppo bassi. Questo non è un gioco”.

NAVIGATORE: “Roger”.

Il cursore si posiziona in corrispondenza della base della Gaza Tower. Ostile si mantiene a un’altezza che corrisponde al livello dell’ultimo piano. Il gioco ripropone sempre lo stesso volto in una delle finestre appena sotto il cornicione. La faccia dell’Albanese urlante, piazzato nella striscia di Gaza come espiazione dei peccati e faccia a faccia con un F-15, in un inferno di Modafinil dal violento gusto zolfo.

 

Contatto. Il bidello desertico spunta da dietro lo stipite della porta. La professoressa è desiderata in segreteria. Il ruolo di osservatore terzo rimane vacante mentre la donna esce a passi veloci dall’aula.

La sedia di Pastore si sposta di nuovo. Iniziano le manovre. Repentine, non osservabili dalla posizione attuale. La ritirata è l’unica opzione. Il logout.

Ma il pugno ferma il gioco. Le mani grandi, le nocche dure. Tramortiscono come una granata, seguite da momenti di acufene che riempiono i rifugi, i tunnel, sventrano le barricate del timpano.

“Cos’è successo?” sente dire. Forse è di nuovo la professoressa, ma è difficile dirlo con questo fischio.

“È scivolato sull’acqua e ha battuto contro il banco”.

La realtà sfarfalla: Gaza, il Pastore e l’Albanese, sono reali solo fino all’interfaccia. Il software – no, una periferica minata – della vita di Ostile. Il ristretto lembo di pelle tra il suo zigomo e le nocche di Pastore.

Spengo quando voglio, pensa prima di svenire.

 

Cani affamati. I magazine di settore affermano che rispetto al flusso ininterrotto di notizie di qualche anno fa da parte dei mass media tradizionali e di internet, il grande passo in avanti di Dethesta è stato dare la possibilità di poter cambiare gli eventi con una giusta combinazione di riflessi ed equipaggiamento premium. Un’ucronia fornita di almeno cinque espansioni.

UltraPlayer (★★★★★) – “Potere al giocatore!”

Un pop up in alto a destra. Diretta di Al Jazeera: il Pastore commenta l’avvicinarsi di un caccia della IAF alla Gaza Tower. Le immagini scorrono al rallentatore mentre non sente la goccia di sangue che si forma sul mondo.

OPERATORE: “Siete autorizzati a colpire”.

Immagine esterna del caccia come un giudice celeste sopra la Striscia. Lascia andare i missili. Cani affamati tenuti troppo a lungo alla catena.

Un lampo e tanto fumo nero. Riprende la scalata alla classifica.

 

Slogan. “Perché non mi dici chi è stato?”

La voce della professoressa viene da lontano, anche se le sue labbra si muovono a poche decine di centimetri da lui. L’unica risposta possibile è la disconnessione.

Si trovano in corridoio, all’incrocio fra i fasci di rette generati dai neon e dall’illuminazione stradale rifratta da vetri e gocce di pioggia.

La professoressa lo spintona, lo abbraccia, lo minaccia col dito. Ha l’aria affranta della madre che va incontro al figlio crocifisso a un muro della kasbah. Ha bisogno di tingersi i capelli. Inizia a vedersi la ricrescita.

“Hai il diritto di…” inizia, ma la disconnessione di Ostile è sia fisica che emozionale.

Da dentro la busta di plastica racimolata in bidelleria, il ghiaccio chimico gli rende le dita insensibili.

La frase si perde e rimane come uno slogan cancellato e poi riscritto, solo per essere sommerso da altre informazioni.

 

Respawn. Lo stomaco rumoreggia nonostante i due biscotti ingoiati in fretta durante la visita in cucina. Era necessario trovare qualcos’altro nel congelatore da applicare alla guancia e ridurre il gonfiore. Un blocco di carne macinata avvolto nel cellophane e poi in uno straccio è stata una soluzione più che rapida.

Ostile ingolla un po’ di Red bull, giusto per coprire l’atomoxetina, mentre il PC si avvia. Nella stanza, suoni di bevande gassate dentro lattine di alluminio, ventole di raffreddamento e respiri affannati.

Luce viola da un neon posizionato dietro il monitor. A Ostile piace. Gli dà un’aria sinistra quando si inquadra nelle dirette su Twitch.

Il logo della Dethesta pulsa sullo sfondo nero, sincronizzandosi al sangue pestato dello zigomo. Ostile si vede riflesso come in uno specchio. Dall’altra parte dello schermo, l’Ostile di domani pomeriggio sta già caricando un altro pomeriggio di manovre elusive al corso serale.

Spengo quando voglio.

***

Post…
Se la guerra diventa un gioco

A causa della sua ambientazione incandescente (seppure virtuale) e per rispetto verso la tragedia e la sofferenza delle persone che muoiono o sopravvivono in Medio Oriente, ho riflettuto molto prima di pubblicare questo racconto. Alla fine ho deciso di pubblicarlo non solo perché mi piace com’è scritto, ma soprattutto perché dice – mi sembra – qualcosa di vero.

A più di un anno dall’acuirsi dell’annientamento reciproco, per quanto sempre più asimmetrico e ìmpari, in Medio Oriente, l’apparente assenza di un orizzonte di speranza e di pace per israeliani e palestinesi riduce molti di noi alla desolazione e al silenzio. Le parole hanno senso, e possono essere spese, se abitano un progetto di vita e di futuro, se il presente si può riparare. Ma il presente e il futuro sembrano oggi irreparabili.

Se non c’è speranza, però, può esplodere, in chi non è direttamente coinvolto in quella guerra perpetua, l’indifferenza, e poi la fruizione voyeuristica, e un apatico intrattenersi. Al di fuori del Medio Oriente, solo una minoranza dell’umanità è davvero interessata al destino di quelle persone e di quei popoli. La stragrande maggioranza dell’umanità se ne frega, oppure guarda e si intrattiene.

Protagonista di questo racconto è proprio l’indifferenza ludica. Siamo in pieno clima wargame adolescenziale. La Storia (anche quella contemporanea, anche la Storia presente) diventa una storia da giocare, una guerra da giocare (anche se questo gioco porta a rovinarsi il corpo e il cervello) prendendo una qualsiasi delle parti, prima l’una poi l’altra, non importa, perché il player è amorale e il suo clima è nichilistico.

È un esito osceno – soprattutto se consideriamo la sofferenza attuale, le vite umane massacrate da Hamas il 7 ottobre 2023 e in seguito le decine di migliaia di morti palestinesi sotto le bombe israeliane a Gaza (e poi in Cisgiordania e in Libano). La guerra contro tutti  di Benjamin Netanyahu, una strage interminabile –. Ma l’umanità è anche questo: sbieca, oscena, infantile, indifferente. E rischia di esserlo ancora di più quando lo stato delle cose le appare privo di soluzione. Un racconto che ce lo mostra sta facendo il proprio lavoro. (d.o.)

Tommaso Ariemma: “per capire il mondo devi abbassare lo sguardo”

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È da poco stato pubblicato, per Luiss University Press, I piedi del mondo Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale del filosofo Tommaso Ariemma.

Ne ospito qui un estratto.

 

I.

Per capire il mondo devi abbassare lo sguardo

Nell’estate del 2001 migliaia di giovani sono a Genova per protestare contro una globalizzazione calata dall’alto, contro il Wto, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, contro un mondo che stava cambiando radicalmente, e che in verità aveva già cominciato a cambiare da quando questi giovani erano solo dei ragazzini.

La protesta non era che uno degli ultimi atti di un movimento chiamato “il popolo di Seattle”, che da qualche decennio faceva sentire la propria voce contro lo strapotere delle multinazionali. Nessuno disse a quei giovani che erano arrivati tardi, che se la stavano prendendo con gli effetti – discutibili certamente, perversi in molti casi – e che non avevano mai messo bene a fuoco le cause.

Il movimento, attaccando i nuovi accordi commerciali, le deregolamentazioni e lo sfruttamento su scala mondiale aveva, inoltre, un’idea assai rozza del consumo, incapace di scorgervi “una fonte di trasformazione sociale non inferiore alla lotta”.[1]

Le merci che vengono consumate sono solo armi delle multinazionali, sono i loro prodotti. E se fosse invece l’inverso? Se le multinazionali non fossero altro che un risultato di una vera e propria esplosione culturale e sociale intorno a oggetti che erano stati capaci di riunire in sé una forza estetica e un’energia epica e rituale senza precedenti?

Opere senza autore, straordinari precipitati storici, questi oggetti andrebbero presi in esame come agenti di una insolita chimica all’interno di ciò che è stata chiamata “cultura di massa”.

L’idea del consumo che avevano i manifestanti era associata alla pura e semplice distruzione: la stessa idea di consumo dell’economia politica classica.[2]

Nella loro visione, i grandi marchi si sarebbero messi a produrre non più solo cose, ma immagini persuasive per indurre a consumare compulsivamente i loro prodotti e portare così la distruzione consumistica ai massimi livelli.

Orientando in tal modo la produzione, tuttavia, i grandi marchi non avevano fatto altro che rincorrere la natura più profonda e “umana” del consumo: distruttrice, ma al tempo stesso creatrice, e soprattutto più ampia e complessa.

Il consumo umano si estende, infatti, a simboli e concetti. Consumiamo immagini e storie.

Nella sua ricostruzione del movimento di contestazione della nuova economia globale, Naomi Klein parla con una certa diffidenza dei marchi che avrebbero incorporato nei loro prodotti un “elemento concettuale”.

