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STAFFETTA PARTIGIANA gli esiti del concorso

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di Redazione

Come molte lettrici e lettori sapranno, Nazione Indiana ha deciso di onorare l’ottantesimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo con un concorso per testi inediti. Un concorso rivolto agli under 35 perché (citiamo dalla nostra call di autunno) “pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza“.

A fine gennaio abbiamo ricevuto i racconti, e ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo.

I testi ricevuti condividono un pregio non irrilevante, una volontà civile di raccontare quelle storie di antifascismo che, di per sé, va premiata e merita il nostro ringraziamento. Ma il nostro è pur sempre un concorso. Quindi abbiamo valutato i testi dividendoci in due giurie, e ne abbiamo selezionati 12 che ci sono sembrati i più meritevoli di pubblicazione su Nazione Indiana. In realtà 11 testi + uno: c’è una menzione speciale a un’autrice (Alice Ghinzani, 2010), una ragazza che ci ha colpiti per la sua giovane età e che abbiamo voluto premiare.

E così anche Nazione Indiana ha un concorso letterario e una… dozzina. Ci voleva l’ottantesimo della Liberazione per spingerci a tanto.

Le giurie (composte da: Mariasole Ariot, Gianni Biondillo, Silvia Contarini, Francesco Forlani, Lisa Ginzburg, Andrea Inglese, Renata Morresi, Davide Orecchio, Orsola Puecher, Ornella Tajani) si sono poi unite e hanno individuato il racconto vincitore: Sotto la terra di Claudia De Angelis. Il testo si ispira alla storia di un borgo tra Terra di Lavoro e Ciociaria, San Pietro Infine. I suoi abitanti, nel dicembre 1943, cercarono scampo dai bombardamenti nelle grotte della valle. Lo pubblicheremo il 25 aprile.

Ecco l’elenco dei vincitori con il calendario di pubblicazione sul sito.

  • 14 aprile
    Jenide Russo (Alice Ghinzani, 2010)
  • 15 aprile
    La staffetta (Federica Grasso, 2000)
  • 16 aprile
    Il canto (Sean Ashmore, 1993)
  • 17 aprile
    Nascondino (Nicola Maria Fioni, 1996)
  • 18 aprile
    Nun si parti (Sofia Rigoli, 2003)
  • 19 aprile
    Galline di Montagna (Rodolfo Sgro, 1994)
  • 20 aprile
    Vattinne (Giorgia Giuliano, 1994)
  • 21 aprile
    Nebbia di guerra (Chiara Cassaghi, 1998)
  • 22 aprile
    Io sottoscritto Parmigiano racconto e rinvengo il mio operato (Alessandro Tesetti, 2000)
  • 23 aprile
    Il brutto male (Camilla Pasinetti, 1994)
  • 24 aprile
    Nelle retrovie (Linda Farata, 1994)
  • 25 aprile
    Sotto la terra (Claudia De Angelis, 1992)

“Racconti vincitori”… ma dovremmo usare il femminile prevalente. Dovremmo parlare di “vincitrici”, visto che in 8 casi su 12 si tratta di autrici. Nel nostro concorso, insomma, c’è stata una piccola Resistenza delle donne, anzi delle ragazze, ed è forse un elemento virtuoso in più entro un’iniziativa che è sì culturale e letteraria, ma è soprattutto civile e politica.

Un aspetto comune ai testi ricevuti – che li abbiano scritti donne o uomini – è che pressoché nessuno (a parte qualche eccezione) ha scelto di mostrare la guerra vera e propria, né la violenza resistenziale. Ci sarà da riflettere su questo dato più esistenziale che estetico. La guerra resta sullo sfondo. Si incarna in un fratello, o in un padre, o in un figlio che combatte al fronte o in montagna, o che è già morto. In un’assenza. I fascisti e i nazisti ci sono, certo, eccome se ci sono, con le loro torture, con i loro rastrellamenti e i lager. Ma il racconto del combatterli (o del resistere nel sopravvivere, nel durare più che nel fare la guerra) predilige i sotterfugi, le astuzie e le manovre clandestine. E poi l’attesa ctonia in grotte e nascondigli.

Che sia un sintomo del nostro tempo, a suo modo attonito e impotente, più che del tempo che ci liberò ottant’anni fa? Avremo modo di tornarci sopra e rifletterci ancora.

Buone letture e buon anniversario della Liberazione.

“STAFFETTA PARTIGIANA” concorso letterario

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Nazione Indiana promuove un concorso per racconti e scritture brevi inedite sulla Resistenza e la Liberazione.

[Aggiornamento 2 febbraio 2025] Ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo. Cominceremo a breve le letture dei testi.

Nazione Indiana ha deciso di onorare l’80esimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo, che si celebrerà il 25 aprile 2025, con un concorso per testi inediti.

Il concorso è rivolto agli under 35 perché pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza.

La nostra iniziativa può fare per te se hai meno di 35 anni e ami le storie della Resistenza, le storie di chi ha lottato per liberare l’Italia dal nazifascismo.

Pensiamo che valga la pena di leggerle e narrarle ancora perché la memoria storica cambia, si evolve, ma raccontare la Resistenza non perde il proprio valore morale e politico, anzi farlo diventa ancora più importante nell’Italia di oggi, governata da forze che non hanno mai fatto i conti col proprio passato fascista e neofascista, che non lo rinnegano, che al contrario lo alimentano e lo tengono più in vita che mai.

Se ti vuoi mettere in gioco provando a raccontare in un testo – in un racconto appunto, o una biografia, o una scrittura breve o ibrida – una storia della Resistenza e della Liberazione, ecco le regole d’ingaggio di questo concorso:

  • I testi inediti (inediti anche sul web) dovranno essere lunghi minimo 12mila battute e massimo 24mila battute spazi inclusi. I testi che non rispetteranno questa lunghezza non saranno letti.
  • Dovranno essere inviati in formato .doc alla mail staffettapartigiana.ni@gmail.com.
  • La data ultima per la ricezione dei materiali è il 31 gennaio 2025.
  • Per comunicare l’età del mittente basterà un’autocertificazione.
  • Le redattrici e i redattori di Nazione Indiana leggeranno e valuteranno i testi e i migliori saranno pubblicati su Nazione Indiana a partire dal 25 aprile 2025.
  • Il racconto che giudicheremo più riuscito sarà premiato con la pubblicazione su Nazione Indiana il 2 giugno 2025, e il suo autore sarà invitato a leggerlo in occasione della Festa annuale di Nazione Indiana.
  • I migliori racconti ricevuti saranno poi raccolti in un e-book che si potrà scaricare gratuitamente dal sito di Nazione Indiana.
  • Hai carta bianca e piena libertà di invenzione, oppure puoi ispirarti a una storia realmente accaduta, usando e citando documenti e fonti, attingendo dagli archivi, dalle biblioteche o dalle risorse online.

Aspettiamo di leggerti!

VOLANTINO STAMPABILE PER CHI VOLESSE DIFFONDERE LA NOSTRA INIZIATIVA

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

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di Jamila Mascat

(Tim & Puma Mimi, Oh My Bike, 2019)

Nonna Anna avrebbe detto “sempre meglio che una disgrazia”. Lo ripeteva con nonchalance ogni volta che – e, spesso, per quel che mi sembra di poter ricordare – perdeva un documento, un portafoglio, una chiave di casa. Perfino dopo uno scippo che nel 1985 le era costato trecento o quattrocentomila lire. Da piccola non riuscivo a immaginare una disgrazia senza contemplare la fine del mondo, perché tutto il resto apparteneva alla categoria del sempre meglio. Crescendo, però, ho imparato che anche il dispiacere vuole la sua parte, discretamente e senza clamore. A volte le cose semplicemente dispiacciono. Come la settimana scorsa che mi hanno rubato la bicicletta. Ho reimparato ad andare in bicicletta a 42 anni, dopo 30 anni di astinenza, senza aver mai coltivato alcun feticismo delle due ruote, senza aver mai partecipato a una Critical Mass, senza aver mai nutrito un grammo di ammirazione per i ciclisti vestiti da ciclisti che affannati in fila indiana arrancano sulle strade provinciali la domenica mattina presto, i fanatici del vélib parigino, gli irriducibili che si lanciano nel traffico maleodorante di Roma con o senza casco, gli inossidabili impermeabili che sfidano la pioggia battente di Amsterdam. Al culmine dell’orrore i sellini: stretti, squadrati, appuntiti, rigidi, ridicoli anche se ergonomici, per cui ho sempre provato un’inspiegabile repulsione. Poi sotto la pioggia di Amsterdam, che non è sempre così battente come la credevo, ci sono finita anch’io e sono stata catapultata in un universo della mobilità fino ad allora sconosciuto, ad andamento lento ma non troppo, alternando omafietsen (le bici della nonna, che frenano retropedalando) e bakfietsen (le bici cargo su cui si caricano bambini, cani o oggetti di grandi dimensioni).

(Shadi Ghadirian, Qajar #6, 1998)

La scoperta della bicicletta è stata un’iniziazione alla settima dimensione dei trasporti terrestri. Perché la velocità e la visuale in bici non hanno nulla a che vedere con quello che offrono piedi, treni, auto, tram, bus, quad e motorini. Pedalare è panta rei. Un pezzo pubblicato sul San Francisco Chronicle il 25 gennaio del 1879 – San Francisco a fine Ottocento è l’avanguardia ciclistica degli Stati Uniti –  e intitolato “The Winged Heel” (Il tallone alato) rende omaggio a “l’euforia della bicicletta” celebrando “un’estasi di trionfo sull’inerzia, la gravitazione e gli altri pigri vincoli che ci trattengono”.  In bici, conclude, “You are traveling! Not being traveled!”

(San Francisco, 1870).

Così, l’euforia della bicicletta ha riattivato anche in me quel residuo di ostinazione infantile, a dispetto dell’età, che di fronte al non sapere rivendica ossessivamente il diritto di capire tutto, l’utile e l’inessenziale – Come si raddrizza un manubrio storto? Come si allacciano i catarifrangenti ai pantaloni? Come decorare a festa i raggi delle ruote, ma soprattutto perché? – fino ad essere risospinta alla domanda sulle origini – ma chi ha inventato la bicicletta? –  per rimbalzare sugli orrori estrattivi del caucciù.

Come nel caso di tante invenzioni, perfezionate nel corso dei secoli, anche la bicicletta è il frutto di un general intellect che si è dispiegato lungo circa un secolo per arrivare a produrre un dispositivo su due ruote che somiglia alle bici che conosciamo. In questa staffetta di eureka si susseguono il velocipede (o draisina), ideato nel 1817 dall’aristocratico tedesco Karl Drais, la Treadle bycicle (1839) a pedali, ma senza catena, costruita dal fabbro scozzese Kirkpatrick Macmillan, la Michaudine di Pierre e Ernest Michaud (1869) che sposta i pedali in avanti, sulla ruota anteriore, quest’ultima in crescita esponenziale fino ad arrivare al Grand bi che sfoggia 150 cm di diametro (1870). E ancora la prima bici con catena (1880), fabbricata dal londinese Harry Lawson, e infine la Hirondelle (1900) – la bici dei poliziotti francesi il cui nome deriva proprio dall’aspetto dei ciclisti che indossavano un mantello nero e si aggiravano con ali di rondine –  la cui sagoma già ricorda da vicino la silhouette di una bicicletta dei nostri giorni. Senza addentrarsi nei meandri delle catene, degli ingranaggi e dei freni, di cui l’evoluzione meccanica rimane per me incomprensibile, non si può parlare di bici senza inciampare nel mistero delle ruote e dei materiali di fabbricazione di questi cerchi magici, e poi la fattura, la consistenza, la resistenza, la resilienza. E come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario sugli imperi coloniali.

È soltanto alla fine del 1800 che la gomma diventa un ingrediente fondamentale per la costruzione delle biciclette, mentre fino ad allora circolavano soltanto ruote rigide e non ammortizzate, di legno e metallo Nel 1888 sembra che il chirurgo veterinario scozzese John Boyd Dunlop, osservando il figlio pedalare con fatica in sella ad un triciclo su un pavimento accidentato, si sia posto il problema di come fare per ridurre i contraccolpi. Allora avvolge le ruote con strisce di gomma incollate e gonfiate con una pompa meccanica creando la prima rudimentale camera d’aria della storia. Nasce così il pneumatico, e nasce nel 1890 la Dunlop Rubber che brevetta e commercializza con successo le ruote di gomma. Édouard Michelin l’anno successivo perfeziona l’invenzione di Dunlop e costruisce il pneumatico smontabile, facile e rapido da riparare, con cui Charles Terront nel 1891 vince la corsa ciclistica Paris-Brest-Paris. Inizia così l’età dell’oro della bicicletta che realizza il sogno di libertà di chi non può permettersi le carrozze (né le neonate automobili) e delle donne della buona società.

Nel 1895 si contano 7 milioni di biciclette in tutto il mondo. Dunlop, Michelin, Good Year, Continental, Pirelli fanno impennare la domanda di caucciù per fabbricare pneumatici di gomma. La gomma non è una novità assoluta, già intorno alla metà dell’Ottocento viene utilizzata nelle ferrovie o nell’industria militare per produrre scarpe, stivali, protezioni per baionette, teli, borracce, bottoni, e anche protesi ricostruttive. Soltanto l’invenzione del pneumatico e il boom del ciclismo, però, inaugurano la corsa al caucciù. La gomma sintetica fa la sua comparsa solo dopo la prima guerra mondiale; fino ad allora viene ricavata dal lattice prodotto dagli alberi della gomma (l’Hevea bresiliensis o siringueira) in Amazzonia e dalle viti selvatiche (Landolphia) del Congo. La giungla congolese e la foresta amazzonica (e solo successivamente le piantagioni del Sud-est asiatico) saranno per un quarto di secolo circa i luoghi di estrazione del caucciù per excellence. Così, mentre l’Europa e l’America del Nord si godono la libertà delle due ruote, sotto l’Equatore milioni di individui vengono condannati dalla gomma ai lavori forzati.

In The Thief at the End of the World: Rubber, Power, and the Seeds of Empire (2008), lo storico Joe Jackson racconta che la popolazione dello Stato Libero del Congo, in realtà proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II dal 1885 (Conferenza di Berlino) fino al 1908, passò da 25 milioni a 10 milioni, sacrificando 15 milioni di morti sull’altare del caucciù. Un simile destino toccò in sorte alle popolazioni indigene del Putumayo tra il Perù e la Colombia. Leopoldo II non mise mai i piedi in Congo, amministrando a distanza i proventi del caucciù prodotti dalla Anglo-Belgian India Rubber Company, rifondata con capitale unicamente belga nel 1898 come ABIR Congo Company. A vegliare sui dannati del caucciù furono predisposte le milizie della Force Publique, truppe di mercenari, volontari ed ex ufficiali degli eserciti europei (belgi, italiani, danesi, svedesi, norvegesi) amanti dell’avventura, del sangue e delle punizioni corporali.

Alice Seeley Harris, missionaria inglese in Congo considerata come l’iniziatrice di una delle prime campagne internazionali per i diritti umani, raccoglierà centinaia di foto con la sua Kodak, documentando per la prima volta gli orrori delle mutilazioni inflitte quotidianamente alla popolazione congolese per sostenere il ritmo della produzione della gomma. All’inizio del 1906, Alice Harris e suo marito John viaggiano negli Stati Uniti proiettando in 49 città, con il supporto delle lanterne magiche in voga all’epoca, le immagini scattate da lei. Alcuni di questi scatti, quello stesso anno, saranno pubblicati dal quotidiano New York American durante una settimana.

Nel King’s Leopold Soliloquy (1905) Mark Twain aveva indirettamente reso omaggio alla fotografia militante di Harris per bocca del re Leopoldo che, nel corso di un’oscena apologia di se stesso, agita lo spauracchio dei missionari  – “They travel and travel, they spy and spy!”-  e della macchina fotografica – “Then that trivial little Kodak, that a child can carry in its pocket, gets up, never uttering a word, and knocks them dumb”.

Nsala, di Wala, nel distretto di Nsongo a sud di Kinshasa, fissa la mano e il piede di sua figlia Boali, amputati. 14 maggio 1904 (Alice Seeley Harris).

