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Pain

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di Maddalena Fingerle

Mi confessa che prega Dio che i piedi non le crescano più, e aspetta e ascolta. Perché?, le chiedo io. Sennò non potrò più danzare, mi dice lei. Io non voglio che smetta di danzare e prego pure io, anche se non ci credo, ma è meglio pregare in due che pregare da soli, le dico. Visualizzato, c’è scritto. Me la immagino mentre visualizza e non risponde. Perché visualizza e non risponde? Forse ha solo visualizzato e non ha letto, è diverso, penso, e le scrivo: visualizzi e leggi o visualizzi e non leggi? Visualizza e non risponde. Le scrivo tutti i giorni: allora, novità? Come stanno i piedi? Lei visualizza, forse legge, forse non legge, sicuramente non mi risponde. Io aspetto, aspetto, controllo: niente, nessuna risposta.

Quarantadue, mi scrive un giorno, dopo qualche mese; prega, aspetta, ascolta e io prego con lei, aspetto con lei, ascolto con lei. Poi però penso: quarantadue di piedi è un’enormità! Soprattutto per una donna. Ma mi piace lo stesso e le scrivo tutti i giorni e le chiedo: ancora uguali? Lei non mi risponde più. Non ci avevo pensato che lei penserà che sono proprio un tipo strano e quindi le scrivo: non sono mica un tipo strano, che so, un feticista, eh.

Ogni mattina, prima del caffè, apro il portatile e vado sul suo sito: la guardo, la studio, chiudo il portatile e vado a fare le prove. Mi dimentico del caffè, lo prendo di corsa, mentre controllo le mail, i messaggi: visualizzato, c’è scritto. Però lei c’è sempre, anche quando visualizza e non risponde, forte e sottile, nella foto che ho scelto come salvaschermo: pare una candela che si scioglie all’incontrario. Sì, perché le candele che si sciolgono vanno in giù, mentre lei va in su. Non è mica facile non passar per pazzi, lo so. Durante le pause, sudato, torno a guardarla: è ancora meravigliosa, meravigliosa come lo era prima del caffè, la mia candela all’incontrario. Va contro natura, capovolge le leggi naturali con una semplicità spiazzante. Vado sulla sua pagina. Controllo i messaggi, nessuna risposta. Per sicurezza guardo le mail, ma so che non ha senso. La sera, quando torno a casa e sento il corpo pesante, mi addormento guardandola in video. Si sfiora l’occhio con il palmo della mano, danza anche da ferma, si vede il fumo della sigaretta, sorride. È scontenta, è sincera, è viva, mi dice. Cerco una lingua con cui esprimermi, le dico, in dormiveglia, i muscoli stanchi dalle prove. Prova con la mia, dice lei, mentre sento gli occhi chiudersi lentamente. In sogno sento la sua mano ossuta e ruvida che mi sfiora l’occhio e le chiedo perché non è mai contenta, mai soddisfatta. Lei non mi risponde neanche in sogno, ma io non mi offendo.

Un giorno le chiedo: Parli Italiano? Non Ancora, mi risponde. Mi risponde! Le dico: sei così leggera, posso danzare con te? Lei mi fa domande, tantissime domande. Mi fa domande! Mi dice: so essere anche pesante. Lo so, rispondo ed è vero che lo so; le chiedo: Parli Italiano? Non Ancora, mi dice lei. Ma non ho fretta, lo imparerà. L’inglese ancora non lo sa. Però ascolta, non parla, resta in silenzio e io la guardo.

Mia moglie è gelosa, è stanca e un po’ se ne fotte. Andiamo a cena e io le racconto di lei, di quando era piccola, mentre origliava i discorsi dei clienti, di uomini e di donne come noi ora, sotto al tavolo. Ascolta. Mentre sua sorella pela le patate e serve ai tavoli. Guardo sotto il tavolo, ma lei non c’è. Fa domande, domande e nessuno risponde. Anche lei serve ai tavoli. Anche lei pela le patate. Non vuole attirare l’attenzione, è silenziosa, anche se danza fin da piccola.

Anche mia moglie è silenziosa, ultimamente, anche se non danza, lei non ha mai danzato. Le racconto che lei salta e saltella sulle cose fin da piccola, danza, sfiora gli oggetti con la fronte. Sui tavoli e i piatti e i prati e i fiori, quei fiori rosa e rossi, dico a mia moglie che alza le sopracciglia. Salta, saltella, danza, ascolta, capisci? Mia moglie non capisce e alza gli occhi al cielo. È di gomma, si piega su sé stessa, lei, è stupenda, si piega e io la guardo, è delicata, dico. Cazzo vuol dire, lei?, urla mia moglie. Lei, la donna, la danzatrice, la coreografa, rispondo. Ma vaffanculo, mi urla mia moglie e gli altri clienti si girano e mi guardano e si vede che pensano: che stronzo, quello lì. Per fortuna non mi rovescia il vino addosso, non mi lancia oggetti, non fa scenate, ma si limita a dire: non ci posso credere. Mia moglie dice che è un’ossessione, la mia, che chiede il divorzio, se continuo così, dice, le dico: stai calma, non esagerare, ci stanno guardando tutti. Lei dice: stai calmo, non esagerare, ti stanno guardando tutti.

Mi fa male la schiena, mi dice un giorno, in un messaggio privato. Mi agito e non ci credo, mi ha scritto, le dico: sei forte. E si vede, credo, anzi no: io lo vedo, che le fa male la schiena, ma non si ferma, non si ferma mai e io tifo per lei. Vola e atterra sulle cose, mentre mia moglie fa le valigie e se ne va. Esagerata, le urlo, stronza, penso perché non risponde nemmeno lei.

Per distrarmi guardo un video. La luce si accende, la musica non parte, lei aspetta. Tiene la posizione, attira l’attenzione. La schiena le fa male, lo so, ma no: non si nota. E la vedo, in quella posizione, come inizia a crescere, cresce e cresce e diventa grandissima ed è piccolissima. Si è trasformato qualcosa. È solida e liquida e arde davanti a me. Le dico: sei stupenda. Mi dice: grazie, anche se non capisce. Le dico: mi ha lasciato, mi dice: mi dispiace e io le dico: restiamo in contatto e lei mi dice: restiamo in contatto. Restiamo in contatto e io le scrivo, la vedo, la guardo. L’ascolto, visualizzo, rispondo. Lei non mi vede, non mi guarda, non mi ascolta, visualizza e non mi risponde.

È calma e nervosa e ha una grande pace dentro di sé, un grande vuoto dentro di sé. Ormai i piedi non ti crescono più, le dico un giorno e lei ride: è vero. Ringrazia, ormai, non prega più Dio. Piedi che ora però le sanguinano e le fanno male. Sono distrutti, usati, logorati, consumati. Ha fame, però, mi dice, è un serpente affamato che striscia, ha fame e sete di cose che non sa e di domande e di limone mischiato con zucchero e gelato. Le preparo zucchero e gelato e so che si ricorda di me. Le piace assottigliarsi, entrare dentro al corpo e al movimento, lo osserva e io con lei. Me lo fa vedere, lo vedi? Muta forma, diventa liquida, pura, profonda. Non pensa, succede. Non pesa, succede. È liquida e scorre nelle strade, si perde negli angoli e inonda tutto. Il limone mischiato con zucchero e gelato è pieno di api che danzano e muoiono e io le lascio lì, godendomi lo spettacolo.

Mi spalmo di lei e le sue ossa sono lucide. È aria, parla di noi, a noi, senza parlare. Non mi senti?, urla mentre cade, perpendicolare, il volto che si sta frantumando a terra, ma non cade. Non si frantuma. Rimane a un millimetro da terra. Le chiedo: Parli Italiano? Non Ancora, mi dice. Non servirà, vedrai, mi dice. La leggo, sullo schermo del portatile, durante la pausa pranzo. È un pezzo di giocattolo che spunta da uno zaino nero a pois, la guerra, la Germania. Non mi vedi? I ricordi. I piedi sulla sedia, la sedia che cade, e non cade, rimane appesa, sospesa nell’aria: è un video. È diventata l’aria che ferma il viso, che ferma i piedi. Apre un nuovo mondo, vediamo diversamente, se la guardiamo. È diventata grande, grandissima e io salto e lei mi prende al volo, la sfioro, un fantasma mi fa cadere a terra. Io salto e lei mi prende al volo, la sfioro, un fantasma mi fa cadere a terra. Io salto e lei mi prende al volo, la sfioro, un fantasma mi fa cadere a terra. Io salto e lei mi prende al volo, la sfioro, un fantasma mi fa cadere a terra. Sfiniti continuiamo mentre lei chiede a sé e chiede a me e cade, cade, cade, non cade, non cadiamo. Dà forma alle cose, voliamo. C’è un muro che ha l’odore del prato, ronzano mosche: lei cade, non cade, cade, oddio cade, non cade. È stupenda, è davvero stupenda. È magra e leggera e nodosa. Mi sento vicino, mi capisce, parla di me, mentre si gira, rigira, si gira, mi guarda. La leggo, sono stanco, gli occhi si chiudono, si riaprono: vive la morte, dà la vita, il corpo che si trasforma, diventa madre, non sono il padre, poi acqua, poi aria e ti annoda la gola, mentre segui il tacco che sale sulla scala, si arrampica e cade, non cade, rimane appeso, è fermo, è in aria, si ferma, è fisso e in movimento e cade, si appoggia. Come riesce a trasformarsi un corpo, però. Non devi far nulla, fa tutto da solo, sussurra lei. Io sono offeso e ferito e adirato perché ha un figlio da un altro e non ci penso, che stronza però.

Mi faccio la doccia, vado a letto, apro il portatile, non va più. Mi ha cancellato, penso, poi capisco che non è così, non va più niente. Non c’è più nessuno. Lei non esiste più e io non dormo più.

Le scrivo lettere, a mano, mi tornano tutte indietro. Ne scrivo una, poi due, poi tre e quattro. Una torna, due tornano, tre tornano e quattro in tutto tornano indietro. Ci riprovo, scrivo la quinta, ci scrivo solo: vuoi danzare con me? La spedisco per raccomandata con ricevuta di ritorno. Aspetto e aspetto e quando mi arriva la cartolina so che ha visualizzato, ma non ricevo risposta. Me la immagino che firma e legge e magari ride di me.

Chiamarla non si può perché il numero non ce l’ho. Chiedo alla mia vecchia insegnante, ma nemmeno lei ce l’ha, chiedo a tutti, tutti quelli che conosco e a quelli che non conosco, per strada, al ristorante. Nessuno lo sa, il suo numero.

Le ho provate tutte e provo anche l’ultima. Scrivo a matita il suo nome e sotto il mio messaggio, arrotolo il foglio e lo infilo nella Corona vuota, lo so che non è elegante, ma è l’unica che ho in casa e se la dovrà far piacere. No, non posso, me ne rendo conto appena lo penso e vado al ristorante sotto casa, compro il vino, il proprietario si vede che pensa che non sono uno tanto a posto, ma non gli do motivo per mutare idea. Prendo un nuovo foglio, scrivo il mio messaggio, mi scolo il vino, anzi no: ci provo, ma è troppo per me. Non sono uno smidollato e mi scolo il vino, ci devo riuscire, faccio fatica. La sciacquo, la metto a scolare, rileggo il messaggio e lo rileggo e lo rileggo ancora, non sono lucido. Faccio fatica, ma alla fine riesco a infilare il messaggio ed esco. Vado verso il fiume ciondolando un po’, con un gesto teatrale e perfettamente controllato nonostante il mio stato di stordimento la lancio all’indietro e penso: spero che mi leggerai. Ma non c’è modo per saperlo e aspetto.

Ricomincio a pregare, anche se non ci credo, e chiedo che mi legga, prego più lei che altri, in verità, anche se so che non può sentirmi, ma lo faccio lo stesso. Realizzo che mi manca vederla nei video e seguire i movimenti del suo corpo, leggere le storie della sua infanzia e scriverle; sapere che visualizzava era rassicurante. Vederla online, sapere che c’era, che esisteva, che si muoveva, ora non so niente di tutto ciò e me la immagino con tantissimo dolore alla schiena, con tantissimo dolore ai piedi.

Lei ora non c’è più, non risponde e io continuo a non dormire. Prego, prima di sdraiarmi, anche il postino: che mi porti la lettera che aspetto. Prego tutti, oramai, sono disperato. Chiudo gli occhi e a mani giunte prego il fiume che porti a lei il mio messaggio. Prego me stesso di smetterla di pregare, ma non lo vedo che è ridicolo? Non funziona, visualizzo perfettamente, ma mi ignoro e continuo a pregarmi.

Non serve a niente stare con gli occhi sgranati, sdraiato in questo letto e così mi alzo, mi vesto ed esco. Cammino pesantemente, di notte; mi trascino per le strade della città, la cerco, tra rumori e rumori e non la trovo. I visi stanchi, annoiati, il rumore dei tacchi e i fiori colorati. I visi tristi alle fermate. È ovunque, invece, lo capisco ora: la sento, la vedo, la trovo. È nei visi stanchi e annoiati della gente, nel rumore dei tacchi e nei fiori colorati, nei visi tristi alle fermate. È qui, con me, come non lo è mai stata prima. La vedo. Corre e la rincorro, la fermo, si schiaccia contro il muro, sono dietro di lei, si schiaccia di nuovo contro il muro, con la faccia, è viva. La tocco, la fermo, la trattengo. Danziamo, tra le urla, le risate, i colpi di tosse. Tre passi indietro, non mi toccare. Indossa un vestito nero con fiori rossi e scappa via, senza far rumore. La tengo con la corda che le stringe la vita, la tiro verso di me, scappa via da me, la tiro verso di me, mollo la corda e scappa via. La rincorro, cade a destra, la raccolgo, cade a sinistra, la raccolgo, si gira, ruota, trema, prendiamo a calci l’acqua finché non siamo stanchi. Le mani tra i capelli, si strofina le mani contro il viso, sale su di me, i piedi nudi, tre passi su di me seduto, si arrampica, i piedi ancora più nudi, il vestito lungo, rosa pallido. I piedi nudi nella neve, come piaceva tanto a sua madre, i piedi nudi sul palco, come piace tanto a me. Gli arti si trasformano, non sono più arti, non ci sono parti, pezzi: è un tutt’uno che scivola e ruota e vola, nuota, piove e ci mescoliamo, giriamo come trottole, l’acqua sul vestito che è appiccicato alla pelle e fa parte di noi, salta. Viaggiamo all’interno dell’uomo e scappiamo via. Calpestiamo i fiori, questi mille fiori finti, insieme. La prendo con due mani e la lancio in aria, e lei mi urla: chi sei? Sono io, dico io, e la riprendo. È difficile, siamo sinceri, mi dice lei, tu non sei sincero. Io lo sono, dice lei. Ma tu no. Io no, non ci riesco. Chi sei?, mi chiede. Sono io, non piace. Mi chiede: sai chi sei? Le dico: sì, certo che so chi sono. Mi dice: no, sii sincero. Ti vergogni? Sì, dico io, ma penso: forse, non lo so. Siamo noi due, fidati, che cosa provi? Non lo so. Pensaci. Non lo so, urlo, e preferivo guardarla in internet. Paura, dico, alla fine. Perfetto, dice, fammela vedere. Non ci riesco, provaci, non ci riesco, provaci, danzala, non ci riesco, danzala: ci riesco. Sai chi sei? Sì. Hai paura? Sì. Sai chi sei? Sì. Sai chi sei? Sì. Fammi vedere la tua paura, le faccio vedere la mia paura, danzo, mi chiede: sai chi sei? Le dico: no. Fammi vedere che non lo sai. Danza. Danzo. Glielo faccio vedere, che non so chi sono. Mi chiede: di che cosa sei orgoglioso? Mi accascio a terra. Di niente, le dico. Sei stato sincero, mi dice, lo vedi? Sì, lo vedo, le dico. È faticoso?, mi chiede. Sì, lo è, le dico. La odio, penso.

Mi tocca, è diventata terra e mi entra negli occhi. Che fai, piangi?, mi chiede. È normale, mi dice, non ti preoccupare. È che non ci sei più, dico. Che cosa ti muove?, mi chiede. Dove vai?, le chiedo. C’è una forza che porta la fronte a terra e ti fa cadere, le dico, ti ferma un attimo prima, mi dice. Ne senti l’odore, diciamo. È fiducia? Provo troppo, le dico. Viene da dentro?, mi chiede. È nodosa e vive ancora, penso.

Parla italiano, nessun italiano.

Riccardo, ti ricordi…

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(A Porto s’è svolta una importante mostra sull’opera di Riccardo Dalisi. Davide Vargas ci regala il suo affettuosissimo testo presente nel catalogo, e noi lo ringraziamo. G.B.)

di Davide Vargas

Riccardo è nato nella festa dei lavoratori del 1931 ed oggi è seduto con me su una panchina della Floridiana di Napoli sotto un grande tiglio frondoso. Sulle pendici del Vomero. Lui la sente la natura. Poi ci alziamo e facciamo quattro passi, sulla panchina liberata si insediano in un attimo due gatti che si leccano le zampe e rizzano il pelo a dire: è nostra. La villa della duchessa di Florida è un progetto unitario di architettura e giardino, autore Antonio Niccolini agli inizi dell’ottocento, perciò Riccardo viene qui da sempre. Camminiamo lentamente tra le transenne, lungo i viali curvilinei, fiancheggiando pini e palme californiane, cespi di ortensie e felci, yucca e alloro. Il retro dell’edificio nitido e bianco è pieno di sorprese. Uno scalone porta giù fino alla vasca con le tartarughe che si muovono nell’acqua verdastra. E oltre c’è la città, da un estremo all’altro, e il mare con le barche. Tutta qui Napoli, a portata di mano. Ora ci sediamo davanti a questa specie di atlante, l’uomo è stanco e mi sembra di essere partecipe di un momento magico, come quando in un altro tempo un uomo anziano fosse rimasto per un minuto o un secolo seduto su una vecchia sedia di paglia ad osservare un pezzo di terreno, i fili d’erba e i fiori di tarassaco, fino a leggere l’anima del luogo. Perché è così, se solo ci sai fare lo scopri che ogni luogo è una mappa, un canzoniere, un’epopea. Questo ha fatto Riccardo Dalisi con la sua città: la narrazione lunga una vita di visioni, sensazioni, leggende, odori, voci e suoni, energie, violenze e atti d’amore, frasi e silenzi, storie e frontiere, fantasie e spietato realismo. Cose così, una meraviglia. E lo ha fatto attraverso il progetto. Le parole [da ogni grammatica] del progetto. La natura, Napoli, i miti, le maschere della città, la creatività collettiva del popolo e degli scugnizzi, la partecipazione e la controcultura degli anni settanta, questi i temi. Io ho conosciuto da studente prossimo alla laurea il professore Dalisi alla fine degli anni settanta. Quindi mi sono perso le sperimentazioni del Rione Traiano Ma la lunga frequentazione mi ha trasferito l’esperienza complessiva della sua ricerca.

Ti ricordi Riccardo…

Quando Alessandro Mendini su Casabella definì nei primi anni settanta il tuo percorso ideativo “tecnica povera in rivolta”. Il che presuppone un interlocutore e un contro. Nel tuo caso l’interlocutore è un co-autore, di volta in volta un bambino o un vecchio del sottoproletariato, un artigiano o un disoccupato, la vicina del tuo studio sfinita nei sui cento chili o la giovane figlia bella come una ninfa plebea. Il contro è una metodologia specialistica. Ma tu il suo valore non l’hai mai negato, solo che vi hai aggiunto quel tanto di imprevedibilità che risiede nelle origini della cultura e annida nei suoi luoghi marginali. C’è una fotografia che racconta quegli anni: tre quattro ragazzini scugnizzi arrampicati sui ferri di attesa che spuntano dai pilastri di un cantiere senza alcuna protezione di sicurezza. Si dondolano, stanno a gambe divaricate tra le armature che si piegano sotto il peso, camminano e poi siedono come i famosi operai americani, o forse italiani immigrati, in fila a mangiare sulla trave sospesa di un grattacielo in costruzione, con le gambe penzoloni sul vuoto. Ma sono gli stessi scugnizzi festanti, vivaci, allegri, improvvisamente tristi, bambini e bambine, con i quali tu signore con i capelli già grigi compi da sempre e ancora l’incanto di saper parlare. Hai attraversato i margini con l’atteggiamento del rabdomante che con un bastone scrosta la superficie alla ricerca dei SEGNI che il mondo ben organizzato ha seppellito. E li hai reinventati con loro, i bambini. O meglio, sono loro che li hanno inventati, i cavalieri e gli scudieri, i pupazzi, gli angeli e i diavoli, infine le sirene e i matti. Con te.