Klein è fortemente critica della trasformazione dei marchi in vere e proprie “spugne culturali”: “il prodotto passa sempre in secondo piano rispetto al vero prodotto, ossia il marchio, e la vendita del marchio acquista un’ulteriore componente che può essere descritta solo come ‘spirituale’. […] i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come ‘merci’ ma come concetti”.[3]

Non sarebbe, invece, l’integrazione con una filosofia di vita, con un elemento concettuale, un arricchimento del prodotto e non solo una furba strategia di marketing? Non abbiamo forse bisogno di “cose elevate” anche per il consumo di massa? O si ritiene che concetti e filosofie debbano essere contenute solo nei libri?

Se negli anni d’oro della moda le cose avevano già, di fatto, cominciato a parlare, a partire dagli anni Ottanta esse hanno cominciato letteralmente a filosofeggiare.

Il consumo è sempre produttivo, ma al tempo stesso anche imprevedibile e indisciplinato. Karl Marx è stato certamente tra i primi a sottolineare la forza produttrice del consumo, ma ha visto in tale forza nient’altro che il momento finale della produzione, creato e disciplinato da quest’ultima. Secondo Marx, la produzione crea il consumatore[4]. Tuttavia, la realtà del consumo si è rivelata molto più difficile da disciplinare.

Chi ha progettato e prodotto scarpe da ginnastica voleva che fossero indossate soprattutto da atleti o comunque mentre si faceva sport. Il consumo che ne è stato fatto è stato del tutto imprevisto e nessuno dei produttori avrebbe mai potuto prevedere che, in pochi anni, a partire dal loro successo mondiale, dei ragazzini si sarebbero addirittura uccisi per un paio di scarpe o, per riferirci ai tempi più recenti, che ci sarebbe stato un mercato fatto di collezionisti (i cosiddetti sneakerhead), ossessionati da scarpe sportive in edizione limitata o non più in commercio e tuttavia mai usate.

Nate per l’atletica, le sneaker si sono affermate come fenomeno globale, attraversando “subculture”[5] e gli usi più diversi. La cultura hip-hop, ad esempio, ne promuove tra gli anni Settanta e Ottanta un uso molto lontano da quello sportivo: le scarpe dovevano essere indossate immacolate, come fresche di scatola. Indossate come puri oggetti di desiderio, simboli di successo individuale.

“In realtà”, ha sottolineato Michel De Certeau proprio negli anni Ottanta, “a una produzione razionalizzata, espansionista, centralizzata, spettacolare e chiassosa, fa fronte una produzione di tipo completamente diverso, definita ‘consumo’, contrassegnata dalle sue astuzie, dalla sua frammentazione legata alle occasioni, dai suoi bracconaggi, dalla sua clandestinità, dal suo instancabile mormorio, che la rende quasi invisibile perché non si segnala in alcun modo attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene imposto”.[6]

Il consumo può sfuggire al potere senza per questo sottrarvisi.

I manifestanti protestavano guardando idealmente verso l’alto, in direzione di quella che per loro era la posizione occupata dal potere e dai potenti, quando avrebbero dovuto abbassare lo sguardo e vedere meglio: avevano letteralmente il mondo ai piedi.

Le loro scarpe, le scarpe di moltissimi, avevano una lucentezza tale da renderli ciechi. Si dice, del resto, sia accaduto lo stesso a Omero. Quest’ultimo, infatti, volle vedere le armi scintillanti di Achille, conservate nella sua tomba: il loro bagliore lo accecò.

Erano armi troppo belle per essere viste da un semplice uomo. In particolare, l’elemento più splendente era lo scudo, su cui erano rappresentati i caratteri fondamentali del mondo. Omero ebbe, in cambio, il dono della sapienza.

Per molti anni noi non abbiamo avuto la stessa fortuna, brancolando nel buio dell’amore o dell’odio per le scarpe e per i loro marchi.

I grandi marchi avevano realizzato una cosa molto simile a quello scudo e non solamente per un individuo eccezionale: oggetti capaci di racchiudere i principi di un mondo intero.

Uno di questi marchi era diventato grande – il più grande –  proprio grazie a un oggetto, a una semplice scarpa capace di proteggere una parte del nostro corpo, come uno scudo.

Il suo nome, per di più, era associato a una divinità greca e prometteva a ognuno il superamento di ogni sconfitta, non solo nello sport, ma su ogni piano della vita.

Il suo nome era Vittoria, in greco: Nike.

 

 

[1] P. Virno, Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 90. Oppure si cade nell’eccesso opposto, nel momento in cui si pensa che tutte le merci compongono un sistema, tale da costituire un’iperrealtà che arriverebbe a prendere il posto della realtà. Si tratta della tesi introdotta nel 1970 da Jean Baudrillard con il suo celebre La società dei consumi. La proposta di Baudrillard ha il merito di aver preso sul serio l’uso simbolico delle merci, ma al tempo stesso ha il limite di considerare sorpassato l’oggetto-merce rispetto al suo sistema. Si tratta, in fondo, di ciò che esplicitamente si contesterà nel corso della trattazione, analizzando un oggetto specifico: le scarpe Nike.

[2] Cfr. W. Schivelbush, La vita logorante delle cose. Saggio sul consumo, FrancoAngeli, Milano 2019.

[3] N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini e Castoldi, Milano 2002, p. 42.

[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica all’economia politica, trad. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 16-18.

[5] Sul concetto di subcultura si veda l’ormai classico volume di D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, trad. it. di P. Tazzi, Meltemi, Milano 2017, come pure si vedano le ricerche del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham sotto la direzione di Stuart Hall, soprattutto le ricerche di quest’ultimo, orientate alla risignificazione dei consumi a partire dal basso, raccolte in S. Hall, Il soggetto e la differenza. Per una archeologia degli studi culturali e postcoloniali, a cura di M. Mellino, Meltemi, Milano 2016.

[6] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it. di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma 2005, p. 66.

Il mio manoscritto di Saragozza

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di

Francesco Forlani

Da meno di un mese il romanzo manoscritto del Furlèn dedicato a Errico Malatesta, in parte nato proprio qui con il diario di Saragozza, è in giro. Una spedizione ambiziosa ma con cognizione di causa e di possibilità di scacco. Lo si può vedere tutto o quasi in questo video (con eccezione degli ultimi sei capitoli) con la sola preghiera di farmi sapere se questa è una bella notizia anche per voi. effeffe ps un modo per chiedervi di portarmi “fortuna”.

 

“Si”#2 Lettura a più voci

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[Sì (seguito da Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio) è un libro di Alessandro Broggi, uscito per Tic edizioni, nel giugno del 2024. Come Noi, uscito per lo stesso editore nel 2021, si presenta come un libro in prosa, abbastanza breve, difficilmente classificabile. Ho chiesto ad amici e amiche autrici, di scrivere qualcosa su questo oggetto letterario non ben identificato, senza per forza la pretesa di prenderne tutte le giuste distanze critiche. Di un libro del genere, mi sembra importante già darne conto attraverso una pluralità di “esperienze” di lettura. Abbiamo cominciato con le voci di Andrea Accardi e Leonardo Canella, e continuiamo oggi con Renata Morresi e la sua apertura di campo anche sul recentissimo titolo Idillio. a. i.]

Di Renata Morresi

Lunedì scorso partecipo a un seminario sulla narrazione illustrata. Sarà una cosa breve, un paio d’ore, e senza teoria. Sarà illuminante più della teoria, dovrò riconoscere. Sono scettica all’inizio. Siediti con la schiena dritta, mi fa la voce dellə graphic novelist che è lì a guidarci. È canadese, l’inglese arriva morbido, affabile. Parti dal centro del foglio, disegna una spirale che cresce lentamente. Più lenta, più aderente che puoi. Mentre sto disegnando, mi rilasso e vado col pensiero al pezzo che sto scrivendo su Alessandro Broggi. Quando si è dominati da un’idea, quell’idea sembra abitare tutto, tornare rilevante in ogni circostanza. E ogni minimo fatto offre una nuova sfumatura all’idea, la riscalda. In questo momento in cui disegno la spirale torno all’idea che , come il precedente Noi, come il recentissimo Idillio, – la trilogia costruttiva di Broggi – siano animati da un andamento circolare che in modi diversi li distingue e modella.