 

“Esperimento su Bòttego”: un nuovo e-book di Nazione Indiana

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Un nuovo e-book di Nazione Indiana

di Andrea Inglese

Nazione Indiana, nonostante la sua un po’ spaventosa longevità, mantiene una sua giovanile inquietudine, una sua curiosità onnilaterale e poco addomesticata, anche se nel mondo letterario più si è domestici più si vive tranquilli. Segno di questa irrequietezza sono i suoi slanci editoriali, che in passato hanno prodotto incursioni puntuali, ma meditate. Alludo ai tre titoli della collana “Murene”, tutti volti all’altrove (Stephen Rodefer, poeta statunitense, curato e tradotto da Andrea Raos; Ingo Schulze, narratore tedesco, curato e tradotto da Stefano Zangrando; Miguel Torga, scrittore portoghese, tradotto e curato da Massimo Rizzante) e nati da una costante passione di condivisione, che ancora oggi non può non caratterizzarci, in quanto blog collettivo, entità policentrica e dialogante. Ai tre volumi cartacei di “Murene”, si affiancano però anche quattro e-book, che hanno la principale caratteristica di raccogliere una pluralità di voci, sia interne che esterne al blog. A parte 25 passi in file indiani, nato come raccolta libera di pezzi apparsi su Nazione Indiana a firma dei suoi redattori, sorta di “carotaggio” estemporaneo rispetto alla ricchezza dell’archivio, gli altri tre si concentrano su questioni d’attualità, cercando di “stringerle” attraverso la diversità degli approcci (e-book sulla “responsabilità dell’autore”, sugli “attacchi terroristici in Francia del 2015”, sull’esperienza della “pandemia di Covid-19”). A queste iniziative va ad aggiungersi, il volume collettivo Piccolo vocabolario autostradale a uso dei contemporanei, a cura di Gianni Biondillo.

Oggi vi presentiamo un nuovo e-book, stavolta non si tratta di una traduzione né di un lavoro collettivo. Il caso come sempre lavora per noi, dal momento che tendenzialmente anarchici come siamo non potremmo permetterci programmi di lungo periodo. Esperimento su Bòttego nasce da un “primo” esperimento, da un primo pezzo che Fabrizio Bondi, amico e attento lettore del blog, mi ha proposto di pubblicare (26 aprile 2022). La prima frase diceva: “Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto”. Il carattere anomalo, installativo, sperimentale, politico, di quel testo (corredato da fotografie), mi aveva subito convinto. E la sua fuoriuscita dal laboratorio privato ha permesso a Bondi di testarne la “resistenza” alla pubblica lettura e, chissà, ha magari contribuito a suscitargli il desiderio di radicalizzare quel primo accerchiamento / malmenamento di una celebrata figura di esploratore, militare, scienziato, avventuriero, a cui il colonialismo crispino aveva lasciato mano libera nel Corno d’Africa.

L’attuale e definitiva (?) versione di Esperimento su Bòttego arriva giustamente in ritardo rispetto a una recente ondata di attivismo decoloniale diffuso, che si è tradotto in più o meno riusciti sbullonamenti di monumenti possibilmente equestri, o comunque agghindati d’elmi, panciotti e sciabole. Ma è questo che c’interessa: con una zampata che accoglie il lato più corrosivo del post-moderno, Bondi sganghera ludicamente e perfidamente il Vittorio Bòttego, che campeggia intatto davanti alla Stazione di Parma. Mette mano alle opere di questo, riscrivendo, rimontando, sforbiciando. Nello stesso tempo, ne fa un racconto della propria infanzia, della propria vocazione mancata, di naturalista. Una tale opera imbarazzerebbe ovviamente l’asse editore-libraio. In quale collana e genere lo infiliamo? E in quale scaffale? Nazione Indiana non s’imbarazza di questa incollocabilità, nata da una del tutto avverata attitudine sperimentale. Ringraziamo, quindi, Fabrizio Bondi, che conoscevamo come studioso del Rinascimento e critico militante. Ora lo scopriamo scrittore di ricerca.

Un’ultima riga sul tema. Il pensiero decoloniale non è estraneo a Nazione Indiana, così come non lo è l’attenzione alla storia del Ventennio fascista, che riportò in auge miti, velleità e atrocità dell’imperialismo colonialista inaugurati nell’era crispina. (Ricordo, per altro, che Igiaba Scego è stata per un certo tempo, e sicuramente non invano, in Nazione Indiana.)

Il testo che segue, di Giuditta Bassano, introduce più approfonditamente di quanto abbia fatto io il nuovo e-book di Nazione Indiana. Un grazie particolare a Orsola Puecher e Jan Reister, senza i quali nulla di queste prelibatezze digitali sarebbe possibile.

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L’esploratore esplorato

di Giuditta Bassano

Vittorio Bottègo (1860-1897), giovane aitante capitano d’artiglieria, è stato protagonista di una serie di avventure nel Corno d’Africa; attraverso queste vicende, assurse a eroe del colonialismo crispino. Come esploratore di alcune aree fluviali della Somalia e dell’Eritrea Bòttego fu naturalista ma anche uomo d’armi di indiscussa violenza, emblema di un razzismo italico alquanto poco transeunte. Vittorio Bottègo era nato a Parma: davanti alla stazione della sua città esiste tutt’oggi un monumento che ne commemora il coraggio e le imprese. Fabrizio Bondi parte da qui, cioè dall’eredità sinistra di un monumento, “l’accrocchio”, di cui appare difficile riconoscere oggi l’appropriatezza. L’autore si immerge allora nella “pelle linguistica” del Bòttego, perché l’eroe parmigiano aveva eretto “un altro monumento, un monumento a se stesso” mettendo per iscritto i suoi viaggi. Potremmo parlare di una guerriglia ventriloqua, o di una poetica (sperimentale) della vendetta.

Ariostista e professore di letteratura italiana, Bondi arma infatti la  propria sensibilità letteraria e il proprio dominio della metrica italiana (contro la retorica italica dei resoconti dell’eroe) per “montare” una testimonianza su Bòttego con le sue stesse parole. Un esperimento di pidgin politico, in cui le immagini dell’esploratore, le sue impressioni in terra africana, la cosmogonia patriottica di epoca crispina forniscono un bacino semantico che Bondi stravolge attraverso una sintassi inaudita. Saggio e testo letterario insieme, un po’ in prosa e un po’ in versi, “Esperimento su Bòttego” è un lavoro che più che leggere si può piuttosto frequentare e abitare, entrando da un punto qualsiasi del suo congegno narrativo, persino cominciando, se si vuole, dalle note finali. In questa esplorazione ci si imbatterà in una serie di appunti filosofici sul concetto di monumento, nei rapporti tra Bottègo e Carlo Dossi, nelle raggelanti descrizioni dell’efferatezza coloniale, ma non meno nella fauna del Corno d’Africa e nella saggia battaglia che le piante di fico muovono indefesse contro le statue e le opere umane di ogni sorta. È probabile che se ne riemerga convinti, con Bondi, che la “pasta, la materia della lingua, è tutto”.

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Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato epub

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato mobi

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato pdf

Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman

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di Mariasole Ariot

In un oggi in cui l’oggetto scompare, un fotogramma ci riporta a un passato in cui la “cosa” non era ancora datificabile e invisibilizzata ma terrena, tattile, imbevuta di sensi: è lo sguardo di una giovane ragazza che, in uno stato di sospensione, è catapultata in una dimensione altra da un walkman, un istante in cui il sonoro proiettata (e forse “progetta”) un futuro a venire. È Il Tempo delle mele, lo stesso tempo in cui Stefano Solventi ne Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman(Jimenez Edizioni, 2024) ci spinge a indugiare.
La ragazza è ferma, alle spalle un amico posa sulle orecchie un oggetto che separa la dimensione sonora in cui si trovano da una seconda dimensione altra che solo lei, ora, può sentire. L’apparizione del walkman in un tempo in cui l’oggetto/dispositivo cominciava a farsi strada nelle strade: ragazzi “incuffiati”, come li chiama Solventi, che entrano in uno stato larvale, di bozzolo, lontani da ciò che prima era l’ascolto corale, dell’insieme comunitario, dove il suono si dilatava nell’attorno ed era (necessariamente) condiviso.

Il libro è un attraversamento di tempi, suoni, immagini, percorre il passaggio dagli anni Ottanta (con un’incursione nei Settanta) all’epoca attuale attraverso un oggetto familiare a chi l’ha usato ma che in fondo non è mai scomparso ma solo evoluto.
Un libro che si potrebbe immaginare come un racconto ad alta voce, che apre al ricordo con un breve accenno nostalgico e si insinua nelle pieghe e nelle piaghe del presente. Riflette. Confida. Accenna ad un futuro, ipotizza. Come scrive lo stesso Solventi: a tratti sovrainterpreta.
E in questo sovrainterpretare, come nei frequenti riferimenti ai film citati, l’analisi accurata e approfondita si muove nell’azzardo, ma un azzardo che fa abbracciare una prospettiva. Prospettiva come ipotesi, prospettiva come luogo da cui si osserva.
Camminando pagina a pagina dagli anni Ottanta in cui già si intravedevano i primi cambiamenti del futuro accelerato di cui oggi facciamo ogni giorno esperienza, Lo sguardo di Vic ci parla del ciò che era per affacciarsi al ciò che è e ciò che forse verrà – o che è possibile avvenga. Un libro, come scrive lo stesso autore, non ottimista ma nemmeno apocalittico.

“Un qualche futuro comunque ci aspetta, indipendentemente dai nostri timori e dai nostri entusiasmi. Ci toccherà bene o male affrontarlo, e forse sarà utile considerare l’ipotesi di essere entrati in una fase di ominiscenza, come teorizzato dall’epistemologo e filosofo Michel Serres già nel 2001, ovvero un processo di inevitabile e continuo ripensamento del ruolo e delle possibilità della nostra specie al tempo del web, del digitale, della proliferazione.
Il verbo “profilare” è interessante. Nel suo significato transitivo rimanda al disegnare, al tracciare un contorno, mentre con l’intransitivo intende il preannunciarsi di qualcosa, un accadimento. La profilazione degli utenti implica la produzione di un’identità – il disegno del suo contorno – attraverso la raccolta della scia di dati che l’utente stesso produce, però mi piace pensare anche alla sua declinazione transitiva, ovvero all’annuncio di un accadere. Il profilarsi all’orizzonte di qualcosa.”

Ma se il libro è anche un’analisi sociologica del passato e del presente, è prima di tutto un raccontare personale e appassionato dell’esperienza stessa dell’autore dall’arrivo dell’oggetto negli anni Ottanta ai mutamenti nella fruizione della musica che hanno attraversato i decenni, una dichiarazione d’amore: frammenti di biografia personale appaiono come piccole luci che ci riportano – a chi è della stessa generazione dell’autore o poco distante da quella – a qualcosa che “ci manca” come pure a qualcosa di cui non abbiamo più la percettibilità, per cui oggi è necessario sedersi e ascoltare per poter afferrare.

“Immaginatevi la scena: un mattino di febbraio del, diciamo, 1984, temperatura tendente al gelido e il cielo lassù grigio come la pancia di un topo, una testa zuppa di sonno e generica insofferenza, eccomi lì che scendo dal treno, aspiro l’aria ferrosa della stazione di Siena, mi guardo intorno e decido di farmela a piedi fino a scuola. […] Quindi, indossate le cuffie, inizio a camminare. […] E penso “io” e penso “voi”. Intensamente. Intendo dire che non si trattava semplicemente di una passeggiata mattutina per sfidare gli elementi ed evitare la minaccia del controllore sul bus: era un rituale di identificazione.”

La presenza del qui e dell’altrove, dell’io e del voi ricorre nelle pagine: e io stessa, nello stesso momento in cui sto leggendo, nello stesso momento in cui sto scrivendo, sono inserita all’interno di una dimensione alterata e alternata in una costante e persistente oscillazione. Leggo, appunto, ascolto.

Quell’essere qui e altrove in cui oggi ci ritroviamo tutti, iperconnessi in un fuori che è un dentro, nel dentro di un dispositivo che genera dati quando il fuori (dalla rete) evapora pur essendo ancora presente. Un presentimento.

I momenti, le pagine autobiografiche, il ricordo di Solventi sono anche il nostro ricordo – sia per chi c’era che per chi, arrivato dopo, ricorda i ricordi di chi è venuto prima. I ricordi dell’Altro, un libro che (ri)genera comunità. E lo fa a partire proprio dall’oggetto. Le non-cose, per citare Byung Chul Han, sono nude. L’oggetto – il walkman in questo caso – non è nudo: è un oggetto reale, concreto, che la mano muove, che la mano decide e sceglie.

È sì, il libro, un omaggio al walkman, un’affezione ad un oggetto transazionale, personale ma anche collettivo, un piccolo dispositivo che già nella sua comparsa mostrava i prodromi del futuro che abitiamo, ma non è solo questo: è la traccia di un momento orizzontalizzato, che si condensa in alcune pagine per liquefarsi in altre, quando la liquefazione lascia spazio al pensare.

Le ricorrenti citazioni (di sociologi, filosofi, psicoanalisti) non sono quindi mai lasciate sole, incastonate nella pagina, ma restano sempre in un dialogo assiduo con l’autore – e quindi con il lettore. Diventano presupposto per disporsi a una riflessione da cui spesso tendiamo a fuggire.

Il termine “larvale” torna più volte nel testo, e torna “l’incuffiamento” dell’altro che decide per noi (come accade a Vic), e “l’incuffiamento” deciso e attivo di una scelta voluta. La fruizione della musica si fa allora, attraverso l’utilizzo del walkman, una passeggiata solitaria che estranea dal fuori pur essendo nel fuori. Una posizione riflessiva, che nel suo estraniarsi si connette a una realtà che pur essendo la stessa muta però in consistenza, si liquefa, si dilata, si restringe, si amplifica, danza.

La passeggiata diventa allora metafora di un attraversamento anche sensoriale che è l’incedere stesso del libro. Un libro che mentre leggo “ascolto”. Perché è anche questa la cifra del libro di Solventi: farci ascoltare, farci pensare e pensarci in forma di suono.

“Se il walkman con il suo bozzolo sonoro mi aveva consentito di mettere a punto un equilibrio, di galleggiare in una bolla di possibilità “altre” rispetto al catalogo di percorsi offerto dalla mia situazione concreta (periferica e di ceto basso), il web atterrò nella mia vita di adulto squadernando le prospettive. Prospettive che erano “soltanto” relazionali e culturali, ma costituivano esattamente ciò di cui più avevo bisogno e, in definitiva, fame.”

E questa fame, per quanto in una certa misura inquietante per tutti noi che sappiamo il passato e conosciamo o disconosciamo in attimi e frammenti di sospensione il presente diventa anche straniamento, uno straniamento di cui a tratti non ci accorgiamo e a tratti, in un improvviso o nell’imprevisto, ci appare in tutta la sua potenza.

Perché anche oggi indossiamo le cuffie per ascoltare ed estraniarci dal fuori, ma nel farlo produciamo dati. (Dati, dati ovunque – s’intitola il penultimo capitolo)

Un libro che porta a ricordare sia ciò che abbiamo vissuto (per chi ha portato dentro la tasca di un cappotto un piccolo walkman e una cassetta, per chi l’ha arrotolata con una penna ascoltandone il suono ruvido e impreciso), e ricordare ciò che stiamo vivendo o che stiamo per vivere – dove il ricordare ha due accezioni: quella del tornare indietro e quella del renderci coscienti.
Non solo suono, non solo dati ma anche disegno, tracciato.
Un libro che si pone allora in forma di domanda, che apre alla criticizzazione non solo dell’adesso, ma anche di un allora in cui tutto il presente stava già al suo stato larvale. Ma nell’azzardo un’unica ipotetica risposta all’inquietudine che ci attanaglia a intermittenza di fronte all’altrove che abitiamo nell’oggi:

La nostra missione – scrive Solventi – sia allora: “diventare l’allucinazione della macchina.”

Marciando, marcendo

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di Angelo Di Fonzo

Da quando il villaggio era stato inghiottito dalla nebbia, Viviana rimaneva ore a guardare il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo. C’era qualcosa in quell’uomo che la ammaliava. Forse il sorriso che regalava a ogni cliente; poteva sentirne il calore da lì. Poi la bocca incurvata quando non c’era nessuno, una malinconia che la contagiava e la costringeva a smettere di guardare fino all’arrivo del cliente successivo.

Aveva sempre sostenuto che le persone totalmente buone o cattive erano idiote, vittime della loro ascendenza di bene o di male. Riteneva invece davvero degne di nota quelle confuse, incapaci di scegliere da che parte stare, di definire chi sono in maniera netta. È troppo facile, pensava, scegliere una casacca e onorarla per tutta la vita senza neanche il tempo di un dubbio. Per questo cercava in quell’uomo dall’apparenza mite e gentile tutti i segni del male; nelle crepe, nei dettagli.

Non poteva fare molto altro.

La nebbia si era presa tutto: aveva fagocitato il mare, le colline, i sentieri e le cittadine limitrofe. Non c’era modo di avanzare in quella nube eterea. Viviana faceva delle lunghe e ripetitive passeggiate per quelle strade di case cadenti e vedeva sempre le stesse palazzine fotocopiate, la stessa chiesa in rovina, le stesse macchine parcheggiate immobili.

Sapeva che Lui stava arrivando ormai, ma non poteva più sfuggirgli come aveva fatto in modi diversi per tutta la vita. Marciando, marcendo. Lo sentiva alle calcagna, in costante agguato. Marciando, marcendo. Di notte, da sveglia; sempre. Marciando, marcendo. Lui l’aveva costretta per anni a combattere, in trincea, per avanzare da un avamposto all’altro dell’esistenza. Marciando, marcendo. E lei l’aveva assecondato, aveva fatto di tutto per paura che Lui la raggiungesse. Marciando, marcendo. Aveva corso chilometri e chilometri infiniti, a perdifiato. Marciando, marcendo. Senza sosta. Marciando, marcendo.