A Ponticelli c’ero anche io, ai tempi della didattica partecipata…

Uno zampillo della fontana schizza sulla roccia, le tartarughe affiorano a pelo d’acqua e gli occhietti azzurri si fanno più attenti. Questa città ha ancora spazio per occhi stupiti. Ma gli occhi davvero stupiti hanno un che di determinazione, perché in quell’istante stanno scoprendo un segreto. La scoperta a Ponticelli fu che occorreva andare oltre i filamenti di una cultura popolare già contaminata, da mercato della nostalgia per intenderci, e ricercare le tracce di una rara autenticità. Ecco le periferie e a Napoli la periferia è ovunque popolata dei suoi figli migliori, periferici anche essi, da Troisi a Murolo, gente così. Quando un vecchio della Casa del Popolo racconta la stessa storia anche molte volte ha sempre gente in ascolto, e “la narrazione è arte che precede la letteratura, il teatro, l’architettura”, così ci dicevi. Quando un bambino disegna con i pennarelli come se carezzasse i petali di un giglio o taglia lamiere tenerissime con le forbici per poi ribatterle con il martello e infine ricucirle con il filo di ferro, gli stessi bambini scugnizzi che un istante prima si sono rotolati nel cortile come in una scena di Accattone aggrediti dalla propria incontrollata energia e gli stessi vecchi che hanno piegato il capo per la stanchezza come i poveri di Ratcliffe che Faulkner fa riunire nel retrobottega davanti a un architetto inutile [“Non avete denaro. Non avete neanche qualcosa da copiare: come potete sbagliarvi?”], entrambi vecchi e bambini ci stanno portando in un punto originario sottile rarefatto, persino ambiguo, dove c’è ancora un po’ di libertà di espressione. E non a caso viene in mente Faulkner. Non c’è molta differenza tra la Contea di Yoknapatawpha e il Rione Traiano o Ponticelli. La Contea americana non esiste geograficamente ma è un’invenzione letteraria. Perciò i suoi fiumi le sue praterie le sue rocce le sue città sono più vere del reale. Così il Rione Traiano o i cortili di Ponticelli sono esclusivamente una CREAZIONE dello sciamano napoletano. Unica riconoscibile e memorabile.

E dopo…

Tante altre cose. Per esempio…ora passeggiamo per la città verso Calata San Francesco dove c’è lo studio con la vista mozzafiato sul profilo femmineo dell’isola adagiata sulla linea dell’orizzonte come una gran dama sotto la luce perlacea di questo cielo tardo autunnale. Sirena messaggera di amore, provato per ogni cosa che richiedesse un rapporto, persone, donne, bambini, cose. Cominciano le scale che discendono al mare tra tufi dorati punteggiati di capperi, tra gramigne solitarie spuntate tra gli interstizi del basolato e piantine di narcisi dietro le inferriate panciute che racchiudono tutte le finestre. In uno slarghetto una band di giovani con barbe e orecchini e cappelli da cow boy suona il blues di Pino Daniele. Il batterista suona su piatti veri di batteria e su bidoni bidoncini e taniche di plastica. Roba di scarto. Al più un panno poggiato dove si abbatte la bacchetta. Per modulare il suono. Quante volte hai raccolto in terra carte di caramelle per trasformarle poi in abiti argentati, dorati, variopinti ancora intrisi del profumo di cioccolata nei disegni di donnine, i capelli fluenti allungati con il pennello imbevuto di colore in una infinita storia d’innamoramenti. Hai sempre detto che i rifiuti posseggono una “preziosità capovolgente”, che da essi si possono tirar fuori risorse e disponibilità. Ti ho visto raccogliere zollette di terreno in una busta di plastica e pezzetto dopo pezzetto trasformare un muro diruto in un’aiuoletta di gerani che i vicini hanno piantato e poi innaffiato. Così succede, che vengono fuori qualità sociali e umane inaspettate. Poi cosa importa se il muro è rimasto diruto e i fiori non sono mai germogliati. Uno fa queste cose, a Napoli poi, e non ha niente a che fare con gli stereotipi del folclore. Dall’altra parte dell’oceano i due protagonisti di Scarti, un bel libro di Jonathan Miles vivono degli avanzi che trovano tra i rifiuti e lo fanno serenamente. Questo è il punto. Per scelta. Per contestare il meccanismo. Ma qui ha a che fare con il territorio della fiaba dove un mondo migliore è possibile. Proprio quello che sognano i piccoli di Scampia dove si stanno coltivando i semi per un museo dei bambini radunati intorno a una sorta di moderno Pifferaio di Hamelin che non desideri altro che vadano per una propria strada luminosa. Si chiama “Tam Tam Scampia” il progetto. Tu stesso forse non sei vero ma appartieni alla fiaba.

Sì, tante altre cose…

La caffettiera napoletana. La città si prepara alla festa più contraddittoria dell’anno. Tra i palazzi già sono sospesi i fili con le lucine da Mille e una Notte [ma devi guardare tra le ciglia di occhi socchiusi], per strada cominciano ad apparire i guitti sui trampoli, i pulcinella, i Totò, le streghe e i maghi. Praticamente i mille personaggi dei prototipi che hanno fatto impazzire Alessi. Ma si sa, la “napoletana” va oltre l’oggetto, è un processo di un design aperto che non risponde soltanto all’industria ma sa ascoltare le voci degli ultimi. Perciò c’è un’infinità di caffettiere/sculture che a quegli ultimi restituiscono un momento di dignità. Nuova icona di napoletanità, in evanescente dialogo con un Eduardo in bianco e nero seduto su un balcone della città mentre svela i segreti antichi per fare un vero caffè, rigirando tra le mani una caffettiera su cui ha messo un “coppitello” di carta. Sul becco, dice, per non disperdere l’aroma caldo del primo caffè, ripiegato come il cappello di Pulcinella o gli elmi le maschere che inventerai tu. E parla a un Professore. Ci andiamo a Rua Catalana tra gli artigiani che hanno realizzato tutto ciò, tra le botteghe dei vecchi lattonai con gli ingressi incastrati tra graffiti e cianfrusaglie pendenti. E poi sopra le nostre teste lo schieramento dei tuoi lampioni burleschi e irridenti. Imprevedibili, appesi ad una gamba protesa o a uno spillone o a una gigantesca molletta i lumi pendono e ondeggiano con le ruggini, i pezzi mancanti, i fili appesi e forse non si accendono più. E in ogni vetrina c’è un pezzetto di lamiera sbalzata filiforme o ritagliata che ha le sembianze fiabesche di un cavaliere o un Totocchio o una caffettiera animata. È un’eredità lasciata al quartiere. Un esercito di piccioni si dispone in formazione ordinata sui cavi da un palazzo all’altro. All’imbrunire radunati in squadriglie andranno a volteggiare come bandiere nel cielo del porto intriso di mare e palpito di rotte. Come a Nantucket.

E poi dico…

Dico l’Architettura. I segni importanti della città portano la tua firma. Anche la tua firma. Come la Borsa Merci, progetto vincitore di concorso nel 1964, dove il vero pezzo di bravura è lo spazio interno con l’invenzione della scala. Un nastro che sale, poi cammina in piano e infine si arrampica fino in cima con la luce che cola dall’alto, passa nei vuoti delle rampe e disvela le forme della galleria. La scalinata occupa tutta la lunghezza dell’edificio. Ad ogni piano incontri persone con le borse i telefonini e le sigarette elettroniche. E punti di vista. L’architettura l’hai insegnata a schiere di giovani con quel tanto di disincanto necessario per dare alla professione una vocazione. E hai insegnato “l’imprevedibilità” del progetto restituendo anche all’errore una specie di viatico verso l’idea libera. E a “progettare senza pensare”. Agganciandosi cioè alla totalità dell’essere umano, compreso la mente. La Borsa Merci è lontana e l’aria si è raffreddata. Questo girovagare seguendo la trama di temi luoghi e rievocazioni che hanno alimentato la tua ricerca ricevendone in cambio una presa di coscienza rischia di essere un viaggio infinito. La tua creatività è stata ed è inesauribile come gli itinerari di bellezza che la città disvela se solo il viandante abbia occhi per riconoscere. Linee, che le metti insieme e scopri che alla fine hai tracciato il tuo stesso profilo in una sovrapposizione pazientemente costruita. L’aria è pungente ed è meglio rientrare. Le luci nelle finestre sono tutte accese.

Ma una cosa ancora…

Te le ricordi, Riccardo, tutte le vagonate di poesie che ci hai lette? Sui prati di Morosolo dove rimanevamo fermi per qualche minuto davanti alla quercia, ai fili d’erba punteggiati di campanule azzurrine, ai cespugli di forsizia e alla balza di verbena, sotto il cielo di Jimenez che ricadeva fino alle sponde muschiose del lago, rimanevamo lì a cercare una risposta. O una domanda.

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Davide Vargas, 29 ottobre 2018

Il nulla del pedagogismo. Il coraggio di affermarlo chiaramente

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di Giovanni Carosotti

Per introdurre l’importante pubblicazione di Gigi Monello [La Fuffoscuola. Lessico fuori dai denti di un insegnante a fine carriera, Scepsi & Mattana Editori, Cagliari 2019] conviene partire da una citazione di Giulio Ferroni contenuta in questo volumetto, di sorprendente attualità, che anche a me è capitato di citare più volte, pure recentemente, e che ho con soddisfazione ritrovato tra i riferimenti di Monello: «Il linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, tecniche desunte dalle più varie scienze, gerghi massmediatici, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia , formule politico-burocratiche: i termini più diversi assumono nell’argomentazione pedagogica un’aura tecnico-scientifica che spesso copre ed esalta riferimenti in realtà piuttosto semplici e banali. Ecco ad esempio un gran parlare di ottimizzazione dell’apprendimento e un vario schierarsi di funzioni quali amplificazione, implementazione, distanziamento, globalizzazione, individualizzazione. A leggere molti testi di questo tipo si ha proprio l’impressione di essere presi nella rete di un’ovvietà che si presenta come complessità».

Il testo di Monello parte proprio da qui, da una volontà dissacrante nei confronti di questa neolingua, di chiaro sapore orwelliano, che ormai domina in modo incontrastato tra i tecnici del MIUR, indipendentemente dal colore dei governi che in questi anni si sono succeduti, e che viene imposta con violenza normativa alle scuole, in modo così pervasivo da essere stata interiorizzata, per stanchezza o arrendevolezza, da molti docenti (usiamo il termine violenza perché tali documenti, avendo la pretesa di fondarsi su presupposti scientifici non discutibili, si impongono quali necessità epocali, senza confrontarsi con l’autorevole letteratura critica e i dati falsificanti). Mostrare con raro senso dell’umorismo che il «re è nudo», che dietro tale linguaggio c’è solo cialtroneria concettuale e aberrazione linguistica, è l’intento di Monello. Il quale, e vedremo perché è bene tenerlo presente, ha al suo attivo alcune interessantissime pubblicazioni di ordine storico di grande profondità analitica e filologica, che meriterebbero ben altra diffusione [Accadde a Famagosta. L’assedio di una fortezza veneziana, Cagliari 2006; Il principe e il suo sicario, come Cesare Borgia tolse dal mondo Astore Manfredi, Cagliari 2007; e, di carattere letterario, La luce nel fosso, tre racconti su Leopardi e Napoli Cagliari 2014]. Per non parlare di alcune attività di approfondimento didattico con i suoi studenti, di argomento meritevolmente disciplinare, a testimonianza di come, per coinvolgere gli alunni, non sia necessario mascherare i contenuti disciplinari con apparenze falsamente attualizzanti e strategie ludico-distraenti.

Tale precisazione sul carattere erudito delle conoscenze di Monello è essenziale. Innanzitutto per interpretare in modo adeguato il titolo, La Fuffoscuola, che potrebbe suonare come una boutade, uno sguardo sì ironico sul linguaggio diffuso presso il MIUR, ma sostanzialmente pregiudiziale. L’espressione intende invece denunciare, in modo rigoroso, il carattere di pseudoscienza dell’impostazione teorica che, da Luigi Berlinguer in avanti, è stata fondamento di tutta la politica riformatrice verso la scuola. E che pseudoscienza resta, nonostante la continuità con cui è stata perseguita e il sostanziale accordo tra tutte le forze politiche nel volerla realizzare. L’inizio del testo è fulminante, mostrando l’uso improprio di metafore utilizzato dai fautori della cosiddetta «didattica inclusiva», nella volontà di corroborare il carattere innovativo della loro azione (“canotti”, “salvagenti” e “trampolini”, con questi ultimi che nulla c’entrano con l’accostamento «nuotare»-«apprendere» che si vorrebbe sostenere). Una tale argomentazione viene subito definita quale «stronzata», nel senso però dell’importante saggio di Harry Franfurt (Bullshit), pubblicato nel 1986: «la stronzata, a differenza della menzogna, è un comportamento linguistico che non si pone tanto in rapporto con la verità, quanto con l’affettività; risponde cioè al bisogno, vivo in chi la profferisce, di stupire e venire ammirato». Un termine utilizzato dunque non nella sua valenza quotidiana, il che avrebbe portato a un atteggiamento di carattere moralistico, ma in senso «analitico», come l’Autore ci tiene a precisare. In questo senso anche l’espressione «fuffa» va intesa in questo pregnante desiderio di approfondimento linguistico. Dopo avere analizzato l’origine del termine, e avere registrato –con le inevitabili variazioni- la sua presenza in diversi dizionari della lingua italiana, Monello così conclude in nota: «Nel vocabolo pare si fondano due sensi: l’inconsistenza/pochezza e la –compensatrice- apparenza complicata/intricata. Insomma, un’apparenza ingannevole di ingarbugli seriosi, che nasconde la paccottiglia sostanziale». Una precisazione di ordine linguistico che diventa anche, nella nostra interpretazione, un chiaro indirizzo politico; gli insegnanti dovranno anche rassegnarsi alla sconfitta, rispetto a una volontà di affermazione di procedure didattiche che si sono loro imposte secondo una logica totalitaria (proprio perché autocelebrantisi senza alcun confronto contraddittorio, nonostante l’autorevole letteratura che ne provava l’inconsistenza, sistematicamente ignorata), ma non devono fare propria questa “paccottiglia”, ovvero devono continuare a denunciarne l’inconsistenza culturale, l’effetto di devastazione culturale che è destinata a produrre (e di cui i documenti più volte citati nel testo ne sono una chiara espressione), già ormai in stato di deciso avanzamento, anche perché appoggiata e diffusa dai media. Gli insegnanti, memori della figura e del prestigio intellettuale che rappresentano, devono comunque produrre una resistenza culturale e, se proprio non possono evitare di scendere a compromessi con tali pseudo pratiche, devono in ogni caso cercare di limitare i danni, di reggere sul piano dei contenuti, nell’interesse autentico dei loro studenti. Di conseguenza, l’atteggiamento ironico-dissacrante scelto dall’autore, al di là della valenza impressionistica che sembrerebbe possedere un termine come «fuffa», rimane l’unico atteggiamento rigoroso per decodificare il senso del linguaggio dei riformatori.

Sulla base di queste premesse, dopo un’introduzione che riporta, con il consueto tono irriverente di Monello, l’origine della degenerazione della scuola, a partire dagli sciagurati provvedimenti di Bassanini e Berlinguer, il testo si struttura nella modalità del Glossario; in venti voci svela la vacuità impressionate e inquietante del lessico proprio della riforma. Un intento, quindi, di decostruzione linguistica, che rinuncia all’idea di proporre all’interlocutore un confronto alla pari, inutile visto che non c’è mai stata risposta da parte del mondo pedagogistico; bensì mostrando il senso del ridicolo, tanto più evidente quanto più la prosa ministeriale si atteggia a linguaggio di pseudo scienza, si prende sul serio e continuamente si auto celebra in nome dell’innovazione.

Alcune voci scelte, proposte in ordine alfabetico, sono di carattere storico (Autonomia, Dirigente scolastico), altre di irrisione con intenti però di riflessione metodologica (Fuffa, Marasma, Onanismo pedagogico), altre ancora riguardano i concetti centrali della pseudo-innovazione, ridicolizzati con un tono ironico ma nello stesso tempo con rigore analitico veramente ammirevoli (Competenza, Griglia, Includere, Progetto, Respingere, Successo formativo, UDA, Viaggio di istruzione); cui aggiungiamo quelle che fanno riferimento a una quotidianità docente sempre più umiliata e sempre più privata del tempo che le occorre per raggiungere gli obiettivi formativi (Quotidianità, Allegro sperpero del tempo).

Ognuna delle voci è preceduta da un breve, esilarante, commento; tutti a mio parere memorabili per la maestria già ricordata, grazie alla quale l’Autore coglie con puntualità quella che potremmo definire una totale mancanza di “buona educazione intellettuale” da parte di chi quei provvedimenti li elabora. Possiamo aggiungere che Monello si prende una giusta vendetta –e la fa prendere a tutti noi docenti- ripagando il nostro interlocutore legislativo con la stessa moneta, ma attraverso una scelta linguistica più efficace, che ne smaschera l’inconsistenza sul piano teorico; ovvero, se i documenti ministeriali sprezzantemente ignorano le critiche giustificate all’impostazione didattica da essi sostenuta, con un tono serioso e pseudoscientifico francamente imbarazzante, Monello non li gratifica prendendoli sul serio, ma ne deride proprio questa ingiustificata presunzione, rivelando l’inconsistenza del falso sapere pedagogico. Meritano a proposito di essere riportati tre brevi esempi (scelti arbitrariamente da chi scrive) che, confidiamo, una volta letti indurranno al desiderio di conoscerli tutti. Per quanto riguarda la voce “Competenza”: «Possente architrave speculativa, nonché primo mistero grandioso della religione dell’Autonomia. Dicesi “mistero”, poiché il concetto è vago, come vaga ha da essere ogni forza divina che si rispetti. Circa la competenza sarà possibile, al massimo, citarla, immaginarla, recitarla, adorarla, genuflettersi, invocarla, benedirla; mai spiegarla: la sminuireste, portandola nell’ambito del definibile. […]». A cui possiamo aggiungere le ultime quattro righe dell’introduzione alla voce “Onanismo pedagogico”: «Nel caso di specie, il pedagogista sceglie –a un dipresso del dermatologo tra le mediche specialità- il più abbordabile, popolare e rotocalcabile tra gli impegni intellettuali possibili, cioè quello di insegnare a insegnare». In ultimo l’introduzione alla voce “Griglia” «Manufatto idolatrico immancabilmente sbucante fuori ogniqualvolta sia necessario assegnare un qualsivoglia punteggio al virgulto – alias alunno. Nato dalla smania quantificatrice della setta dei costrutto-competenzialisti e divenuto oggetto di sacralità circonfuso, la griglia è oggi insostituibile attrezzo del mestiere docente. Ben nota la sua azione: agendo sui centri nervosi, favorisce rilascio di endorfine, procurando stato di benessere psico-fisico e sensazione di controllo sul mondo. Impagabile risorsa, soprattutto in tempo di esami e scrutini, quando forte è l’ansia da irruzione ispettoriale o ricorso genitoriale (“Se tutte le carte sono a posto – usa ripetere lo scaltrissimo presidente – col cavolo che lo vincono il ricorso”)». Ebbene, a queste voci seguono delle analisi  che mantengono lo stesso giusto tono di scherno, ma che sono assolutamente precise nel citare i documenti appropriati, nel fare i corretti riferimenti normativi e bibliografici. Tanto che, a fine lettura, è possibile avere un quadro storico-analitico estremamente rigoroso sulla più che ventennale devastazione culturale a cui è stata soggetto la scuola pubblica italiana. Come dare torto  all’Autore, quando si leggono citazioni come la seguente di Giuseppe Bertagna, una tra le tante riportate nello studio: «proprio perché non sono soltanto sapere e saper fare, ma anche, allo stesso tempo, emozione, sentimento, volontà, motricità, socialità, espressività, apprezzamento estetico, azione, intuito che accompagnano, in un intreccio personale indistinguibile, tale sapere e saper fare nel risolvere un reale problema dato, si possono solo testimoniare». Dove si notano contemporaneamente –scrive giustamente Monello- sia la vaghezza concettuale sia un «tono mistico e oracolare […] nella prospettiva dell’attesa e dell’avvento» che non merita in effetti un commento se non nel tono della derisione. Aggiungerei che, in questa citazione, però, al di là della vaghezza, si nota anche qualcos’altro di importante, senza comprendere il quale non è possibile capire come tale inconsistenza teoretica abbia finito alla fine per imporsi: ovvero chi ha scritto quelle riflessioni aveva ben chiaro un obiettivo pratico, politico e ideologico insieme, ovvero quello di condurre lo studente non a una comprensione di ampi orizzonti culturali del proprio presente attraverso una conoscenza olistica e attenta dei diversi contributi disciplinari, bensì metterlo in condizioni di «risolvere un reale problema dato», ovvero rispondere operativamente a un compito assegnato, senza che ne comprenda necessariamente il contesto sistemico in cui esso trova giustificazione. Una logica puramente aziendalista, estranea alle finalità di emancipazione intellettuale e civile che dovrebbe avere la scuola pubblica, e che sfrutta banali argomentazioni psicologistiche per produrre soggettività sostanzialmente subordinate (si veda, ad esempio, il recente documento sulle soft skills, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 14 agosto scorso, e che dovrebbe dare origine a un nuovo, evanescente curricolo trasversale).