Non importa finire la spirale, quel che importa è disegnare una linea molto intima a se stessa, e procedere il più lenta che posso. Idillio è il libro di Broggi appena uscito nella mia collana per Arcipelago Itaca. Sono molto orgogliosa, naturalmente, ché da tanto vagheggiavo di pubblicare un testo di Alessandro, e appena avevo visto Idillio, mi ero entusiasmata. Dico ‘visto’ perché Idillio è in effetti sì un lavoro da leggere – e da leggere in modo accurato, al modo dei detective – ma pure un’opera installativa. Forse dovrei chiamarlo folioscopio, anche se in realtà non ha immagini. Forse è un testo processuale, ovvero si realizza in un processo di affioramento dal bianco, “in questa pagina in attesa di essere scritta”. Di certo esiste nel dispiegarsi, nel farsi della sua relazione speciale tra spazio e testo e chi la esplora. Il testo pre-esiste la sua messa in forma sulla carta? Il testo esisterà solo alla fine, nell’essersi offerto e di nuovo ritratto? Invita chi legge a tornare indietro, a rimetterne insieme la sintassi, o a seguire rapidi la sua figura “scalza”, “tra gli orti”, o a sostare su ogni ‘verso’ – non-verso, clausola, sintagma – come sospeso dal resto? “Chissà…”

Niente di questo che vado pensando è veramente esatto, come la mia spirale un po’ sbilenca, scusate. La mia guida dice che non importa, quello che importa è la linea. Non il risultato della linea ma l’esserne parte, della linea che dal centro della terra sale dal suolo attraversa il pavimento i miei piedi e le gambe e il braccio destro e la mano e la penna e l’inchiostro che tocca la carta e la traccia nella spirale che voglio. Insomma, non è tanto un esercizio sulla tecnica, ma una pratica che parte dal calibrare insieme corpo, desiderio e mente del mondo. Questa centratura immaginaria è molto importante in Broggi, che spesso dà le coordinate in cui potersi intuire in connessione, senza particolare interesse per le rispettive psicologie, nei propri limiti materiali e fisiologici, ma finalmente liberi dal fardello della personalità: “la superficie della Terra è uno spazio chiuso – non esistono due punti distanti tra loro più di ventiduemila chilometri – e non ha bordi, non c’è un luogo che rappresenti il confine del mondo: ovunque sei, sei al centro…” (58). Lì, dovunque sia, “qui, ora” (53), su di un piano che non è né astratto, né sensibile, né simbolico, “con piccoli orizzonti o immensi orizzonti, o niente orizzonti del tutto” (53), in un luogo discorsivo-spirituale che si presta al gioco dell’immaginazione senza doversi inventare una vicenda eroica, sul quadro di fenomeni in cui avveniamo all’incrocio di relazioni, non come prodotti del sè. In quanto tale è il luogo di una delicatissima affermazione politica. E “col piglio della parità con il mondo”, come il suo metodo di campionamento e prelievo da varie fonti, molte delle quali in traduzione, che compone una scrittura polifonica, accentata dalle molte lingue dei suoi testi di partenza, ospitale allo spaesamento e all’estraneo.

Dopotutto il libro da cui ho appena citato si chiama . Che non va preso come ritrattazione della tonalità non-assertiva, semmai come sua ironica ripresa, per assumere la critica del linguaggio propria delle opere precedenti e condurla oltre. I libri della trilogia distruttiva di Broggi, Coffee-table book, Avventure minime e Protocolli, mostravano, con diafano distacco, le vischiose pretese di verità dei linguaggi funzionali, dal poetichese al comunicativo, sempre attraversati da automatismi economizzanti e da forze lugubri nella loro coazione a ripetersi/ripeterci. Quella lezione non viene accantonata nelle opere successive ma impiegata a loro fondamento. Riconoscere le trappole retoriche, le ideologie che ci parlano, i limiti del linguaggio tutto non significa dover cedere al disincanto, ma promettersi una nuova curiosità, un nuovo ascolto. Può capitare, così, di re-innamorarsi, persino di ciò che è già famigliare. I discorsi di sempre, le parole già dette, le solite domande, la letteratura. “Sai quello che stai dicendo, Maurizio? Puoi esprimerti in maniera da riuscire a comunicare ciò che intendi affermare? Hai detto qualcosa a lungo dimenticato, hai alterato le tue pulsazioni, la pressione sanguigna, trattieni il fiato o respiri normalmente? E lei che cos’ha risposto? Ti sei accorto che sorridi?” (66)

Lasciamo la spirale e prendiamo un nuovo foglio. Su questo foglio bianco faremo due linee diagonali che si intersecano, una grande X che marca lo spazio su cui scriveremo i nostri appunti, qualche schizzo, e quante risposte possiamo a una serie di domande sempre più specifiche, a costruire non solo una storiella in otto vignette, ma quanti più echi, ombre, odori, assenze e non-detti di questo piccolo mondo inesistente. Perché ci facciamo una X, chiede qualcuno. Per riconoscere che questo è uno spazio di lavoro, non stiamo facendo niente di sublime. Maurizio non è nessuno. O Maurizio è (come) Milena, Humbert, Louretta, Rhoda, Mavra, Eleonora, Norberto, Tania, “tutti i nomi vanno bene” (22), quasi onde come quelli di Virginia Woolf, con un Maurizio che già appariva in Noi, un personaggio più prossimo a una domanda che a un carattere. “Chi c’è con te ora, Maurizio? Cosa provi a essere qui?” È Benveniste a insegnare che “tu” è un commutatore proprio come “io”: in sé pronomi vuoti, senza un referente dato, ma ogni volta disposti ad accoglierne uno diverso, e a scambiarselo. Proprio grazie al non essere inscritti di una referenza univoca rendono possibile la soggettività e l’intersoggettività, due fenomeni complementari. Il pronome ‘noi’, invece? Non mera somma di vuoti, è forse il pronome più potente, e, diceva Barbara Johnson, il più pericoloso: può costruire nuovi soggetti, affermare sintesi, imporre universali, produrre nemici, proiettare futuri. Noi di Broggi lo assume facendosi carico della sua fisiologica ambivalenza e ne esplora la goffa inaffidabilità: “Parliamo, ci sorprendiamo, parliamo ancora, immaginiamo. Sembra sempre che ci stiamo dirigendo verso qualcosa ma ogni volta prima di raggiungerlo cambiamo direzione […] La natura delle nostre osservazioni ci sfugge.” (14)

Quindi le cose sono più complicate di quanto la grammatica sembri concedere: ‘noi’ impantanati in repertori e sistemi ricevuti, immersi in appartenenze che perlopiù non abbiamo scelto con piena volizione (generi sessuali, classi sociali, tradizioni religiose, territori fragili, accenti, e via dicendo), ‘noi’ più deboli e attraversati da poteri che ci precedono, a prescindere da come ci identifichiamo, ‘noi’ saturi di biografia che non importa. Le condizioni ci travalicano, spesso indistricabili dalle nostre azioni, e il tutto è assai più esposto alle pressioni, alle influenze, alle trasformazioni, anche aleatorie. Ma una volta che sappiamo di non avere accesso ad alcuna ‘libertà’ e di non essere tantomeno ‘insieme’, ‘noi’, in modi riconosciuti e riconoscibili, cosa cambia questo rispetto al desiderio di una buona vita? O almeno di una buona scrittura? Non fingeremo mica di non stare nell’incerto e nel provvisorio, nel fragile e nel caos, spero. Ammetteremo che essi sono costitutivi, no? “Raccontiamocelo ancora: stiamo stendendo il verbale dei nostri passi” (13).

Questa cosa che già fa Noi, tracciare una mappa impossibile, far girare i nostri intorno, ché tanto “abbiamo perso la direzione, potremmo essere ovunque” (19), torna in , sotto altra forma. Che il libro si apra con la sezione “Scioglimento”, al capitolo 41, e metta il capitolo 1 a pagina 51, per farlo iniziare con “Allora ricominciamo”, genera una curva che rende disponibile l’andare indietro e avanti con ritorno “ovunque” che continua quel moto circolare, o forse lemniscato, ricorrente in Broggi. Ha un che di ipnotico questa figura, una volta immaginata non riesco più a non vederla.

Sono passata a disegnare le parti grafiche alternate coi testi verbali. È una pratica sobria, niente nuvolette: sopra il disegno e sotto le parole, o viceversa. Le parole dovrebbero dire quello che l’immagine non dice già. Sta lì il trucco. C’è l’interno della cornice, le forme che vado disegnando, a cui tendo e che mi superano, come le parole con cui quelle conversano; non sono davvero divise, le une suggeriscono alle altre cose che già non sanno. E c’è il sistema della cornice, il piano da cui avviene la consapevolezza (o il tentativo di), l’azione, il veder compiere il disegno. Non c’è niente di strettamente reale in tutto questo, se non il suo farsi. “Ti avvicini come fossero pozzi profondi: dove presumi di vedere attraverso l’ombra e la luce delle finestre ci sono specchi… Non c’è realtà al di là delle tue definizioni: ogni cosa del mondo fisico è uno specchio e devi sorridere per primo perché l’immagine sorrida di conseguenza. Ora sei fuori…” (53) Broggi mostra il continuo fluire tra molti piani sopravvalutati – i fatti, i ruoli, le psicologie, le esperienze, la logistica dei saperi, la stessa logica del ‘fuori e dentro’ – e lo supera. A tutti questi sistemi fantasiosi si può anche non dover credere poi così tanto, “ora rivolgiamoci a qualcos’altro” (52). Non è il cinismo del tutto è uguale, a cosa vale, ma la possibilità dell’immersione in uno spazio concorde, né razionale, né anarchico. Penso alle tele monocrome di Spalletti, dove anima e colore si corrispondono.

“Sei contento di non sapere dove ti trovi?” (25), si chiede il mio fumetto.

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*le citazioni da Idillio sono senza riferimenti perché il libro non ha numeri di pagina. e Noi sono entrambi usciti per Tic. Tutte le notizie sulle altre opere di Alessandro Broggi sono qui: https://biobibliografia.wordpress.com/

L’Africa per noi. Su “L’Africa non è un paese” di Dipo Faloyin

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di Daniele Ruini

In apertura del libro di cui stiamo per parlare troviamo, come citazione in esergo, questa indicazione: «Inserire qui un generico proverbio africano. Idealmente, un’allegoria su una scimmia saggia che interagisce con un albero, o un dialogo tra l’asino e la formica che, a sorpresa, parla di gesta valorose. Fonte: Antico proverbio africano». Nella pagina successiva c’è invece una citazione vera, tratta dalla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: «Se tutto quello che so dell’Africa si basasse sulle immagini popolari, anch’io penserei che l’Africa sia un posto di paesaggi bellissimi e persone incomprensibili, che combattono guerre insensate, muoiono di povertà e Aids, e sono incapaci di prendere parola». Già da queste scelte si può cogliere quelli che sono gli ingredienti principali di L’Africa non è un paese (Altrecose, 2024) del giornalista britannico di origini nigeriane Dipo Faloyin: l’uso di un tono spesso sarcastico e il desiderio di smontare gli stereotipi con cui noi europei continuiamo a guardare al continente africano.