Quando non ne poteva più di passeggiare, si sedeva nell’unico bar del paese, dove la stessa TV locale andava in onda giorno e notte per stornare il silenzio a suon di televendite. Beveva un caffè, a volte più di uno, e guardava il vuoto, come gli altri avventori. Non c’era nient’altro da fare che lasciarsi vivere, o morire, in attesa che la nebbia sparisse. Ma la nebbia non spariva e diventava sempre più densa, quasi solida; una muraglia. Viviana non aveva mai parlato con nessuno di loro, nemmeno con il barista perché si limitava a indicare il caffè sul menu plastificato incollato al bancone e a pagare con la carta quando l’importo compariva sul pad. La foto della moglie del proprietario troneggiava sul muro del bar, una gigantografia agiografica, incastrata tra due date di tempo trascorso e mai attuale; anche se in fondo sembrava più in vita del vedovo: lei in foto sorrideva al massimo della forma, lui dal vivo pareva tumulato in piedi, in attesa di ulteriore sepoltura.

Quel giorno però, una signora anziana con un cappello di feltro verde le chiese se poteva sedersi al suo tavolo. Lei si guardò attorno e infastidita notò quanti tavoli erano ancora liberi, ma annuì, perché dire di no sarebbe stato più complicato. La signora prese posto vicino a lei e iniziò a sfogliare il giornale mentre le lanciava sguardi esplorativi, di nascosto. Dopo aver chiuso e ripiegato il giornale, la signora si girò verso di lei.

«Signorina, sembra stanca. Ha il viso stanco».

Viviana continuò a palleggiare nel vuoto, con i pensieri e le idee a fare canestri. Annuì senza fiatare.

«Da quanto è in viaggio?».

Disegnò il simbolo dell’infinito sullo strato di polvere del portatovaglioli. La signora sorrise, intenerita.

«Si vede, signorina, si vede. Per questo è così stanca».

Viviana continuò a bere il suo caffè a rallenti, con la lentezza immobile di un quadro che si scioglie dalla paralisi dell’arte per farsi vita pulsante. O forse al contrario era la paralisi del vivere che si trasformava in arte viva, che s’infinitava in quell’istante interminabile.

«Eppure adesso è ferma e le sembra ancora di correre, non è così?».

Viviana non rispose, spossata da quella conversazione, posò la tazzina e tornò al vuoto, spiritata. Non le riusciva bene parlare con le persone, preferiva guardarle da lontano, alla distanza giusta per studiarle. Come oggetti. Preferiva trattarle proprio come oggetti che come persone con una volontà propria. Le sembravano troppo complesse altrimenti, troppo difficili da afferrare nel loro dinamismo, nella loro imprevedibilità. Da lontano era tutto più semplice, come con il signore che vendeva il vin brulé nella strada dell’albergo, che si limitava a farsi osservare senza accorgersene. Se proprio doveva avere a che fare con le persone, preferiva quelle che si raccontavano senza chiedere nulla in cambio perché poteva risucchiare la loro linfa vitale, in forma di storie, al prezzo di qualche cenno del capo.

Gli altri clienti del bar non sembravano preoccupati da quella stasi forzata, nemmeno la signora con il cappello di feltro verde; chissà da quanto erano già fermi. Forse non si erano mai mossi, oppure non erano nemmeno in grado di concepire il movimento. Magari avanzavano da fermi, forse era quello il loro viaggio.

Ormai gli occhi di Viviana cominciavano ad abituarsi a quella nebbia, gli si rifletteva nella vista a ogni sguardo. La muraglia separava il villaggio dal resto del mondo, ma talvolta si ricreava dentro di lei come una talea, separandola a sua volta dagli oggetti, dalle persone, fino a isolarla nella sua bolla di nebbia; ogni volta più stretta. Succedeva di rado prima, ormai sempre più di frequente. La nebbia che aveva negli occhi ritagliava con le forbici i contorni grigiastri delle cose restringendo il campo sempre di più. Ma poi tornava tutto come prima, i confini ripristinati all’interno della muraglia, che però ogni volta diventava più densa e scura. Ci aveva fatto caso dopo le prime volte, aveva visto i confini irrobustirsi e lei diventare più anemica, allo specchio, col viso di un pallore candido. La signora con il cappello di feltro verde non smetteva di guardarla, in modo tanto compassionevole quanto sfrontato e invadente, e Viviana le cercava addosso ogni forma di male possibile, potenziale; nascosto in superficie: il suo gioco preferito. Era difficile in partenza, eppure così facile in fin dei conti che ci avrebbe scommesso tutto quello che possedeva. Avrebbe giurato sul suo male, professato la sua oscurità al tribunale delle stelle senza esitare.

Sentì un improvviso mal di testa, epicentro nel cranio, e capì che Lui era lì. Marciando, marcendo. Aveva smesso di correre, cosa si aspettava? Marciando, marcendo. Ma non poteva più correre, non questa volta, non più: mai più. Marciando, marcendo.

Gli occhi le si riempirono di nebbia e tutto attorno ne appariva annullato; riusciva a vedere a malapena il suo corpo, che pure andava consumandosi, corroso in quella cancrena di purezza. La sua mano destra bramava il vuoto e una mano rugosa comparve a stringerla per tirarla fuori, ma la presa non aveva forza, non abbastanza, e quel vortice di consunzione la assorbì e la divorò come non fosse mai venuta al mondo.

La corriera

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Il testo che segue è uno dei capitoli, intitolato “La corriera”, del romanzo di Graziella Belli “I campi di patate fanno le onde”, recentemente pubblicato da Fusta Editore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Graziella Belli

Giugno 1942

Era il primo giorno di vacanza, Giusto era uscito di casa di buon’ora e portava nella destra una valigia e nell’altra una grossa gabbia. Teneva la gabbia un po’ per la maniglia e un po’ come un pacco sottobraccio. All’interno della gabbia stava bella comoda una gallina di color marrone, beata, gli occhietti sonnolenti ogni tanto guardavano di brutto il suo portatore come a chiedergli di non farla più sobbalzare. Giusto capiva il desiderio della gallina e cercava di ubbidire, perché era stato anche l’ordine di sua madre: e mi raccomando, prova a non sbatterla tanto, Gistin. Ma non era mica facile, e sì che la madre gli aveva agevolato il cammino, aprendogli la porta di casa e accompagnandolo giù per le scale, ma lui le avrebbe voluto chiedere: «Ma siamo sicuri, mamma, devo proprio fare il viaggio con gallina e gabbia?».
Poi non aveva detto nulla perché gliel’aveva già chiesto in casa e la madre era stata chiara: «L’ho comprata da Palombo e pagata anche bene, e cerca di farla arrivare a salvamento», chiudendo ogni discorso con «e poi non fare più domande.».
Giusto risalì i vicoli cercando di non farsi vedere. Che vergogna andare in giro con una gallina in gabbia! Sarebbe stato meglio passare attraverso le chintōgne[1] tra le case di via del Molino e via delle Alpi e poi fino alla chiesetta della Madonna degli Angeli, ma era vestito troppo bene e rischiava di rovinare la giacca. Oltre all’incolumità della gallina, la madre non gli aveva raccomandato altro che quella della giacca: «Era di tuo fratello, lui l’ha portata per quattro anni, vediamo te».
Come se non bastasse, davanti al cortile di Romeo s’imbatté in Osvaldo il postino.
«Giusto, porti la gallina a vilegioa
Giusto rispose senza fermarsi: «Ma no, che villeggiare, vado ara Ciève[2] dalla nonna».

Arrivò in piazza tutto trafelato, si avvicinò a un gruppo di persone e come loro guardò in fondo alla strada. Teneva la gamba contro la valigia di cartone marrone, chiusa da una corda di iuta.
«Non la devi lasciare per nessun motivo.» La madre le cose le ripeteva alla nausea, e se n’era voluta accertare anche mentre l’accompagnava giù per le scale: «E la valigia, Giusto?».
E Giusto: «Non la mollo un attimo».
E adesso se ne stava lì, la gamba rigida a contatto con il cartone, lo sguardo che non perdeva di vista valigia e gabbia, un colpo d’occhio ogni tanto al punto in cui sarebbe apparsa la corriera. Il caldo sembrava aver atteso il primo giorno di vacanza e saliva anche dal Tanaro e dai campi di patate. La piazza era quella dell’Olmo, dove si fermava la corriera due volte al giorno, sia verso il Piemonte che diretta in Liguria, e caricava di tutto: contadini che portavano merci a Pieve di Teco, turisti arrivati a Ormea con il treno che procedevano per Imperia, galline mezze rassegnate e dirette anch’esse a cambiar aria in Liguria.
Dietro il Monte della Guardia si era alzato da poco il sole, e la gente diceva che faceva caldo fin dal mattino presto. Giusto si passava la mano sul collo, sudava sotto quella giacca più da primavera che da estate, i pantaloni alla zuava, le calze di lana. Avesse almeno avuto il fez sulla testa. Non gli piaceva il fez, faceva pizzicare la testa, ma dal sole riparava.
Un uomo, piazzato davanti a lui, cominciò ad agitarsi, a dire «Arriva».
Un altro: «Macché, cos’hai visto, bolgnu c’me ina topunōira[3] Non ci siamo ancora.»
Giusto si sporse in avanti, il piede rigorosamente contro la valigia, e anche la gallina guardò se arrivava o no. Poi, più che alzare la polvere della strada e farsi vedere da lontano, la corriera si fece sentire. Quando si arrestò davanti ai passeggeri e ne scese l’autista, fermandosi davanti alla scaletta a fare i biglietti, l’aria si riempì di tutti i cattivi odori possibili, tra cui quello della benzina. Uno dopo l’altro i passeggeri salirono e presero posto. Giusto e la gallina si misero in fondo, sul sedile vicino al finestrino. Gli piaceva guardare fuori e poi poteva controllare meglio la valigia. Forse guardare oltre il vetro divertiva anche la gallina, così se la mise sulle ginocchia.
Passato l’elegante palazzo, adibito a inizio secolo, dicevano, a casinò, il percorso fece qualche curva; una dopo l’altra le case si rimpicciolivano alle loro spalle e al loro posto i boschi iniziarono a stringere la strada.
La testa appoggiata al finestrino, Giusto osservava la compagna di viaggio. Anche lei doveva essersi stancata di guardar fuori.
«Ti è venuta la nausea?» le chiese sottovoce. «A me sì, non c’è cosa che mi fa venire la nausea come le curve e l’odore di benzina, ma fra poco scendiamo.»
Gli venne in mente che la madre gli aveva consigliato di mettersi davanti, che si pativa meno, e se non per sé si rimproverò di non averlo fatto per la gallina.
Come poteva chiamarla?
«Te lo trovo un nome prima o poi, promesso.»
Ferma in gabbia e sulle sue ginocchia, la gallinella inclinò la testa.
«Speriamo non ti venga in mente di pisciare» le disse sottovoce.
Per fortuna quel mattino Lorenzo non c’era per strada, altrimenti lo avrebbe preso in giro per un anno. Gli spiaceva, però, non averlo salutato.

Finita la seconda di avviamento professionale, Lorenzo era andato a lavorare in fabbrica e da allora si frequentavano di meno: il pomeriggio arrivava tardi, stanco, e aveva poco tempo per i divertimenti. E, del resto, Lorenzo si sentiva un giovanotto, aveva altri amici, più grandi, e guardava le ragazze. E questo un po’ spiaceva a Giusto, perché avrebbe voluto avere il coraggio anche lui di guardare dritto negli occhi le ragazzine, e farlo senza ridere.
Però la sera prima, che si erano incontrati alla fontana per caso, erano andati al campo in Borganza a tirare due calci al pallone. Era un pallone tutto sformato che qualcuno aveva perduto e che Lorenzo aveva trovato di là degli archi della ferrovia, un mattino che andava al lavoro. Poi, tutti sudati erano tornati nella piazzetta del gōlbu e si erano seduti sui gradini della casa di Giusto, come avevano sempre fatto quando andavano alle elementari assieme. Era dunque già il tempo delle nostalgie: sui gradini Lorenzo aveva parlato di quando fregavano le uova a Palombo, di Pina dalle gambe storte – era un po’ che non andavano da lei a fare razzia di ciliegie – e allora Giusto disse che il giorno dopo sarebbe andato a Pieve di Teco e per tutta l’estate non si sarebbero visti. L’aveva detto così, tanto per dire qualcosa, ma a quel punto avevano smesso di ridere. Solo un attimo, perché quando aveva ammesso quella cosa del viaggio con la gallina, pregando Lorenzo di non dirla a nessuno, non l’avevano più finita di riderci sopra. Poi, non si sa chi aveva attaccato per primo, avevano cantato a squarciagola: «È arrivata la bufera, è arrivato il temporale…».
Guardò la gallina e posò la mano sulle sbarrette della gabbia, come per accarezzarle la testolina. La gallina rispose con un verso da uovo.
Ogni tanto, a uno scossone della corriera, Giusto sbatteva la tempia contro il vetro del finestrino. Stanco di tenere la gabbia sulle ginocchia la mise per terra, accanto alla valigia. Ma la gallina per terra non ci voleva stare, faceva versi da uovo e starnazzava, la gente rideva, e Giusto si rimise la gabbia sulle ginocchia.
Prima del colle di Nava era salita una signora molto robusta, si era seduta al fondo, accanto a lui. La donna strabordava, la coscia premeva contro il ginocchio magro di Giusto e la gallina si agitava.  Al giro di Cosio la signora scese, salì altra gente e al posto della signora robusta venne a sedersi un uomo diretto, pareva, alla fiera di Pieve. Era un ometto arzillo e non la finiva più di parlare da solo e, se gli davano corda, con gli altri passeggeri. La gallina gli dava corda con versi che assomigliavano a quelli di un merlo stonato. Nel frattempo la corriera s’era riempita, e c’era chi imbracciava canestri di funghi e uova, altri che portavano forme di formaggio. I posti erano tutti occupati, anche il corridoio tra i sedili era a tappo. Giusto pensò che se non avesse avuto valigia e gallina avrebbe dato il posto a qualche anziano, perché era un’altra delle cose che la madre gli raccomandava sempre, anche se alla fine di corriere ne prendeva solo un paio all’anno. Ora, tuttavia, Giusto era preoccupato: nel suo dialetto di  Cosio,  l’ometto, sballottato anche lui dalle curve, si era lamentato di un fatto: «Belin, basta che con l’agitazione non vada di corpo…»
«Perché dite così?»
«Belin, perché l’agitazione è un veleno per le galline, le fa andare di corpo, non lo sapevi?»
Giusto ci pensò, disse: «Non ci va» e chiuse lì la faccenda.
L’ometto ribatté nel suo dialetto e la gente, seduta e aggrappata alle maniglie, dondolò dalle risate. Il ragazzo non aveva capito, l’ometto non tradusse e mostrò un pugno alla gallina. Giusto spostò la gabbia. La gallina non s’era accorta di nulla.
La corriera si fermò davanti alla chiesa di Acquetico e salirono ancora due persone. Dapprima l’autista disse che non ci stavano, ma i due di Acquetico si infilarono lo stesso. L’autista disse che non partiva e incrociò le braccia, spense. Siccome parlava in italiano, uno di quelli di Acquetico gli chiese da dove veniva. L’autista disse che era sardo, ma cosa c’entrava da dove veniva? Quello di Acquetico non replicò ma dopo un po’, come se avesse ben pensato alla risposta cercando le parole giuste in italiano, gli raccontò una cosa: «Sa, autista, caso vuole che in Sardegna ci ho fatto il militare, è stato nel ‘25, e se sapevo che dalla Sardegna uscivano degli autisti come lei davo un colpo di tacco sull’isola che la facevo affondare ».
La gente tacque, intimorita, si sentì appena un belin, ma bisbigliato, l’autista capì solo in parte, ma accese e la corriera ripartì, sbuffando.
A Pieve di Teco la corriera si fermò e fece uno strano cigolio come se si fosse spenta per sempre.
I passeggeri scesero. La gabbia sotto il braccio, con la gallina contenta di scendere, la valigia nell’altra, Giusto alzava lo sguardo sulla testa pelata dell’uomo di Acquetico. Non gli sembrava in grado di affondare la Sardegna con un solo colpo di tacco, ma l’uomo incrociò il suo sguardo e annuì. Giusto e la gallina sbarrarono gli occhi.

[1] Chintōgne, cunicoli posti dietro le case che servivano da intercapedine e per la raccolta degli scolatizi, ma anche per collegare i vicoli.

[2] Ara Ciève, a Pieve di Teco.

[3] Bolgnu c’me ina topunōira, orbo come una talpa.