Al di là dello smascheramento di tale mistificazione linguistica, nel libro di Monello appaiono tutti  gli stereotipi della nuova pedagogia, entrati ormai a far parte del vissuto quotidiano di ogni docente, spesso ormai applicati con rassegnazione, senza più mettere in atto un doveroso lavoro di opposizione critico-intellettuale, che invece la Fuffoscuola ci invita a elaborare. Dal nuovo ruolo dirigenziale-burocratico assunto dai Dirigenti scolastici, all’abuso del termine «educazione», declinato in modo dispersivo in tante settorialità, alla ricerca non della maturazione formativa, bensì dell’«evento show», che non favorisce la concentrazione, ma la dispersione ludica; dal carattere demagogico del nuovo curricolo di ”Educazione Civica”, al falso progressismo con cui viene giustificata la deriva tecnocratica in ambito didattico e la burocrazia sempre più invadente ed inutile che coinvolge il lavoro quotidiano dei docenti.  L’«organico di potenziamento» viene giustamente interpretato nella sua reale funzione ricattatoria verso gli insegnanti. Non mancano nemmeno riflessioni sull’uso ridicolo e ridondante degli anglicismi nella letteratura pedagogistica, né sul modo demagogico in cui viene inseguito l’obiettivo del “successo formativo”, e quello strumentale con cui si burocratizza, con ben altri fini che quelli della reale solidarietà, la didattica inclusiva.

Un testo importante, che speriamo possa di nuovo favorire una presa di coscienza critica dei docenti contro la mediocrità intellettuale di chi si è imposto il compito di cambiare i connotati del loro alto profilo professionale e intellettuale. Di modo che essi sappiano riconquistare gli spazi decisionali che spettano loro negli organi collegiali; opporsi con solidarietà a tutti gli episodi di mobbing con cui si cerca di forzare la libertà di insegnamento ancora garantita dall’articolo 33 della Costituzione, per costringerli ad aderire alle nuove, inefficaci e insensate, (pseudo)innovazioni didattiche; saper reagire con il giusto sdegno quando si trovano di fronte i nuovi formatori (gli «scienziati della didattica», ha avuto l’ardire di definirli un documento ministeriale di qualche tempo fa), in modo da affrontarli a muso duro, e metterli di fronte alla loro ignoranza e inconsistenza, in genere tanto più ampia quanto più viene esposta con arroganza. In nome dell’emancipazione  civile e politica delle nuove generazioni.

 

 

«Quando la Fiat parlava argentino». Storia di operai senza eroi

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di Davide Orecchio

Chiunque conosca la storia dell’Argentina sa che le categorie novecentesche di interpretazione ed esposizione “cartesiana” delle forze sociali e politiche (destra/sinistra, classi, partiti di rappresentanza) sono di difficile applicazione al Paese del Cono Sud. E chiunque nutra passione o interesse per la storia dell’Argentina farebbe bene a leggere il libro di Camillo Robertini, Quando la Fiat parlava argentino. Una fabbrica italiana e i suoi operai nella Buenos Aires dei militari (1964-1980), Le Monnier-Mondadori 2019.

È la storia di una comunità operaia nata attorno alla fabbrica che la Fiat installò a El Palomar, periferia di Buenos Aires, negli anni sessanta del secolo scorso, e che poi abbandonò all’inizio degli anni ottanta. Un ventennio scandito dal tempo politico feroce di due dittature, la seconda (1976-1983) la più cruenta di sempre, e dal tempo industriale dello stabilimento, coi suoi ritmi e mansioni alla catena di montaggio e con le regole di conformazione dell’uomo e dell’operaio Fiat emanate dalla stessa impresa. In mezzo: un gruppo ampio di lavoratori (la fabbrica arrivò a occuparne 4.000), molti di loro immigrati, e moltissimi tanos, ossia italiani o figli di italiani.

Robertini è uno studioso di storia del lavoro, memoria della dittatura e storia dell’America Latina. In questo volume si muove tra fonti tradizionali e originali (archivi istituzionali, archivi Fiat argentini e italiani) e fonti orali, ossia un ampio numero di interviste a ex operai della Fiat Palomar realizzate seguendo le buone pratiche redatte dall’Associazione italiana di storia orale (Aiso).

Eric J. Hobsbawm scriveva che l’America Latina è “un continente fatto apposta per scardinare le verità convenzionalmente accettate”. La ricerca di Robertini sembra confermare pagina dopo pagina la massima del grande storico, che infatti è citata a mo’ di bussola a principio d’opera, già nel secondo paragrafo. La documentazione consultata è perlopiù inedita e, nello spartito dell’autore, mostra quello che potremmo definire un esperimento di costruzione del consenso. La tesi di Robertini è che l’adesione dell’operaio all’ideologia dell’impresa, alla familia Fiat, sedimentò nello stabilimento di El Palomar nel corso degli anni sessanta per poi condizionare la stessa grammatica del rapporto tra la comunità di lavoro e i regimi politici, all’insegna dell’accettazione pressoché passiva (salvo casi minoritari di opposizione) e persino della denegazione (Robertini parla apertamente di “assenza di critica della realtà sociale dell’epoca” da parte degli operai di Palomar). Lo stesso autore osserva come la Fiat sia “stata capace di generare un profondo spirito di comunità che oggi, a più di quarant’anni dalla fine di quella storia, continua a essere […] presente nelle memorie degli ex lavoratori”.

Dalla voce degli operai Fiat di Palomar risulta insomma una “dimensione consensuale, ambigua e apolitica”. Robertini è bravissimo a raccontarcene il clima, a cominciare dall’armamentario ideologico aziendale, predisposto sin dagli anni cinquanta da figure spesso compromesse col fascismo italiano: ex gerarchi e personalità legate al regime, poi espatriate in Argentina. Robertini ricostruisce ad esempio il profilo di Gino Miniati, ex direttore generale del ministero dell’Economia Corporativa, consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni e, dal 1953, integrato nella Delegación Fiat para América Latina. Miniati – spiega Robertini – teorizzava la “collaborazione di classe evitando che segmenti del movimento operaio mettessero in discussione i fondamenti stessi dell’economia di mercato”, e considerava lo sciopero un “delitto”. Secondo Robertini, Miniati fu uno dei teorici del modello Fiat argentino entro una continuità evidente col corporativismo. Il disinnesco della conflittualità era l’obiettivo prioritario, tanto che l’ufficio del personale di Palomar elaborò un ‘piano di persuasione’ per “familiarizzare nella maniera più docile i nuovi assunti al culto dell’impresa, alla sua disciplina e ai suoi funzionamenti”. Gli operai dovevano identificarsi “in un noi/nosotros collettivo, in tutto e per tutto coincidente” col nome della Fiat. Non siamo poi molto distanti dallo “spirito” Fiat e dalle pratiche antisindacali nella Mirafiori degli anni cinquanta.

La storia di fabbrica poi si innesta, collimando, nella più generale storia argentina: il peronismo, il sindacalismo antimarxista e “collaborativo” della Uom di Vandor, la stessa mentalità conservatrice dei tanos, fino alla dittatura dei militari. Fa da contraltare l’assenza di corpi intermedi capaci di costruire una cultura politica e operaia che arginasse tutto ciò. Va detto che questa foto di gruppo è la microstoria di una collettività operaia non politicizzata e del suo rapporto con l’autorità, ma non sarebbe replicabile, ad esempio, per le fabbriche Fiat di Córdoba e Santa Fe, dove la radicalizzazione e l’attrito tra operai e impresa furono ben diversi e portarono a scioperi e mobilitazioni (la più importante: il Cordobazo del 1969) e alla costituzione di sindacati autonomi non governativi.

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«Ah la Fiat, mi tolgo il cappello e difendo a morte quello che rappresentava quella fabbrica, la Fiat Concord mi ha insegnato una dottrina, una essenza del lavoro che all’università non insegnano […] E fondamentalmente a rispettare i miei superiori e la direzione».

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Dopo il golpe del 1976 la repressione dei militari colpirà gli stessi operai e sindacalisti. I desaparecidos alla Fiat furono 118, e 52 di loro non tornarono mai più. Le condizioni di lavoro nella fabbrica, e di vita fuori, divennero oggettivamente più dure. Eppure dalle memorie operaie raccolte nel libro emergono tuttora casi di “consenso nei confronti della dittatura”. Spiega Robertini: “L’immagine che emerge da questa ricerca è quella di un settore operaio compattamente anticomunista, lontano dalle istanze rivoluzionarie e propenso all’idea che l’intervento dei militari potesse risolvere i problemi dell’Argentina”.

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R.: «E come potevate vivere in quel contesto militare repressivo?».
E.: «Nell’epoca militare non si parlava di politica… non si poteva, non era prudente. Ma non è che stavamo male, stavamo benone. Io lavoravo otto ore e i soldi erano sufficienti, se facevi gli straordinari era per toglierti qualche gusto, per vivere meglio […] nell’epoca del 1976-1983 ho vissuto meglio che negli ultimi anni. Questo non significa che ho appoggiato, perché quelli hanno fatto cose cattive».

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Quando la Fiat parlava argentino aggiunge un capitolo nuovo agli studi sul rapporto tra società e dittatura, e costringe a fare i conti con una storia non riducibile all’immaginario tradizionale che spesso coltiviamo guardando a quegli anni.

La stirpe errante. Appunti provvisori sul Gries di Davide Brullo

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di Davide Nota

 

 

 

Un albero nudo nodoso in un paesaggio di neve. Il colore è bianco. Sul suo tronco sono incisi minuscoli enigmi, segni, un inventario di nomi, di eventi che accaddero, da decifrare, o forse che dovranno ripetersi. La sua forma frondosa si rivela a volte nelle fattezze di un cavallo, altre volte è lo spettro di una donna, forse la cattiva madre di Segantini, oppure è Dafne, di fronte al casolare dei due vecchi sposi di cui cantò Ezra Pound in “The tree” (Personae, 1909). È ora di fare i conti con lʼopera di Davide Brullo.

Si tratta effettivamente di un albero specchiato dalla superficie terrestre dove le radici sepolte sono estese quanto l’arcipelago dei rami esposti esplosi. Dal sole al nucleo del mondo questo albero si estende in una doppia preghiera.

“Forse del suo talento, che è una genialità oltre ogni rango, non se ne scrive come meriterebbe.”. Parole di Veronica Tomassini, scrittrice, su “Il fatto quotidiano” del 5 maggio 2019. Davide Brullo, scrittore, poeta, traduttore di testi sacri, articolista febbrile e indomabile, agitatore di lettere e fondatore di mondi (il portale “Pangea”, che nutre da due anni la comunità poetica di testi, inviti al viaggio e folgorazioni è una sua creazione) sconta da anni la maledizione della non appartenenza.

La diffidenza nei confronti della sua solitudine è ideologica. Pertanto va rifiutata. Nella faida di posizionamento le pietre deposte vengono calpestate o perdute tra le foglie del bosco notturno d’Italia dove si interrano inaudite. Ma questa faida non ci riguarda, quanto ci riguardano piuttosto le pietre.

Gries è il suo nuovo libro, di poesia, un apice di bravura e visione estetica pubblicato da Aragno da poche settimane. Leggiamolo, questo ultimo erede di una stirpe mitologemica incompatibile con il dominio attuale dell’ironico: “del cavallo amo la missione e il morire senza mostrarlo”; “i cavalli sono più avidi di una città / – con le loro ossa dovremmo costruire la casa dei figli / per promuovere una stirpe errante”.

Nei momenti di putrefazione storica tutti gli immaginari si dissolvono nell’humus. La verità si mescola a se stessa, come acqua nellʼacqua. Da questo magma di apocalisse e palingenesi, dove gli archetipi e gli opposti si attraversano, germogliano ingiudicate le nuove creature. Così sorge lʼalba, faticosamente: “Alba, quanto fatichi a nascere!” (Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994). Di capitolo in capitolazione il poema di Davide Brullo si è incaricato di tessere il canto di questa veglia.

Si tratta di una veglia carovanica, attraversativa, in cui chi canta di sosta in sosta è in cammino assieme a colui che ascolta eppure entrambi sono soli (è questa solitudine che fonda il sentimento di una fraternità). Gries parla dei millenni che ci attraversano mentre li attraversiamo. La sua velocità è una velocità geologica.

In un appunto social, apparso il 3 novembre 2019, Davide Brullo ha scritto: “Gries è un luogo cittadino, a Bolzano; è un passo, in Val Formazza, nel verbano, a quasi 2500 metri, di astrattezza lunare, di cui tu, camminatore, sei lʼideogramma. Ed è, secondo una etimologia sinistra, il termine gotico, che significa “pietra”, da cui evolve il nome Ingrid. Che un nome sia molteplice, che sia una lapidazione, mi sembra necessario.”.

Il titolo, in lettura, mi ricorda altro. Frugo fra i reperti della libreria in casa. Afferro un titolo da poco deposto dal suo autore: Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (Melville, 2018). Lo sfoglio. In calce, come una seconda sezione del romanzo epistolare, sono riuniti alcuni falsi storici, composti da Brullo ma firmati a nome di vari autori del passato (Ivan Bunin, Saint-John Perse ed altri). Tra questi è un testo di Joseph Gries, un nome a me ignoto. Chiedo in email informazioni a Davide Brullo che mi risponde in questo modo: “tra tutti gli autori simulati nell’appendice allo Pseudo-Paolo (tutte scritture mie), Joseph Gries è il solo a essere stato inventato di sana pianta.”

Il titolo del brano, un breve racconto di natura storico-allegorica, è “L’imperatore”. Il protagonista è Napoleone Bonaparte, nel suo esilio di Sant’Elena, a tu per tu con la disfatta della volontà o dell’io (o della ragione strumentale dell’illuminismo): “È necessario conoscere senza ambiguità i luoghi su cui domineremo, che legheremo con la legge, disse l’Imperatore. Perciò aveva chiesto che classificassero gli alberi dell’isola atlantica, che gli fosse offerta una lista con i nomi delle bestie che la abitavano. Eppure l’isola era ostile, impermeabile alle mappe e alla scienza. Sembra che l’isola produca creature nuove ogni giorno – come sommare gli insetti? […] Finse di non ricordare la capitale deserta, la capitolazione, la neve, ‘come se l’intero universo si sgretolasse sopra di me, cadendomi in grembo’, aveva scritto alla sorella Paolina.”. Leggo questo testo come una legenda supplementare (l’intero libro lo sarebbe, e basterà a chi volesse confrontarli leggerne la premessa: un commentario scritto prima dell’opera il cui tema è la “tradizione” come organismo mutante e fluviale, metamorfico ma fedele).

Da Gries al Gries, dunque. La neve della disfatta storica del 14 dicembre 1812 in Russia diviene un valico montano di ghiacci tra alto Piemonte e Svizzera. Una gola solcata da viandanti millenari alla ricerca di mercati medioevali o di sconfinamenti. Anche Wagner volle attraversarla, era il 1852, per il suo viaggio in Italia. La via del Gries è questo passaggio reale trasfigurato in leggenda, una porta rituale attraverso cui si cristallizzano le lacrime di un lutto in oracoli di neve, alla ricerca di un annuncio fondativo di una vita nuova: “Fu per trovare i nomi che superai il Gries / mio padre era sepolto chilometri a valle”.

Il tema del passaggio, dello sconfinamento tra i ghiacci, crea un cortocircuito di immaginari. Tra lande naturali-culturali (“boschi / profondi come un vocabolario”; si tenga a mente anche il titolo del più recente romanzo Un alfabeto nella neve, Castelvecchi 2018, per comprendere come tutto in questo autore partecipi a un unico multiforme discorso), appaiono insistentemente immagini semantiche evocative di una diaspora o di una migrazione epocale, che tutto pervade nel segno della metamorfosi.

I due livelli di percezione, la storia in atto e quella tramandata dagli annali biblici (Annali è il titolo del primo libro di poesia di Brullo, del 2004), si sovrappongono mentre la decontestualizzazione paesaggistica, la montagna innevata alpina in vece del deserto del Sinai o del mare mediterraneo non risolve l’ambiguità; la condensa, piuttosto, in un enigma rupestre da interrogare, dove la migrazione è psichica, erranza non specifica relativa a un flusso storico determinato ma spirito che disordina il mondo nel gioco di dadi di Dioniso ininterrotto: “Ancora dibattiamo di dèi quando i migratori hanno / scoperto una nuova foresta nel vento e vene tra le nuvole / e deviano l’Africa verso una litania di iceberg”; “ancora una volta il fiume espatria senza esperienza”; “il tuo volto è una migrazione”; “anche / i verbi migrano e la lucertola è esatta come / l’ultima parola – perciò come potrai capirmi?”.

La storia ribolle incandescente mentre i ghiacci servono a sostare. La voce di Brullo è una voce postuma. Ma i suoi occhi sono aperti, il cuore palpita e il Gries non è un rifugio: “tu cerchi il rifugio – io la fuga”. Qualcosa dovrà nascere dalla laguna delle decomposizioni. Sulle sue rive una lucertola scappa. La fuggitiva è l’ultima parola.

 

Il rumore del fuoco che brucia il mondo

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di Dario Valentini

“Ti prego abbassa quella musica del diavolo!” Disse lei tirando le coperte dalla sua parte.
“Non riesco a dormire senza. Lo sai.” Rispose lui artigliando il lenzuolo.
“Lo so, lo so.” Disse lei sbadigliando “È dolce la promessa, incastonata tra la cassa e il rullante. Ma non potresti abbassarla almeno un po’?”
Boscolo abbassò di due tacche il volume dell’Iphone. Non era la stessa cosa, ma cosa non si fa, per le persone che si amano. Lei gli accarezzò il braccio, poi si accoccolò a vicino lui. Affondò il naso dentro la sua guancia. Fruscio di capelli scuri contro capelli chiari. Testata affettuosa di gatto.
“Cosa immagini quando la ascolti?”
“Ogni volta è diverso.” Tagliò corto lui.
“Adesso cosa stai sognando?”
Boscolo soffiò. Buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. Poi scrociò le gambe e le braccia. Si tolse le cuffie e la guardò fissa. Occhi rapaci. Come li chiamava Giulia. E la cosa lo divertiva. Molto. Come altre sue espressioni stereotipate tipo bellezza dolorosa o cuore tormentato. Una volta li aveva chiamati caleidoscopici vetri gotici ed era stato il suo tentativo più audace di impressionarlo, dopo essersi fatta forza con più di uno spritz sotto le luci del concerto dei This Will Destroy You.
“Povera stella…Nice try.”

Boscolo le strinse le braccia fermandosi appena prima di farle male. Aprì la bocca. Nel buio si vedevano solo i suoi denti. Guglie bianche.
“Sogno di bruciare una grande città. Dalle mie mani getti di fiamme sciolgono il metallo degli edifici. Incendiano gli alberi, gli animali e le persone. Mentre le case crollano e le urla riempiono le mie orecchie sorrido. Rido. Sono in preda a un delirio di felicità. Mi immagino di bruciarli tutti, di bruciare tutto.”
Giulia ridacchiò nervosa come succedeva spesso quando le diceva certe cose. Cerco di avvicinargli la fronte al corpo ma lui la tenne inchiodata al materasso. Continuò:
“Nel sogno ho un sogno: Vorrei dare fuoco un giorno non solo alla grande città ma al pianeta stesso. Finché non sarò rimasto solo io. Poi mi rendo conto che sto piangendo. Lacrime di oro semisolido. Colano lungo il mio viso e lungo il mio corpo nudo a formare una strana armatura.” “Sembra proprio una delle vostre canzoni!” Fece lei tentando ancora di allentare la tensione mentre guardava i due grandi uccelli notturni tatuati sul petto di Boscolo. Le ali nere si aprivano verso l’esterno. Uno con le zampe e l’altro con il becco reggevano al centro una chiave antica. Lui la ignorò.
“È un pianto silenzioso, senza singhiozzi. In realtà non c’è nessun suono nel mio sogno. L’unico rumore è quello del fuoco che brucia il mondo” Poi le sorrise. Obliquo imperatore.
A questo punto anche lei lo guardava fisso, e lui lo conosceva quello sguardo: Gli occhi di Giulia erano diventati stiletti di giada. Boscolo sapeva quanto avrebbe desiderato la forza per affondarli nel buio. Colpire il corpo nudo sopra di lei con un fendente e poi un altro e poi un altro ancora. Il suo sangue sarebbe stato come una doccia calda, in inverno. Chissà quante volte aveva giurato che non si sarebbe fermata. Invece, come sempre, parlò.
“Ti amo così tanto, che mi fa male.”
“Che frase banale! non sei certo una poetessa, questo è sicuro.” La schernì lui finché le
sfilava velocemente i vestiti. Le si mise sopra tenendole entrambi i polsi stretti in una morsa. Ogni volta che pugnalava il corpo fragile di lei con il suo, la sentiva tremare. Giulia lo stringeva fino a graffiarlo. Boscolo sapeva che lei teneva gli occhi chiusi, sempre. Anche adesso che li aveva rivolti verso il soffitto. Lui invece, il viso premuto nel cuscino li teneva sbarrati, e sorrideva. Sapeva che le stava facendo male e nel buio, sorrideva. Il suo ghigno era tagliente come un coltello a serramanico completamente aperto. Finirò col tagliarmi la faccia. Voleva scoppiare a ridere. Da quanto era felice. Ma si mordeva l’interno delle guance fino a sanguinare pur di non farlo. Quando finiva, sentiva la presa che si allentava. Le braccia di lei crollavano sconfitte. Subito dopo lo cercavano ancora con le forze che le erano rimaste, le dita si aggrappavano e scivolavano sulle sue costole sudate. Allora le dava un bacio appassionato e poi un un altro sulla fronte. Adesso era lui che serrava gli occhi il più forte possibile. Sperando disperatamente che la notte divorasse il mondo e il giorno non arrivasse mai. Sognava di poter rimanere così per sempre, se non li avesse aperti forse il tempo non si sarebbe accorto di loro e non sarebbe mai andato avanti. Appoggiava il cranio a quello di Giulia. Potevano due teschi fondersi in osso unico?