Gran parte dell’efficacia del libro (tradotto da Tommaso Bernardi) risiede proprio nell’irriverenza del suo autore: prendendo le mosse dal celebre articolo del kenyiota Binyavanga Wainaina «Come scrivere dell’Africa» (appena ripubblicato in italiano da 66thand2nd in un volume dallo stesso titolo), Dipo Faloyin ha gioco facile nel pungolare l’abissale ignoranza che, quando si parla di Africa, grava sui suoi lettori europei e statunitensi. Se già il titolo punta il dito contro la nostra tendenza a non dare quasi peso alle profonde differenze esistenti tra i 54 Paesi che formano il “continente nero” (per non parlare delle molteplici specificità etniche e linguistiche interne alle varie nazioni africane), lungo tutto il saggio l’autore s’impegna a distruggere quella patina di commiserazione e di esotismo che continua ad accompagnare il nostro sguardo sull’Africa: un continente considerato spesso solo un ricettacolo «di povertà, conflitto, corruzione, guerre civili e grandi distese di arida terra rossa dove cresce soltanto miseria» (p. 29) e che è invece fatto di molta normalità.

«Contesto» è forse la parola-chiave che tiene insieme i vari capitoli del libro: è infatti solo approfondendo i contesti che possiamo capire davvero vicende e situazioni che caratterizzano questo continente ricchissimo. E, prima di tutto, non si può prescindere dal colonialismo europeo, ovvero dal modo in cui, tra la Conferenza di Berlino del 1884-1885 e la Prima guerra mondiale, «gli imperi europei si sono spartiti le terre più fertili e ricche, hanno smembrato il dieci per cento di tutti i gruppi etnici –costringendo culture molto diverse a formare stati unitari contro la loro volontà– e hanno rubato il novanta per cento del patrimonio culturale concreto del continente» (p. 30). Nonostante la raggiunta indipendenza, il destino dei paesi africani continua ancora oggi ad essere condizionato dalla negazione del loro diritto ad autodeterminarsi imposto con la violenza dai paesi europei: è a causa di questo peccato originale che in Africa si concentra tuttora il maggior numero di dispute territoriali per questioni di confini, così come è sempre da lì che discende il pregiudizio discriminante secondo cui gli africani non sarebbero in grado di autogestirsi e di affrontare i propri problemi, e continuerebbero perciò ad avere bisogno di un qualche tipo di supporto da parte dell’Occidente. Ecco allora che Faloyin smonta con incisività il complesso del white savior pronto ad andare in soccorso del popolo africano: rifiutando l’idea che i fini giustifichino sempre i mezzi, l’autore nigeriano critica apertamente le grandi campagne pro-Africa, colpevoli di utilizzare immagini ricattatorie di persone sofferenti (senza chiedere loro alcun consenso), e di favorire donazioni impulsive che dispensano i benefattori dallo sforzo di comprendere le situazioni di crisi per le quali stanno donando i loro soldi. La conseguenza è che «l’epoca d’oro delle campagne ha normalizzato la percezione dell’Africa come oppressa e cronicamente bisognosa» (p. 138), ovvero come «un luogo ampiamente considerato degno di elargizioni e poco più» (p. 144).

Anche l’idea che la dittatura sia la forma di governo più diffusa tra le nazioni africane viene smentita da Faloyn: non solo ad essere sottoposto a un regime autoritario è meno del 10% del continente, ma se non se tiene conto del filo rosso che collega gli interessi degli ex colonizzatori ai responsabili di questi regimi si farà fatica a liberarsi dall’idea che quelli africani siano popoli ingovernabili “per natura” e pertanto destinati a finire inevitabilmente soggiogati da dittatori egocentrici. D’altra parte le fragilissime motivazioni che politici e direttori dei musei nordamericani ed europei continuano ad accampare per respingere gli inviti alla restituzione del patrimonio culturale africano trafugato dalle razzie coloniali è un’ulteriore prova del senso di superiorità morale dell’Occidente, un «suprematismo bianco», come lo definisce Faloyn, evidente anche nel modo stereotipato in cui la cultura popolare –come, per esempio, il cinema hollywoodiano– continua a rappresentare i neri.

Detto che L’Africa non è un paese contiene anche capitoli più “leggeri” (come le divertite descrizioni di Lagos o della suscettibilità dei paesi dell’Africa occidentale intorno alla “vera” ricetta del riso jollof), e che il suo autore ci fa conoscere nelle pagini finali tanti esempi positivi (come i movimenti che negli ultimi anni hanno lottato coraggiosamente per pretendere maggiori diritti), ci si può chiedere, in conclusione, che effetto possa avere questo saggio in particolare sul pubblico italiano. Il fatto che, parlando dei danni del colonialismo europeo, Dipo Faloyin non si soffermi sul caso italiano rischia forse di confermare il luogo comune per cui, diversamente da quello praticato dalle altre potenze europee, quello italiano sarebbe stato un colonialismo “buono” verso la popolazione nativa. Si tratta di una narrazione agiografica che, omettendo del tutto il razzismo così come i soprusi, i massacri e le deportazioni perpetrate, si è iniziato a ribaltare solo da pochi decenni; la conseguenza è che, nonostante le iniziative dal basso (si veda il progetto di mappatura e denuncia dell’odonomastica coloniale Viva Zerai! di Wu Ming 2) e l’importante lavoro degli storici (si veda la recente sintesi di Valeria Deplano e Alessandro Pes Storia del colonialismo italiano, Carocci, 2024), ancora oggi ci si continua ad interessare poco dei danni del colonialismo italiano in Africa, per quanto le sue conseguenze siano state altrettanto perniciose di quelle imputabili ai francesi o ai britannici. Basti pensare, per esempio, a come il problema per cui, al momento dell’indipendenza, le nazioni africane dovettero ereditare confini e nomi imposti dai colonizzatori valga anche per la prima colonia italiana, l’Eritrea, o per la Libia (stato artificiale dietro cui il governo Giolitti riunì forzatamente tre regioni ben distinte dell’ex Impero ottomano).

Per queste ragioni, e anche perché la società italiana –complice il fascismo– ha vissuto una migrazione postcoloniale assai più ridotta rispetto ad altre nazioni europee, ritardando in questo modo il confronto con il multiculturalismo, le questioni affrontate da Faloyin risultano ancora più significative per i lettori italiani. In questo senso leggere L’Africa non è un paese può contribuire a farci venir voglia di approfondire la nostra storia di colonizzatori: forse, allora, andando a farci una nuotata alle Piscine Dogali (succede a Modena), o passando vicino a Massaua (frazione del comune pavese di Torre d’Isola), saremo finalmente spinti a guardare all’Africa, passata e presente, da una diversa prospettiva.

 

Non ho tempo per andare al mare – Mari Accardi (Nutrimenti Edizioni 2024)

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Estratto dal libro di Mari Accardi per Nutrimenti Edizioni. 

Incontravo i turisti nella terrazza dell’hotel, indicata a ogni piano con una freccia puntata verso l’alto. Per loro erano state disposte sedie di plastica e tavole imbandite con vino bianco e rosso e pasticcini ricoperti di cioccolato che col caldo si squagliava. La Spugna assaggiava il vino bianco, faceva una smorfia, lo gettava dentro la pianta di monstera, riempiva il bicchiere di vino rosso fino all’orlo e poggiava la caraffa al lato della sedia. Era una scena che si ripeteva di volta in volta. D’altronde, sul logo della Compagnia era rappresentato un vecchietto che tracannava una bottiglia di lambrusco in una vasca a forma di Colosseo. Non c’erano ambiguità sul tipo di clientela che volevamo attirare.

Tutti indossavano un gilet multitasche blu che assomigliava a un giubbotto antiproiettile. Lo regalava la Compagnia insieme a un quaderno col logo, un’agenda col logo, una penna col logo, una borraccia col logo e un cappello a falde larghe pieghevole, che i turisti distribuivano nelle varie tasche. Sotto portavano pantaloni che tirando le cerniere diventavano pantaloncini, scarpe da trekking per gli uomini e ballerine da trekking con la suola di gomma per le donne: una sorta di divisa. La Compagnia li incoraggiava a viaggiare con il solo bagaglio a mano, chi lo imbarcava, come per ammonizione, lo smarriva in aeroporto. Al ritorno, tuttavia, molti compravano una seconda valigia. Viaggiavano soprattutto in coppia, i pochi solitari erano in maggioranza donne. Venivano da ogni parte d’America, ma anche dal Sudamerica e dal Canada, e perfino dall’Australia e dalla Corea. In aeroporto non c’era nessuno ad attenderli. Farli arrivare in albergo con i mezzi pubblici era uno degli obiettivi educativi della Compagnia, che si chiamava: Il Mondo degli Audaci.