Il violinista Igor Brodskij

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(il 15 marzo, per i tipi della nuova, piccola e agguerrita Qed, è uscito “Il violinista Igor Brodskij”, il nuovo libro di Romano Augusto Fiocchi, nostro amico e collaboratore. Ve ne anticipiamo l’incipit, sperando di incuriosirvi. G.B.)

di Romano A. Fiocchi

Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece silenzio. Poi vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio: a loro furono date sette trombe Conn, le migliori. Ma a un altro angelo, merda, fu dato un violino invisibile. Il nome di quell’angelo era Igor Brodskij.

Giovanni, Apocalisse (trad. Max Bignami)

È stato qualche inverno fa, tanto per cominciare, uno dei mesi più freddi. Igor Brodskij arrivava in via Dante non più tardi delle otto. Cuffia di lana sopra i capelli grigi, sciarpa al collo, giacca con bavero alzato, scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Igor Brodskij aveva il viso tondo e gli occhi rassegnati da ex sovietico. Schiariva la voce e mormorava in una preghiera l’unica cosa che sapeva dire: «Non parlo italiano».

Si fregava le mani, apriva il seggiolino pieghevole, si sedeva e appoggiava sulle ginocchia la custodia del suo violino. Si guardava attorno. I primi passanti infreddoliti gli lanciavano un’occhiata. Era il posto giusto. Da un lato le spalle intabarrate di un vecchio poeta, immobile su un piedistallo, dall’altro un condottiero a cavallo che dominava il fondo della via, tutta pedonale. Lui, allora, accarezzava la custodia con mani da prestigiatore. L’apriva, estraeva un violino inesistente e iniziava ad accordarlo. Girava i bischeri fatti d’aria, pizzicava corde invisibili, muoveva l’archetto nel nulla. La gente continuava a passare e a lanciare sguardi fugaci. L’aria di via Dante si faceva cristallina, l’umidità della notte milanese si stava alzando.

All’improvviso partiva la musica. Era un suono straordinario, che veniva dall’altro mondo. Via Dante era attraversata da cerchi concentrici di note. Non era musica classica, non era jazz, non era rock. Era la musica di Igor Brodskij, il più grande violinista del ventunesimo secolo

La gente sentiva il suono dal fondo della via, si avvicinava, si fermava. Restava incantata dalla musica. Non le importava di dove uscisse. Le dita di Igor Brodskij si disarticolavano alla velocità della luce, nell’aria, nient’altro che nell’aria, su un violino invisibile agli occhi ma vero. Vero perché il suono che emanava era divino.

I passanti erano così affascinati dalla musica di Igor Brodskij che restavano lì imbambolati e a volte si dimenticavano di fare l’elemosina. L’avvocato Biancardi si fermò anche lui e pensò che il violino fosse fatto di vetro. Don Agostino, il parroco del Carmine, ipotizzò che Igor Brodskij avesse venduto il suo strumento e suonasse sul suo fantasma. In fondo, come e su cosa suonasse aveva poca importanza. Contava la musica che riempiva via Dante, una musica densa da tagliare con il coltello.

«Musica solida».

«Musica che racconta, vi dico».

«Musica che galleggia nell’aria».

«Musica che ci puoi camminare sopra».

«Musica mai sentita».

«Ma chi è?»

«Si chiama Igor Brodskij».

A un tratto, quando la gente cominciava ad affollare la via, e la custodia aperta davanti ai piedi conteneva una decina di euro, le dita del violinista si fermavano. Igor Brodskij raccoglieva le monete e al loro posto riponeva lo strumento inesistente. Chiudeva con cura la custodia, ripiegava il seggiolino e se ne andava, non si sa dove.

«A cambiare l’acqua», diceva con la sua pronuncia cinese l’edicolante Wu Ming. «Per forza, è lì da prima delle otto».

Ma più nessuno vedeva Igor Brodskij sino al giorno successivo.

L’esibizione straordinaria si ripeté regolarmente per alcune settimane, mentre la morsa del gelo invernale non accennava a diminuire. Neppure il freddo riusciva a fermare le dita di Igor Brodskij che vibravano nel vuoto. Per molti era diventato un appuntamento fisso e stavano lì ad ascoltarlo tutti i giorni prima di recarsi al lavoro. Si perdevano nella sua musica. Finché cominciò a circolare la notizia che in via Dante c’era un violinista che ti suonava l’anima.

Fu un mattino. Lo videro arrivare come di consueto, guardarsi attorno, schiarire la voce, mormorare tra sé «Non parlo italiano», aprire il seggiolino, accarezzare con mani da prestigiatore la custodia e sottoporre il violino alle consuetudini preliminari. La musica di Igor Brodskij invase la via, si propagò nelle fogne attraverso i tombini, si arrampicò sui tetti, si infilò dentro i bar, dentro le case.

Un uomo l’osservava. Era piccolo, pelato, con le mani in tasca.

«Merda», esclamò.

Si avvicinò a Igor Brodskij e gli disse che avrebbe dovuto incidere un disco. Era Max Bignami della Marvels Music Italia. Igor Brodskij si fermò. Max Bignami ripeté le parole scandendole lentamente: «Incidere un disco, mi capisci?»

Con il suo accento slavo Igor Brodskij rispose: «Non parlo italiano».

Max Bignami non volle arrendersi. Tirò fuori le mani dalle tasche, una pacca sulla spalla, lo aiutò a raccogliere custodia e seggiolino e lo prese sottobraccio. Svanita la musica, la gente si era allontanata. Igor Brodskij senza musica era un passante come tanti. Max Bignami lo fece entrare in un bar e lo riempì di vodka. La vodka permetteva di superare ogni ostacolo linguistico. Gli illustrò il progetto discografico e gli fece firmare un contratto lì su due piedi.

«Sei contento?», gli chiese.

«Non parlo italiano», rispose Igor Brodskij.

Il mattino seguente, il violinista si ripresentò in via Dante. Si guardò attorno, si sedette, aprì la custodia, alzò gli occhi rassegnati da ex sovietico e si fermò. Di fronte a lui c’era il cranio pelato e il sorriso d’entusiasmo di Max Bignami.

«Merda», esclamò. «Raccogli le tue cose che andiamo in sala di incisione».

Lo fece salire sull’auto parcheggiata poco distante. Igor Brodskij attraversò strade piene di traffico, piazze congestionate, miraggi metropolitani, finché raggiunse la periferia. Il centro di produzione era un gigantesco parallelepipedo di vetro alto dieci piani. Vetri su vetri che si arrampicavano nel cielo grigio. Quando Igor Brodskij entrò in sala di registrazione, la voce della sua presenza negli studi si era già sparsa tra i tecnici. Tutti erano fermi lì davanti per ascoltarlo. Persino il custode Mario Porcu aveva abbandonato la portineria e la bottiglia di vermut bianco per assistere alla registrazione. Igor Brodskij tolse la cuffia di lana e si infilò quella per l’ascolto, allentò la sciarpa, si guardò le scarpe che avevano girato il mondo sotto la pioggia. Aprì la custodia del violino, prese archetto e strumento invisibili, aggiustò l’accordatura e, in piedi, iniziò a suonare. Era la musica più straordinaria che si fosse mai udita nel centro di produzione. I tecnici del suono erano paralizzati, gli occhi fissi sulle dita rapidissime, sui movimenti nervosi del braccio con l’archetto inesistente, sul nulla assoluto che avvolgeva Igor Brodskij e che permetteva il dilatarsi della sua musica.

«Venderemo milioni di copie», gli disse Max Bignami una volta finita l’esecuzione. «Domani vado giù a Roma e ti organizzo un concerto all’Auditorium».

Igor Brodskij lo guardò con gli occhi rassegnati da ex sovietico.

«Non parlo italiano», rispose.

Max Bignami andò a Roma ma al suo ritorno Igor Brodskij era introvabile. Don Agostino disse di averlo visto in un’altra via. L’avvocato Biancardi disse di averlo incrociato in piazza San Carlo, a Torino. Arrivato agli studi di registrazione, Max Bignami ebbe l’amara sorpresa: le tracce erano state cancellate.

«Merda», esclamò.

[…]

Romano Augusto Fiocchi, Il violinista Igor Brodskij, 144 pagine, Qed, 2025.

Sotto la terra

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Illustrazione dell’autrice

di Claudia De Angelis

Racconto vincitore del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

San Pietro Infine, lungo la linea Gustav, inverno 1943
Da bambina Lucia viveva in città, è andata a scuola e ricorda. La maestra diceva che nelle grotte vivono: orsi, ragni, spurtiglioni, grilli e vermi pelosi, talvolta i lupi ci riposano le ossa. Ma a quel bestiario ingiallito dagli anni va aggiunta una pagina, accanto alla sezione di un coleottero ecco strisciare le incisioni tremule di un’acquaforte, ritraggono una schiera di volti tetri e sfiniti, una righina striminzita racconta: nelle grotte ora vivono anche gli abitanti di San Pietro Infine. E poi tutte le cose che vive non sono ma pare: il buio, l’umido, la polvere, la brina, gli spifferi, certi fiati della terra profonda che li senti pure col naso turato. E Lucia.

Non c’è da farsi ingannare dai piccoli respiri che le tremano in petto, dal tamburo del cuore, dagli occhi sgranati e fondi che schizzano a ogni cambio di luce, non badate al bambino che le si attacca al seno e cresce. Lucia appare donna viva ma è un guscio, un contorno. Se il freddo e le circostanze concedessero ai paesani di potersi spogliare e lavare, in mezzo alle scapole nude di Lucia tutti vedrebbero pelle nera stracciata, il foro di un proiettile tedesco paro paro a quello che ha ammazzato Adelchi suo, oramai due mesi che sembrano duecent’anni fa.

Era uscito di casa dicendo: mi mandano a lavorare in Germania. In Germania ma dove? E quando torni? Statti tranquilla, amore mio. Insieme a lui altri sette paesani, il più piccolo di neanche quindici anni. Non ci sta da avere paura. La Germania è una fossa comune al limitare del castagneto. Morti col sole in faccia, con la testa alta, ma morti sparati.

Quel giorno Lucia è morta pure lei, o almeno così le pare. Il venerdì dopo, dalla finestra della cucina guardava sfilare le vedove e i vecchi e le figlie di San Pietro Infine. Abbandonavano il paese e lei con le pupille opache a dare la tetta al bambino, sarebbe rimasta là, una statua, una morta travestita da viva, e invece Antonietta – cugina di Adelchi, madre di due femmine appena donne, che nascondeva in soffitta a ogni visita del leutnant – l’ha tirata via per le orecchie.

Con un fagotto di cibo e coperte, col bambino al collo, Lucia si è messa in coda alla processione. Oggi non ha ricordi della camminata. Un minuto prima era al tavolo della cucina, quel tavolo che per quanto Adelchi suo cercasse di pareggiarlo era sempre sbilenco; un minuto dopo eccola davanti alle fauci della montagna che sola poteva salvarli. Il suo primo pensiero, il primo di numero in questa sua morte-che-pare-vita, era stato che sicuramente l’avrebbero rimandata indietro. Dieci anni in paese e ancora mi chiamano forestiera, pensava la viva già morta, si terranno il cibo e il bambino che ha il sangue loro e io torno a valle, se la montagna ha pietà di me scivolo e mi spacco la testa su un sasso e sennò starò in mano ai crucchi, va bene, tanto viva non sono, tenetevi il pane e pure il bambino che io devo compiere questa mia fine, non caccerò un fiato, giurosuddio, ma la fotografia di Adelchi mio, solo questa mi resta, solo questa lasciatemela, sul mio corpo il suo viso, come dev’essere.

E invece Antonietta ancora la piglia per il braccio e la tira sotto la terra e la fa sedere in fondo in fondo, appresso alle galline, dove il bambino può stare più riparato. La morta Lucia si accuccia, zitta, buona, forestiera ma madre di un paesano che ha bisogno di lei, e quindi: che viva. Fai latte, bella, non pensare a nient’altro, fai latte. Lucia ingoia grida e pianto, il latte viene come la neve, dapprima leggero e poi tutto insieme. I paesani le mettono in mano i pezzi di formaggio con meno crosta e le fette di pane più spesse. Lo sanno tutti che a quelli di Ponte li hanno trovati perché una piccolina piangeva di fame. Fai latte, bella, vedi che sei brava.

Il bambino ha un nome che Lucia non ricorda. A tre giorni di vita l’hanno portato dal prete, Adelchi suo, un gigante radioso come il sole, sorreggeva la moglie e il figlio insieme, e davanti a Dio al bambino hanno dato un nome che però sotto la terra non li ha seguiti, impaurito dal buio. Il bambino ha un nome che sua madre respinge, non serve, Lucia il bambino lo conosce solo attraverso il dolore e tanto le basta: e la gravidanza che rimpasta le interiora e poi le doglie e il parto e il corpo che si strappa, e poi quando va a riallacciarsi non ricorda più com’era prima, com’è stato per ventun anni, e deve inventare nodi e bottoni e asole nuove, e ogni cosa tira, e proprio quando ti sei abituata ecco le ragadi ai seni perché il bambino poppa in continuazione. No, non servono nomi. L’unico che importa è diventato inutile, lo chiami e nessuno risponde. Lucia comunque lo accarezza a ogni battito d’occhi, Adelchi mio tu non mi dovevi lasciare, no, sarò forte, tanto presto ti raggiungiamo tutti.

*

Sotto la terra si rivela l’esistenza di un tempo che è vuoto. Le giornate, derubate di bestie campi castagneti biancheria pavimenti stoviglie ramazze e pialle e segatura e mattoni, trascorrono lunghe e pigre con le orecchie appizzate a sentire se dal bosco risale qualcuno. Sotto la terra, a parte il freddo e l’umidità e la paura di essere trovati e ammazzati come bestie non c’è altro che tempo, una melma fredda di minuti e ore e giorni che s’incrosta sotto le unghie: tempo, tempo, tempo da far passare pensando ai morti, seminati nei campi intorno al paese; ai vivi, lontani giù a valle o in città, chissà se c’è ancora una città. Tempo da pregare che la primavera ritorni, o la pace: sogni lontani entrambe, parole proibite, si gonfia la lingua di chi prova a sospirarle.

La grotta è paese in miniatura. I vecchi si giocano ciottoli a carte e accendono il fuoco litigando sul dove e quando e come cacciare il fumo di fuori. Le vedove amministrano il cibo: non saranno i soldati ad ammazzarle e non sarà nemmeno la fame. Le vedove ricordano la guerra. Vegliano il pane come il santo sepolcro, quel che indurisce lo ammollano nell’acqua piovana assieme ai ceci e ai piselli dell’anno scorso; razionano il formaggio, quel poco di salsiccia è divisa equamente fra tutti (tranne Lucia, a Lucia un dito intero); la vedova Giordani, che da ragazza era sarta, ha salvato da casa due ferri e qualche gomitolo e tra le sue dita svelte si allunga un corredo per il bambino. Le ragazze guardano di fuori e sospirano la libertà. L’angoscia del presente annega nel ricordo amaro di una promessa strappata alla festa della vendemmia. E allora sono le ragazze ad avventurarsi fuori dalla grotta, sotto la luna raccolgono la pietà del bosco: bracciate di legna, grossi sassi che tengono il caldo, castagne da succhiare con pazienza, e una sera fortunata i due conigli del prete, già mezzi morti di paura per i bombardamenti.

Sotto la terra, ognuno ha il suo ruolo. Lucia sta seduta e fa latte.

La seconda figlia di Antonietta ha preso a incidere croci sulla roccia, una per ogni tramonto: prima due, poi sono sette, poi undici, poi s’incrociano gli occhi sopra il fuoco minuscolo che solo di giorno trovano il coraggio di accendere e d’improvviso le croci sono già venti, non è possibile, qualcuno ha fatto lo spiritoso e le ha aggiunte mentre non si guardava. Le croci saltellano danzano si scambiano di posto scappano tornano il doppio. Forse è Natale e forse non è passato neanche Ognissanti.

Quel calendario bugiardo e meschino, la morta Lucia non ha bisogno di guardarlo. Che il tempo passa glielo dice il bambino. Quando sono arrivati alla grotta a malapena apriva gli occhi e invece adesso dopo ogni poppata il suo viso sporco di polvere e terra si allarga in un sorriso tutto gengive e adorazione. Apre e chiude le manine sul seno di Lucia, abbozza carezze goffe, scalcia contro le fasce che lo avvolgono tutto. Quando azzardano qualche passo di fuori, sul terreno che gracchia sotto i piedi, il bambino è curioso di ogni suono, come un fiore rivolge la testolina soffice verso il sole. Ridacchia piano, contento. Strofina il nasino sul collo di Lucia. Se il castagneto d’improvviso trema per l’eco dei mortai, se di notte lampeggiano fuochi a valle, il bambino non se ne cura. La più piccola carezza invece lo fa fremere tutto, un bacio leggerissimo sulla fronte e lui sgrana gli occhi emozionato, il suo mondo sta tutto là dentro. Rimbomba la guerra? Che importa. Sotto la terra il bambino sospira soddisfatto tra le braccia della mamma.