Una volta Boscolo si era chiesto se fosse mai passato un mese in cui non avesse scopato qualcun’altra. Quando lo faceva a volte pensava a Giulia. A volte no. In ogni caso si vedeva sempre da fuori. Non che gli interessasse un granché farlo con altre. La cosa che gli piaceva davvero era tornare da lei e comportarsi come se niente fosse. Il cuore gli si riempiva, si gonfiava fino a straripare di quella violenza segreta.
“L’ho fottuta ancora.” Pensava “Quest’idiota non capirebbe che vado con altre nemmeno se lo facessi davanti a lei.”
A volte, al solo pensiero scoppiava a ridere. Da solo. Guardandosi allo specchio nel bagno di casa o per le strade di Venezia. Rideva a lungo, sguaiatamente. Tenendosi la pancia e poi la bocca. Solamente fingendo di volersi trattenere. Una volta una vecchia ebrea alle fondamenta aveva intercettato il suo sguardo e al vederlo così allegro era venuto da ridere anche a lei. Lui le aveva lanciato un bacio con la mano. Si era piegato in un inchino ridendo ancora più forte.
Giulia sospettava magari. Forse una donna lo sa quando qualcosa non va. Ma non aveva mai chiesto niente, si limitava a guardarlo con quei suoi occhi fottutamente enormi che gridavano: “Ti prego!”
E lui, con il silenzio assordante delle sue azioni, rispondeva sempre, ogni singola volta, la stessa cosa che risponde Dio, quando qualcuno lo prega.
Le opinioni della band in merito differivano: Frison inarcava le sopracciglia tutte le volte che la situazione saltava fuori, poi gli faceva quel sorriso un po’ triste. Lo stesso che gli rivolgeva tutte le volte che ascoltavano gli ultimi tre minuti di Sunbather.
Ballerini alzava le spalle. Si accendeva una Lucky Strike e gli faceva un lento, languido applauso guardando da un’altra parte.
Rampino stringeva gli occhi in una fessura come per mettere a fuoco meglio il fatto. Poi procedeva a scaccolarsi con particolare dedizione.

Era iniziato tutto quel giorno d’autunno: Boscolo si era sorpreso a pensare quanto Giulia Guerrini fosse bella. Stavano insieme già da un bel po’. Era dopo le prime occhiate alla biennale, gli spritz e i baci rapiti in campo Santa Margherita o al Giardino Degli Eremitani. Dopo il cinema all’aperto e le passeggiate notturne. Boscolo sproloquiava spesso con le donne dei suoi amati e oscuri film giapponesi. Ma una sera mentre le raccontava una scena di l’Uovo Dell’Angelo lei l’aveva guardato con un sorriso malinconico. E lui aveva capito che il sortilegio aveva funzionato. Erano iniziati i lunghi pomeriggi in cui lui ascoltava “quei suoi dischi strani” mentre lei leggeva Celine e lo spiava dal bordo del Voyage. Ma fu solo quel giorno d’autunno che per la prima volta, desiderò che fosse sua. La guardò ed ebbe paura. Sembrava una bambina: il viso rotondo, le sopracciglia folte, il sorriso pieno di stupore per ogni cazzata. Era piccola, le mani un po’ tozze e sempre tiepide. Le braccia magre ma quando lo stringevano, lo stringevano così forte che a volte si chiedeva se l’avrebbero mai lasciato andare. Boscolo capì di essere nato tra quelle braccia, e desiderò fracassarle.

Giulia era una ragazza curiosa, svelta di testa. Aveva una certa grazia persino quando bestemmiava. Veniva da una famiglia di grossi industriali di Padova e aveva un sacco di soldi a cui non era per niente attaccata. Tanto che o si muoveva in bici o con una vecchia Fiat. Aveva dei peletti chiari sugli avambracci che si rifiutava di farsi. Forse in un afflato di femminismo. Era così buffa! Il suo odore era per lui, dopo tanti anni. Odore di casa. La verità è che lo era sempre stato, dal primo momento in cui l’aveva sentito. Forse da prima ancora, si era sorpreso a pensare una volta. Che idea idiota, sembrava proprio una delle cazzate che avrebbe potuto dire lei.

“Come sta andando con il disco?”
“Non male.” Rispose lui infilandosi una cucchiaiata di latte e cereali in bocca “Abbiamo quasi finito di scriverlo, siamo a buon punto con le pre-produzioni.”
“Sei soddisfatto?”
“Abbastanza, magari mi sbaglio, ma penso stia venendo qualcosa di veramente speciale.”
“Cavolo! È la prima volta che ti sento così.”
“Non ti ci abituare.”
Lei rise finché spalmava ricotta e marmellata su una fetta di un pane.
Lui le scoccò un’occhiata “Be careful what you wish for!” Canticchiò.
La domenica erano sempre a casa da soli per fortuna. Odiava il modo in cui suo padre la guardava. Allora si svegliavano tardi e si muovevano a piedi nudi sul parquet chiaro di quella grande casa vuota.
“Non mi dire che riesci a sopportare anche gli altri.”
“A malapena.” Rise lui “Frison sì, lui si fida ciecamente di me. Ballerini e Rampino meno, ma è solo questione di essere tenace, poi sono bravi, fanno il loro lavoro. Non vedo l’ora di registrarlo e poi…”
“Andare in tour?”
“Finalmente! Stiamo sentendo qualche etichetta, tu incrocia le dita!” Le fece l’occhiolino.
“Lo sai che le incrocio sempre per te. E prego.”
“Non perdere il tuo tempo a pregare per me.”
“Male non farà no?”
Lui la guardò di sbieco. Aveva dei pantaloncini corti e una maglietta dei Lantern che gli aveva preso come regalo a un concerto a cui l’aveva trascinata. Peccato fosse troppo piccola. La usava lei per dormirci. Non sapeva se gli piaceva di più vestita così o nuda.
Lei rimase un secondo in silenzio. E fece un gran respiro. Boscolo si stravaccò ulteriormente sulla sedia, squadrandola divertito come un monarca che lasci in sospeso la sentenza. Ma in realtà dentro di sé sentiva il fischio delle catapulte nemiche che lanciavano palle di fuoco. Erano vicine.
Giulia si fece forza, sorrise e cercò di assumere un tono scherzoso.
“Scommetto che non ci sarà nemmeno una canzone per me nel disco!” Ridacchiò.
Boscolo capì che non aveva più voglia di fare colazione. E forse neanche lui.
“Infatti non c’è.” Mentì.

Rischio d’assenza

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di Corrado Aiello

Rischio l’enfasi
La porosità impervia del reale
La calma e la chiarezza di uno sguardo
Che non cede

Rischio l’attimo
La rapsodia onirica del se
La differenza al netto delle cose
Che vaniscono

Rischio il male
E il benessere vago del viaggiare
Il gesto noncurante del maestro
Che ripete

Elena Ferrante e il potere dello storytelling nell’età della globalizzazione

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Esce oggi, per Europa editions (New York, traduzione a cura di Will Schutt), il volume Elena Ferrante’s Keywords di Tiziana de Rogatis. Al libro è stato aggiunto il capitolo inedito “Conclusioni”, che apparirà oggi in anteprima sul blog americano Public Books: un capitolo finale inedito rispetto a Elena Ferrante. Parole, uscito in Italia nel 2018, di cui pubblichiamo qui un estratto, e che situa la forma letteraria e l’immaginario della quadrilogia della Ferrante all’interno del global novel contemporaneo.

di Tiziana de Rogatis 

 

1.Lo storytelling e il realismo del sottosuolo
 
Alla fine di questo lungo percorso nel labirinto della scrittura di Ferrante, vorrei riassumere il senso complessivo del mio discorso tornando alle parole con cui nel primo capitolo ho cominciato questo libro. Non appartengono a me, ma ad uno dei grandi scrittori della nostra contemporaneità: Jonathan Franzen. Vorrei ripensare le sue parole di stima e riconoscimento verso l’opera di Ferrante, espresse nel documentario Ferrante Fever, accostandole ad una emozione da cui lo scrittore è travolto ad un certo punto nel filmato. Durante la sua intervista, infatti, Franzen si commuove rievocando una scena dell’Amica geniale che lui definisce «one of my favorite moments in any novel in the longest time, one of my top twenty moments ever». È il momento in cui Lila, contemplando il suo abito da sposa la mattina prima del matrimonio e intravedendo dunque il suo imminente destino di moglie infelice, esorta Elena a studiare, a essere la migliore di tutti, perché è lei l’«amica geniale». È a questo punto che la voce di Franzen si incrina e il suo volto perde per alcuni istanti la precedente compostezza, perché rivive l’emozione lungamente sperimentata nel corso della sua lettura privata («the first moment I cried reading these books») per questo rovesciamento imprevisto del titolo: non sarebbe Lila l’amica geniale ma Elena e questo, secondo Franzen, «hits us as it hits her». Attraverso la sua commozione, lo scrittore comunica allo spettatore il potere al tempo stesso emotivo e concettuale dello storytelling dell’Amica geniale, un potere che secondo Ferrante «non è molto distante dal potere politico»: «il potere di organizzare il reale secondo una nostra impronta» (fer1). È a questo punto del documentario che ciascuno di noi rientra in contatto con la forza del racconto nella quadrilogia: quella capacità al tempo stesso geniale e popolare – come ho spiegato nel primo capitolo – di rappresentare un mondo corale di personaggi, relazioni e classi sociali. L’intensità di questa rappresentazione è tale da spingere più di dieci milioni di lettori non solo a commuoversi per le vite di quei personaggi, appunto, e a divorare quell’ipotesi di mondo, ad abitarlo come se fosse reale, ma anche a ricavare da esso un sistema di valori e di pratiche esistenziali, un codice per interpretare l’oggi. Ma il realismo di Ferrante è solo questa capacità immediata di empatia? È solo una scrittura che cattura il lettore in una ragnatela emotiva e in un’illusione di trasparenza, di assoluta verosimiglianza dell’universo raccontato? Secondo me, no. È anche questo, ma non solo questo. La forza del realismo di Ferrante è duplice, perché è al tempo stesso verosimile e sperimentale. Questo realismo dicotomico mette in scena contemporaneamente la solidità di un universo corale e la sua disgregazione interna, generando così nel lettore sia l’immedesimazione empatica in quel mondo sia il disorientamento nel labirinto di quel mondo. È un realismo del sottosuolo: una scrittura che parte da «ciò che per nostra tranquillità abbiamo costretto dentro una divisa dell’ordinario» (inv 40), e addirittura dallo stereotipo dell’«ordinario» (cosa c’è di più trito e abusato, di più ‘neorealista’, di una storia di povertà femminile nella Napoli degli anni Cinquanta?), per scavare sotto la sua superficie. L’effetto di realtà si sprigiona dal punto di vista: è solo accorciando quelle distanze che il mondo ipertecnologico e mediatico di oggi ha moltiplicato, è solo assumendo una prospettiva estremamente ravvicinata che l’ordinario si fa interessante, che il luogo comune si traduce in una emozione, costringendo Franzen – un lettore evidentemente assai smaliziato – a commuoversi prima nel corso della sua lettura interiore e poi davanti agli spettatori del documentario. Questo punto di vista fa sprofondare il lettore nell’orizzonte di due bambine subalterne, nella loro polifonia linguistica e simbolica. Attraverso il punto di vista polifonico della voce narrante di Elena, la superficie cristallizzata del luogo comune si fa liquida e mossa, il suo nucleo nascosto di verità si fa percepibile e si trasforma in un’onda che travolge il lettore, lo costringe a «sentire fisicamente l’urto» (fr 225) della materia narrata facendogli vedere il mondo dal basso, dal sottosuolo delle antenate. La metafora centrale della poetica di Ferrante parla infatti proprio di questo mondo sotterraneo: le «caverne» nella quali ogni crisi di frantumaglia può far precipitare le figlie emancipate (è questo il caso di tutte le figure femminili create dalla scrittrice) e ostinatamente «ancorate (…) al computer» al quale stanno scrivendo, costringendole a collocarsi «tra le antenate unicellulari, tra i borbottii rissosi o terrorizzati (…), fra le divinità femminili ricacciate nel buio della terra» (fr 102). Per la figlia, il dolore rompe il tempo lineare e genera un tempo sincronico all’interno del quale le conquiste del progresso si confondono con le eredità ancestrali delle madri, con le umiliazione subite dalle regine del mito e dalle divinità matriarcali. Nel giro di una frase fulminea, Ferrante evoca una genealogia millenaria di donne dominate, ammutolite e, infine, cancellate dal loro essere rinchiuse in uno spazio sotterraneo e nascosto: una sorta di rimozione archetipica del femminile, ciclicamente ricorrente e tuttora in atto, operata dal dominio maschile. La polifonia del ciclo dell’Amica geniale è questo cordone ombelicale che collega e nutre simultaneamente sia il verosimile di superfice sia il vero della caverna: è questo percepire la realtà nella sua oggettività ma anche nella sua ambivalenza. Nel primo e nel secondo capitolo di questo libro si definisce la parola polifonica: la parola parlata da un io femminile marginale (Elena), che racconta a sua volta un altro io femminile marginale (Lila), è sia una parola assertiva e solidale, che vuole conquistare le nuove frontiere della storia, e sia una parola ambigua e torbida, che proviene dalla profondità oscura della caverna e della sua eredità arcaica, una parola femminile e materna complice del dominio. Opportunismo sociale, introiezione della violenza patriarcale, matrofobia e matricidio, invidia, competizione, e infine rivalità a tratti anche assassina dell’una verso l’altra: sono queste – in base a quanto emerge dal secondo e terzo capitolo – le scosse del realismo del sottosuolo che il sismografo registra in superficie. Questa abiezione femminile – «il tremendo delle donne » (fr 60) – si sovrappone a quella sociale della «plebe» (ag 67) napoletana, in una intensità emotiva costantemente sprigionata nella quadrilogia da una strategia linguistica fatta di risonanze e echi del dialetto nell’italiano. La subalternità e la violenza del dialetto ma anche l’originaria appartenenza al dialetto risuonano all’interno della lingua italiana e neutra attraverso un gioco di inserti, andamenti paradialettali e rari prelievi (cfr. quarto e quinto capitolo).

Qui, la versione integrale del capitolo.

dizionarietto dei tempi digitali

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di Giacomo Sartori

algoritmo s. m.: deus ex machina dei tempi digitali, che viene convocato per risolvere problemi inestricabili o apportare assistenza. Gli algoritmi (il termine viene da al-Khuwārizmī, informatico del nono secolo) sono formule matematiche incomprensibili ai più, o comunque tenute nascoste, di qui la loro valenza esoterica. Nelle forme più perfezionate essi apprendono e si evolvono da soli, rafforzando la loro immagine sacra, e divenendo vere divinità salvifiche. Gli algoritmi controllano ormai vari settori della vita relazionale e pratica degli uomini contemporanei, come facevano gli dèi delle religioni politeiste. In prospettiva si prevede che diventino onnipresenti e onniscienti, coprendo l’intero spettro delle esigenze e afflati degli umani, sostituendosi eventualmente a essi.

ape s. f.: insetto domesticato in via di estinzione, portabandiera, grazie alla sua esposizione mediatica, degli insetti pronubi. Sinonimo di dedizione industriosa e di collaborazione di gruppo, con i suoi reiterati saccheggi di polline permette la riproduzione sessuale delle piante coltivate, e insomma la sopravvivenza del genere umano. Produce il miele, sostanza commestibile attaccaticcia, spalmabile su fette di pane e altre superfici eduli. L’ape è però molto sensibile a vari tipi di cosiddetti agrofarmaci (v. veleni), di qui le morie e il declino demografico (v. Antropocene). Nonostante gli afflati egualitari, le api sono rimaste monarchiche, con una regina sempre di genere femminile e una rigida organizzazione corporativa di stampo fascista. I potenziali re vengono meno dopo il primo rapporto sessuale, per l’evisceramento che chiude l’intrepido accoppiamento in volo (v. fuco).

baco s. m.: larva o verme che si pasce nella frutta, o anche nei computer e nei programmi informatici. Il baco ha un comportamento subdolo, restando inizialmente nascosto nel suo ospite, senza manifestarsi all’esterno. Alla lunga esso sabota però il buon funzionamento del frutto o del congegno informatico, spesso provocando una reazione stizzita del commensale o del fruitore informatico.

fratello s. m.: rivale o anche acerrimo nemico di genere maschile nato dagli stessi genitori nell’ambito di un medesimo nucleo familiare. I fratelli erano molto numerosi in passato, mentre nelle civilizzazioni contemporanee si sono rarefatti, e in certi casi sono a rischio di estinzione (v. figlio unico). In alcuni paesi essi sono proibiti (v. Cina). Al di fuori del contesto familiare il termine è usato, curiosamente, per significare la vicinanza relazionale e/o affettiva, o anche solo religiosa o civile (v. “Fratelli d’Italia L’Italia s’è desta”).

famiglia s. f.: inferno claustrofobico e campanilista che fin dall’epoca neolitica costituisce la forma organizzativa più comune per l’esistenza dell’individuo. All’interno della famiglia sbocciano affetti contrastanti, a volte struggenti, e le relazioni sessuali sono governate da regole tese a evitare l’incontro tra membri troppo vicini (v. incesto). La famiglia è più spesso senza fini di lucro, anche se l’aspetto economico è sempre rilevante. In alcuni casi gli intenti commerciali (v. famiglia Agnelli) o anche mafiosi (v. famiglia Badalamenti) sono espliciti. A partire dalla civilizzazione mesopotamica il ruolo preponderante è dato al padre, mentre la madre si accolla i compiti domestici e più ingrati (v. patriarcato e dominazione maschile). In passato la formazione in ciascuna famiglia non variava nel tempo, fatti salvi i decessi e le nascite, ma ora sono sempre più frequenti le sostituzioni, gli scambi interfamiliari e le aggiunte (v. famiglia allargata).

intelligenza artificiale (IA): forma di stupidità sempre più in auge nella civiltà contemporanea digitale, consistente nel non usare il cervello umano. Nell’intelligenza artificiale singole funzionalità, o anche l’intera esistenza (si veda bot), vengono delegate al discernimento di apposite apparecchiature elettroniche. La sfrenata ambizione dell’intelligenza artificiale, e dei suoi condottieri e adepti, di eguagliare o superare (v. transumanesimo) gli esseri umani, spesso basata sull’utilizzo di assurde moli di dati, si accompagna alla totale mancanza di buon senso, di senso dell’umorismo, di genuine capacità empatiche, di moralità e di rispetto per la vita privata altrui. A differenza di altre discipline (v. filosofia), le finalità dell’intelligenza artificiale sono sempre, in modo indiretto o diretto, l’arricchimento economico e lo sfruttamento monetario delle informazioni e delle conoscenze.

mamma s. f.: intermediario tradizionalmente indispensabile per la nascita dei bambini e dei cuccioli, anche se ora si cercano – con successo – delle alternative tecnologiche. Nella specie umana, più tardiva delle altre, la mamma è esiziale come puntello nutrizionale e linguistico, ma non solo, del neonato, con dinamiche spesso non facilmente riesumabili a posteriori (si veda psicanalisi). La sua centralità nella vita del procreato va in genere scemando, più spesso per strappi (adolescenza, accoppiamento stabile…). In talune etnie la progenie rimane morbosamente attaccata anche in età adulta (si veda madre ebrea, madre italiana…). In genere mamma è sinonimo di abnegata accoglienza e tolleranza (si veda Madonna, Pietà…), anche se qualche volta le mamme uccidono efferatamente i generati (si veda Medea, e di Sartori, il romanzo Rogo). Molte espressioni testimoniano il carattere non privo di ambiguità del vocabolo (ogne scarrafone è bbello a mamma soia, mamma mia!, quella zoccola di tua mamma…).

natura s. f.: fuorviante etichetta appioppata dagli umani al loro intorno geografico relativamente meno impattato, allorché la loro opera devastatrice è divenuta sistematica e scientifica. La natura rappresenta uno dei miti più incalliti delle società moderne e contemporanee, che preferiscono ammassarsi nelle città, anelando al contempo di esserne fuori, e distruggono ogni elemento vivente o non vivente attorno a sé, vagheggiando che tutto resti incontaminato. A mano a mano che la cosiddetta natura si riduce spazialmente e qualitativamente, essa acquista maggior valore agli occhi dell’uomo, permettendogli di esprimere i suoi sentimenti di nostalgia (v. ritorno alla natura e poesia bucolica), i suoi sensi di colpa (v. protezione della natura), la sua hybris assassina (v. natura morta), o anche solo l’interessato oblio della predazione in atto (v. le meraviglie della natura).

reti neurali: complesse reti informatiche che pescano nel mare delle informazioni, con beneficio dei pescatori digitali e degli ignari comuni mortali. Le reti neurali sono formate da neuroni artificiali e scimmiottano le reti di neuroni degli esseri viventi, compreso il cervello umano, ambendo a fare meglio e più in fretta. Esse si adattano e si evolvono autonomamente secondo necessità, capendo da sole quello che devono capire, a differenza dei bambini, spesso in completa autonomia. Tutto ciò per finalità non sempre nobili e elevate, quali mettere sotto gli occhi degli internauti pubblicità non volute e solo rozzamente pertinenti, aiutarli a trovare dei partner sessuali, a vincere le elezioni, o anche solo a rendere il neoliberalismo e lo sfascio sociale imperituri.

startup stàat ḁps. ingl. (pl. start-ups… ḁps), usato in ital. al femm.: impresa economica destinata a fallire o, nel caso rarissimo in cui il fallimento fallisca, a essere fagocitata. Nella mitologia tecnodigitale dell’epoca neoliberale la startup simbolizza tuttavia la riuscita e l’arricchimento economico (si veda pia illusione). Ogni startup è popolata da giovani maschi di razza bianca in maglietta di cotone (v. t-shirt), meglio non nuova e moderatamente sgualcita, e le relazioni gerarchiche di tipo dittatoriale sono mascherate da una anarchia orizzontale di facciata. Nei paesi cosiddetti democratici le startup piacciono moltissimo ai dirigenti di tutti i partiti, che si battono per finanziarle e farle implodere nelle condizioni più consone.

parola s. f.: elemento fonetico di base del linguaggio con precisi significati, ritrovabili se necessario nei dizionari. Le parole si sono rilevate molto utili per facilitare l’interazione affettiva e fattiva tra gli esseri umani, rendendola fluida e efficace. Esse hanno poi permesso agli stessi di distinguersi una volta per tutte dagli animali, o insomma di avere un pretesto per ritenersi superiori. I significati di ogni parola possono affastellarsi (v. doppio senso) o anche essere deviati (v. poesia), o addirittura opposti (v. ironia), rispetto a quelli indicati nei vocabolari. Nell’utilizzo pragmatico le parole vengono più spesso usate per imbrogliare, sedurre, circuire, tradire, nascondere la verità (v. bugie), o insomma per ottenere vantaggi personali (v. immoralità), quindi esse non sono poi così innocue come potrebbe sembrare a prima vista. Da qualche migliaio di anni esse vengono anche scritte, nell’illusione di farle durare più a lungo nel tempo (v. verba volant, scripta manent).

sordità s. f.: incapacità di sentire i suoni, per difetti dell’apparato uditivo o più spesso per motivi psicologici, o anche solo di interesse. Nel linguaggio metaforico essa esprime quindi il rifiuto o l’incapacità, parziali o anche totali a ascoltare il prossimo (v. fare il sordo).