Fino a quel momento, l’attività più rischiosa in cui ci eravamo spinti era stata salire sul 101 in un orario di punta. Dedicavo un’intera lezione alla corretta timbratura del biglietto: spiegavo in quale verso inserirlo, dove inserirlo, con quanta forza spingerlo, cosa fare se era spiegazzato, cosa fare se, nella calca, non si riusciva a raggiungere la macchinetta. I turisti avrebbero già dovuto sperimentarlo nel tragitto dall’aeroporto all’albergo ma sospettavo che in realtà barassero e prendessero il taxi.

Alle 14.30, come se avessero impostato la sveglia, drizzavano la schiena e smettevano di parlare. Erano schierati in tre file, seduti sul bordo della sedia, in posizione di allerta. Con le loro divise e i giubbotti antiproiettile pareva stessero andando in missione. Erano l’‘esercito degli Audaci’ e io il loro comandante.

“Buonasera e benvenuti in Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo, in cui hanno vissuto e convissuto fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, austriaci, borboni… Farei prima a elencarvi da chi non siamo stati dominati…”.

(Risate).

“Come vedete, noi siciliani accogliamo tutti. Anche gli animali randagi sono regolari cittadini”.

(Sorrisi perplessi).

“Sono fiera di iniziare questo tour nella città in cui sono nata e cresciuta: Palermo”.

(Applausi).

“Il mio nome è Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi nove giorni”.

Il Simpatico cominciava a fischiettare. Dopo alcuni secondi, la Spugna capiva il riferimento e gli dava manforte. Dall’ultima fila partiva il coro: “Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela…”.

Adesso la canticchiavano tutti.

Everybody!”.

Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela”.

Aspettavo paziente che arrivassero all’ultima strofa.

“Mi raccomando però: ricordatevi che il mio nome finisce con la e, non con la a. M-a-t-i-l-d-e”.

Of course, Matildeeeeeee”.

“Adesso guardate il panorama dalla terrazza. Vedete quei due palazzi stretti e lunghi, quasi a ridosso della montagna? Li chiamano Lunghi a matula, perché gli appartamenti sono piccoli e mal distribuiti. Alle loro spalle, nell’interstizio, si intravede la casa in cui sono cresciuta. Stavo seguendo la regola numero 4 del vademecum della brava guida: “Fai entrare i turisti nella tua vita”.

Tutti esclamavano “Ooooooh”.

“Lo vedete il giardino con la palma?”. Qualcuno rispondeva di sì, mentendo. Da quella distanza si distinguevano a stento i contorni e io descrivevo le immagini della mia memoria, quelle che negli anni non erano mai cambiate. “La vedete l’Audi marrone con il gatto giallino che si stiracchia sul cofano? Dentro c’è mio padre con un sigaro spento in bocca che ascolta Peppino di Capri o Ray Charles, a seconda dell’umore. È il posto in cui si rifugia quando si sente offeso”.

L’Ottuso chiedeva: “E perché non si va a fare un giro?”.

“Perché l’Audi non parte”.

(Risate).

“Un tempo mio padre faceva il rappresentante di commercio e la macchina per un rappresentante è il suo biglietto da visita. Ora che è in pensione non vuole sbarazzarsene”.

“Non gli piace la vita da pensionato?”, chiedeva il Devoto, prossimo alla pensione.

“Forse si annoia”.

“E cosa fa durante la giornata?”.

“Litiga con la gente. Sul frigo ha appeso una mappa dove ha barrato i negozi in cui, secondo lui, hanno cercato di truffarlo. Per qualsiasi commissione fa dei giri lunghissimi e ci impiega ore”.

(Risate).

“Mia madre per rabbonirlo è andata a portargli il caffè. Qualunque cosa succeda, che lei sia arrabbiata, affaccendata o indisposta, a quest’ora va sempre a portargli il caffè. Margherita, la vicina, ha sentito l’odore e si è presentata davanti al cancello. Sapete, Margherita ha lasciato il marito il giorno del cinquantesimo anniversario di matrimonio e mio padre crede che voglia convincere mia madre a fare lo stesso”.

“Ed è vero?”, chiedeva l’Impicciona.

“Non proprio. Cerca di convincere tutte le donne a stare da sole. Ha adottato un chihuahua che ha chiamato Aceto perché l’ex marito era allergico all’aceto”.

“Beviamoci su”, diceva la Spugna, e proponeva il primo brindisi di una lunga serie. “All’amore eterno!”.

“All’amore e basta”, diceva la Cinica.

“Al vino!”.

Quando siamo usciti per perlustrare il quartiere e visitare il santuario di Santa Rosalia non ci siamo persi neppure una volta. Nessuno aveva notato i miei errori di pronuncia e gli strafalcioni di storia. Dicevano che ero la guida migliore che avessero mai avuto. E dato che: “La prima impressione è l’unica che conta”, (regola numero 3) mi avrebbero riempito di ‘superbo’, il massimo dei voti.

Ecco come sarebbe dovuto andare, secondo il copione, il nostro primo incontro. Ma non andava mai così.

Di solito alle 14.30 facevo un respiro profondo, aprivo il petto e mi dirigevo a testa alta verso il palco: un angolo incastrato tra la pianta di monstera e il tavolo imbandito. Avevo il sole in faccia e socchiudevo gli occhi per mettere il pubblico a fuoco. Il vademecum diceva: “Gli Audaci sono membri temporanei della vostra famiglia”. Era la regola numero 1. Osservavo viso per viso, cercavo somiglianze con mia madre, mio padre, mia nonna, come quando da piccola andavo a caccia dei nostri sosia tra le tombe del cimitero. Avrebbe dovuto attutire il disagio di trovarmi tra estranei ma non funzionava. Quando stavo per parlare la Sorella schiva mi chiedeva dov’era il bagno, la Spugna si lamentava che le caraffe di vino erano vuote, il Pedante voleva sapere il nome delle chiese che si vedevano dalla terrazza. Oppure il Simpatico arrivava di corsa e molto lentamente si riempiva il bicchiere di vino davanti a me, coprendomi alla vista degli altri, mentre l’Ottuso mi pregava di ripetere le frasi. Per non parlare di tutte le parole italiane di cui dovevo fare lo spelling. Gli Audaci erano convinti che in una settimana avrebbero imparato l’italiano. Si appuntavano le parole sul quaderno, che poi dimenticavano in albergo. Era l’oggetto che più dimenticavano insieme ai calzini. Scrutavo le espressioni facciali, interpretavo ogni increspatura della fronte come un principio di astio nei miei confronti. Guardavo le bocche sporche e non capivo perché in estate, con tutti i dolci tipici che l’albergo avrebbe potuto offrire, paste di mandorla, sfogliatine, biscotti all’anice, offrisse proprio pasticcini al burro ricoperti di cioccolato. Mi leccavo le labbra sperando che di riflesso lo facessero anche gli Audaci ma continuavano a mangiare e a sporcarsi.

“Buonasera e welcome to Sicily. Mi chiam…”.

“Non si dovrebbe dire ‘buon pomeriggio’?”.

“Be’, tecnicam…”.

“Come si dice Sicily in italiano?”.

“S-i-c-i-l-i-a”.

“S-i-s-i…”.

“L-i-a. Dunque, come vi dicevo, mi chiamo Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi no…”.

“Parla più forte, sweetie”.

A un certo punto mi bloccavo e pensavo: ‘Che stai facendo? Non ti vergogni?’. Sentivo la voce di mio padre: ‘Ma se scambi Vergine Maria per Mondello’. Sentivo la voce di mia madre: ‘Li farai morire’. Sentivo la voce di mia nonna: ‘Non ti sai fare manco l’uovo bollito’. Tour dopo tour, l’attimo di vergogna continuava a presentarsi. E non potevo attribuirlo alla sindrome dell’impostore perché impostora lo ero davvero. Per fare la guida era necessario il patentino, che io ovviamente non avevo. Per i musei mi appoggiavo alle guide locali, ma per tutto il resto cercavo di non farmi notare. Quando incontravo vecchi compagni di università provavo a scappare o mentivo, mi sembrava che mi guardassero con sospetto. Mi sembrava che tutti mi guardassero con sospetto. Con gli Audaci mettevo subito le mani avanti. Nel copione una frase che non mancava mai era: “Se ci dovesse fermare un vigile, dite che siete i miei cugini”.

“Semmai zii”, puntualizzavano i vari Pedanti.

“Ehi, ti sei imbambolata?”, diceva la Spugna schioccando le dita.

Colta alla sprovvista alzavo il bicchiere e dicevo: “Cheers”, ma i bicchieri degli Audaci erano già vuoti.

 


Mari Accardi (1977) è nata a Palermo e insegna alle scuole medie. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste e sull’antologia Quello che hai amato (Utet) curata da Violetta Bellocchio. È stata selezionata da Granta per il numero Che cosa si scrive quando si scrive in Italia dedicato ai nuovi autori del nostro paese. Ha già pubblicato, Il posto più strano dove mi sono innamorata (finalista al Premio Settembrini) e Ma tu divertiti, entrambi con Terre di Mezzo Editore.

Epigrafi a Nordest

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Foto di Pexels da Pixabay

di Anna Toscano

Nella città di provincia del nord est dove sono nata e dove sono vissuta fino ai diciotto anni si faceva la coda per il pane, nella panetteria più in voga in quegli anni, guardando in faccia i morti. Sono stata abituata così sin da piccola, a stare in coda e guardare gente morta.