La morta Lucia lo guarda e le pare di sentire un sussulto lontanissimo in petto.

*

Schiara mattina. Il bambino mangia con gli occhi chiusi, le manine lente, il corpo sciolto nell’abbraccio della madre un ritratto di pace. Lucia, seduta, lo guarda. I paesani si strappano dal sonno con forza. È caldo, nei sogni, e nella grotta c’è freddo.

Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata. Sotto la terra un silenzio che fa più paura della morte imminente.

I paesani si appiattiscono contro le rocce, chi sarà il primo a crepare? I cuori martellano, il bambino è infastidito dai tonfi dissonanti. Lucia lo stringe più forte e guarda l’imboccatura della grotta. Il cielo bianco, carico di neve, la acceca. Si aspettano tutti la fine e invece si affaccia una ragazzina con la faccia di topo. Dodici anni. Le mancano i canini di sopra, i capelli biondi sono impastati di fango. Dice: Erminia, e poi non dice più niente.

Le danno acqua e pane e due uova. Antonietta la riconosce, è la figlia del fornaio di Galluccio. No, la vedova Giordani ricorda perfettamente che il fornaio di Galluccio ha fatto solo maschi, questa appartiene ai casari di Sessa. Erminia non dice, nemmeno le guarda. Si siede troppo vicina al fuoco e attraverso le fiamme fissa il bambino. Antonietta vigila preoccupata da quegli occhi di vetro a suo dire cattivi, ma Lucia si sente tranquilla. Il suo lutto riconosce il lutto di Erminia. Hanno in petto lo stesso squarcio.

Quella notte, Lucia le fa cenno di avvicinarsi. Il bambino dorme attorcigliato nella culla delle sue gambe incrociate, sulle sue caviglie c’è posto per la testa di Erminia.

Il bambino pasce come un re. Erminia ha deposto la gelosia e si è eletta sua custode. Ogni giorno, di fuori la guerra avanza e invece la morte di Lucia arretra. Il bambino grugnisce, stringe i piccoli pugni, e Lucia sa che bisogna rigirarlo sull’altro fianco o fargli il solletico sotto al mento ciccioso. Lui deliziato si afferra i piedini, schiocca le labbra, guarda stralunato Erminia che gli fa le boccacce.

Una sera, il bambino si irrigidisce tutto, sbarra gli occhi in faccia alla mamma, mulina le braccia, caccia un rutto così forte che la grotta gli fa eco. Silenzio. Erminia si copre la bocca ma la sua risata la intuiscono tutti, e tutti contagia, non si rideva così dall’estate.

Lucia riesce a fare solo un sorriso annacquato. Sta covando la febbre.

Per tre giorni e tre notti si contorce sul pavimento della grotta, fradicia di sudore, trema eppure avvampa e rigira gli occhi nel cranio. Il mondo è tutto fatto di mani: mani che afferrano le sue freddissime, mani che le buttano addosso coperte, mani che toccano la fronte e le guance, mani che portano acqua, che portano Dio, che portano odore di terra, mani che le mettono al seno il bambino e mani che lo staccano quando lei lo vorrebbe a sé, il suo amore piccolo.

Si squarcia il tempo. Il suo corpo inarcato in una pozza di sudore resta indietro. Lucia vede la montagna dall’alto, un tappeto di bombe precipita sul paese ma prima che tocchino terra tramutano in castagne, piovono sul tetto di lamiera della veranda di casa e Adelchi sussulta e poi ride, promette per la centesima volta che darà una sistemata a quell’albero. Lucia sbircia da una fessura tra le tendine a fiori della cucina: la stanza è illuminata d’oro, come la grotta del presepe che faceva da bambina. Lei ha il pancione e monda i fagiolini e Adelchi suo la trascina in una piroetta che diventa un abbraccio che diventa in bacio e Lucia distoglie lo sguardo, lo volge in su. Dalla strada che dal paese porta in montagna vede scendere il bambino ormai ragazzo, su una bicicletta verde sgangherata alza i piedi dai pedali e caracolla in discesa con la stessa risata del padre. Quindi rimarremo in paese, pensa Lucia, e per la prima volta il pensiero non la riempie d’angoscia.

È il futuro che le si srotola davanti agli occhi, oppure un sogno? Lucia segue il bambino-ragazzo, la piazza del paese si gonfia, i palazzi si allungano, il lastricato diventa asfalto, spuntano macchine da tutte le parti: la città è tutta un movimento, tutta un rumore, se pure la guerra è passata su queste strade l’hanno cancellata a secchiate di calce. Il bambino-ragazzo ha dei libri sotto il braccio, frequenta il liceo. Quando ride getta indietro la testa e sul collo si vede uno sbaffo nero: la polvere, la terra della grotta di cui preghiamo che non abbia ricordo. Lucia allunga un dito umido di saliva per pulirlo ma la sua mano attraversa il bambino-ragazzo che è fatto di luce.

Adelchi la chiama. Quanto sei bella, dice, e Lucia gli corre incontro. Portami via, non ho già fatto abbastanza?

Due mani le prendono il viso, non sono di Adelchi, non saranno mai più le mani di Adelchi. La febbre recede (e anche i tedeschi). Lucia abbandona il passato e il futuro e torna al suo corpo: una virgola attorno al bambino. Sente in bocca il sapore ferroso del vinaccio della sagrestia. Antonietta le strizza l’occhio velato di lacrime.

Ci hai fatto morire di paura, dice, e Lucia le stringe forte la mano. Erminia dove sta? I paesani s’adombrano. Dice che a Mignano il farmacista c’è ancora. Erminia è scappata da due giorni e non torna. Hanno sentito sparare. Lucia tace per un momento, poi è travolta da una speranza tiepida che di certo appartiene al bambino. Embé, e quando mai non si sente sparare? Antonietta si asciuga le lacrime.

Un rumore dal bosco. Piedi che strusciano sulla brina gelata.

Stavolta sono tanti, ecco: ci hanno trovati.

Prima che Lucia abbia il tempo di avere davvero paura, Erminia da fuori urla di uscire, sono arrivati i mmericani, c’è pane e cioccolata e medicine e salvezza e libertà. Le vedove non si fidano, i vecchi neppure, ma Lucia di Erminia sì, e allora esce.

Strizza gli occhi contro la sberla del sole. Il bambino ride eccitato dall’improvviso tepore. Erminia si butta ad abbracciarle le gambe, Lucia le carezza la testa.

Nessuno le spara, anche se qualche fucile sobbalza. Paiono mostri, le creature affamate e diffidenti che emergono dalla grotta, e invece sono i paesani. Cadaveri vivi, le facce smunte nere di sporco, i corpi ammaccati e ricurvi, i polmoni carichi di catarro, i muscoli accartocciati, i capelli e le barbe nidi di rondini, Antonietta con una gallina sottobraccio.

I mmericani si guardano, incerti davanti a tanta miseria. Il primo che s’avvicina è l’unico senza divisa e senz’armi, imbraccia una macchina fotografica dalla forma strana, che emette un fruscio continuo di torrente in piena. L’imbarazzo è rotto. Pane e cioccolata passano di mano in mano, i soldati annunciano che il fascismo è finito andato kaputt, ma i paesani vogliono sapere di questo cugino e di quella zia, e casa mia ha resistito sotto le bombe? Bada che l’ha costruita mio nonno. E mica hanno bruciato i castagni?

Il soldato che non è un soldato si avvicina a Lucia, inquadra il bambino. Bello piccolo, dice, come lo chiamo?

Lucia guarda a valle. Il paese è polvere, la sua casa calcinacci. Si vede varcarne la soglia sventrata, scalciare cocci, vetri, i pezzi dello specchio della bisnonna – sette anni di sventura, siamo pronti? – i rimasugli dell’infanzia di suo marito e della loro vita insieme fanno un mucchietto triste sotto il lavandino sbeccato. In mezzo a quei resti riarsi, sopra la cenere, Lucia accenna un passo di danza e restituisce al bambino il suo nome.

Nota cinefila
La vicenda di San Pietro Infine è protagonista del documentario “The Battle of San Pietro” girato dal regista John Huston, al seguito degli Alleati.

Claudia De Angelis (1992) è nata e cresciuta a Caserta. Vive a Roma, dove lavora come traduttrice e autrice per il cinema e la televisione. Ha vinto il Premio Solinas ed è stata selezionata a Biennale College Cinema.

Nelle retrovie

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di Linda Farata

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Provai gioia il giorno in cui babbo venne a dirci che saremmo potute andare a prendere Elvio con lui. Non seppi cogliere la gravità, l’eccezionalità di quel permesso. Da che eravamo sfollate a Molleone, non facevamo altro che impastare crescia e rammendare la poca biancheria che eravamo riuscite a portarci dietro. Babbo e Peppina una volta avevano provato a tornare nella casa vuota per recuperare la biancheria di mamma, ma si erano ritrovati nel mezzo di un cannoneggiamento. Oh Dio son mortooh Dio son morto, gridava correndo un partigiano, prima di trovare riparo dietro a un pagliaio – così mi aveva raccontato Peppina, che correva per la cucina con le mani in aria gridando Oh Dio son morto, e io ridevo fino a cadere dalla sedia. 

Da quella volta, babbo non ci aveva più lasciate andare. Si aspettava che proseguissimo con gli studi, ma la noia, la tristezza. Leggevamo dei libri, ogni tanto – sempre gli stessi. Lui rientrava impolverato dopo lunghe giornate di transito: dai campi al mercato, dalla caserma al convento. Ci chiedeva se avessimo studiato, e noi rispondevamo di sì. Poi gli servivamo la cena e si chiudeva al piano di sopra, nella stanza che aveva adibito a studio. Parlava poco da quando era stato rilasciato, e preferiva il tabacco al cibo. Non si portava più dietro disertori, partigiani ed ebrei: il regime l’aveva visto e non lo lasciava andare più. Per questo sul Monte Petrano dovemmo andarci a piedi, nonostante fossero quasi tre ore di cammino. Zio Imbriano ci aveva dato appuntamento sul versante sud, all’altezza del fienile dei pastori. Era il quattro di maggio e splendeva il sole: le foglie nuove, il pietrisco bianco, la massa bluastra del Monte Petrano che ci guidava all’orizzonte. Sembrava un’avventura all’inizio, una gita all’aria aperta, ma fu solo quando li incontrammo che iniziai a intuire quel che stava accadendo.

Sulla strada del ritorno parlammo a malapena. Io e Peppina ogni tanto ci guardavamo, poi guardavamo Elvio: camminava a testa bassa, tirando calci ai sassi. Rientrammo al casale di Molleone che era già pomeriggio inoltrato. Babbo si chiuse nello studio, mentre noi andammo in cucina ad accendere il camino. Qualcuno aveva cambiato l’acqua ai fagioli; forse la nonna, anche se dalla notte dell’acquazzone si alzava a malapena dal letto. 
«Stasera facciamo pasta e fagioli» disse Peppina, e io sapevo che era un regalo per Elvio – la farina per i maltagliati era razionata, e anche i legumi iniziavano a scarseggiare – ma lui non reagì. Era andato a sedersi al tavolo e si teneva la testa con una mano.
«Così poi ci teniamo caldi a suon di scoregge» provò ancora Peppina, e questa volta lui accennò un sorriso. 
«Ora vivete qui?» chiese, guardandosi attorno. La cucina grande e fredda, con le pareti annerite dal fumo.
«Solo finché non finisce la guerra» risposi.
Peppina andò a occuparsi della nonna, mentre io misi l’acqua sul fuoco e presi a riempire la tinozza per Elvio, una pentola per volta. Da che eravamo entrati, si sentiva più forte il suo odore di escrementi e braci, polvere e sudore. Lui non faceva niente, mi guardava e basta. Peppina me l’aveva bisbigliato, sulla strada verso il Monte: ora avremo un altro uomo da accudire. A me aveva fatto effetto quella parola, “uomo”, riferita a lui. Prima di seguire il padre in montagna, Elvio era stato un bambino lagnoso e inquieto, sempre bisognoso di attenzioni. Ricordavo con ribrezzo il modo in cui mi si avvicinava dopo i pasti – quando ancora esistevano le domeniche e ci si riuniva per i pranzi in famiglia – e mi appoggiava la testa sulla spalla, chiedendomi “un bacino”. Io voltavo veloce la testa e gli scoccavo un bacio a labbra strette sulla guancia unta, già puntellata dei primi, rossissimi brufoli. 
«Ti lascio solo» dissi, quando la tinozza fu piena abbastanza. Sul pavimento gli avevo sistemato un pettine e un pezzo di sapone. Lui non si mosse, e solo quando fui sulla porta mi chiese di restare. Mi sembrò così piccolo allora: un fagiolo appena uscito dal baccello. 
Restai di spalle finché si spogliava, poi trascinai una sedia accanto alla tinozza e mi sedetti dietro di lui. Prendevo l’acqua calda con la brocca e gliela rovesciavo lentamente sulla testa, come aveva fatto mamma con noi.
«Sai, su in montagna dormivo in un pagliaio» mi disse. «Scavavamo un buco nella paglia e io mi c’infilavo dentro.»
Gli passavo il pettine tra i capelli annodati, e lui non si lamentava. 
«Una volta ho anche sparato.»
«A chi, sentiamo.»
«Ai tedeschi!»
Feci una faccia come se mi stesse raccontando balle, ma non poté vederla. 

Zio Imbriano l’aveva portato in montagna con sé quando era riuscito a evadere dalla caserma dei militi. Elvio al tempo aveva solo undici anni, ma non c’era una madre a cui lasciarlo. Dicevano che Imbriano, per evadere, avesse scavalcato un muro altissimo, e che avesse chiesto la bici a un passante per pedalare veloce lontano da lì. Peppina lo diceva, e diceva anche che la bicicletta forse non l’aveva chiesta, ma rubata. Imbriano era sempre stato impetuoso, esuberante, il più divertente degli zii. Per questo mi aveva fatto così effetto vederlo sul Monte quel mattino: con le guance incavate, il tremolio alla mano destra. Il modo in cui provava a ridere per poi spezzarsi sotto i colpi della tosse. Quando alla fine si era chinato per salutare Elvio, babbo ci aveva fatto segno di seguirlo nel fienile, per lasciare loro un po’ di spazio. Dentro il fienile il buio era denso, e un mucchietto di feci rinsecchite attraeva mosche in un angolo. Da fuori arrivava il ronzio della voce di Imbriano, interrotto solo dai singhiozzi di Elvio. Lo zio ci aveva chiamato un’ultima volta, quando già scendevamo lungo il fianco della montagna. Urlava di avere fiducia, che presto il nemico sarebbe caduto. Ci voltammo a guardarlo: le mani sui fianchi, il piede appoggiato a un masso. Sembrava crederci davvero, e per un po’ quella fiducia ci rimase attaccata addosso.
«Ma con il moschetto, non con la mitragliatrice come babbo» precisò Elvio.
Peppina entrò in cucina in quel momento e ci guardò strano. Elvio non era più un bambino, e io ero quasi una donna finita. Dissi che andavo a prendere altra legna e lasciai Elvio a mollo. Fuori il blu del crepuscolo si stendeva su ogni cosa, l’aria era fresca e come fatta di polvere. Mi fermai in mezzo al cortile e chiusi gli occhi per un attimo. Provavo a immaginarmi il ragazzino che avevo appena aiutato a lavarsi mentre sparava ai tedeschi. Ma non riuscivo a immaginare uno scontro a fuoco, né i soldati, né sapevo cosa fosse effettivamente un ‘moschetto’. Nelle retrovie non vedevamo altro che farina e fagioli, e degli uomini che si ammazzavano sul fronte non ci restava che l’assenza.