 

NdA: questo dizionarietto, che poi magari un giorno crescerà, non si sa mai, accompagna il mio romanzo “Baco”, come quei gabbiani che svolazzano sopra le navi che escono in mare aperto, e non si decidono a tornarsene sulla terra ferma

Da «Il male in corpo»

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di Marisa Fasanella

[Pubblichiamo una pagina dal romanzo di Marisa Fasanella Il male in corpo, Castelvecchi 2019].

***

Mercoledì, 18 maggio. La stanza della memoria

Alle sei del mattino, nella clinica dormono tutti. L’infermiera veglia sul suo sonno, seduta sul letto è la sua ombra. È allarmata come un faro, va avanti e indietro e cerca il cellulare.

Svuoto gli armadi e mi porto via i vestiti con tutte le grucce: non c’è tempo. Le guardie chiamano il direttore e l’infermiera grida che non posso portarmelo via senza prima parlare con lui. Le valigie sono spalancate, piego ogni cosa con cura. Poi sono chiuse, sono gonfie come barili, sono pronte. Alzo mio padre e lo siedo sulla carrozzina: guarda fuori dalla finestra e non cede alla mia voce né ai miei sguardi. Frugo nel legno dei cassetti, nell’armadio, apro ogni pertugio, sotto il materasso nelle pieghe dei cuscini, osservo le cuciture con cura. Guardo persino dietro i quadri appesi alle pareti, dietro lo specchio, ma pesa come un morto. «Mi aiuti, non se ne stia lì impalata» grido alla guardia. Lo depositiamo sul pavimento e dietro c’è un vuoto, una nicchia, ci sono i suoi disegni arrotolati e chiusi in una federa. L’infermiera ha trovato il cellulare e si allontana, la fermo.

«A chi sta chiamando?» chiedo.

«A nessuno», e sceglie una delle tasche del camice per liberarsi le mani.

Mio padre trema, si aggrappa alle mani dell’infermiera come un naufrago. Gli infilo la giacca e gli infilo i pantaloni sul pigiama, gli copro la testa col cappello e le mani con i guanti. Esco nel corridoio, trattengo le lacrime, nascondo gli occhi dietro un paio di occhiali scuri. L’uomo di paglia allunga il passo sul viale, si passa le mani nei capelli. L’ho chiamato. Gli ho chiesto di venire. All’infermiera, ieri, è sfuggito il suo nome.

Scompaio dietro una colonna e aspetto: parla con l’infermiera, gesticola, chiede di me, dei disegni, del disordine. Abbraccia mio padre, gli sussurra qualcosa nell’orecchio, spiana le sue rughe.

Con le punte delle dita accarezzo i disegni: la carta è ruvida, strati di polvere mi separano dal tratto della matita. Perché non erano con gli altri?

Il direttore della clinica ha ceduto all’uomo di paglia e ci lascia andar via. Le mani di mio padre si agitano e la sua testa ciondola e digrigna i denti e grida e l’infermiera dice: «Arrivederci!».

I facchini dispongono la sua vita nel bagagliaio della station-wagon di Fabio: è di colore grigio con i sedili reclinabili e il tettuccio apribile, non ha più la vecchia cabriolet.

Mio padre ha gli occhi stretti e si lascia trasportare sulla sedia a rotelle e sale sull’auto e segue con lo sguardo il dito di Fabio che gli indica il cielo. L’infermiera si sporge dalla portiera e ripete ancora quella parola: «Arrivederci!». Guardo la clinica fino a quando non svoltiamo in una piazza e ce la lasciamo alle spalle.

Nella corte solo qualche gatto randagio, la attraversiamo e parcheggiamo sotto le finestre, nessuno bada a noi. Fabio lo solleva, ha il peso di una creatura, i farmaci dell’assenza lo hanno risucchiato. Lo siede sulla carrozzella e lo trasporta all’ascensore. C’è solo il mio appartamento e la scala che sale in soffitta e l’ascensore che si ferma al piano e guardo la cabina salire e mi affanno e lo guido nella casa. Abiterà la stanza degli ospiti, è di fianco alla mia e ha il bagno in camera. Rebecca e Cecco hanno dormito qui, ma in un’altra vita. Vado avanti e indietro, apro l’armadio, i cassetti, rimetto ordine nella vita che pesa nei cartoni e nelle valigie, rifaccio il letto. Il signor B non segue il mio periplo, si acciambella sulle ginocchia ossute e lo tiene caldo, lecca le sue mani artritiche.

L’uomo di paglia apre il frigo e scuote la testa: «Vado a fare la spesa, per farti perdonare mi inviterai a cena. Cucinerò io, naturalmente».

Non lo fermo, lo guardo dalla finestra, sale in auto, scompare. L’uomo di paglia conosce l’infermiera. L’uomo di paglia ha sempre saputo dove trovare mio padre. L’uomo di paglia legge le sue labbra.

Nessuno aveva pensato alla sua lingua, dopo l’incidente, la tata aveva curato con le sue erbe quello che sembrava il morso di un cinghiale, ma non era un morso. Maria Schiavone, dopo la morte di Margherita, era andata a trovarlo, la sua lingua era sporta dalla bocca come la bava di una lumaca e ne mancava un pezzo. L’aveva riferito alla tata quando era tornata, me lo ricordo come fosse oggi, e la tata si era segnata la fronte e aveva chiuso le finestre come per un nuovo lutto.

L’uomo di paglia ci proteggerà, padre: ha dato lavoro all’orfana di Margherita, l’ha allontanata dalla verità, ha bruciato l’archivio della fabbrica per non permetterle di frugare tra le vecchie carte. Custodivano la firma di Mimì Ferraro? Allunga le mani sulle ruote della carrozzella e si avvicina alla finestra, guarda attraverso le tende i tetti delle case e una forma di azzurro che forse è il cielo. La barba di un giorno cresce spaiata sul viso rinsecchito, sono peli bianchi distanti l’uno dall’altro, spoglio le finestre. Che succede, padre? Sono un animale notturno, solitario, ma sto guardando il cielo.

Mi siedo sul divano, prendo i disegni dalla borsa e li apro, la carta è ruvida, liscio i fogli a uno a uno, guardo con attenzione: gli agnelli camminano in coppia, ma su righi diversi, il caprone li guida. Gli altri disegni, quelli che si sono portati via, erano solo pecore smarrite, scancellate. Si alza, all’improvviso, e cammina sbilanciato in avanti, si ferma davanti alla libreria, guarda gli scaffali, si volta e i suoi occhi sono sguardo. Un attimo dopo trema, muove la testa, faccio appena in tempo a metterlo seduto e svolta gli occhi. Preparo una fiala di Valium e gliela inietto. Va tutto bene: parlo agli occhi sbarrati, alle pupille ferme. L’uomo di paglia avrà cura di noi, padre, quelli là fuori si fidano ancora di lui, è il custode della tua memoria. Massimo era uno dei tuoi agnelli? Se n’è andato, padre, è morto. Hanno ucciso anche Margherita. Non può ascoltarmi, il Valium lo ha fatto suo.

Raccolgo i disegni, li chiudo in una cartella, li affido alla prima vita, nella stanza della memoria. La porta ha la consistenza del muro, dello stesso colore bianco delle pareti, nessuno è mai entrato in quella stanza.

Mots-clés__Colore

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Colore
di Ornella Tajani

Ryuichi Sakamoto, Forbidden Colours -> play

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ph. Harry Gruyaert – Las Vegas downtown motel, 1982

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da Jean-Michel Maulpoix, Une histoire de bleu, éd. Mercure de France, 1992inedito in italiano, trad. mia.

 

Il blu non fa rumore.

È un colore timido, senza secondi fini, senza presagi o progetti, che non si scaraventa sullo sguardo come il giallo o il rosso, ma lo attira a sé, lo addomestica piano, lo lascia venire senza incalzarlo, facendolo sprofondare al suo interno e annegare senza rendersi conto di niente.

Il blu è un colore propizio alla scomparsa.
Un colore in cui morire, un colore che libera, il colore stesso dell’anima dopo che si è spogliata del corpo, dopo che ha sprigionato tutto il sangue e le viscere si sono svuotate, le tasche d’ogni tipo, traslocando una volta per tutte l’arredamento dei nostri pensieri.

Indefinitamente il blu si dissolve.
A dire il vero non è un colore. Piuttosto una tonalità, un clima, una risonanza speciale dell’aria. Una catasta di luce, una tinta che nasce dal vuoto sommato al vuoto, mutevole e trasparente nella mente dell’uomo così come nei cieli.

L’aria che respiriamo, la parvenza di vuoto sulla quale si muovono le nostre figure, lo spazio che attraversiamo non è altro che questo blu terrestre, invisibile tanto è vicino e fa corpo con noi, vestendoci i gesti e le voci. Presente fin dentro la stanza, ogni persiana chiusa e ogni lampada spenta, impercettibile abito della nostra vita.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. Ogni prima domenica del mese, Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a: tajani@nazioneindiana.com. Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

In viaggio con Ci (2/2)

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di Paolo Morelli

12 maggio (sera)

Trattandosi di un comportamento molto strano dovrò andarci piano in questa parte della cronaca, essere preciso e circostanziato.
Verso le sette di sera siamo a Villa S. Maria, paesetto sul fiume Sangro, accatastato nella valle e tagliato da una roccia di nome Penna. La casa di mia zia Emilia è disabitata da molti anni, ma ancora non è in rovina. Prendiamo alloggio dopo una faticosa salita di gradoni, durante la quale Pamich rimane indietro e io riguadagno i chilometri di distacco che ho perso in questi due giorni. Seduti davanti casa vedo lo scrittore un po’ svagato, penso sia la stanchezza, però dice che è stata una giornata bellissima.
Poco dopo riscendiamo verso il fiume e l’unico ristorante nel paese.
È necessario che io ricordi e racconti per filo e per segno i discorsi. Parliamo e ascoltiamo un po’ per uno, potrebbe definirsi un dialogo amabile, se non fossimo parecchio stanchi. Si parte da mie domande sui suoi prossimi viaggi in America. Lo scrittore Ci mi racconta che avrà da fare una serie di lezioni e di corsi in Università degli Stati Uniti, tipo Lezioni Americane di Calvino, su una spasa di autori che vanno da Leopardi a Merleau-Ponty.
Quando arriva la pasta passiamo a parlare di cucina, di Villa S. Maria che è conosciuto come il paese dei cuochi, di mio padre e della sua abilità a disegnare sulle torte con il cartoccio di carta oleata ripieno di crema. Lo scrittore Ci dice che pure sua madre sapeva usare quel metodo. Si parla anche della mia abilità di cucina in situazioni difficili, per esempio in galera, con contorno di aneddoti su come accada spesso che l’intera cella ti svegli in piena notte, in preda alla fame nervosa, e su come un buon cuoco di galera deve inventarsi dei piatti con poco. Se è capace di farlo crescerà in considerazione e non avrà niente da temere.
Sorseggiamo una bottiglia di ottimo Moltepulciano d’Abruzzo, Colle Nero barricato eppure un vino semplice e leggero, parlando di donne, degli amori, delle droghe (per dire quanto eravamo vicini).
Poi si va a finire a parlare di Lanciano, un paese non lontano, che possiede un Conservatorio stimatissimo, tanto che ci vengono perfino da Roma, e poi della grande tradizione bandistica della zona. Lo scrittore Ci racconta di aver visto un documentario di un tale, che è solo il montaggio di vari gruppi bandistici di ogni parte del mondo, dal Tibet alla Nigeria.
E il discorso si ferma sul cinema. Ci cita una lettera dell’artista Giacometti, nella quale racconta che una volta era andato al cinema e a un certo punto si era voltato e aveva visto la testa di quello accanto che gli sembrava di non aver mai visto una testa, e poi la sensazione era continuata uscendo dal cinema che gli sembrava di vedere solo cose nuove. Io ricordo le opere di Giacometti numerate col titolo Fallimenti e poi, tornando alle bande, mi viene in mente l’uso fanfarone che ne fa Kusturica, che però Ci non conosce granché.
Cerco di essere il più preciso possibile, ora che scrivo di questa stessa sera, è necessario nonostante l’ora, la stanchezza, e il gran vento. Solo quello che ho visto e sentito, mi sforzo.
E si passa così a Woody Allen, che lo scrittore Ci ama moltissimo, mentre a me piaceva una volta, quando si ispirava ai fratelli Marx e al cosiddetto umorismo yiddish. Ora non mi piace più, dico, perché il suo è solo uno sfoggio di intelligenza. Ci lo vedo subito che si incaponisce su Allen: ha visto, dichiara, un documentario di un suo concerto a Roma: a un certo punto la moglie di uno importante gli si avvicinava dicendo in inglese che era fortunato a essere così intelligente, e lui rispondeva che si, però pesa qui in cima, ha detto Allen e pure Ci, toccandosi la sommità della testa. È proprio questo il punto, ho detto, l’intelligenza può essere un peso, almeno nella sua accezione di accumulo di ragionamento, di calcolo, di furbizia. L’ho detto, ma con la sensazione di non essere riuscito a spiegarmi bene.
Ma lo scrittore Ci non è d’accordo, Allen gli sembra un artista dal poco seguito, che fa film poveri e misconosciuti. Per me gli preferisco Scorsese, ho ribadito, pensando di partecipare a una discussione pacata. Preferisco Scorsese, ho ribadito, che è meno visibilmente intelligente, anzi è perfino un po’ rozzo a volte, ma ha rispetto per la tradizione, invece Allen mi piaceva di più all’inizio, ho ribadito, quando si ispirava ai Marx.
A questo punto lo scrittore Ci si stava alterando, ma io ho equivocato, pensavo di partecipare a una discussione in crescita. Ha affermato che io ero solo un critico cinematografico, pieno di categorie nella testa. Al che io mi sono opposto, sempre nell’ambito di quella che credevo una discussione magari animata che si fa tra amici e compagni di un viaggio appena cominciato. Ho detto e non urlato che non c’entrava nulla il critico cinematografico, che per me l’intelligenza non è controllo, né sovraccarico di cultura, ma perdita e spontaneità. Quell’intelligenza lì è il vizio del mondo, ho ribadito parole precise, diventa un virus morale come la giustizia e la carità. E poi ho detto, per abbassare ancora i toni, che in ogni caso Allen Woody a me piaceva solo agli inizi, quando si affidava alla tradizione yiddish.
Ma non l’avessi mai detto. Lo scrittore Ci ha preso cappello che io non capivo un cazzo di yiddish e di niente, che le mie erano affermazioni degne del gruppo politico dell’Autonomia Operaia, i fratelli Marx erano dei cialtroni e io uguale con in più ero stronzo, così di brutto, ha sbraitato, facendo volare il tovagliolo attraverso il locale a malo modo.
Questo gesto è il solo nella serata, prima e dopo, che mi ha dato una breve emozione. Ho ripercorso la traiettoria del tovagliolo nell’aria con l’indice sinistro, fino a raggiungerlo per terra, a puntarlo, niente di ironico, rivolgendomi a Ci e dicendo, ecco cos’è rimasto per me dell’intelligenza, la maleducazione.
Apriti cielo! Lo scrittore intelligente Ci si è immediatamente alzato, fuori di sé s’è rivoltato urlando che allora da domani ognuno va per la sua strada! e subito precipitandosi alla cassa. Io ho mormorato solo che lo sapevo, molto calmo, mi stava succedendo qualcosa di strano, con intorno una sensazione ferma e piacevole l’ho superato alla cassa e sono uscito, raggiungendo il fiume.
Cerco di ricordare con precisione soprattutto questa parte, perché se fino a qui lo scrittore Ci ha avuto la sua reazione umorale che conoscono in molti, il seguito va raccontato passo per passo fin dove è possibile.
Per la strada non c’era nessuno. Alla metà del ponte c’è un balconcino che si sporge, mi son piazzato lì con le mani aperte sulla pietra, a occhi socchiusi, sotto di me il fiume carico d’acque e impetuoso, sopra, proprio al centro della valle e del vento c’era la luna. Una calma perfetta, con l’aiuto del vino. Dico troppo se dico che c’era gioia, o almeno contentezza, c’era solo un vento forte convogliato da chilometri di vallata, la luna come un punto centrale, e il rumore del fiume. Potrei dire serenità, potrei dire menomale, potrei dire da domani incomincia una nuova vita, o almeno è possibile.
Era un amore di fallimento, una novità alla Giacometti, profondi respiri spargono il veleno che viene spazzato dal vento. C’entrava molto la qualità del vino rosso, ma mi sembrava la prima volta che provavo che vuol dire essere libero, costi quel che costi e Dio mi perdoni. Uno stato di pace, nemmeno turbata dalla contentezza, come se mi bagnassi nei gorghi del fiume.
Sono stato lì per un po’, non so proprio quanto, fin quando mi è tornato il dovere di ospitalità, non ha importanza come ero stato trattato, magari Ci è stanco e non ha retto il vino rosso, mi sono detto, che comunque lo scrittore Ci era ospite mio in casa della zia Emilia. Mi son voltato per andare a vedere che fine aveva fatto. Mi son voltato e ho visto la cresta alta o forse prima le mani lunghe, femminili, le dita affusolate con le unghie in alto che brillavano. Mi son voltato di scatto e mi sono scostato, mentre lo scrittore Ci ritraeva le mani.
Niente brividi alla schiena da parte mia, ma non era uno scherzo di sicuro.
Non c’era altro da dire, mentre lui si schermiva, faceva finta di niente e cambiava discorso che aveva già pagato una stanza all’albergo del ristorante. Negli occhi l’ho guardato solo un momento. Ho fatto anch’io finta di niente, però, mi dicevo, da adesso in poi sto in campana.
L’ho accompagnato su per gli scaloni a riprendersi le sue cose, mentre lui rilanciava una geremiade di accuse che ero partito prevenuto, velate minacce che non concluderò mai niente a questo modo, lamenti che era tutta colpa degli amici e della rivista che lo avevano rovinato. Io respiravo bene mentre farfugliava (ogni tanto, per i gradoni, simulavo di ansimare), dovevo solo stare attento a non far sembrare minimamente che gli chiedessi scusa per non aver fatto niente, e avrei avuto un domani senza più fantasmi. Quel momento stava per passare.
Ci siamo fermati al bar perché doveva fare una telefonata. Io lo aspettavo poggiato al muro e quando è tornato era gasato e voleva farmi sentire la pietà per la mia condizione, ha cercato lì nel bar di mettermi addosso le mani che ormai a me parevano untuose e anzi pericolose, e intanto mi diceva tutto il compiacimento della sua pietà. Mi sono divincolato, finalmente siamo tornati a casa e s’è ripreso le sue cose. Perfino l’ho riaccompagnato un pezzo. Mentre lui parlava e straparlava gli ho indicato la strada facendogli un segno per dire vai dritto e non fermarti più. Non ti vergognare, l’ho ammonito. E di che cosa? ha risposto lui, che evidentemente si sente al di sopra di ogni sospetto.
Poi dopo, come se fossi benedetto, ho camminato a lungo per il paese deserto e poco illuminato, fermandomi negli angoli, sotto la croce nel punto più alto, sulla panchina sotto un tiglio profumato dove sono ora a scrivere questa cronaca, seduto in una specie di stato leggero, circondato da una danza di centinaia di lucciole in festa e innamorate.
Ce ne fossero di fallimenti così, di fallimenti così bisogna andar fieri.
Tornato a casa verso le 2 e un quarto, non ho ancora voglia di andare a dormire. Mentre accarezzo il gatto che si è intrufolato dentro casa e che ho chiamato Veleno, ascolto la minaccia di ‘Faccetta Nera’ cantata da chissà chi per la strada giù in basso.
Da qui il quadro è diviso a metà da una grondaia, che scende verticalmente sull’angolo della casa di fronte. A destra un muro giallo, un po’ scrostato, dal quale partono tre fili della luce, e sul quale sta affissa la lapide stradale: vico I, Fontana Media. In alto un comignolo e sulla destra la cresta della Penna. Proprio all’angolo, accanto alla grondaia, c’è un lampione di foggia antica, un parallelepipedo di vetro e ferro, montato su un asse anch’esso in ferro battuto a ricami barocchi. Di questa parte destra appare poco altro, un lembo di ringhiera e uno scorcio delle scale.
Sul pannello sinistro invece l’incastro è notevole. Sul vicolo s’affaccia la ringhiera di una casa che scende al basso, seguita da vasi di fiori e da un’altra ringhiera. Di fronte tre case in rapida successione, a due piani e relative finestre e balconi. In fondo, subito dopo un altro lampione, una scala curva a destra e scompare. Proprio là dietro si siedono le comari al pomeriggio d’estate, su piccole sedie, a ciarlare e ridere allegramente con la caratteristica calata. La casa che le accoglie e fa da sfondo è di colore giallo, ocra, che è del resto il colore dominante delle abitazioni di questo scorcio. La scala che curva a destra è ornata da vasi di fiori culminanti in una piccola palma. Sopra tetti e ancora tetti, a salire, anzi a sparire, con le tegole di argilla trattenute dai sassi.
La fuga è nell’angolo, tracciata dalla sopraelevata che supera i tetti, dalla punta del campanile di S. Nicola che si staglia fra i boschi dei monti alle sue spalle (monti che accolgono i primi fari di luce all’alba). La sua croce non ce la fa a raggiungere la cima.
Non terrò mai un diario mi sa, forse non sono adatto.