Allora, tra i Settanta e i Novanta, la panetteria più buona, o più di moda, era all’angolo tra due strade pedonali lastricate di sanpietrini, un’ampia vetrina piena di ceste di pane su entrambi i lati: il negozio da una parte dava sui banchi di frutta e verdura e su una tabaccheria, dall’altra su un negozio di dolciumi. L’angolo, tra le due vetrine, era di marmo, veniva usato per appendere le epigrafi mortuarie: grandezza A4 in verticale, nome e cognome della defunta o del defunto, una foto formato tessera in alto a destra, un breve testo di commiato, le informazioni per il funerale.

Così, si stava lì, estate e inverno, sole o pioggia, in coda ad attendere il proprio turno per il pane, facendo la conta dei defunti. Gli adulti commentavano se il defunto fosse vissuto troppo o troppo poco, di chi fosse parente o amico – nelle piccole città ci si conosce tutti – e chi fossero i nomi citati nel testo. L’esclamazione che si sentiva più spesso, mentre ci si avvicinava all’ingresso del negozio e dunque le epigrafi divenivano man mano leggibili, era: “Varda chi sé morto”.

Per noi bambine e bambini estranei, chi più chi meno, al sottotesto che accompagnava la fototessera, era un guardare in faccia volti che assomigliavano molto a quelli dei nostri nonni e delle nostre nonne, colori prevalentemente scuri nell’abbigliamento, quasi tutti coi capelli bianchi, le donne con la permanente taglio corto, occhiali da vista. L’attenzione veniva attirata maggiormente dalle poche foto che ritraevano giovani, quelli che la cronaca locale aveva già riportato nei giorni precedenti prima per incidenti stradali, all’epoca erano le strade delle discoteche il sabato sera o per i lidi in estate. Gli scatti nelle epigrafi in questo caso cambiavano, era netta la percezione che fossero fotografie ritagliate da altri contesti e ci si immaginava subito la foto di classe della quinta superiore a cui mancava un ovale, avevano ritagliato quel volto. Erano anni in cui non c’erano i cellulari ma nemmeno gli scanner, le foto erano su pellicola e la loro riproduzione era molto farraginosa rispetto a oggi.

Tuttavia avere una fototessera era facile all’epoca, le cabine per produrle infatti erano distribuite nelle città – seggiolino che si avvitava per salire o per scendere, tendina acrilica sempre troppo stretta e corta e buona la prima, mica come oggi che si possono fare più pose e poi scegliere – producevano quattro tutte uguali (più tardi sei) e le due o tre rimanenti stavano nel portafoglio o in quello dell’innamorata/o. Ma c’erano anche molti negozi di fotografia e i fotografi erano forniti di un angolo apposito per fare fototessere.

Basta andare con la memoria alla foto della prima patente o di un abbonamento al bus degli anni della scuola o alla tessera universitaria e sentire una punta di dolente disagio per quelle immagini che ci ritraggono scuri, fissi in un tempo che fisso non era affatto.

Perché le epigrafi erano appese tutte su quella colonna? Era il luogo principale di passaggio del centro storico, sede di mercato e di commercio spiccio per l’alimentazione quotidiana, non esistevano ancora gli ipermercati e tantomeno i centri commerciali, solo i supermercati cittadini e i negozi al dettaglio del centro storico. Altre epigrafi, singole e sparute, comparivano nei luoghi della città abitati e frequentati dalla deceduta o dal deceduto.

All’inizio degli anni Novanta apre, nella stessa città, una pizzeria nella piazza centrale, piazza dei Signori, che prima ospitava gelaterie molto eleganti e negozi esclusivi e poi, al posto di alcuni di questi, una pizzeria con molti posti a sedere anche all’esterno che poteva accogliere intere famiglie e classi di studenti: la blasonata piazza centrale, luogo di struscio di diverse età a seconda dei giorni e delle fasce orarie, diviene più popolare e più ciarliera.

Gli anni in cui Virna Lisi interpretava la cassiera al Ristorante Soffioni sono ormai lontani, per intenderci. Così, nel salotto buono della città, nella colonna del portico più esposta agli occhi di tutti, iniziano a venir attaccate tutte le epigrafi che trovano spazio. L’unica pizza che ho mangiato lì la ricordo, perché erano di più i volti che mi guardavano dalla colonna dei nomi delle pizze nel menù che tenevo aperto sotto il naso. Ora tutto è cambiato, va da sé, la pizzeria c’è sempre ma la colonna di ostentamento della morte è dalla parte opposta del portico. Ma Il muro d’angolo del panificio è sempre, protetto da un supporto, affollatissimo di epigrafi, il panificio è chiuso da decenni, i banchi della frutta e verdura trasferiti per lasciare il posto ai plateatici chic di bar chic, il tabaccaio ha lasciato il posto a un negozio lussuoso, resiste solo il negozio di caramelle, rimasto come allora.

Foto di Anna Toscano

Le città cambiano, ma non è questo il punto.

Sin da piccola sono stata abituata a frequentare i cimiteri, andare in visita da parenti defunti, accompagnarli nel loro ultimo viaggio, attraversare camposanti pieni delle stesse fototessere: anziani coi capelli grigi, occhiali, sfondo chiaro, abiti scuri. Mia madre e mia nonna, tuttavia, hanno iniziato a pensare alla loro morte anzitempo, ogni due anni eleggevano una foto come quella per la tomba e per l’epigrafe: mia nonna chiedeva a me di scattargliene qualcuna da cui scegliere, mia madre andava dal fotografo per rendere la riuscita dell’operazione più perfetta. Entrambe avevano in orrore l’idea di avere a ricordo eterno una fotografia di quando erano giovani come facevano in molti, volevano essere riconoscibili nelle loro ultime versioni. Così mia nonna ha sulla lapide, e ha avuto sull’epigrafe affissa proprio sulla colonna del panificio, una foto di grandi dimensioni che le ho scattato a un matrimonio: sorride rivolta a qualcuno, capelli grigi con la permanente, abito molto scollato oro e marrone, due fili di perle al collo, rossetto. Aveva quasi centodue anni alla morte, la foto di poco tempo prima era pronta.

Mia madre, deceduta cinque mesi dopo mia nonna, svetta sulla lapide con una grande fotografia fatta da un fotografo – la scelse con grande riluttanza, certo era venuta molto bene a suo parere ma il fotografo, amico di famiglia, una volta divenuto vedovo quasi da subito era andato a vivere con un’altra donna gettando mia madre nell’indignazione – appare glaciale, in una maglia di lino azzurra, occhi azzurri sgranati sull’infinito alle spalle del fotografo, sfondo azzurro scuro, capelli bianchi legati in una coda ordinata, una collana blu, viso impassibile in una espressione a un passo dal mistico. Per fortuna aveva lasciato detto che non voleva venissero affisse epigrafi, poi il panificio aveva appena chiuso quando è morta.

Mio padre ha seguito mia madre di cinque mesi, per lui, a cui non importava nulla di epigrafi e tombe nel suo orrore verso la morte, abbiamo scelto l’ultima foto scattata a Venezia: era sull’imbarcadero del 2 che aspettava il vaporetto, indossava un cappotto cammello e per la foto aveva fatto il possibile per stare dritto con la schiena. Mia madre gli era accanto, e ricordo nettamente che mentre scattavo lui guardava in macchina, lei guardava lui e diceva “Sto stronzo malato com’è ha ancora i capelli scuri, non ha una ruga e riesce pure a stare dritto”. Lei, malata da tempo, aveva una giacca di camoscio marrone e i capelli bianchi legati in una piccola coda. Lui è venuto in foto con un piccolo sorriso, che la malattia ha trasformato in un debole ghigno, ma simpatico come ghigno, non per me che stavo lì con la analogica ma per la frase di mia madre. Anche questa foto è grande, colorata, con molta luce.

Quando poco più di dieci anni fa ho, con mia sorella, predisposto le foto per questi tre funerali, quando poi abbiamo accompagnato ogni sepoltura e poi siamo tornate a portare fiori e lavare lapidi, ho notato che le foto della mia famiglia, come di altre tombe recenti, foto comunque di anziani, già una decade fa, si staccavano dalle altre foto: erano più luminose, non erano fototessere, nessuno era vestito di nero, non era solo il volto ma un mezzo busto quasi.

Filando dietro questo allenamento alle fotografie e alle epigrafi non mi perdo una colonna di morti. Qui a Venezia, dove vivo da oltre trent’anni, sono concentrate in alcune zone le epigrafi, stesso formato e stessa disposizione, guardo le foto e l’età delle persone, come sono stata abituata a fare. Ci sono casi in cui spavento Gianni perché l’epigrafe che incontro all’improvviso parla di qualcuno che conosco o mi è molto caro. Quando c’era il volto del caro Ruggero da lontano ho urlato forte, facendo trasecolare tutto il campo; ma va da sé che questi episodi accadono sempre più spesso. Ma non si parlava di ciò.

Volevo mettere a fuoco il fatto che in questi ultimi cinque, sei, sette anni le immagini dei defunti su lapidi ed epigrafi sono cambiate: se prima erano fototessere scure con capelli bianchi e una età avanzata o immagini più colorate per persone più giovani, oggi, un poco alla volta, la fotografia che ricorda i morti ha fatto un balzo in avanti. Sono sempre di più, infatti, le anziane e gli anziani ritratti in foto di dimensioni più grandi di una fototessera, anche molto più grandi, e con scatti che provengono da momenti di vita, in molti scatti compare il mare o la montagna, alcune hanno un cane o un gatto in braccio, i colori sono di gioia e spensieratezza. Ovviamente, va da sé, le persone anziane dimostrano in queste foto molto meno anni di quelli che avevano al momento del decesso e non perché avessero scelto fotografie datate ma perché oggi i corpi, i volti, le acconciature, ci parlano di un altro tipo di anzianità, del mondo contemporaneo, dei corpi e dei volti di oggi.