Quando rientrai in cucina, Elvio era avvolto in un asciugamano e si scaldava accanto al camino. Peppina, seduta al tavolo, tritava la cipolla. «Portalo di sopra» mi disse, «vedi se gli trovi una gonnella pulita.»
Andammo nella stanza dove dormiva papà, Elvio si sedette sul letto mentre io cercavo nella cassettiera qualcosa che potesse stargli. 
«Hai freddo?» gli chiesi, quando vidi che tremava.
Lui alzò le spalle, e allora anche io.
«Non ci hai creduto alla storia dei tedeschi, vero?»
Gli passai un paio di mutande pulite.
«Guarda che è vero!»
«Sì, sì, ti credo» risposi, mentre s’infilava i pantaloni. «Hai avuto paura?» gli chiesi poi. 
Lui di nuovo alzò le spalle. I pantaloni gli ricaddero fino alle ginocchia, così andai a cercare qualcosa con cui tenerli su. Il resto della casa era silenzioso: solo dalla cucina arrivava lo sbattere aritmico del tagliere contro il tavolo, quando Peppina voltava l’impasto per schiacciarlo. Quando rientrai in stanza, Elvio era tornato a sedersi sul letto. Il torace era violaceo e ossuto, quasi incavato in mezzo al petto. Gli allungai un pezzo di corda che avevo trovato in ingresso.
«Torniamo giù» gli dissi, quando si fu infilato anche una vecchia camicia ingrigita, con le macchie ruvide di filo dove io o Peppina avevamo cercato di nascondere un buco. Sembrava un albero con le lenzuola stese ad asciugare sui rami. 
«Di mamma non avete saputo nulla, vero?» chiese allora lui. Io mi arrestai sull’uscio – era come se un sasso mi fosse rotolato dall’esofago allo stomaco. Sua madre era sparita. Tre, quattro mesi prima, senza lasciare niente di scritto. Ha abbandonato la famiglia, dicevano di lei, senza preoccuparsi di nascondere il disgusto. Io me la ricordavo piccola, zia Rosa, muta e remissiva. L’avevo notata appena, prima che se ne andasse. Io e Peppina mettevamo insieme le memorie: la volta che piangeva in cucina, e quel livido sul polso che cercava di coprire con la manica dell’abito. Ma erano solo congetture, e dovevamo farle sottovoce, perché nonna e babbo non volevano sentirne. 
«No» gli dissi, «non abbiamo sentito niente».
Lui annuì velocemente.
Provai a mettergli un braccio sulla spalla, ma sembrava un peso morto, un arto non mio.
«Com’è non avere una mamma?» mi chiese allora, voltandosi a guardarmi. 
Io restai in silenzio per un po’, poi scossi la testa. Non riuscivo a dire niente. 
«Adesso la nonna potrebbe farci da mamma, no?»
«È più di là che di qua» risposi.
Lui si arrotolava le maniche della camicia sui polsi, cercando di far spuntare le mani. 
«Allora Peppina?»
Scoppiai a ridere.

La cena fu allegra, con Peppina che diceva le sue scemenze ed Elvio che si abbuffava. Persino babbo sembrava più leggero del solito. I maltagliati si erano un po’ appiccicati tra loro, sulla lingua si sentiva la ruvidezza della farina, rimasta cruda tra gli strati che non si erano cotti del tutto. La nonna scuoteva la testa ma non diceva niente, anche lei aveva capito che quella sera era importante star sereni.

Poi sentii qualcosa, nel cuore della notte, quando dormivano tutti già da un pezzo. Un ticchettio alla finestra, come se un uccello infreddolito ci stesse chiedendo di entrare. Mi tirai su a sedere. Peppina, accanto a me, parlava nel sonno – sì, chiudilo, non sul tavolo, chiudilo su! La stanza era buia, ma si vedeva il bagliore di una luce accesa oltre gli stipiti della porta. Raggiunsi il corridoio a tentoni, e vidi che la luce veniva dallo studio di papà. Mi mossi piano, cercando di non far rumore. La porta dello studio era accostata, una candela bruciava sul tavolo. Babbo non mi vide: era piegato in avanti e si teneva il volto tra le mani. Lui poi avrebbe detto che mi ero sognata tutto, che non c’era modo che sapesse, o anche solo sospettasse. Ma io sono certa di averlo visto piangere. Anche se era appena successo, a otto chilometri da lì, e il messaggero che sarebbe venuto a informarci era ancora preso dal suo stesso sconvolgimento, in una notte d’orrore speculare alla nostra. Io so che anche babbo aveva sentito la beccata dell’uccellaccio alla finestra, e che, come me, anche lui aveva capito.

Ci avrebbero raccontato che avevano pianificato un attacco alla caserma dei militi di Cagli, la stessa che l’aveva preso prigioniero tre mesi prima. Ci avrebbero detto che erano in quattro, e che il piano era quello di far saltare la porta della caserma per rubare delle munizioni. Che per far saltare la porta avevano utilizzato il plastico – un esplosivo di cui gli americani avevano cominciato a rifornire i partigiani sulle montagne, insieme ai viveri che facevano cadere dagli aerei in volo. Ci avrebbero confessato che i partigiani non avevano dimestichezza con questo nuovo esplosivo, e che per errore ne avevano piazzato troppo. Così non era saltata solo la porta, ma l’intera facciata della caserma. Che i carabinieri all’interno si erano messi a sparare alla cieca sui quattro partigiani. E che Imbriano, colpito alla testa, era morto sul colpo. E ci avrebbero detto, guardando Elvio che si aggrappava al mio braccio, che probabilmente Imbriano aveva avuto un presentimento. Che aveva sospettato che le cose potessero mettersi male per lui quella sera, e che per questo aveva mandato a chiamare il fratello, per assicurarsi di mettere il figlio in salvo.

Tornata in stanza, m’infilai nel letto di Elvio. Lui mosse appena una gamba, ma il respiro gli restò regolare. C’era ancora un sentore di braci nei suoi capelli, oltre quello acidulo del sapone. Mi avvicinai al suo corpo magro, sudato, e lo strinsi a me come se fosse un bambino. Come se fosse il mio, di bambino.

Linda Farata è nata a Milano nel 1994. Suoi racconti, articoli e traduzioni letterarie sono stati pubblicati su diverse riviste e antologie. Nel 2022 è uscito Ero una Fanzine per i tipi di Agenzia X, libro scritto e curato insieme al Collettivo Mastica’zine. Il suo primo romanzo uscirà a settembre 2025 per Bompiani.

Radio Days: Mirco Salvadori

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Le parole dicono molte cose se le sai usare

di

Mirco Salvadori

 

Sono le parole usate da Mariana Branca che risplendono nel fulgore psicoattivo di ‘SUUNS’, il suo nuovo viaggio letterario che si è aggiudicato il posto d’onore come miglior racconto lungo, nella Dodicesima Edizione del Premio Letterario ZENO,

 Vedo già il pensiero di alcuni rivolto al duo americano dei Sunn O))), magari trasformato in SUUNS per volere della scrittrice. A dir il vero, il doom-drone metal poteva anche illustrare alla perfezione il trip di sensazioni che la lettura del testo fa scaturire ma Suuns è il nome di una band canadese che produce  suono intriso di varianti rock contaminate di kraut e post, rock ovviamente. Una band che dona il suo nome ad un racconto ispirato agli arcani maggiori dei tarocchi di cui il sole fa parte, capace di affondare le radici in una dimensione emotiva e psicologica complessa, nella quale la scrittura diventa un potente strumento di esplorazione interiore. Un intenso viaggio che sa distinguersi con un approccio narrativo in grado di mescolare elementi di introspezione, surrealismo psicoattivo, viaggio onirico e dura riflessione sociale, in grado di creare un’esperienza di lettura che stordisce, al pari del suo romanzo di esordio: Non nella Enne non nella A ma nella Esse – Wojtek Edizioni, classificatosi terzo nella finale del premio Letterario Italo Calvino del 2021.

 

Il titolo, “SUUNS”, è un gioco linguistico che rimanda alla pluralità e alla molteplicità di significati che si riflettono nei temi centrali del racconto. La storia si sviluppa attorno alle vite di due fratelli coinvolti in una serie di eventi che, pur nella loro apparente (a)normalità, si rivelano essere il veicolo per affrontare questioni più profonde legate all’identità, alla memoria e al conflitto interiore. Un viaggio che  non è solo fisico, ma soprattutto mentale ed emotivo.

 

Mariana Branca ci ha abituato ad una scrittura complessa ma precisa, capace di estrema analisi e al contempo iper-sensibile e analitica, abile nel sezionare le parole, scegliendo quelle in grado di evocare immagini complesse. Ogni frase sembra calcolata per trasmettere non solo ciò che è scritto, ma anche ciò che rimane sottinteso. La lingua è uno degli aspetti più affascinanti del racconto: al contempo semplice e ricca, in grado di rendere l’intensità emotiva delle situazioni in modo tale che ci ritrova immersi, a contatto diretto con l’inchiostro che ancora fumante, ci cola addosso provocando lacerazioni profonde: A diciotto anni, per la prima volta Totore alzò lui il braccio e strinse quello del padre, steso levato in aria pronto a scagliare il ciocco di legno, lo strinse nella sua mano destra e lo immobilizzò, vedeva i tendini i muscoli i nervi del collo del padre da vicinissimo, poteva contarli davvero, uno a uno, poteva azzan­narli, se avesse voluto, succhiarli, sfilarglieli via dal collo, poteva sentire l’odore acre del sudore del padre, osservare le goccioline sulla fronte, sentire l’odore di aceto che emanava, così vicino e così forte che gli veniva da vomitare, poteva stringere il polso del padre che non aveva mai osato toccare, misurarne la forza, la du­rezza, scoprire che era pietrificato, duro più duro di tutti i ciocchi di legno che negli anni gli erano stati scaraventati addosso, più duro dei denti che gli si erano spaccati nella bocca, più duro della sua scorza che non era come quella della quercia, non come quel­la del faggio, la scorza di Totore si era graffiata, lacerata ma non aveva ceduto, aveva resistito perché la sua scorza era più dura. Gli ritorse il polso all’indietro e gli sembrava di poterglielo spaccare, sentiva le ossa piccole nel polso scricchiolare, i tendini sfibrarsi, le fasce muscolari spezzarsi, il braccio intero opporre una resistenza residua, non più sufficiente. Sentiva i denti del padre sfregarsi facendo rumore di pietre strusciate, gli vedeva la pelle diventare rossa, infuocata, bollente, emanare calore. Adesso lo ammazzo, pensò Totore, o almeno di fargli male, parecchio male, di farlo andare via dalla stanza piegato, strisciando, tumefatto, la faccia aggrumata in ematomi rosso scuro, viola che sarebbero diventati blu il giorno dopo, il blu dei lividi sulle ossa, dei vasi sanguigni spezzati nella carne, gli zigomi deformi, sproporzionati dall’as­senza di simmetria dei colpi sulla faccia, gli occhi irrorati gonfi maciullati come le cosce delle vacche azzannate da un lupo, le orecchie strappate, e i denti, quel che resta dei denti, la lingua pesta, trita, da sputare.”

 Come si accennava prima, la musica ha un suo ruolo nel raccontare socio-intro-psicoattivamente, le vite di questo gruppetto di ragazzi che avevano come meta il Luna Park Sole, nella zona industriale di una non ben definita realtà per nulla metropolitana, nella quale si immergevano: “sballati e fatti, fumavamo la metanfetamina a casa di Totore, ci mettevamo in macchina in sei e andavamo alla zona industriale. Le giostre mischiavano meglio il sangue alla droga che avevamo in corpo, appena sufficiente. Il sangue, il sangue era appena sufficiente, pensavamo.  Faceva freddo, da noi, quasi tutto l’anno. La droga la usava­mo per sballarci, per far pompare il cuore, fargli produrre calore. Il Luna Park delle feste di Natale era la scusa buona per uscire, perché le giostre e la droga hanno questo potere, di riscaldare.”

Un’altra capacità dell’autrice, sta nel riuscire a manipolare magicamente il tempo e lo spazio. La narrazione si muove tra il presente, il passato e soprattutto, il: e ora? Dove ci troviamo ora?! Lo fa in modo fluido, come se i ricordi e le esperienze fossero sempre a portata di mano, pronti a riaffiorare in ogni momento. La sensazione di irrealtà e di disorientamento che ne deriva diventa una delle caratteristiche distintive del racconto. L’alternanza tra il “reale” e il “surreale” induce il lettore a mettere in discussione ciò che è davvero vero, creando un’atmosfera sospesa, inquietante, assolutamente affascinante.

SUUNS è anche racconto di “deriva” interiore, che si manifesta non solo nella sua ricerca di senso ma anche nel modo in cui si relaziona con gli altri personaggi. Ogni incontro, ogni scambio, è carico di tensioni non esplicitate, come se il linguaggio stesso fosse incapace di contenere completamente le emozioni e i desideri che animano i personaggi. La solitudine, la difficoltà di comunicare e la ricerca di una connessione autentica sono temi ricorrenti nel racconto, trattati con una delicatezza che porta a livello esplosivo l’impatto emotivo.

Durante questo viaggio si giunge a riflettere anche sul concetto di appartenenza, sulla ricerca di un posto nel mondo che non sempre si trova facilmente. Totore si sforza di capire chi è e dove si colloca in un contesto che spesso sembra ambiguo e indecifrabile. La stessa scelta del titolo, che evoca qualcosa di distante, di misterioso, suggerisce l’idea di un’inquietudine esistenziale, un desiderio di scoprire un significato profondo che però rimane parzialmente, forse volutamente, nascosto. La scrittura della Branca sa afferrare e trasmettere sensazioni, inquietudini, desideri e visioni con una chiarezza e una bellezza che incantano e coinvolgono. Un lavoro letterario che lascia una forte impressione, provocando una riflessione sul significato della ricerca interiore.

Nel disco dei Suuns citato nel racconto, c’è una traccia intitolata Edie’s Dream. Ecco: SUUNS è quel sogno, indotto dalle droghe e dalla suo inquieto vivere, nel quale Edie/Totore, ma anche suo fratello Hölderlin e tutti i personaggi del racconto, compreso il cane Syd (nome lisergico per antonomasia), sono beatamente e dolorosamente immersi, un sogno dal quale è impossibile uscire, accecati dalla troppa luminosità di un sole attorno al quale girano vite impazzite che non possono rinunciare alla migliore e più potente droga mai esistita: l’Immaginazione.

SUUNS è stato pubblicato nella raccolta Cloris: storie per i tarocchi – Volume 2, curata da Lorenzo Vargas per Pidgin Edizioni.

Per coloro che non rinunciano mai all’ascolto: https://suuns.bandcamp.com/album/images-du-futur-2

 

 

 

Il brutto male

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Immagine di Riccardo Corciolani

di Camilla Pasinetti

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Agnese ha detto alle bambine di non dar retta alla nonna, quando fanno i compiti. La nonna, la stessa che va a prenderle a scuola, prepara loro il pranzo e, quando dormono qui, stende i vestiti sul calorifero per farglieli trovare caldi al mattino. Alla nonna, meglio non chiedere niente quando si parla di scuola, ha la quinta elementare, non sa quello che dice. La voce di Agnese mi ronza nelle orecchie con la raucedine ereditata da suo padre, senza bisogno di tabagismi accessori, quel tono perentorio di chi non ammette conoscenze diverse da quelle mutuate dall’esperienza diretta.

Bisognerebbe ammazzarli tutti da piccoli, i vecchi. Sono stata io, la nonna, a insegnarglielo, prima che la pelle raggrinzisse e iniziasse a colarmi dalle braccia come una specie di inefficace membrana per il volo.

Senza di me, le giannizzere starebbero a scuola fino alle cinque del pomeriggio e sarebbe ancora troppo presto per gli orari di lavoro dei loro genitori. Sarebbero parcheggiate in qualche scuola di nuoto, danza o scherma per tirare l’ora di cena e, finito di mangiare, avrebbero ancora i compiti sul groppone. E toccherebbe a lei preoccuparsi che li facciano. Ma, alla nonna, residuo di un tempo defunto e di un partito morente, meglio non chiedere niente. Bambine, guardatevi dalla politica e guardatevi dai vecchi; mi pare di sentirla. Niente telegiornale a casa, niente politica a tavola, solo resoconti di azioni quotidiane e comunicazioni di servizio. La tossina politica intacca le menti dei bambini come il diabete corrompe l’organismo dei vecchi.

Leggo sul diario di Bianca una nota in cui la maestra spiega le ragioni dei compiti supplementari che le ha assegnato. Prova a convincermi di aver dimenticato le dispense a scuola, e non demorde neanche quando comincio a rovistarle in cartella. Trovo quattro fogli pinzati e occultati nel quaderno di matematica, con date da associare ad eventi e viceversa. Appiovro Rachele, la piccola, impedendole di concludere di corsa l’ennesima orbita tra la porta spalancata del soggiorno e la finestra del bagno, passando per il terrazzo. La faccio sedere al tavolo davanti alla sorella mentre carico la caffettiera. Andrà alle elementari l’anno prossimo, ma voglio che ascolti. Alcuni concetti mettono radici in testa nonostante l’intenzione di conservarla vergine.

«Ti piace il caffè, giannizzera?».

«Quale delle due?» domanda Rachele.

«Quella più grande». 

«Non posso mica berlo» risponde Bianca, «la mamma mi ammazza!».

Le assicuro che mamma non lo saprà, a meno che un collaborazionista non glielo vada a riferire. Fulmino la piccola con un’occhiataccia che le infonde un infimo senso di colpa per qualcosa che ancora non ha fatto. Bianca porta timorosamente la tazzina alla bocca, analizza preoccupata il liquido nero all’interno, la reclina quel poco da portarlo a contatto con le labbra e allontanarla disgustata.

«Sa di vita. Fa schifo, ma è solo così che si butta giù. Amara». 

Cin-Cin! Cin-Cin, Cin-Ci, ricoprimi di baci, Cin-Cin, Cin-Cin, assaggia e poi mi dici, Cin-Cin-Cin-Cin. 

Agguanto il telecomando, schiaccio un bottone a caso e lo lancio sul divano. Le bimbe mi rimproverano.