13 maggio

Mi sveglio presto, lo stato felice non è passato. Telefono a L. e le annuncio che il viaggio è finito, ritorno a casa. All’inizio è preoccupata, poi sente il tono canterino e si rassicura. È vero che le femmine hanno un sesto senso, lei dello scrittore Ci non si fidava del tutto, mentre stravede per gli altri amici. Domani sera andremo a cena in riva al mare.
Però devo aspettare le 3 del pomeriggio per muovermi, non ci sono treni né autobus.
Sto pensando di sedermi per una mezz’ora quando sento degli studenti della locale scuola alberghiera, che si affrettano perché c’è l’autobus speciale per Lanciano del fine settimana. Raccatto la roba e riesco a prenderlo per un pelo. Mi intrufolo nella scolaresca e arrivo a Lanciano senza pagare il biglietto. Spero solo di non aver chiuso nella fretta il gatto Veleno dentro casa, ma è l’unico cruccio, e poi non credo proprio.
Sono ancora fortunato, prendo al volo un altro bus fino all’orribile Pescara, dove però ci sono tre ore di attesa per il treno. Ogni tanto mi attraversano anche la testa pensieri. Per esempio di essere stato attirato in una trappola alla quale lo scrittore Ci pensava da tempo, magari senza saperlo. Ma il vento del mare sbatte sulla stazione, e mi dimentico, e mi guardo in giro che le persone mi sembrano quasi tutte belle, specie le ragazze con i loro abiti lilla di moda. In posti dove la natura non si vede si possono guardare i gesti delle persone, e avere uguale quel senso della meraviglia.
Al tramonto, in un treno freddo e silenzioso che sembra proprio che slitti sui binari, leggo i Quaderni in ottavo di Kafka: “Quando una spada ti trafigge l’anima importa conservare l’occhio calmo, non perdere sangue, accogliere la freddezza della spada con la freddezza della pietra. Attraverso quella trafittura, dopo quella trafittura diventare invulnerabili”. Sono talmente stanco che mi appisolo per venticinque minuti e sogno un cavallo sfranto che si aggira per una steppa.
Quasi alle dieci di sera, dopo un viaggio di nove ore per fare 240 chilometri, apro la porta del vagone e sento l’aria della mia città, e mi trattengo.

 

(l’immagine: Honoré Daumier, Don Quichotte et Sancho Panza, 1855)

Postcritica?

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di Francesca Tullii

 

Oskar Kokoschka. I ragazzi sognanti (1908). Litografia 1

 

 

Mariano Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, Macerata 2019.

Alla ricerca di una linea di fuga dalla secca alternativa tra serietà e ironia, Gilles Deleuze proponeva un vero e proprio elogio dello humor. Dove l’ironia si delinea come la ricerca di un principio o di una causa primaria, come il tentativo di risalire a un archè ancor più primario di quello sul quale pretende di sprofondare la serietà; diversamente, lo humor trascura i principi, configurandosi come una tecnica delle conseguenze e degli effetti. Soprattutto, spiega Deleuze, “[l]o humor è traditore, è il tradimento. Atonale, assolutamente impercettibile, esso fa filare qualcosa. È sempre nel mezzo, sul cammino. Non sale o non risale mai, è alla superficie: effetti di superficie, lo humor è un’arte degli eventi puri” (G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, Ombrecorte, Verona 2019, p. 67).

Ed è proprio una pratica del tradimento quella che Postcritica. Asignificanza, materia, affetti (Quodlibet, Macerata 2019) offre al lettore. Sin da subito, balza agli occhi l’impercettibilità di cui è intessuta la lingua del testo: già nella settima pagina, la pre-messa, figura abituale e codificata della saggistica, cede il posto a una pro-messa dichiarata a partire da un tradimento la cui “cifratura è un prefisso derivato dal latino che indica la durezza di una scelta: post” (p.7): il tradimento della teoria critica, riconoscimento della crisi del paradigma della critica come lente interpretativa dei fenomeni sociali e avanzamento di un atteggiamento alternativo – sperimentale – verso il mondo che insiste su affetti e legami. Ma un tradimento non è necessariamente un divorzio, al contrario, nella sua assoluta impercettibilità, fa filare qualcosa. Si tratta dunque di una rottura che, d’altro canto, si tiene con la teoria critica in un duplice laccio di anteriorità segnica (post-) e posteriorità concettuale (ciò che viene dopo la critica), ovvero con una propensione che ha fatto e che fa del sospetto il paradigma dominante della teoria sociale, a partire da una ricerca quasi ossessiva dei meccanismi profondi, affatto nascosti, che dirigerebbero il mondo – per fare qualche esempio, linguaggio, capitalismo, società. Tuttavia, se si tratti di una frattura scomposta, di un superamento o, ad andamento alterno e incerto, di un allineamento con la critica, è una via intenzionalmente e dichiaratamente non battuta da Mariano Croce, al fine di non consegnarsi a una “contrapposizione futile e fin troppo accademica” (p.69), sacrificio di un taglio operazionale, di composizione e ricomposizione di linee, riprova della sua rilevanza pragmatica. La promessa è infatti di fare postcritica con il proprio dire, adozione di una postura di maniera e sobrietà. Un dire, sospeso tra registro filosofico e linguaggio pamphlettistico, tra perizia argomentativa e fuggevole pennellata impressionista, nel quale è possibile udire l’eco del legein greco, in quanto esercizio di legatura.

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Postcritica si inserisce direttamente in un dibattito internazionale che ha assunto crescente rilevanza in numerose discipline, tra cui la filosofia, la critica letteraria, la linguistica, la teoria sociologica e l’antropologia, riproducendone al suo interno il carattere assolutamente interdisciplinare. Sarebbero quindi molte le linee argomentative da poter seguire per sviluppare il discorso di Croce (anche solo riferendoci al sottotitolo asignificanza, materia, affetti); tuttavia, come si confà alla logica frattale che contraddistingue tale postura, ci si può arrischiare a dire che ogni linea racchiuda già tutte le altre. Ciò che preme qui è pertanto fare emergere uno dei nodi cruciali di Postcritica, ossia il chiasma materiale e squisitamente sinestetico di un “tocco ottico” e di “una visione tattile”, di un patchwork in continua variazione che si propaga e coinvolge tutti i sensi assieme, di un occhio miope che non guarda le cose ma si aggira tra di esse in cerca più di una via d’uscita che passi per uno scivolamento interstiziale che di un obiettivo fisso. In cerca di una finestra dimenticata socchiusa più che di una porta da scassinare. Tra le incombenze della postcritica allora non può che esserci quella di marcare il carattere tutto materiale degli effetti e delle int(e)razioni, del darsi di una realtà unica, esito, ma non mera somma, di eventi emergenti con peculiari conformazioni – a cui sono dedicati il terzo e il quarto capitolo, rispettivamente Le operazioni della materia e Le combinazioni e gli effetti – riservando alla materia e al tocco lo stesso statuto di “possibili accessi al mondo” al pari di ogni altro linguaggio. In altre parole, il mondo non ci si dischiude e non ci si rende comprensibile solo attraverso il linguaggio, bensì attraverso l’esperienza o, meglio, la continua sperimentazione. Ma questo allora vuol dire che non vi è una via d’accesso privilegiata e che, forse, proprio non si accede al mondo: vi si è già sempre, già da sempre; si è sempre nel mezzo, tra una molteplicità di molteplicità. In tal senso “l’individuazione del dettaglio, che fa la scena, è un’opera di taglio e ritaglio, che coagula certe singolarità privandole di molti elementi” (p. 68). Ma cosa vuol dire che l’individuazione di una singolarità è un’opera di ritaglio? L’individuazione di un dettaglio, di una entità, di un corpo, di uno stato di realtà, è sempre esito di una operazione di taglio, motivo per il quale ogni corpo è già sempre un individua(bi)le e mai un già individuato. Il ritaglio consiste allora nell’emergenza di certi rapporti di movimento a scapito di altri: possiamo venire a conoscenza di un corpo, di cosa un corpo può, solo di volta in volta, a ogni istante, e in base a un nostro preciso, ma non necessitato, modo di collocarci, e dunque di rapportarci, con gli altri corpi. Ecco perché fare e conoscere sono la medesima cosa. In un’ontologia monista che ha messo al bando il tempo (forti riecheggiano Deleuze, Spinoza e Carlo Rovelli) in favore di istanti operazionali emergenti che non si iscrivono nella durata, quella della sperimentazione resta la modalità par excellence per intravvedere il modo di connessione e di composizione di ogni linea, di ogni corpo e di ogni molecola. Individuare il dettaglio è cioè sempre un’opera che elude il controllo (tanto le manie di controllo quanto la società del controllo), motivo per il quale la postcritica si lancia in quello che Croce definisce un “elogio della sfocatura” (p. 69), metodo che presenta numerose corrispondenze con quello raccomandato da Bruno Latour. Se l’individuazione segue dunque la misurazione degli effetti, è d’obbligo altresì dichiarare l’incapacità di registrarne tutti, sicché la sfocatura è un’approssimazione e un diradamento dei contorni che avviene nel processo di individuazione e nel quale non è più chiaro cosa si sta cercando di osservare, nel quale la singolarità si individua rendendosi anonima, mostrandosi già sempre deformata, frastagliata, qualcosa di continuamente diverso da ciò che forse ci si aspettava, sfuggendo a qualsiasi riferimento, modello o significato. È infatti l’asignificanza, a dare forma a nuove combinazioni di corpi (p. 59), corpi che si cuciono tra loro in maglie dalle trame strette e fitte lungo anse di coinvolgimento sensoriale. Tutto il corpo e tutti i corpi sono coinvolti. La postcritica appare dunque una maniera di partecipazione a un mondo senziente che non è fatto di soggetti e oggetti di percezione; piuttosto, per dirla con Tim Ingold, è la percezione stessa a ereditare il movimento creativo di emergenza in cui le cose – come sostiene Merleau-Ponty – diventano cose, a favore di una reversibilità nella quale toccare coincide con l’essere toccato, e “ci si appropria di quanto accade con una presa di posizione che ci restituisce una natura molecolare vettrice di energia” (p. 82). Com’è evidente, si tratta di una maniera partecipativa segnata dalla reciprocità, dalla riflessività, dall’orizzontalità, ancor più radicalmente, dalla piattezza: l’appropriazione mi restituisce, ciò che tocco mi tocca, ciò che guardo mi guarda. O per richiamare una delle figure portanti di questo testo, Clarice Lispector, “il mondo si guarda in me, tutto guarda tutto, tutto vive nell’altro. In questo deserto le cose sanno le cose (p. 75). Ma ciò vuol dire anche che quel che critico mi critica, avviando un processo di trasformazione poroso. Non vi è più l’occhio dello spettatore (o del critico) separato e al riparo da ciò che vede e giudica: la torre d’avorio sempre più spesso imputata a coloro che esercitano l’intelletto è ormai un atelier, un laboratorio mobile che coincide col mondo in divenire, un legame pluri-direzionale in cui si sfocano soggetto e oggetto, agente e paziente, dando vita a nuove e inedite composizioni di elementi non solo umani: umani e non-umani, organici e non-organici e tutti questi assieme. In questo senso l’asignificanza è già una materia che, continuamente, si (ri-)compone seguendo linee assemblative dell’affetto considerato in quanto carattere capace di tenere “assieme come corpo […] qualcosa di più dei corpi che implica – senza però che il tutto sia più delle parti, perché la parti e il tutto abitano pur sempre uno stesso piano” (p.75).

Quello con il libro è dunque un incontro lieto. Indubbiamente portatore di quel quantum energetico di cui parla l’ottantunesima pagina, Postcritica sana la pretesa di avvicinare chi legge facendo postcritica. La promessa è pertanto mantenuta: tocca e si lascia toccare.

 

 

 

 

 

In viaggio con Ci (1/2)

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di Paolo Morelli

(Storia di un diario che doveva esser lungo e invece dura tre giorni scarsi. Storia anche di uno strano tentativo di soluzione, pure andato a male, e poche altre cose ancora…)

La disgrazia di Don Chisciotte non è la sua fantasia; è Sancio Panza.

F. Kafka

aggiunta scritta oggi, circa venti anni dopo

Mi decido a render pubblico in qualche modo questo breve diario solo molti anni dopo, per ragioni che forse hanno a che fare con la discrezione.

Premessa allo spalancamento. Container, osservatorio intermodale

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Dia•foria ha recentemente presentato Container, oggetto-rivista e osservatorio intermodale diretto da Daniele Poletti e Luigi Severi:

«Il nome fa riferimento al trasporto intermodale dei prodotti umani di ogni natura, sostanza stessa del nostro mondo: nel container convivono mercanzie di diversa specie, in una somma di cose, tracce e messaggi che costituiscono pensiero e storia in movimento. Il transito e lo scambio di oggetti e parole da sempre determina la realtà attraverso una pluralità di apporti, cioè l’incessante gioco di emissione e ricezione multigenetica e multilingue. Del concetto di “container” dunque non ci interessano l’indistinzione dei materiali, cioè la congerie in sé, quanto piuttosto due fenomeni che da quell’indistinzione possono procedere: il differenziamento di organismi anche molto diversi tra loro, e la loro possibile ibridazione. Da questa particolare specola il nostro obiettivo è puntato sull’effrazione del codice dominante in percorsi divergenti, capaci di slogare i canoni moltiplicandoli attraverso un atto continuo di sperimentazione, intesa questa come attitudine esplorativa che si rinnova continuamente in una gnoseologia complessa.»

Come anteprima sul transito multiforme di contributi presenti all’interno della rivista, pubblico qui un estratto da Luigi SeveriNomadismo e contromemoria della scrittura in epoca di complessità.

Per richiedere una copia cartacea è possibile scrivere a: info@diaforia.org

 

9. Complessità come riconoscimento della molteplicità

L’osservazione della complessità, aprendo alla natura di problema propria di ogni fatto naturale ed umano, apre anche alla sua sostanza, costituita da molteplicità e differenza, cioè da incontro nella distanza. Miscuglio, combinazione, ibridazione sono le regole, aperte per implicita definizione, dell’universo di senso così dischiuso, tra massima disponibilità conoscitiva, e ricerca di alcuni centri di gravità morali, che da tale allenamento all’apertura traggono in fondo la loro prima radice.

È un punto decisivo. L’osservazione acritica del molteplice è per certo una resa passiva all’indifferenziato, di indole (in termini neocapitalisti) postmoderna, e in quanto tale giustifica la riprovazione di molti, come forma di ignavia accettante. Per Žižek, ad esempio, l’atonalità molteplice, vagamente educante a una tolleranza apatica e indifferente, deve essere combattuta attraverso la riaffermazione dell’elemento che salda il mondo «in una totalità stabile». Dire insomma che «quando ci si confronta con un mondo che si presenta come tollerante e pluralista, disseminato, privo di centro, si deve attaccare il principio strutturante e soggiacente che sorregge la sua atonalità, ad esempio il carattere segreto di una sua “tolleranza” che esclude come “intolleranti” alcune questioni critiche», significa combattere l’indistinzione morale sedativa di ogni impulso critico, obbligando il mondo (cioè il potere) a venire allo scoperto, ovvero a «”tonalizzarsi”, ad ammettere apertamente il tono segreto che sta alla base della sua atonalità».

Il che può avvenire precisamente nel momento in cui dall’abbandono al molteplice si passa alla coscienza acuta (persino sofferente) della molteplicità in quanto somma di differenze: sul piano dell’incrocio di linguaggi, con l’accumularsi «a valanga [de]i portati delle scienze “umane” (e delle altre), con acquisizione di fatti e segni verbali alla cui luce forse si [può] più fondatamente tentare qualche cosa di – davvero – nuovo, in un lunghissimo processo che, se è cominciato, è appena cominciato»;43 ma anche sul piano dell’eterogeneità di culture e di presenze, in un meticciamento fecondissimo, che può diventare metodologia di lavoro, come già in molta arte e in molto teatro: ad esempio in Sellars, i cui spettacoli «sono lenti di rifrazione, spazi di contraddizione e di dibattito pluralista che permettono la costruzione di molteplici soggettività […] in società ossessionate dall’individualismo».

In un colpo solo, questo cambio di ottica unisce insieme prospettiva estetica ed etica, de facto civile. Poiché, come per tempo ha spiegato Deleuze, «le differenze di molteplicità, e la differenza nella molteplicità, sostituiscono le opposizioni schematiche e grossolane», sgominando in pratiche eversive quelle visioni tranquillizzanti, unilaterali, che oggi pigramente si riaffermano in Europa (e altrove). È proprio «la nozione di molteplicità che denuncia» al tempo stesso «l’Uno [il principio dell’assoluto, nel cui nome la violenza irrompe nella storia] e il molteplice [la placida in-differenza, la resa piacevole all’atonalità]». La percezione della differenza, nata dall’osservazione del mondo complesso, spinge all’interpretazione permanente dei fatti, naturali ed umani, in quanto metamorfosi ed incontro, e all’esperienza costante di accostamento, sconfinamento, ibridazione. Sperimentare la differenza, in quanto motore di un discorso che moltiplichi le possibilità di confronto, ovvero che moltiplichi sé in altri e attraverso gli altri, è sperimentare «un pensiero che dica sì alla divergenza; un pensiero affermativo il cui strumento è la disgiunzione; un pensiero del molteplice – della molteplicità dispersa e nomade».
Questo perpetuo addestramento alla differenza, fondato sull’esercizio della complessità nel senso di pensosità interpretativa, di ascolto sempre all’opera, di dubbio quasi ossessivo (soprattutto contro la tirannide delle certezze), ha una sua rigorosa tenacia politica. Esattamente in questo senso, la condizione di migrazione, o di nomadismo, è un punto limite di conoscenza attiva, continuamente rimescolata, e capace di trovare la verità (umana e non solo umana) nel proprio stesso procedere verso l’altro. Gli intellettuali critici in quanto soggetti nomadi «hanno dimenticato di dimenticare l’ingiustizia e la povertà simbolica: la loro memoria è viva, controcorrente: mettono in atto una ribellione dei saperi sottomessi». Il lavoro della coscienza della molteplicità è un perpetuo lavoro di ritraduzione: una pratica inattuale di memoria, che «non rimpiange patrie perdute», ma le riattraversa tutte, e da questo trae la propria forza, il proprio mestiere.

La scrittura è dunque da intendere come perpetua vocazione e azione traduttiva e ritraduttiva, in modo crescente col crescere della coscienza del mondo come molteplicità caotica ma inter- relata. In un suo saggio decisivo del 1972 il poeta Henri Meschonnic scriveva che «tradurre un testo è un’attività translinguistica quanto l’attività stessa della scrittura di un testo». Questa affermazione, che sintetizzava più di un decennio di lavoro teorico, poetico e artistico, deve oggi più che mai essere presa alla lettera. Da sempre, ma in modo accelerato e sempre più evidente in epoca di complessità, il lavoro di traduzione e il lavoro di scrittura (d’arte, di linguaggio quale che sia) si intersecano, condividendo lo stesso statuto. In questo modo, il mondo si rivela «una collezione di eterogeneità», ovvero «una sovrapposizione di testi, ognuno leggermente diverso dal precedente: traduzioni di traduzioni di traduzioni», così che «ogni testo è unico e, nel contempo, è la traduzione di un altro testo». Da qui l’estrema delle necessità, che cessa di essere una condizione di partenza, per diventare un’inestinguibile potenzialità di visione e di prassi: lo scrittore diventa «poliglott[a] all’interno di una stessa lingua», capace di trasformare lo scambio e l’intersecazione in discorso.