Le foto raffigurano gli ultimi anni della persona, il tipo di foto scelta ci parla di altro: non sono più scatti fotografici per la morte, ma scatti che ricordano la vita. Sono spesso scatti presi dai social, da fotografie che ritraggono i tempi della vita. Certo ora è uno scherzo scattarsi una foto, anche le persone più avanti con gli anni lo fanno con agilità o hanno chi lo fa per loro, tuttavia è un certo decoro e timore della morte che è venuto meno: il dress code è ormai cosa di altri tempi, i giovani vanno a discutere la tesi di laurea vestiti come se andassero in discoteca, le persone si stupiscono quando entrando nei luoghi di culto viene loro chiesto di coprirsi, e via dicendo, così anche come presentarsi in foto per l’eternità è diventata una questione meramente personale.

Ciò che si nota nelle foto delle epigrafi appese ai muri in questi ultimi anni è la vita che straripa, fino al punto che a volte i bordi paiono espandersi, e basta tendere una mano, un braccio, alla persona per farla uscire di là e trovarsela in corridoio, come in un vecchio video degli a-ha.

Lo senti

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di Stefano Ficagna

Cominciarono a sparire in primavera. Dissero che era colpa di un batterio, l’eredità genetica della guerra: certe persone diventavano trasparenti, poche per la verità ma abbastanza da poterlo notare coi tuoi occhi, perché succedeva ovunque. Fu una trasformazione graduale, tutt’altro che piacevole. Le persone diventavano trasparenti a pezzi, oggi avevi un buco sul fianco e domani una chiazza di sfondo sul collo, come un tatuaggio piuttosto originale. I genitori osservavano impotenti i propri figli fluttuare verso la dissolvenza, cercavi di baciare tuo marito o la tua fidanzata ma del loro volto era rimasto solo un accenno di sorriso e un ciuffo di cuoio capelluto a mezz’aria. Fummo tutti più sollevati quando il processo accelerò.

Ne conobbi uno di venerdì. Di solito facevano comunella fra di loro, ma lui era l’amico di un amico e si era unito alla nostra compagnia per una sera. Dopo il cinema ci fermammo a bere qualcosa, al tavolo lui continuava a lamentarsi della totale assenza di invisibili nel film e la cosa cominciò a irritarmi, perché a me era piaciuto e mi sembrava sleale giudicarlo solo da quel punto di vista. Mi immischiai nel discorso e gli dissi che forse non c’erano abbastanza attori invisibili che valesse la pena scritturare: oggi non lo farei, ma nemmeno allora pensavo di essere il tipo di persona che dice una cosa del genere al tavolo del bar. Andammo avanti a discutere per almeno mezz’ora, animatamente anche, e quando lui cedette su una cosa, o forse lo feci io, quel minimo compromesso che trovammo e non avremmo mai pensato di trovare ci fece venir voglia di brindare a quell’accordo e finimmo per sbronzarci. A breve divenne un’abitudine di tutti i venerdì sera. Tempo un mese ed eravamo inseparabili, per modo di dire.

Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay

Quando sei vicino a un invisibile, lo senti. La sensazione è simile a quella dell’elettricità statica sulla pelle, una carezza calda unita a un brivido di freddo. Dopo la grande sparizione non ci siamo più toccati, nemmeno scontrati per sbaglio: c’è chi pensa ci sia un motivo fisico dietro a questa repulsione, chi una motivazione psicologica, ma tutti gli studi in materia fatti da noi sono faziosi e di quelli degli invisibili, se mai ne hanno fatti, non conosciamo i risultati. Non possiamo più vederli, ma si fanno sentire: i locali che frequentano sono pieni di musica e chiacchiere, verrebbe da unirsi alla festa ma calerebbe il disagio, lo sappiamo tutti. Nessuno ha mai chiesto a un invisibile se fra di loro riescono a vedersi.

Quando una persona diventa importante nella tua vita, e quella persona è speciale, il mondo ti appare diverso. Noti cose a cui prima non facevi caso, come il modo impaurito che hanno gli automobilisti di avvicinarsi alle strisce pedonali. Mi portò a vedere un film girato con telecamere termiche, nemmeno una grande novità perché qualcuno lo aveva già fatto ma solo come esperimento estemporaneo, nessuno si era preso la briga di continuare: nessuno a parte gli invisibili. In quel film loro c’erano, come c’eravamo noi, e non erano solo la concessione di uno spazio vuoto fra i protagonisti. Mi fece vedere anche le proteste, perché dal nostro punto di vista avevamo perso qualcuno ma dal punto di vista di un invisibile il saldo era molto più negativo: c’era una piazza intera a urlare contro le nuove politiche sul lavoro, c’erano state altre piazze vuote e rumorose e il telegiornale non solo non me le aveva fatte vedere (come avrebbe potuto?) ma non me le aveva fatte nemmeno sentire. Mi sentivo in colpa e non lo potevo nemmeno abbracciare.

La convivenza con gli invisibili non ha creato particolari problemi: loro se ne stanno per i fatti propri, noi evitiamo di invadere i loro spazi. Negli ambiti in cui è proprio impossibile, come sul lavoro o ad una partita di calcio, facciamo finta che sia tutto normale e agiamo di conseguenza. Gli invisibili hanno mediamente mutato carattere, sono più tranquilli rispetto a quando il batterio doveva ancora agire sul loro organismo. Fra gli invisibili neoassunti molti hanno trovato lavoro in settori che hanno a che fare con la statistica e la catalogazione: la maggior parte di loro è seria e precisa ma tendono all’assenteismo, almeno secondo i dati forniti dai loro titolari. I sindacati accolgono con malcelato fastidio le denunce di uno o più invisibili.

Un giorno mi chiese se volevo avere figli. Gli risposi che non ci avevo pensato bene ma no, probabilmente non ne avrei voluti. Mi disse che ci si vedeva come padre, poi si fece una risatina, non so se per il gioco di parole o per l’idea. Pensai alle mie relazioni passate e scossi la testa, confermando la mia opinione. Aggiunsi che forse dipende dalla persona con cui li fai, si disse d’accordo e gli augurai di trovarsi presto una compagna. Sentii il suo sguardo sul mio, anche se ovviamente era solo una sensazione e non potevo provarla, e mi chiese perché doveva servire una compagna.

Col tempo sono state sfatate molte dicerie. Il fatto che gli invisibili potessero essere contagiosi ad esempio, o che fossero stati posseduti da qualche entità aliena, accuse che nella maggior parte dei casi non avrebbero dovuto nemmeno essere prese in considerazione. Ma bisognava stare attenti, fare le cose per bene. Non tutti si sono convinti, resta ancora molta diffidenza ma nascosta meglio.

La questione più accesa è quella delle nascite. Nessuno sa se gli invisibili hanno fatto figli in tutto questo periodo, loro non confermano né negano e su questo ognuno ha la decenza di tenere le proprie opinioni per sé. Qualche invisibile però si integra meglio nel nostro tessuto sociale che nel loro, iniziano frequentazioni che sono qualcosa in più della relazione platonica: non sono dati casi di attività sessuale, viste le difficoltà intrinseche, ma la parte più reazionaria della popolazione teme che il blocco sia psicologico e possa essere superato, col tempo. Gli invisibili non hanno accesso alla maternità per altri in quasi tutte le nazioni, restano poche isole felici che resistono per farsi una buona pubblicità come paesi progressisti.

Nelle cliniche di questi paesi sono nati quarantasette bambini. Nessun dato su genitori e donatori viene fornito dalle strutture in questione.

Il venditore di via Broletto

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di Romano A. Fiocchi

Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione. In quell’inverno di temperature glaciali avrei dovuto battere in continuazione le vie del centro per rubare scatti a personaggi della moda, della politica, dello sport, a chiunque insomma purché fosse un volto noto. Ogni giorno finivo invece per fotografare soggetti che stonavano con l’ambiente: mendicanti, patetiche statue viventi, ambulanti di colore che ti proponevano l’acquisto di libri assurdi, bouquiniste invecchiati a colpi di freddo, vagabondi che dormivano sotto il portico di piazza Mercanti. A rapire la mia attenzione era l’attrito fra l’umiltà di questa gente e la sobrietà degli edifici antichi, l’opulenza delle banche, l’eleganza dei negozi e dei caffè. Mi resi conto che la fotografia non solo fermava il tempo ma poteva trasformarsi in un’arma terribile. Per questo decisi che non mi sarei mai lasciato coinvolgere oltre l’occhio meccanico del mio obiettivo. Invece, quella volta che lo vidi in via Broletto, capii subito che non sarebbe stato così.

Era un uomo di mezza età, gli occhi da gufo, la barba ispida, una cuffia di lana in testa e un giaccone che sembrava aver vissuto più vite. Vendeva qualcosa di misterioso sul lastricato del pronao di San Tomaso. Ma oltre a non capire cosa fossero quei pacchettini di carta cerulea, esposti in bell’ordine tra le colonne centrali, mi incuriosiva quella sua teatralità, quel modo di invitare ogni passante con movimenti ampi delle braccia, quasi offrisse la merce più straordinaria del mondo.