Mi seggo accanto a Bianca e comincio a spulciare l’esercizio. Serve anche a me, per verificare lo stato delle mie capacità intellettive, misurare il grado di sclerosi. Quattro novembre, l’Armistizio di Villa Giusti. Otto settembre, quell’altro Armistizio.

«Nonna, otto settembre millenovecentoquarantatré?».

«Scrivi, due punti: inizio della guerra civile italiana».

«Non hai capito. Devo tirare una freccia per collegare le date con le cose successe nella colonna di fianco».

«C’è spazio?».

«Sì, ma…»

«Riempilo. Inizio-della-guerra-civile-italiana».

«Devo fare i compiti, non imparare quello che vuoi tu!».

«A fare i compiti è più brava la mamma, io so insegnare solo quello che so».

«Questa la so, venticinque aprile, fine della Seconda guerra mondiale, gli americani liberano Milano».

«Gli Alleati hanno liberato una eva. Il Piccì ha liberato Milano. Scrivi: millenovecentoquarantacinque, due punti, Milano è liberata dai compagni partigiani delle Brigate Garibaldi, dai socialisti delle Matteotti, non dai Fazzoletti Azzurri di Badoglio, non dai cattolici, non di certo dai monarchici. Gli americani ci volevano tutti sui monti ad aspettare il messia, ma avevamo già patito troppi inverni all’addiaccio, e dovemmo muoverci prima che il gelo facesse cascare anche il dito del grilletto».

«Cosa devo scrivere?!»

«La tua maestra è di quelle che insegnano che ogni morte d’uomo è una disgrazia perché ogni uomo partecipa all’umanità?».

«Eh?».

Accendo una sigaretta e Rachele tossisce, come le hanno insegnato a fare quando un adulto comincia a fumarle accanto.

«Il venticinque aprile non è finito proprio niente. Le persone hanno continuato a morire per settimane».

Bianca sbuffa, Rachele la segue per imitazione, reinterpreta il fastidio per solidarietà, aggiunge un tocco personale e ribalta gli occhi.

Ciao, Sandra, che fai? Lavoro. Ah sì? e dove sono i giornali? Lì, sul divano. Ma perché sul divano, devono star qui, perché sul divano?! A proposito, è passata la cretina. Quale cretina? Quella che ci fai il cretino! E chi è? Non fare il cretino, Raimondo, la nostra vicina. Ah, quella lì?! 

«Puoi abbassare la tele?! non li sopporto ‘sti due!» si lamenta Bianca. 

Dico all’altra di prendermi il telecomando. Rachele odia che le si chieda qualcosa. Agnese dice che somiglia a me, e la cosa la preoccupa. Mai avrei pensato che una Rachele mi sarebbe stata tanto simpatica. Scanala per sbaglio su una commedia con Walter Chiari e la Cortese.

«Non voglio fare la trombona, perciò vi racconto solo come è finita. Anzi, come non è finito niente. L’inverno del quarantacinque fu inclemente. Per trovare un po’ di formaggio e qualche grammo di sale in più dovevamo rivolgerci alla borsa nera di Brescia, e dovevamo andarci a turno, in bicicletta. Gli americani avanzavano all’impressionante velocità di trecento chilometri l’anno, ma il generale Alexander aveva ordinato a tutti di aspettare a braccia conserte. Avevano il terrore che il Piccì liberasse le città da solo e che, alla fine, le reclamasse come proprie, come stava facendo Tito. Una volta la settimana mi incamminavo sul Monte Orfano, coi cesti preparati da me e le mie sorelle. Avevo dodici anni ma ne conoscevo ogni anfratto, potevo scendere e salire da tutti i versanti. Portavo sigari e sigarette arrotolate durante la settimana con le foglie di tabacco intere, di un verde quasi ignifugo, qualche tocco di formaggio, sale, zucchero, salame, quando capitava, ma non era sempre domenica.

Le domeniche erano quasi estinte. Zio Battista e i miei cugini non si facevano mai vedere. Per un anno, mi venne incontro un uomo con l’accento da montagnino, e non mi disse mai come si chiamava. Poi, sparì e, per qualche mese, venne mio cugino. Feci l’errore di chiamarlo per nome e lui mi diede un manrovescio che mi ribaltò. I nomi erano pericolosi. Per finire al muro bastava portare quello sbagliato. Disse fiero che si chiamava Artù, adesso».

«In che senso, al muro?».

«Fucilati, Bianca».

«Nonna, qua chiede: venticinque aprile 1915 – nove gennaio 1916».

«Gallipoli, credo, ma quello è un problema degli australiani. Dicevo, quando scomparve anche Artù, nell’inverno dal quarantacinque, incontrai Santagata, un amico di mio zio che conoscevo da quando era piccola, vicino a un vecchio pezzo d’artiglieria campale asburgica semi deglutito dal suolo. Faceva il maquis dal trentanove, ricercato per renitenza alla leva.

Non andavo più a scuola da quando le elementari erano state requisite dalle Brigate Nere. Le SS si dividevano il seminario con la Feldgendarmerie, che ora è diventato casa albergo».

«Casa albergo?» chiede Rachele, perplessa.

«Dove gli anziani vengono messi ad aspettare la morte».

«E ci devi andare anche tu?».

«Puoi scommetterci… Finita la scuola, con le belle giornate, entrai in confidenza con Alfredino, il ragazzo che abitava nel torrione di fronte a noi al castello. Il nostro rione era l’ultimo agglomerato di catapecchie seicentesche, attorno al quale il resto del paese era cresciuto come un arrossamento intorno a un brufolo. Non c’era nessun castello. Passavamo i pomeriggi nei campi, stesi sull’erba calda, a fissare il cielo in attesa del passaggio di Pippo. Pippo veniva solo di notte, ma, per noi, qualunque apparecchio era Pippo. Ad Alfredino mancavano un paio di venerdì, la madre l’aveva lasciato alla nonna per trasferirsi a Ospitaletto con i figli normali. La mia mamma non voleva che uscissi col figlio di un militare congelato nell’Epiro, ma, quel tempo, non esisteva concessione di replica e non avevo modo di spiegare che in paese mi sentivo più sicura a farmi vedere in giro con lui piuttosto che da sola; la nonna bis aveva il timore di quello che bisbigliava la gente. 

I tedeschi mi identificavano come la fidanzata del mentecatto, lasciandomi sfilare tra le autoblindo senza troppo menarmela. Trascorremmo l’estate fissando la pancia dello stesso aeroplano dell’aeronautica della Repubblica Sociale in livrea mimetica, che andava e veniva dall’aeroporto di Ghedi per pattugliare la campagna e smitragliare la tranvia. Credo che Alfredino mi piacesse un po’».

«Ma il nonno!» squittiscono maliziose.

«Ancora di là da venire… Dov’ero, più? Ah, sì… Feci un altro inverno, su e giù dal monte, finché fu di nuovo primavera. Una sera, Alfredino bussò alla nostra porta. Non s’era mai azzardato nemmeno a chiamarmi da giù. Mia madre si inferocì e volarono schiaffi per tutte. Agitava i palmi aperti nell’aria alla frenetica ricerca di una guancia da scaldare. Non esistevano colpe singole, in famiglia, solo collettive. Alfredino non era venuto per me, quando riuscì a mettere tre parole in fila mia sorella Paola aveva il braccio ustionato dalle braci del ferro da stiro. Milano è liberata, balbettava. Il proprietario dell’unico apparecchio radio sopravvissuto alla requisizione aveva bisbigliato la notizia a qualcuno, che l’aveva detta ad un altro, e l’informazione impiegò più di un giorno ad arrivare alla mia porta. Pian pianino, perché i tedeschi non sembravano essere sul punto di andarsene.

Il giorno dopo, mio zio e le altre bande di gappisti scesero dai monti e cominciarono a sparare».

Il logorio della vita moderna minaccia la nostra esistenza, e allora? Allora affidiamoci alle virtù salutari del carciofo, nostro fedele alleato!

«Nonna, sono le quattro e mezza, se andiamo avanti così finiamo dopodomani».

«Spararono tutto il giorno, dall’alba a notte fonda. I tedeschi piazzarono un pezzo d’artiglieria sul sagrato della chiesa e una postazione di mortaio in piazzetta, sotto la mia finestra. Per tutto il giorno, la Guardia nazionale repubblicana girò il paese a bordo di un blindo per diffondere a megafono l’ordine di tenere le imposte chiuse e non uscire di casa. I colpi scuotevano il pavé come un tappeto e facevano vibrare i vetri dietro le persiane. Io, mamma, Paola e Rosa eravamo in camera, in silenzio. Cercavamo di interpretare l’andamento della battaglia dall’elastico avvicinarsi e ritirarsi dei colpi. Le imposte restarono chiuse finché non riconoscemmo le voci che si levavano dalla piazzetta. Da principio, pensammo a un trucco per farci mettere il becco fuori. Paola prese l’iniziativa e aprì le imposte della camera. Mamma la strattonò per i capelli e finirono a terra, ma nessuno sparò. Qualcuno, di sotto, intonava Bandiera Rossa in dialetto. L’anta persiana di Alfredino era saltata e sforacchiata da una corona di proiettili. I tedeschi e i repubblichini erano morti o se n’erano andati. Quel mattino, si riunì un Comitato di Liberazione per votare la sorte dei fascisti catturati e organizzare le perquisizioni delle case dei collaborazionisti. Per due giorni, fino al ventotto, ventinove aprile, i compagni guidarono il paese. Erano anni che non vedevo zio Battista. Era fratello minore di mio padre, ma non erano mai andati d’accordo. Zio ci regalò alcune barrette di cioccolata della Wehrmacht, tonno e prosciutto affumicato in scatola, gallette di riso e altre leccornie. Il pianto della vedova Rugiada lo attirò giù di nuovo. Salì nel torrione della vedova con altri partigiani per portare giù il corpo di Alfredino e caricarlo su un carro».

«Ma perché l’hanno ammazzato?»: Rachele conosce lo sconcerto.

«Non c’è limite all’orrore di cui è capace un uomo che sente tremare la terra sotto i piedi. Di fatto, perché si era affacciato alla finestra. Accompagnammo i morti al cimitero e lì feci i nomi dei collaborazionisti che avevano fatto affari coi tedeschi. Il marito della signora della merceria, il padrone del bottonificio, il notaio Digilio e altri, che comprava generi alimentari dai nazisti per poi rivenderli alla povera gente a prezzi da strozzino, e segnalare chi gli stava antipatico alle SS. Non voglio mentirvi: qualcuno è morto quel giorno e non ci ho mai perso un minuto di sonno. 

Il governo del CLN durò un paio di giorni. Poi, segnalarono un’imponente colonna partita da Cremona per scortare il gerarca Farinacci al sicuro in Svizzera. L’Antigrammatico si staccò dal convoglio con la sua guardia personale prima di Bergamo per puntare alla Valtellina, ma ebbe la bella pensata di fermarsi a mangiare un boccone con un’amica contessa dalle parti di Monza, e lo fucilarono. La banda del Mont’Orfano e gli altri gruppi della zona si riunirono con gli uomini di un comandante garibaldino della Val Taleggio, un certo Tarzan, per fermare la tradotta dalle parti di Orzinuovi. In serata, andammo incontro ai compagni per soccorrere i feriti. Mio zio fu tra quelli che non tornarono. C’era però Santagata e quel Tarzan di cui tanto si parlava, un marcantonio, ma forse erano i miei occhi troppo piccoli per inglobare figure umane così imponenti, tanto gonfie di paura e coraggio da lievitare il doppio di un corpo normale. Aveva i capelli lunghi, il fazzoletto rosso, il pizzetto curato alla Errol Flynn, nonostante desse l’idea di aver dimenticato l’odore del sapone. Sgusciai tra i compagni e raggiunsi Santagata per sapere dei miei cugini. Tarzan gli rubò il tempo e mi disse senza orpelli che mio zio era morto e che dei figli non sapeva niente. Mi domandò in bergamasco dove fosse mio padre.

“Mio padre non c’è”, dissi. “Ti ho chiesto dov’è”, replicò lui, la voce dura come pietra. “È morto”, feci io. “Non coglionarmi, sc-chetina. Lo so io dov’è”. Poco dopo, ordinò di raccogliere il possibile prima di abbandonare il paese.

Così, mi pare il trenta, una fresca orda di tedeschi e italiani ci occupò di nuovo. La colonna attraversava tutto il paese, dall’imboccatura, all’altezza della stazione, per stendere le sue vertebre metalliche lungo la strada per Cologne, da un lato, e di quella per Brescia, dall’altro. Il Comitato di Liberazione si era espresso male: due repubblichini e alcuni loro compari, graziati dalla votazione, erano ancora rinchiusi nella scuola elementare. Fui una delle prime che vennero a prendere. Io e la vedova Rugiada, che ora non piangeva più, e un’altra signora, moglie e madre di qualcuno. 

La signora Rugiada e quell’altra donna vennero uccise lì, in piazzetta castello. Spararono molti più colpi di quanti ne servissero. Restai a guardare le spirali di fumo grigiastro risalire dai fori nel tessuto bruciacchiato e avvitarsi in spirali combinate. Fanno effetto le cose che si ricordano.

Il prigioniero della GNR mi indicò come una parente dei banditi. Dopo una mezz’ora portarono tre partigiani feriti sulle lettighe e li posarono a terra, ai nostri piedi. Riconobbi Artù e lui riconobbe me e le mie sorelle, bastò un attimo per distogliere gli occhi e non guardarci più. Altri soldati arrivarono con due piccozze e iniziarono a picconare fino a sentire l’impatto del selciato contro il becco metallico».

«Tu ci stai prendendo in giro». Rachele accenna un sorriso solo per rinfoderarlo.

«L’SS che faceva da interprete tra il personale locale e i suoi camerati ci colpiva con un buffetto ogni volta che distoglievamo lo sguardo. C’erano anche il proprietario del bottonificio e il marito della merciaia, con loro. L’ufficiale SS scambiò qualche impressione col sottoposto, interpellò un altro soldato e, dopo qualche minuto di conciliabolo, l’interprete mi domandò dove fosse mio padre. Dissi ancora che era morto. Il repubblichino abbaiò offeso che stavo mentendo, e rispose per me. Raccontò che era scappato in Argentina per non finire in galera, e ci aveva abbandonati, poi si piegò in avanti su di me così che sentissi l’alito vinoso e mi domandò se sapessi che mi zio era morto quel giorno. E io, come la stupida bambina che ero, annuii. Il ripubblichino sogghignò. Avevo confermato quello che già sapevano. Papà non era morto per un incidente in acciaieria, ma la vergogna non permise mai a mia madre di ammettere la verità. Neanche dopo.

I corpi furono prelevati dalla piazzetta e scaricati all’interno del cinema della parrocchia di Rovato. Visto che ero la più piccola, il repubblichino ubriacone chiese a mia madre di scegliere quale figlia avrebbe pagato e lei spintonò Paola verso l’ufficiale. Non aveva mai avuto troppa passione per la mezzana. Non saprei dire cosa abbia intravisto l’SS in quel gesto, mosse qualche passo verso di noi, fece una carezza a Paola e la invitò a indietreggiare con la mano guantata mentre ordinava a me di avvicinarmi. Parlò in tedesco, guardandomi negli occhi, lasciando all’interprete il tempo di tradurre. Sai cosa fanno i comunisti alle donne? In giro si diceva che mangiassero i bambini, ma, per fame, chi non l’avrebbe fatto? Scossi la testa. Allora chiese una sedia.

Il repubblichino diede un ultimo sorso da un fiasco di vino e lo frantumò per terra. La gamba destra teneva il tempo frenetico di una canzone di terrore che non riusciva a zittire, stringeva i pugni per reprimere gli spasmi alle mani. Al contrario di me, sapeva cosa sarebbe successo – e si pisciava sotto. I muscoli delle guance pulsavano per lo sforzo di tenere serrate le fauci. Una piccola macchia rossa emergeva dal giro di garza che gli incorniciava la faccia, all’altezza dell’orecchio. La scherzo della finta esecuzione gli aveva sfondato il timpano, imprigionando un potente impulso elettrico nel suo sistema nervoso, impossibile da scaricare a terra. Si accovacciò e raccolse i cocci di vetro, pinzandoli uno ad uno con le dita incerte, li carezzò col polpastrello per sentire il filo e scartare quelli spuntati. Selezionò un triangolo scaleno, una specie di piccola squadretta verde, e si portò dietro di me.

Appena si mise al lavoro, l’universo fu prosciugato di ogni suono. Non uno schiarirsi di voce, un colpo di tosse. Solo il raschiare del vetro. Il suono di una liscia mano di bambino che raspava una guancia barbuta. La guerra era finita, lo sapevano anche loro.

Il giorno dopo, tre grosse formazioni garibaldine assediarono il paese supportate dal contingente polacco. Nella notte, la colonna si rimise in moto, i polacchi attesero che si allontanasse e la attaccarono in campagna. Io, però, non avevo più occhi per vedere.