Questa condizione di poliglottia concettuale da una parte è legata alla natura cognitiva umana, avendo tutti gli individui pensanti in comune lo stato mentale della traduzione (come sosteneva la Kristeva); dall’altra, se portata alle estreme conseguenze permette di «liberare le parole dalla loro natura sedentaria, destabilizzare significati comunemente accettati, decostruire forme tradizionali di coscienza».

Concepire la scrittura (letteraria o artistica) come sistema aperto, dunque, capace di accogliere, per prossimità o per contrasto, materiali e codici di origine diversa, spalanca nel testo uno spazio di incontro delle differenze (o delle similarità impensabili, scaturite dalla trascrizione di differenze), per cui anche il rumorio saturante della complessità spicciola mediata dal web può diventare discorso altro, discorso di altro. Sopra tutto dunque nell’epoca, pericolosa se azzerata di senso, dell’essere-tra (secondo la definizione di Floridi), portato sociale della tecnologia comunicativa, questo continuo attraversamento di confini è, per tramite di una scrittura-traduzione del mondo, premessa e carburante allo spalancamento di uno «spazio liminale (in-between)» come «luogo del mutuo animarsi in un campo di forze di approssimazioni e inflessioni».

da Luigi Severi, Nomadismo e contromemoria della scrittura in epoca di complessità

 

Fabio Alessandro Fusco, La città peninsulare, 2011

Mezz’ora di panico

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di Walter Nardon

 

Ogni giorno un colpo d’ascia mi prende su un fianco. Finirò per cadere, ma non importa. Voglio solo che Erin rimanga perché lei è luce, gioia che non si spegne.

Forse sarebbe bastato osservare il modo in cui aveva stretto le dita sulla maniglia di acciaio per capire che qualcosa, là dentro, stava precipitando. Ecco dunque Erin, colta nel glorioso gesto di aprire la porta dell’Agenzia di Viaggi «Zippa», di cui era una delle più ascoltate frequentatrici e, occasionalmente, anche clienti: ma la porta stentava ad aprirsi.

Introfada. La rivoluzione dei timidi

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di Davide Orecchio

Negli ultimi anni la vita dei timidi si è fatta complicata. Gli estroversi, così come i milionari e in genere i ricchi, hanno superato ogni limite. Siamo entrati nell’epoca della dittatura estroversa. Ma per i timidi c’è una buona notizia: è uscito un libro che potrebbe diventare il loro Manifesto. S’intitola Introfada. Lotta antisistema del militante introverso (Add editore, traduzione di Piernicola D’Ortona), ed è un notevole saggio tra il pamphlet e la satira, pieno di pagine che fanno riflettere, ridere, incazzarsi, e mettono voglia di ribellione introversa. L’ha scritto Hamja Ahsan, un artista e attivista il quale s’è immaginato tutto un mondo in lotta contro l’introversofobia e la cultura dominante non socialista, ahimè, ma social fino al midollo. Un mondo agitato da un movimento di avanguardia, i Militanti Introversi, “che mira a demolire le politiche suprematiste basate sulla cultura assertiva del XXI secolo”, e dotato persino di uno Stato, l’Aspergistan, che l’autore colloca tra Pakistan, Afghanistan (“esclusa Kabul”) e Iran (“esclusa Teheran”), dove si offre “un riparo sicuro” ai “timidi, gli introversi e gli appartenenti allo spettro autistico di tutto il mondo”.

Questa patria immaginata da Ahsan ha una Costituzione provvisoria della Repubblica del popolo timido di Aspergistan che contiene princìpi fondamentali e articoli come i seguenti:

«Noi, popolo di Aspergistan, diamo vita alla Repubblica del popolo timido di Aspergistan – asilo, faro e patria di persone oppresse come i timidi, gli introversi e tutti gli appartenenti allo spettro autistico – e dichiariamo che i princìpi supremi della nostra nazione serviranno da baluardo contro l’egemonia dell’Ordine Mondiale degli Estroversi e getteranno le fondamenta per la cooperazione e la convivenza fraterna tra i popoli timidi, in un’unione mondiale indipendente».

«Dichiariamo illegittima l’attuale rappresentanza parlamentare – su base esclusivamente estroversa e i relativi dibattiti assembleari, sancendo l’incapacità del sistema di ascoltare e rappresentare soggetti e cittadini».

«Generazioni e generazioni del nostro popolo hanno sofferto ripudio, bullismo, umiliazione, svilimento, medicalizzazione, persecuzione, sottomissione, sfruttamento, ostracismo, esclusione, isolamento, discriminazione e marginalizzazione per opera del sistema globale della Supremazia Estroversa, che ci ha defraudati del diritto a una vita introspettiva, all’autostima, all’uguaglianza e alla tranquillità».

«L’Aspergistan proibisce severamente il mainstream. Tutte le sue politiche saranno underground».

«L’introversione è un diritto inviolabile. Nessuno può disturbarne la pace né violarne la libertà. Lo Stato garantirà […] libertà dal pregiudizio ai danni della vita introversa; libertà dalla violenza epistemica di matrice estroversa, per esempio dalle accuse di essere disadattati o solitari».

Come molti Stati esito di una rivoluzione o di una lotta di liberazione, l’Aspergistan di Ahsan nasce dalla rabbia e non è liberale: in questa repubblica gli estroversi non hanno diritti di cittadinanza, l’inno nazionale si ascolta usando una conchiglia, qualsiasi dichiarazione pronunciata da un palco non esprime la volontà del popolo, l’assemblearismo parlamentare è abolito e alla base dell’attività legislativa si prescrive “un periodo di meditazione solitaria da parte dell’esecutivo”. Appartengo alla categoria dei timidi, ma forse non mi piacerebbe vivere in Aspergistan.

Di pagina in pagina, tra ipotetici testi costituzionali e finzionali interviste ad attiviste introverse incarcerate, tra riletture cinematografiche in chiave pantimidista (La battaglia di Algeri diventa un film che “racconta in primo luogo la parabola dei popoli timidi oppressi che si ribellano contro i soprusi”) e petizioni studentesche, Ahsan tesse un collage di controcultura e critica all’organismo sociale neoliberistico 4.0, governato dalle norme dell’assertività e dell’autoaffermazione individuale, dall’esposizione ed esibizione di un sé urlato. Gli introversi della satira di Ahsan assomigliano molto a un “popolo” che non si adatta all’imperativo di condividere e ostentare, dove il verbo share implica nient’altro che l’azione di vendere l’ultimo prodotto sul mercato: noi stessi.

Il timido di Introfada non vuole essere l’uomo nuovo costruito nel laboratorio del nostro tempo, perché se “un altro mondo è possibile”, anche un altro essere umano è possibile. Per causa o per effetto, Introfada eredita linee anticolonialiste e antieurocentriche (il Niqab, ad esempio, è “un dito medio rivolto alla società liberale francese”), e nasce – immagino – da un bisogno autobiografico, come del resto ammette lo stesso autore: “ho scritto questo libro sull’onda di un risentimento che dura da una vita”.

Rivela Amy Littlewood, la prigioniera politica inventata da Ahsan, che “gli estroverso-suprematisti confondono il loro modo di vivere con la vita; e il nostro gusto per l’introspezione, la lentezza e la profondità di pensiero con la morte. […] Noi insegniamo la vita; loro insegnano a trasformarsi in zombie, diffondono stordimento, vanità, superficialità”. Il mondo degli estroversi “è un regno oppressivo di frivolezza, materialismo, consumismo compulsivo, assenza d’amore, narcisismo da social network. Il loro è un mondo di distrazione infinita”.

Il libro ne ha per tutti. Per il “neoliberismo afroamericano” dei suprematisti estroversi neri alla Beyoncé. Per l’estroversonormatività dei Gay Pride coi loro “carri sgargianti e le celebrazioni brandizzate”. Nessun estroverso si salva. Non c’è scampo per il politicamente corretto. Del resto le rivoluzioni non sono pranzi di gala. Ma Introfada ha anche il suo Pantheon, dove troneggiano gli eroi dell’introversione, da Kurt Cobain a Leonard Cohen, fino addirittura al Che, individuato quale “antesignano” del movimento dei Militanti Introversi: “nella foto più celebre di Che Guevara si può notare un dettaglio: non guarda in camera. I suoi occhi presentano alcune di quelle caratteristiche che gli estroversi scambiano per riservatezza, autismo, introspezione e fantasticheria”.

Ma, tra i compagni di strada del Movimento dei timidi, senza dubbio la creatura più geniale ideata da Ahsan è il “maschio bianco sensibile”: egli appartiene “a una classe oppressa. La libreria antiquaria di seconda mano, con la sua atmosfera raccolta, non è l’oppressore. La piccola casa editrice perennemente in perdita, che produce pregevoli edizioni rilegate a mano, non è il nemico”. Il maschio bianco sensibile, spiega Ahsan, “ha un dono universale per l’umanità. Il suo talento culturale nel cantare l’angoscia” è “universalmente apprezzato”. Ma rischia l’estinzione. In pochi vanno ai suoi reading di poesia. Il “grande maschio bianco” se lo sta divorando. “Tutti gli avamposti del maschio bianco sensibile sono sotto attacco. Perciò dobbiamo intervenire”.

Buon viaggio nell’Introfada.

47: morto che parla

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di

Marilisa Moccia

Nota di lettura per  Detti di cyop&kaf (Monitor edizioni)

 

Le cose famigliari succedono,
   e gli uomini non se ne preoccupano.
Richiede una mente davvero insolita
intraprendere l’analisi dell’ovvio.
A.N. Whitehead.

È uscita il 2 novembre, puntuale come una ricorrenza, la seconda edizione, arricchita con nuovo materiale fotografico, di Detti. Viaggio tra i soprannomi del popolo napoletano, a cura di cyop&kaf.

Vedi alla voce: litaliano

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Per un museo della lingua italiana

di

Giuseppe Antonelli

Il 21 dicembre 2015 un incendio ha distrutto a San Paolo del Brasile il Museo della lingua portoghese. Quattro piani di esposizione inaugurati nel 2006: libri, manoscritti, totem e installazioni multimediali, diffusioni audio e video, postazioni interattive. L’«Albero delle parole», la «Piazza della lingua», la «Grande galleria» con uno schermo di 106 metri, l’auditorium dove si proiettava il film Idiomaterno, un intero piano per le esposizioni temporanee (34 in dieci anni). Il più grande museo del mondo dedicato a una lingua, ma non l’unico. La lingua italiana, invece, un museo non ce l’ha e non ce l’ha mai avuto. Il museo della lingua italiana è rimasto finora un progetto irrealizzato.

In questi anni sono stati fatti alcuni progetti: molti prendono spunto dalla mostra Dove il sì suona che si tenne agli Uffizi nel 2003. Ma certo tutti i preziosi documenti che lì furono esposti per diversi mesi – autografi di Petrarca, Boccaccio, Ariosto, e molti altri pezzi unici – non potrebbero mai far parte di una collezione permanente. Bisogna immaginare, allora, un’esposizione che lasci largo spazio al multimediale e all’interattività: un percorso nella storia che sia anche un’esperienza dei sensi. Perché la lingua non è solo scritta e non è solo letteraria. La lingua è da sempre lo specchio di una società e l’italiano non fa eccezione. Porta in sé – stratificati – secoli e secoli di storia, ma continua a riflettere – giorno per giorno – l’evoluzione del nostro costume, della nostra mentalità, delle nostre abitudini.

Un Museo della lingua italiana servirebbe, ad esempio, a ricordarci che una lingua italiana è esistita molto prima che esistesse un’Italia politica: già Dante parlava della «lingua del sì». A capire che la lingua non è uno strumento neutro: rivela la nostra visione del mondo, il nostro stile di vita; plasma la realtà che ci circonda, modificando valori e significati. Ad avvertirci che le parole nuove o straniere ci sono sempre state e fanno parte di una sana evoluzione di ogni lingua e di ogni cultura; che la grammatica cambia nel tempo; che per secoli sapersi esprimere in lingua – e non in dialetto – è stata una conquista faticosa. Ne resta testimonianza nei tentativi di chi sapeva a malapena scrivere: come le lettere degli emigranti o dei soldati, in cui si sente ancora tutta la fatica fatta per riuscire a comunicare in situazioni di grande urgenza.

 

Ogni museo è un luogo vivo, in cui la memoria lega il passato al presente e soprattutto a un’idea di futuro. Così sono tutti i musei che valga la pena di visitare. Così sarà il museo della lingua italiana a cui stiamo lavorando. Il #Museodellalinguaitaliana è un progetto aperto alle idee di chiunque voglia contribuire. La petizione che – con Luca Serianni, abbiamo lanciato tramite  change.org  è un modo per trovare a queste idee un luogo concreto in cui vivere: si può firmare qui.

Grazie a chi sta condividendo e vorrà condividere con noi questo sogno!

Da «Un altro candore»

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di Giacomo Verri

(Pubblichiamo un estratto dal romanzo Un altro candore, Nutrimenti, 2019. Verri ritorna nei luoghi – la Valsesia – e nei tempi – la Resistenza – che i suoi lettori conoscono, ma in quest’opera assistiamo a uno scarto verso decenni più tardivi del Novecento e verso temi più intimi, dove il protagonista non è, o non è solamente, l’aspetto civile e politico della storia che abbiamo alle spalle).

***

Disse di sì, che andava bene. Erano settimane che non faceva un bagno per via dell’incidente e continuava a lavarsi a pezzi.

Ti posso aiutare.

Lei sorrise, Sarebbe un dolcissimo regalo.

Sedette sullo sgabello accanto al lavandino mentre Claudio preparava la vasca, fece scorrere l’acqua finché non fu calda, dopodiché infilò il vecchio tappo di gomma screpolata nel buco dello scarico e versò il bagnoschiuma.

Ho freddo, disse lei.

D’accordo. Posso portare qui la stufa elettrica.

Con l’aria che soffiava loro addosso all’altezza delle gambe, iniziò a spogliarla, le sfilò le calze di nylon da signora anziana, e il vestito, il reggiseno e le grandi mutande dalla vita alta. Gettò la biancheria nel cestone e ripiegò con cura l’abito sul davanzale della finestra.

Mettilo da lavare.

Anche questo?

Vorrei cambiarmi completamente.

In pantaloni e camicia, le maniche arrotolate sopra ai gomiti, la aiutò a entrare nella vasca lasciando che si aggrappasse alle sue braccia. L’acqua le arrivava alle caviglie, con una mano toccava il muro di piastrelle azzurre e con l’altra continuava a sostenersi al corpo del marito. Poi lentamente scese e le vecchie e magre gambe s’infilarono nella schiuma senza peso. I seni erano pallidi e flosci e i capezzoli, divenuti marroni, sembravano essere stati risucchiati nella pelle, la pancia era dilatata e molle e il solco dell’inguine risaltava chiaro e glabro, anche se vagamente ingrigito, come la morbida e sciupata incavatura delle ascelle.

Non mi guardare.

Non sono qui per questo. Voglio solo prendermi cura di te.

Donata attese che l’acqua fosse abbastanza alta da coprirle il ventre, poi strizzò la spugna pesante e calda sulle spalle e lasciò che la schiena toccasse la superficie della grande vasca di ghisa smaltata.

È andata bene la nostra vita?, chiese lei.

La guardò con la fronte corrugata. Quasi sempre.

Donata aveva uno sguardo da persona triste e pareva che le manopole d’acciaio con le loro macchie di calcare fossero per lei qualcosa di mai visto. Hai ragione, disse. Ci pensi mai a quando eravamo giovani?

A volte.

Io sempre più spesso. Ricordo quando facevamo l’amore.

Claudio cercò di accovacciarsi, si mise seduto anche se le ginocchia gli facevano male. Le toccò i capelli.

Fino a un certo punto lo abbiamo fatto con una certa frequenza, poi di colpo abbiamo smesso, disse lei. Non c’è stata una ragione. Ricordi? È successo e basta. Il pensiero di quanto tempo è passato, l’idea che ci sia stata un’ultima volta e che non ce ne siamo neppure accorti mi lascia senza fiato.

Non parlare così.

Perché? Posso farlo ormai. Sono diventata brutta.

Lui osservò di sfuggita il biancore affusolato del suo corpo. No signora, non lo sei.

Lo sono e non è divertente. Gli afferrò la mano che lui teneva ancora con dolcezza tra i suoi capelli grigi e gliela calcò su uno dei seni. Cosa senti?

Claudio rimase immobile e la guardò. Lei aveva occhi piccoli e chiari dentro ai quali la vecchiaia aveva infilato delle parti bianche, come delle bordature.

Non ti viene voglia di farci niente, vero?

No, disse lui.

A Donata salirono piccole e fragili lacrime, si tolse di dosso la mano di Claudio e si lasciò andare nell’acqua. Mi piaceva fare l’amore con te.

Anche a me.

Non dire bugie. Non lo merito.

Non ho potuto vivere senza di te. E non saprei come farlo ora.

Lo so, ma ho sempre saputo che non ti piaceva venire a letto con me.

Lui non disse niente.

All’inizio ci pensavo molto, continuò Donata. Te ne accorgevi?

Non so.

Comunque io ci pensavo.

Era difficile per me.

E io pregavo che ti piacesse, per Dio, insistette lei.

Ho imparato a farmelo piacere, voglio dire, ho imparato che era una cosa bella.

Questo mi fa soffrire, lo sai?

Claudio prese il flacone e le propose di lavarle la testa. Lasciò cadere nel palmo una noce bianca di shampoo e iniziò a toccarle il cranio duro e rosa, coperto dai pochi vecchi capelli.

Cosa ti fa soffrire? Sapere che è stato difficile per me venire a letto con te i primi tempi?

Sì.

Ma è stato così. Il sesso non ha rappresentato l’aspetto migliore della nostra vita. Sono stato bene con te quando abbiamo parlato, quando abbiamo visto crescere nostra figlia, quando ci tenevamo per mano e guardavamo la televisione o ascoltavamo un buon disco.

Potrebbe non essermi bastato, protestò Donata. Potrei credere che non sia vero.

Ma lo è.

Sembrerà assurdo: ti credo ma non mi fido.

Lui la aiutò a sciacquarsi e a indossare l’accappatoio e dopo cena le si sedette accanto sul divano annusandole i corti capelli puliti. Guardarono un varietà e poi Claudio, a metà serata, fece il giro della casa per chiudere le persiane alle finestre.

Quando tornò le disse che se l’era cercata. Mi hai detto di richiamarlo. E adesso voglio qualcosa di più.

Cosa?

Vorrei rivederlo.

Poesia e conflitto, conversazione con Fabrizio Bajec

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[Pubblichiamo la prima di una serie d’interviste sul tema poesia & politica realizzate per la rivista “Atelier”. Questa è tratta dal n.95, settembre 2019.]

A cura di Stefano Modeo

Perché si butta a mare la cultura come fosse zavorra (vale a dire quel tanto di cultura che ci è rimasto), perché la vita di milioni di uomini, della maggior parte degli uomini, è stata così immiserita, spogliata e in parte o del tutto annientata? Alcuni di noi hanno una risposta a questa domanda. Rispondono così: per brutalità. […]

Quanti rispondono così sanno naturalmente che una risposta simile fa poca strada. E sentono da soli che alla brutalità non si può conferire l’aspetto di una forza bestiale, di invincibili potenze infernali.

Parlano quindi di imperfetta educazione della stirpe umana. Qualcosa che è stato trascurato o che, nella fretta, non è stato compiuto. È necessario recuperarlo.         

Alla brutalità dobbiamo opporre il bene. Dobbiamo fare appello alle grandi parole, allo scongiuro che già altre volte è stato utile, ai concetti intramontabili – l’amore per la libertà, la dignità, la giustizia – la cui efficacia è storicamente garantita. Ed eccoli pronunciare il grande scongiuro. Che cosa succede? All’accusa di essere brutale, il fascismo risponde con il fanatico elogio della brutalità. Imputato di essere fanatico, risponde con l’elogio del fanatismo. Convinto di lesa ragione, mette allegramente sotto processo la ragione medesima. E poi anche il fascismo trova che l’educazione è stata imperfetta. Si ripromette grandi cose dalla possibilità di influenzare le menti e di rafforzare i cuori… Alla brutalità dei suoi sotterranei adibiti alla tortura aggiunge quella delle scuole, dei giornali, dei teatri. Educa tutta la nazione e tutto il giorno. Non ha molto da offrire alla grande maggioranza, quindi ha molto da educare. Non dà da mangiare e quindi deve educare all’autodisciplina. Non può metter ordine nella sua produzione e ha bisogno di guerre: deve quindi educare al coraggio fisico. Ha bisogno di vittime e quindi deve educare al sacrificio. Anche questi sono ideali, mete richieste agli uomini; e alcuni di questi persino alti ideali, alte mete. Ora, noi sappiamo bene a che cosa servono questi ideali, chi è che educa e a chi quella educazione debba servire: non a coloro che sono stati educati.