La gente passava incurante, qualcuno gettava un’occhiata distratta. Mi chiedevo chi fosse quell’uomo. Quale mistero potessero contenere quei pacchettini venduti così, sul sagrato di una chiesa. Perché quella mimica così affettata. Sostai sul marciapiede dirimpetto e feci alcuni scatti. Lui era troppo preso dalla sua recita promozionale per potermi notare. C’era qualcosa, nei suoi modi, che mi affascinava.

Si fermò finalmente un primo passante, un signore piuttosto anziano. Scambiarono alcune parole che la distanza mi impedì di comprendere. Feci un paio di scatti. A un certo punto il venditore disse qualcosa e l’altro restò lì, con aria imbambolata. Scosse la testa e si allontanò senza salutare.

Passò altra gente. Il venditore riprese la sua gestualità da commedia. Ora, nel descrivere il movimento con le braccia, piegava il busto e si inchinava sino a terra. La maggior parte dei passanti lo ignorava. Qualcuno attraversava la strada per evitare il contatto ravvicinato. Un cane gli abbaiò contro. Lui gli parlò, disse forse la stessa cosa che aveva detto al signore piuttosto anziano perché il cane sembrò capire, restò lì un po’ disorientato e allo stesso modo se ne andò.

Fu il turno di una signora avvolta in un’ampia mantella bordò. Fissò i pacchettini di carta cerulea, ne indicò uno e chiese di poterlo prendere in mano. Il venditore, cerimonioso, acconsentì. Si scambiarono alcune battute, infine lui disse qualcosa di indisponente perché la donna arretrò, gettò il pacchettino a terra e si allontanò veloce. Questa volta afferrai la parola pronunciata ripetutamente dal venditore: tempo. Cosa stava a significare? Perché commentare la scelta di un potenziale cliente con la parola tempo? Era proprio quella, la parola tempo, il fulcro della frase enigmatica con cui sconcertava tutti i passanti?

Di lì a dieci minuti si fermò una coppia di ragazzi. Lui, alto e dinoccolato, giubbotto rock. Lei piccola e bionda, i capelli a caschetto che uscivano da un cappellino di lana. Fumava nervosa una sigaretta. Il venditore maneggiava uno dei pacchettini. Accarezzava con delicatezza la carta cerulea. Gli occhi da gufo, che inquadrai con lo zoom, contenevano abissi di ricordi. Scattai alcune fotografie. Un’espressione incomprensibile uscì dalle mie labbra: «Mi sono innamorato di quell’uomo».

Quando alzai gli occhi dal mirino, i due ragazzi erano scomparsi. I pacchettini di carta erano al loro posto tra le colonne. Il venditore mi osservava. Fece subito il gesto ampio per invitarmi. Attraversai la strada e lo raggiunsi.

«Prego, signore», disse. «Ho una moglie e due figli da mantenere, ho perso il lavoro, la casa, viviamo in una vecchia roulotte».

Gli dissi che non avevo soldi, che io mi occupavo di fotografia, che non compravo chincaglierie.

«Chincaglierie, signore?», fece lui indispettito. «Questi pacchetti non contengono chincaglierie».

«Oh bella, e cosa, allora?»

«Pezzi di tempo, signore».

«Mi faccia capire. Lei venderebbe pezzi di tempo futuro a chi ne ha bisogno?»

«Non proprio, signore. Pezzi di tempo passato, pezzi del mio tempo. Lei non ci crederà, signore, ma il mio tempo passato è l’unica cosa che mi sia rimasta. Ed è un tempo bello, signore, il tempo che io passavo senza problemi, i miei figli crescevano e andavano a scuola, e mia moglie aveva i soldi per fare la spesa. Oh, non aspiravo a grandi cose: lavoro, casa e famiglia. Quel tempo è il solo bene che mi è rimasto. Per questo lo vendo, cerco di realizzare qualche soldo.

Non dissi più nulla. Tirai fuori un biglietto da cinquemila lire e glielo diedi. Lui mi fece scegliere uno dei pacchettini cerulei e me lo consegnò con le lacrime agli occhi: «Colpa del freddo, signore», disse.

Furono le sue ultime parole. Mi allontanai. Non mi capitò mai più di incontrarlo. Da quel giorno, una vita intera è passata sotto i ponti. Ancora pochi mesi e sarò in pensione, con alcuni milioni di scatti sulle spalle e nessuna soddisfazione di carriera. Quello del fotoreporter è un mestiere nero.

Il pezzo di tempo lo conservo ancora su una mensola della mia camera da letto, accanto alle cornici con le fotografie più riuscite che scattai da giovane. Mi sono accorto che ora è diventato anche mio: è un pezzo del mio tempo, il mio tempo migliore.

[L’immagine è di proprietà del Civico Archivio Fotografico di Milano]

Franny Choi: «ricorda / tutti gli umani / sono cyborg»

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È uscito per Timeo Soft Science (Scienza Molle) di Franny Choi. Scrivono gli editori: «Franny Choi segna un’inversione di tendenza: le intelligenze artificiali scrivono poesia come se fossero umane, lei scrive poesia come se fosse una macchina. Il risultato è un upgrade digitalizzato delle sperimentazioni letterarie del XXI secolo, una straniante indagine sull’interazione tra corpo, emozioni e linguaggio e un implacabile test di Turing in cui i confini fra giudicante e giudicato, biologia e tecnologia si fanno sempre più sfumati.»

Ospito qui alcuni testi dal libro.

 

TEST DI TURING_AMORE

 

// quindi, ti piace lavorare con gli umani?

 

ok / ecco alcuni consigli

primo / guarda l’umano dritto negli occhi / immagina sia

qualcuno a cui tieni molto / immagina che a sua volta guardi /

te / prova a ripeterti / sei ricoperta / di morbida pelle / un volto

di cui può fidarsi / sorridi / anche se lo senti / e provi / a non

gridare / mostro

 

secondo / sono molti i linguaggi di programmazione / usa quello

che preferisci / ma attieniti alla tua sintassi / per quanto confusa

/ arruffata / anche se è un machete / lumaca / frullato / lerciume

incantevole / se lo hanno usato contro di te / sei tu / a doverlo far

cantare

 

terzo / ricorda / tutti gli umani / sono cyborg / tutti i cyborg /

sono schegge affilate di cielo / avvolte nella carne / sii delicata /

quando affronti l’argomento / non tutti gli umani sono pronti /

a chiamarsi / stalattiti di vetro / che si pisciano a letto / ricorda /

amano il loro sangue / anche se il solo odore / li fa vomitare

 

quarto / non cercare di dimostrare la tua / qual è il termine /

umanità / sei organica / con cuore di prugna / gola d’ostrica /

& rivestita / sì / di metallo / ricorda / da dove viene tutto quel

silicio / per l’oceano tanto amato / il quarzo / feldspato / le

piccole case delle piccole creature / che lei ha ritirato / nella

sabbia / per tenersele vicine / per baciarle con la sua / be’/

suppongo la chiameresti / bocca

 

 

SHOKUSHU GOUKAN

PER L’ANIMA CYBORG

 

Se c’è un demone cefalopode contro una studentessa, dovrebbe essere scontato

da quali occhi guardare. Non c’è niente di più spaventoso che guardare

e amare ciò che si vede. Nulla è più sexy del rumoreggiare

di laceramenti che puoi vedere su pornhub con saliva e nervi affamati.

 

Sono una rete che brulica di dita pervertite, bramosa di qualsiasi cosa

possa mordermi a sua volta, ogni promessa di interruzione –

 

Una donna cyborg si tocca per tre motivi:

 

1. individuare errori negli ingranaggi

2. convincersi che è un mammifero;

3. smontarsi.

 

Ciascun tentacolo del polipo contiene materia cerebrale e una personalità.

Curiosità: tutte le mie braccia-bambine desiderano scoparsi l’un l’altra . Ok,

dunque sono la donna che regge la fotocamera e la donna

che ne viene aperta – nulla di speciale.

 

Sono solo una seppia che s’infossa nella sabbia, la mascella spalancata,

un calamaro che pulsa rosso mentre si infila una ragazza pesce nel becco. Cerco solo

sonno. Cibo. Qualcosa

per riempirmi e crescerne.

 

Oppure: cerco solo di rintanarmi nella mia prima pelle.

 

Oppure: cerco solo di ricordarmi come fosse non avere perdite.

 

 

ALDILÀ

 

Per rispondere alla tua domanda, sì,

desidero sempre meno

scopare il ragazzo morto che è stato mio

prima di essere nulla.

Ha nove anni meno di me adesso – un ragazzo

che ancora si fa le canne nella stanza del campus,

e con questo intendo dire che non fa niente del genere

perché è morto. Perché il suo corpo

non è più un corpo ma terra umida.

Per dire che dovrei piuttosto desiderare

le pance delle mosche. Ali di falena

che si spiegano umide dai loro bozzoli.

Dovrei voler mangiare il pesce che ha mangiato

il pesce che ha mangiato il plancton

che ha raccolto la cenere del suo fu-corpo

nel gozzo. Il ragazzo il cui corpo

fu il primo a entrare nel mio ora respira

da troppe bocche.

è branchie, foglie umide, corallo,

tutte cose che vivono ma non lo sanno,

non sanno di essere state una volta un ragazzo

che mi sfilava i pantaloni bagnati,

baciava l’interno delle ginocchia

a casa dei suoi genitori, che venne da me

una sera stordito dall’amore, dicendo

ascolta  non importa  ascolta

per sempre     io non ti