E i nostri ideali? Anche quelli di noi che nella brutalità, nella barbarie, scorgono il male maggiore parlano, come abbiamo veduto, soltanto di educazione, soltanto di interventi sullo spirito, comunque, di nessun altro genere di interventi. Parlano di educazione al bene.

Ma il bene non verrà dall’esigenza di bene, di bene in qualsiasi circostanza, persino nelle peggiori circostanze, così come la brutalità non è venuta dalla brutalità.

 

Bertolt Brecht, intervento al I Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura.

 

S.M. : Mi interessa partire, per questa conversazione, da queste parole di Brecht. Nei tuoi lavori, penso soprattutto all’ultimo, La collaborazione (Marcos y Marcos 2018), ma anche ad un tuo recente poema inedito, apparso su Le parole e le cose[2], esiste ed insiste una descrizione lucida della brutalità con la quale siamo chiamati quotidianamente a collaborare. Ti chiederei dunque cosa rappresenta nella tua poetica questa parola, se la poesia è un tuo personale strumento per esorcizzarla e se, secondo te, descriverne le varie manifestazioni ha una funzione sociale.

F.B.: Leggendo la lunga citazione di Brecht ho avuto fino alla fine l’impressione di trovarmi in presenza di uno sfogo di un qualche moralista di oggi. Poi mi son detto: non è possibile che qualcuno parli così oggi! Mentre invece la descrizione della cultura buttata al mare e dell’educazione deformante, educazione alla violenza e volta ad ingoiare di tutto, quella purtroppo è modernissima. Credo che tocchi perfino l’università. Ti rispondo senza troppo riflettere con alcuni dati sulla scuola in Francia e poi entrerò nel merito della parola brutalità rispetto a quanto ho scritto in versi. Di recente, è in atto una riforma della scuola. E’ anche una questione di spazio, di riempire le classi, dimezzarne altre, e di far perdere quel po’ di autonomia che avevano i docenti. Io non insegno nel sistema scolastico dell’educazione nazionale, ma sono comunque inorridito. La brutalità sta nel parlare, per esempio, di bandire dai programmi del liceo lo studio di due pensatori importanti come Marx e Freud. Strano, no?La brutalità è limitare la libertà di espressione dei professori che ora non avranno il diritto di condividere una visione del mondo diversa da quella del loro Presidente, diversa da quella del ministro dell’educazione. Per queste divergenze sono previste delle penalità. So che avete avuto anche in Italia una storia non dissimile, con una docente mandata via dal suo posto di lavoro per aver trattato in modo non neutro il tema del fascismo. La brutalità è quando una classe che ha deciso di scioperare viene messa in ginocchio fuori dal perimetro della scuola e la polizia si vanta di tenerla come si deve, le mani dietro alla nuca, in perfetto silenzio, solo perché i liceali erano agghiacciati. Tanto che adesso ritroviamo alle manifestazioni quel gesto di mettersi in ginocchio con le mani dietro alla nuca, come una forma di protesta contro le forze dell’ordine. Suona come un monito che dice: non dimentichiamo. E’ quindi già senza volerlo una pagina di storia del fascismo. Fa pensare al Cile di Pinochet. E infatti alcuni attivisti hanno creato un fotomontaggio di quella giunta militare con le teste dei membri del governo. La brutalità è mandare in questura degli alunni delle scuole medie perché hanno osato scrivere su un cartello, fuori dal loro istituto, “Macron, dimettiti!”. Alcuni ragazzi sono rimasti dentro più di ventiquattr’ore. Era chiaro l’intento di spaventarli una volta per tutte, facendoli sentire dei criminali. Potrei andare avanti con pratiche simili riservate a giornalisti indipendenti, messi al gabbio, umiliati, insultati, molestati, privati del loro strumento di lavoro e poi liberati senza un briciolo di scuse.  Se in Francia si è registrato, in questi ultimi sette mesi, il più alto tasso di violenza repressiva che la popolazione abbia subìto in tempi di contestazioni sociali dall’epoca della Guerra in Algeria, bisogna fare la distinzione tra violenza e brutalità. La violenza è ovunque, in ogni campo, a più livelli e gradi di intensità. Hannah Arendt diceva che è compito dello Stato gestirla, regolarla, smorzarla, ridurla, o invece farla salire. Per questo esiste il dispositivo dello stato di eccezione; misure che riducono per un periodo determinato le libertà individuali e si aprono i controlli a raffica, in qualsiasi momento della giornata. Così sono state perquisite le sedi di alcuni partiti politici, o hanno messo a soqquadro gli appartamenti di gruppi anarchici, senza trovare nulla di compromettente. Lo si fa quando il paese è di fronte a una minaccia terroristica.  Lo si faceva appunto ai tempi del conflitto con l’Algeria. Con la brutalità si sale di una tacca. E’ violenza gratuita volta ad istruire/educare chi la subisce. La brutalità ha un messaggio. La brigata che mette in ginocchio una scolaresca perché qualche studente ha incendiato un secchione dell’immondizia durante una manifestazione contro la riforma della scuola ha la precisa funzione di lasciare un segno. Nella periferia di Parigi questi episodi non sono rari, ma di solito la vittima è una sola persona, al massimo due. Quindi prima la cosa non faceva molto rumore.

E ora veniamo alla poesia. La brutalità è un materiale come un altro, mi verrebbe da rispondere. E’ più infiammabile perché si spinge oltre il limite di decenza consentito. Viene sfruttato dai media per attirare l’attenzione degli spettatori. Dentro una poesia, invece, non sono sicuro che possa attirare molta gente. Non mi pare di strumentalizzarla, né di riuscire tuttavia ad esorcizzarla. Vorrei scrivere poesie d’amore, e invece mi escono queste, che non sono semplici descrizioni, ma tableaux vivants, esperienze in movimento, correnti o scariche elettriche. E’ cioè la scena che prende la parola. E’ falsa, a posteriori, come lo sarebbe in una pagina di romanzo, e allo stesso tempo del tutto vera. Eppure una volta pensavo di poter operare similmente con le poesie d’amore, come quelle presenti nella raccolta La cura(2015). L’unica conseguenza sociale che queste rappresentazioni della brutalità hanno provocato consiste nel fatto che due o tre persone mi hanno scritto in privato, dopo avermi letto, per  ringraziarmi di aver detto qualcosa che loro da troppo tempo volevano esprimere con dolore. Perché non se ne poteva più di questo silenzio. Ma in realtà, giornali e siti di informazione non hanno mai smesso di occuparsi dei danni materiali. Quindi che diavolo ha fatto la poesia? Forse non ha strumentalizzato certe immagini. Ha creato un silenzio attorno alla brutalità. Ha tolto l’audio. E come al cinema, se tolgono l’audio per un momento, sentiamo meglio il nostro corpo, come sta affrontando la scena.

 

 

S.M.: A proposito di quello che racconti circa i fatti francesi degli ultimi tempi, mi riferisco al movimento dei gilets jaunes e alle mobilitazioni di piazza del 2018 e del 2019, come si pongono gli scrittori, in particolar modo i poeti, rispetto a quello che accade? E più in generale ci sono poeti contemporanei francesi che segui con attenzione? Credi che questi movimenti siano carburante per una poesia politica?

 

F.B.:Direi che in Francia, nell’ultimo anno, abbiamo assistito ad un movimento periferico, giunto dalle province e che si è concentrato (cosa inedita) non sulle piazze, bensì sulle rotatorie, all’ingresso delle città, dei piccoli centri, e poi nelle strade delle grandi città, preferibilmente il sabato, ed eccezionalmente la domenica. Quindi si è passati dalla piazza (i movimenti della primavera araba, greca, spagnola, e francese, tra il 2011 e il 2016) agli incroci. E’ sintomatico, perché i movimenti di piazza hanno fallito lasciandosi circondare. Questo movimento invece non voleva essere accerchiato. Che stia fallendo lo stesso? Non lo so… Ma si è mostrato di certo più duraturo e aggressivo. Ha avuto anche dei tentativi di emulazione in vari paesi del Sud del mondo, in Medio Oriente, nell’Europa dell’est. Dal Messico e dall’Argentina è arrivata una grande solidarietà. E i poeti in tutto ciò? Non mi sembra che abbiamo reagito in modo costruttivo. Certo, la letteratura ha tempi lunghi. E bisognerà seguire nei prossimi mesi e anni cosa questo movimento ha lasciato loro. Comunque, all’ultimo Mercato della poesia di Parigi, il pubblico ha guardato con imbarazzo i pochi gilet gialli intervenuti per fare volantinaggio e dire che amavano la poesia e la letteratura. Qualcuno ha anche chiesto: « che c’entrano loro con noi? » Come se si trattasse di animali o piccioni atterrati per sbaglio dentro un negozio. Per fortuna sono i saggisti che hanno risposto per primi, sebbene con un po’ di ritardo, un ritardo tipico di tutta l’intellighenzia che ha snobbato il movimento e che diffidava delle azioni svolte in strada (blocchi, sommosse). Il filosofo Alain Badiou ha detto la sua, muovendo grossi dubbi sulla strategia adottata e la composizione dei gilet gialli .Al contrario, Frédéric Lordon (economista e filosofo) è praticamente sceso in piazza con un megafono, come già tre anni prima. C’è stato anche qualche intervento tardivo da parte di due o tre romanzieri che hanno scritto pamphlet o articoli in difesa del movimento. Erano stati comunque più svelti un anno fa, per sostenere gli scioperi dei ferrovieri contro la funesta riforma della SNCF, che ora si apre alla concorrenza dei privati. Altra battaglia persa; quando perfino gli inglesi ci avevano sconsigliato di liberalizzare i trasporti ferroviari! Bisogna leggere il piccolo saggio di Danièle Sallenave (Jojo le gilet jaune) per avere un’idea sulla difesa della dignità cittadina che sta venendo fuori. Ma esistono vari librini o libroni sul fenomeno dei gilet gialli, che qui è ormai entrato nella Storia, possiamo dirlo, perfino nelle enciclopedie più commerciali. Ma per tornare ai poeti, la questione è più complessa. Non hanno reagito (tolta qualche eccezione,sui siti di estrema sinistra), perché in generale diffidano della poesia engagé. Infatti non si trovano libri di versi che diano conto degli ultimi movimenti sociali o di questioni politiche. La poesia sperimentale (dell’estremo-contemporaneo, come è stata definita da alcuni specialisti) si è occupata di registrare posizioni di rivolta o di forte contestazione sociale, senza realismo. E’ un vecchio retaggio delle neoavanguardie, che qui vanno ancora per la maggiore. E’ un filone molto seguito, anche editorialmente parlando. Un paio di esempi emblematici: Jean-Marie Gleize (1946), influenzato da Denis Roche (1937-2015), attento a questioni teoriche sulla poesia, autore di saggi , editore e redattore di una rivista di poesia di ricerca. Ha pubblicato raccolte di “prosa in prosa”, una poesia fredda, interessata all’aspetto letterale del testo, dura, volentieri sensibile alla natura, ma con l’ossessione della fotografia come modello alternativo. L’altro è sempre un poeta sperimentale che usa la tecnica cara agli oggettivisti americani e a William S. Borroughts (senza innovare particolarmente il genere) per  realizzare montaggi di articoli su Gaza, il ciclone Katrina, Guantanamo ecc. Si chiama Franck Smith (1968) e avverte il lettore che non c’è una sola parola che gli appartenga in questi libri… Ma stavo per dimenticare Nathalie Quintane, la quale sceglie non più la poesia, ma il racconto per restituire la complessità e la brutalità dei conflitti sociali tra il 2016 e il 2018. Un oeil en moins (Un occhio in meno) è davvero un libro politico e di alto livello letterario. Detto ciò, ho smesso di seguire i poeti francesi con particolare attenzione! Nella loro riluttanza rispetto alla dimensione sociale della poesia, io avverto quasi una forma di disgusto per chi si azzarda a trattare di questi temi. Come se fosse roba di altri tempi o semplicemente troppo volgare per finire in versi. Una volta un poeta molto intelligente mi ha detto che tanto, dopo il percorso di Louis Aragon tra le due guerre, non si poteva fare di più. Inutile provarci. Il catalano Gabriel Ferrater diceva che Aragon aveva scritto qualche buona poesia in guerra, ma servivano proprio tutti quei morti per stimolarlo? I poeti hanno scritto sotto la resistenza, negli anni 40, e poi una decina di anni più tardi, durante la guerra in Algeria. Sentivano di dover prendere la parola in pubblico. Oggi ritengono che sarebbe ridondante farlo,ma anche solo scrivere della chiusura delle fabbriche  o dei feriti alle manifestazioni è visto come un atto futile. Chi ci prova è guardato come fosse un imbecille. Questo è il contesto in cui nasce La collaboration, il mio terzo libro in francese, poi tradotto in italiano. Questo è il carburante che hanno trovato i poeti per tacere. Ho l’impressione che i primi ad avere un’idea borghese della poesia siano i poeti. La letteratura in prosa lo è molto meno: basti guardare a certa fantascienza distopica, o al coraggio dei saggisti.

 

S.M.: In Italia, tornando al discorso sulla brutalità, non ci sono molti poeti che provano a fare i conti con il presente in questi termini, almeno in versi. Fuori da questi invece, esiste un dibattito piuttosto attento a qual è il rapporto moderno tra poesia e società. Anche qui, pensi che questi possano essere i prodromi per una poesia che riattivi l’audio ad un cinema muto?

 

F.B.: A me pare che in molti si occupino del presente. Ma chi di loro percepisce la brutalità? Ed è poi portato a parlarne? Non lo so. E’ difficile rispondere senza generalizzare. Ma poi, la brutalità si esprime allo stesso modo in Italia? Mi viene in mente un solo titolo che funziona un po’ come il nome di una pietanza scritto in un menù: Coordinate per la crudeltà (2018), di Fabrizio Lombardo. Una volta ordinato il piatto, ci troviamo davvero di fronte a una porzione di crudeltà? Verso la fine del libro c’è una poesia che fa pensare ai magazzini agghiaccianti di Amazon, in cui gli impiegati vengono trattati in modo inumano. La domanda è: una volta fatto due più due, ossia una volta associato quel magazzino della poesia al mastodonte americano che fa chiudere i piccoli librai e considera i suoi dipendenti come macchine, riusciremo davvero a boicottarlo in massa? Tu osservi giustamente che più che scrivere di questioni sociali (e societali), si dibatte tra poeti sul rapporto moderno tra poesia e società. Che basti dibattere di ciò per stimolare qualche partecipante a rendere conto in versi delle tensioni che attraversano la società italiana?  Credo che accada il contrario, se penso che Umberto Fiori è stato invitato ad un colloquio del genere. E’ accaduto prima o dopo l’uscita del suo ultimo libro, Il conoscente ? Ma ecco un lavoro attraversato dalle tensioni sociali, anche se non sono quelle di oggi. Capita che si faccia i conti col proprio passato, a diversi decenni di distanza. Per altro, quelle tensioni  sono rappresentate in modo molto fine. Fiori ha sempre dipinto la realtà dei rapporti urbani come un’aggressione permanente, sulla base di irrimediabili fraintendimenti tra interlocutori che non si conoscono. Quella è violenza, non brutalità. Ed è estremamente interessante. Non ha bisogno che si tolga l’audio. Ha una sua musica: ripetitiva, eppure mai noiosa.  Anche La pura superficie, di Guido Mazzoni, è gremito di realtà inquietanti, di gente che non può capirsi (mi viene in mente la prosa su Genova 01). Lo ritengo un libro importante sotto il profilo antropologico, non lontano, in teoria, dal modus operandi di J-M Gleize, ma senza neo-avanguardismi e neppure le credenze che animano tutto sommato ancora il poeta francese . C’è però un’impasse in quella raccolta, e mi chiedo come l’autore ne verrà fuori nel prossimo lavoro,  perché il rischio grosso è di finire soffocati dalla tesi o dal dogma.

 

S.M.:  Avviandoci verso la conclusione, il tema centrale di questa conversazione è, o dovrebbe essere, il conflitto. Per questo ti chiedo cos’è il conflitto nella tua poesia e nella tua lingua e da cosa è rappresentato o generato?

Ti saluto con un tuo poema presente ne La collaborazione, L’ora della rappresaglia, il quale recita questi versi finali che si rivolgono a chi collabora, a noi tutti, lavoratori, precari etc.:

 

Tutte le storie che assorbo gli attacchi indiretti

mi accomunano a loro e a parte l’orrore

che la Rete mi suscita intravedo l’unione

di migliaia di mani e teste pronte ad agire

Immaginate una rivolta negli anni venti

se ognuno per difendersi avesse gli strumenti

Comincio a sognare il metodo un altro regime

democratico oh voi che ne respirate l’aria

lottate battetevi anche senza vittoria

 

F.B.:  Non posso ignorare il fatto che in ogni tua domanda c’è il tentativo, paziente ma ostinato, di riportarmi sempre verso un campo di battaglia, e ora cercare di farmi chiudere in bellezza con un lieto fine. Questo che citi qui sopra dovrebbe essere un atto conclusivo in cui o si vince o si perde. L’ultimo verso suggerirebbe che in caso di sconfitta, non ci si potrà accusare di  non averci provato. E ciò mi riporta a Brecht, col quale hai voluto aprire questa conversazione. Non era proprio lui a dire: « Chi combatte può perdere, ma chi non combatte ha già perso »?  Ci troviamo allo stesso punto. Gli indifferenti sono complici di chi sta facendo girare la Macchina infernale senza conducente. La Macchina corre, va sempre dritta. Sappiamo che tra non molto andrà a sbattere contro un muro, ma nessuno si alza. Ci sono complici coscienti e altri inconsapevoli di questa corsa verso l’autodistruzione. Possiamo scegliere ogni giorno, ogni mattina di opporre resistenza o meno. A volte sono tentato di aprire il finestrino e scaraventarmi giù per un pendio. Sarebbe come uscire dal gioco, ritirarmi per non essere più raggiungibile. Anni fa ho creduto fosse possibile. Altre volte vorrei che prendessimo il volante, almeno in due. Ma purtroppo c’è un pilota automatico. Tutto è stato programmato così bene, un piano tessuto a dovere. Allora bisogna sfasciare il congegno. All’origine c’è la sopraffazione, la dominazione. Ogni era ha conosciuto rapporti di  dominazione, tra una minoranza ben organizzata, credibile, con un potere forte, e una maggioranza disorganizzata, sprovvista delle stesse armi. I primi facevano camminare i secondi tirando le redini. E’ così dalla notte dei tempi. Però la Macchina ha cambiato nome, da un paio di secoli, e abbiamo capito che per andare avanti deve distruggere e travolgere molte persone sul suo passaggio. Io quando ero piccolo trovavo nel bagno di casa piccole pile della rivista “Capital”. Sulle copertine c’erano sempre signori sorridenti in giacca e cravatta, e i titoli promettevano cose buone per i vincenti. Tutto è cominciato così. Dal padre. Uno psicoanalista direbbe subito che la rabbia nasce e si esaurisce lì. Un conflitto con l’autorità paterna? Rifiuto del modello proposto, perché poco sensibile? Ma a quarant’anni passati deve esserci pure qualcos’altro fuori che non va. Magari ci si è trovati in una serie di circostanze che fanno agire, e quindi c’è una scoperta attraverso l’azione. Questo ci struttura. Si scopre di non essere d’accordo sulle questioni di fondo, nonostante tutto portava ad essere educati in un certo modo, a casa, a scuola, all’università, al supermercato. Se l’essere umano è incorreggibile, allora anche il sistema che abbiamo accompagnato e dentro il quale siamo nati è irriformabile. Chi oggi lo chiama neo-liberalismo sbaglia solo perché crede che regolando un po’ i flussi finanziari, tassando un po’ le multinazionali, costringendo le banche a separare le sue operazioni, a delimitarle bene, tutto andrà meglio. E’ la sopraffazione il problema, e la corrente filosofico-cultural-economica  che lo legittima. C’è uno scarto che bisogna operare, ed ha a che fare con una dimensione spirituale, soprattutto in tempi di catastrofe ambientale in atto.  Già. Questa dimensione l’abbiamo evacuata. La poesia è un’arte povera. Se continuo a lasciarmi sedurre da questo linguaggio,  è che la poesia ha bisogno di sobrietà, controllo, silenzio, discrezione, e decrescita. Tutto il contrario di ciò che ci hanno insegnato a desiderare.  Per questo la poesia sta fuori dal gioco, e chi la scrive può stare alternativamente con un piede dentro il grande gioco e un piede fuori. Può insomma fare il famoso passo laterale e vedere quanto è ingannevole la promessa del bene comune come somma degli egoismi e delle azioni interessate; insomma, ciò che hanno fatto dire ad Adam Smith. Per me è una spina nel piede. Per cui il conflitto è un modo per togliersela o non sentirla, bisogna scalciare. Tanto la direzione è chiara: in alto a destra e anche a sinistra! Non so se questo conflitto si senta anche nella lingua che uso: la traduzione, anche quando scrivo direttamente in italiano oppure in francese. C’è sempre una traslazione, un passaggio, da una riva all’altra. A volte per me questo passaggio è impercettibile, sottilissimo. Un suono, due lingue e nessuna terra che sia una vera casa. Per cui, continuo a cercare.

 

 

 

Poema della fame – http://www.leparoleelecose.it/?p=35820