Il sangue mi colava in faccia, Paola tamponava la fronte seguendo il profilo degli squarci e cercando di schivarli. Piangeva come se lo stessero facendo a lei.

Tarzan volle sapere perché non mi avessero accoppato. Paola cercò di spingerlo via e lo colpì allo stinco con una scarpata che lo fece sorridere. Mi portò in braccio alla scuola elementare e mi stese su due banchi uniti, svolse il canovaccio che mi faceva da turbante strappando il tessuto dalla carne viva. Un medico da campo polacco lo fermò. Tarzan rispondeva in dialetto a quello che gli veniva detto in polacco, ma tutti sembravano capirsi senza problemi. Il paese era in tripudio.

Un polacco mi ficcò un pettine tra i denti e schioccò le mascelle per farmi segno di mordere forte. Mani annerite manipolavano il mio corpo irrigidito per tenerlo aderente al tavolo operatorio. Mi punsero la coscia e spremettero all’interno un quarto di tubetto di morfina. La prima colata di acquavite e trementina mi incendiò la testa. Il pettine mi scappò di bocca e urlai tanto da sentire il sangue in bocca. E più piangevo e strillavo e battevo i piedi, più loro si infiammavano l’ugola per spingere il trionfo un tono sopra il mio dolore.

A morte la Casa Savoia, lavata da un’onda di sangue, si sveglia il popol che langue! O ladri del nostro sudore, nel mondo siam tutti fratelli, noi siamo le schiere ribelli, sorgiamo che giunta è la fin! A morte il Re e il principin, a morte il Re e il principin!

Finito di ricucirmi, mi fasciarono il cranio con delle bende militari.

Festeggiarono tutta la notte e tornarono a cantare Bandiera Rossa, in italiano, perché quei garibaldini erano padovani della Pierobon e vicentini dell’Ortigara, ravennati della Ventottesima, bresciani della Settima Matteotti e della Quarta Garibaldi e bergamaschi di Tarzan. Ognuno parlava, biascicava e bestemmiava nel suo idioma. I polacchi si portavano appresso quintali di pentolame in ghisa e alluminio, posate in acciaio, cioccolato, pancetta affumicata, e iniziarono ad elargire doni alle donne in cambio di tre pasti al giorno per i mesi successivi.

Al mattino, ancora si intonavano stornelli. Col parabello in spalla caricato a palla sempre ben armato, paura non ho, quando avrò vinto, ritornerò! E a colpi disperati, mezzi massacrati dalle bombe scippe, i fascisti sparivan, gridando “Ribelli, abbiate pietà!”».

*

Il telefono spezza il momento, frantuma la bolla e mi strappa il ricordo dalle mani. Alzo la cornetta, chiudo e la lascio penzolare.

«Il citofono, nonna!» mi redarguisce Bianca, esasperata. 

Qualcuno preme sul citofono per la terza volta. Sono le cinque passate, e Bianca ancora non ha finito il primo foglio di domande. Agnese non sarà contenta.

«Ma cosa ti hanno fatto col vetro?» vuole sapere la piccola.

«Fatevelo raccontare dalla mamma, ma non oggi. Vestitevi che è qua sotto».

«Alla fine almeno avete vinto» arguisce Rachele. Bianca inserisce i fogli tra le pagine del quaderno e lo richiude esasperata.

«Lo pensavamo tutti. Ma basta guardare la televisione, è ancora zeppa di repubblichini. Walter Chiari, la Cortese, Vianello, Fo, Albertazzi, il segretario dei repubblicani e pure il tipo baffuto della pubblicità del Cynar. Hanno vinto loro, e sono stati così bravi che non ce ne siamo accorti».

«Ma chi sono?» chiede, sempre Rachele. «E perché non li hanno messi in prigione con i tedeschi?».

«Perché avremmo avuto galere piene e strade deserte. Abbiamo deciso di perdonare, di turarci il naso, una pacca sulla spalla, un colpo di spugna, un cero e non ci abbiamo pensato più. Il primo Natale dopo la guerra, eressero un monumento ai caduti. La notte dell’inaugurazione, i fascisti lo fecero saltare la dinamite. Il nonno, una decina d’anni dopo, lo fece erigere di nuovo a spese sue».

«Ma sei sorda, non senti questo rumore!? Zzzzzzzzz, zzzzzzzzzz?!» Bianca non ne può più.

«Sloggiate giannizzere».

«Ma perché ci chiami sempre così?».

«Perché dove passate voi non cresce più l’erba. E poi, è come quelli del monte chiamavano me. Vi vanno bene le scaloppine al vermut per domani?».

*

Prima di andare a dormire, adagio la parrucca sulla testa senza volto di polistirolo e sfrego la peluria sudata sul cranio con paglietta umida. I capelli sintetici mi fanno prudere la testa, mi obbligano a grattarmi il cheloide dove la mancanza di sensibilità trasforma la sensazione più appagante del mondo in qualcosa di repellente. I capelli non sono più ricresciuti. In paese, si dice ancora che abbia un brutto male.

Camilla Pasinetti è nata a Novara nel maggio del 1994. Ha svolto una moltitudine di impieghi, nessuno dei quali pertinente a suoi studi. Fino alla scoperta della necessità di lavorare, riempire di timbri il passaporto è stata la sua sola ambizione. Ad oggi, vanta con orgoglio di averne già consumato uno. Da adolescente, si diletta a recitare in alcuni teatri di quartiere, ma il divertimento non basta a compensare la vergogna di trovarsi sul palco, e si convince presto a smettere. Il teatro non l’ha mai pianta. Suoi racconti sono apparsi su Atomi (Oblique – retabloid) e Poetarum Silva.

Io sottoscritto Parmigiano racconto e rinvengo il mio operato

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(oppure I dieci mesi nelle due grotte non per vacanza bensì resistenza)

Foto di Claudio Varsalona

di Alessandro Tesetti

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Le gesta partigiane non possono essere raccontate perché tanti partigiani sono morti e i sopravvissuti non si ricordano di un cazzo.

Cristi polverizzati, Luigi Di Ruscio

Amleto ci ha detto che ci avrebbe portato da mangiare l’arrosto, ma quando è tornato solo le munizioni ci ha portato, nascoste su per l’orifizio alcune, e delle altre non ce lo ha voluto dire, ma in fondo erano poche, anche se non pochissime, e non ci si capiva dove avrebbe potuto nasconderle, lui si vantava dicendo che chi c’ha fantasia c’ha virtù, ma questo non nega che per sopravvivere da queste parti di questi tempi mica possiamo continuare a lanciare sassi, fingerci tronchi o sassi per sorprendere i ciucci e soffocarli col laccio delle scarpe o con gli spigoli dei vetri di lago smerigliati.

Non viene fermato perché invalido di guerra, è tornato a casa mutilo e orbo, ma con un figlio riconosciuto e una donna, che da buon comunista non definisce né concubina né moglie, semplicemente compagna o consorte, perché di sorte comune dice, spedito in Somalia e subito per rifiuto e scarico di coscienza s’è fatto esplodere una bomba poco distante da lui mentre gli altri erano a rastrellare villaggi distratti e ingordi dai corpi vinti. E per questo lo si vede arrivare in bici col manubrio libero, non tenuto tra le mani, e invece di frenare scende direttamente, e cambia battuta ogni volta, si sfotte da solo, meglio orbo che fascista, meglio senza un braccio che tedesco.

L’arrosto non l’ha portato neanche stavolta, le cariche scarseggiano come gli uomini e il cibo, a non mancare mai stranamente sono le armi, ma che ci fai con le armi se non sparano, che un conto è avere pane ma non si hanno i denti, e un conto è avere un Sten che non spara, sarà che dopo l’8 gli sbandati scappando lasciavano parabelli in giro, tornavano in paese e confessavano: “all’incrocio con, sotto al muschio di, ma tanto si vede, c’ho messo un segno che solo il sottoscritto può riconoscere. Sta bene dove sta”.

*

Il 9 settembre noi eravamo già operativi anche se, almeno io, non sapevo bene con chi pigliarmela, sono stati Remo e Bianci a sciogliere i dubbi, perché con l’armistizio è arrivato il bombardamento su Frascati da parte degli americani, e migliaia di morti hanno fatto per colpire uno solo, quindi un po’ di incertezza dei buoni della storia, della parte giusta della storia. I comunisti di Genzano finalmente usciti alla luce del sole sono andati a scavare tra le macerie e soccorrere i feriti. Già la notte dell’8 uno scontro armato a Villa Doria tra nazisti e la divisione italiana che copriva la zona, in supporto dei nazisti c’erano anche fascisti locali che di armistizio non ne volevano sapere, e alcuni di noi invece dalla parte degli italiani, seppure fascisti fino al giorno prima. Insomma, un fratricidio incomprensibile. Sergio detto Porchetta è stato preso, io e Remo siamo riusciti a scappare nella villa pontificia.

*

E quando le prime bande si formavano e partivano su in collina che qui di altipiani non ce ne sono e in pianura non si può mica combattere, si sentono storie delle lotte urbane mosse dai GAP, di quelle anfibie lungo il fiume Po, ma qui né altipiani né fiumi, e la città dista una trentina di chilometri, dove andavamo se non in collina, la prima volta a salire di armi si incontravano quante ne volevi, e per questo qua sopra ci sono più strumenti che umani.

Pur vero che chi ha già combattuto, in esercito istituzionale fascista, raramente si vendica combattendo di nuovo, preferiscono nascondersi in umide cantine, trenta centimetri di muro, senza mai uscire, fingendosi spariti nel nulla. Qualcuno sì, per passione della guerra o per abitudine alla compagnia d’armi, al posto di tornare a casa con la mogliera matriarca che a furia di sentire il duce gli somiglia, che una volta quando si chiedeva di lei, chiedendo cosa facesse durante la giornata, l’interlocutore ti rispondeva “eh, cuce” oppure “eh, munge” oppure “eh, asperge asparagi”. Ecco perché siamo giovani o celibi o comunisti o intellettuali o morti di fame o renitenti o guerrafondai o sfiziosi, o come me per puro caso e curiosità.

Un padre che manca, migrato all’America e neanche una lettera spedisce, neanche con la crisi del ‘29 è tornato come molti hanno fatto, una madre rintronata dai figli dispersi o assassini perché arruolati, sopravvissuti ma morti, io senza lavoro a subire la faccia pietosa di lei, senza moglie che tutte rintanate sono, una terra che non frutta, una malinconia dappertutto, e allora meglio salire e cercare di far qualcosa, istruirsi grazie a Remo e Bianci, che loro a differenza mia hanno lasciato famiglia e cattedra.

Poi c’è 22 invalido di mente, un matto vero, non capisce neanche cosa voglia dire uccidere, ci chiede perché quando spara l’altro non respira più, ci chiede pure perché non respirare significa morire, lui che non respira mai “non serve, vedete, io mica lo faccio” dice. Gli si era detto per ischerzo se voleva venire con noi, che ci servivano uomini dal sangue freddo o matti che sappiano sparare, e lui serissimo ha detto “come no, non so sparare ma la coccia mi funziona buona”, strano che il regime non ancora l’aveva deportato, durante le riunioni ride o provoca “cosa serve parlare andiamo a punire” e ride. Passa le giornate con le mani a pettine a togliersi i pidocchi o spulciarsi altro, è un po’ onanista commenta Remo.

*

Una vita a desiderare di uccidere con l’educazione ricevuta, la formazione fascista radicata e contaminata nel sangue, poi certo, rifiutarla e farsi altro, ma sempre allo stesso modo siamo fatti, sempre sbagliati saremo, passati tutti per Cristo e Mussolini, balilla e sabato fascisti, libri di scuola che inneggiano e macchiano il cervello. Nati nel ‘22, generazione disgraziata, la marcia ha generato una procreazione italica infetta, crescendo nell’unica indivisibile unione partitica che ammette unica e indivisibile visione delle cose.

Di questo si ragionava durante la cena a base di puntarelle e nient’altro, tornato mo’ mo’ e mi è preso lo sghiribizzo di scrivere non per potere di testimone, come fa invece Bianci, scrivo perché fin quando esistono i testimoni esiste pure la testimonianza, dice, quando spariscono i testimoni sparisce pure la testimonianza. Io scrivo perché non ho niente da fare, non una donna a cui scrivere, se non mia madre, ma a lei le epistole son corte, non molto da dire, mi strappo a forza un mi mancate tutti, anche se non è vero, non è il tempo della nostalgia, anche quando non c’è nulla da fare, come questi giorni di attesa delle munizioni, dove ce ne restiamo con le mani in mano, vicine alla bocca per scaldarsi soffiandoci su, giorni di minzioni e biscate, a fumare una sigaretta dopo l’altra, sigarette americane o tedesche sia chiaro, che noi soldi allo stato mica glieli diamo, Luciano detto Bianci ce lo ha detto, ma ci avete mai pensato che il tabacco che vi fumate è tassato, e le tasse di chi sono? Dello Stato sono, più fumate e più lo arricchite, e allora abbiamo smesso tutti di fumare, con i crampi allo stomaco, l’ansia da astinenza, la tremarella, e si va a fare colpi solo per rubare sigarette alle carogne, tutti che le nascondono per bene, chi nel tascapane, chi sotto le palle.

Uno schifo le sigarette tedesche, eppure le fumiamo con gusto perché se le fumiamo è perché abbiamo colpito, c’era sempre chi mirava dall’altra parte, una gran foga a sparare in quattro ma nessuno di loro crepava, o mira scarsa, o ciecanza, o desiderio di mancare tutti, quindi quelli scappavano o alzavano bandiera bianca. In tutte le nostre azioni solo due sono morti, uno di crepacuore perché quando siamo andati a vedere non c’era nessun foro di proiettile, e l’altro per errore, un colpo dritto in testa, impossibile che uno di noi abbia preso di mira proprio la testa, pulito e preciso, impossibile.

Fortuna che poi è arrivato 22, spara a casaccio con una posa sgraziata, ne riesce a colpire almeno la metà, e quando scappano li lascia scappare, Remo e Bianci non commentano quindi neanch’io commento. Quelli che si fingono morti li prendiamo per scambi o utilizzarli nei lavori che pochi ce ne sono, perché a cucinare non sanno cucinare, a scavare non c’è nulla da scavare, le staffette mica le possono fare e allora chiedono stesso loro di fare qualcosa, ci chiedono di essere più esigenti e padroni, ma noi siamo diventati comunisti proprio perché non vogliamo più nessun esigente e padrone, allora si annoiano e fanno i matti, a scappare non possono scappare perché li leghiamo, provano ad uccidersi coi rami, coi mestoli, con le carte da gioco si tagliano la gola. Capita che diventiamo amici per noia comune, li prendiamo e li portiamo qua bendati in attesa di uno scambio, ma i nostri non si vedono in giro, non fanno attacchi per paura di rappresaglie, quindi di scambi non ce ne sono e quando ci stanchiamo di loro o li vediamo sfranti li lasciamo andare, bendati.

Quando poi gli anglo-americani hanno iniziato a paracadutare giù cose siamo arrivati ad un accordo coi badogliani e coi monarchici: noi niente vogliamo da loro, solo sigarette, neanche i viveri ci interessano, solo sigarette. Prima volevano fucilarci perché comunisti, oltre che comunisti pure non dichiarati, cioè non comunicata la nostra presenza lì, pensando che non c’era da comunicare proprio niente, uno sale quando desidera salire cercando di far qualcosa per la causa e il bene comune, mica per prestigio o gloria. Poi abbiamo giocato a calcio, loro arrivavano a dieci, noi a cinque compreso il tedesco, ma abbiamo vinto lo stesso, col tedesco legato all’albero ad uso di porta, quindi fermo, e gli avversari lo colpivano non si capiva se volendo (senza fare gol) o propri scarsi che solo lì tiravano e lo colpivano e non facendo gol. Amleto e Clorinda quel giorno non c’erano e sono loro a fare su e giù per le colline ogni quindici giorni circa per rifornirci di Lucky strike.

Abbiamo discusso su questa rete d’informazione che vogliono loro, di coordinazione e azioni comunicate in anticipo, ma non hanno capito che noi non operiamo così, anche avendo i mezzi, noi non operiamo così. E allora mai vincerete questa guerra, ci accusavano irati con le dita sui grilletti, noi da buon comunisti, lucidi e vigili, abbiamo capito che era inutile stare lì a battibeccare, accusarci a vicenda, ce ne siamo andati sapendo che noi non volevamo vincere nessuna guerra, ci stavamo solo esercitando alla rivoluzione futura, e di bande come noi in tutta Italia ne esistevano molteplici, senza essere conosciute perché senza desiderio di riconoscimento, al momento della rossa primavera convergeremo tutti assieme, coordinati e compatti.

*

Bombardano ogni mese, sempre loro, gli americani. Più che incursioni facciamo soccorsi mischiandoci tra gli sfollati, solo una pistola nascosta nel calzino, mossa per niente astuta anzi pericolosissima perché nessuno porta calzini con la miseria che c’è ma i tedeschi quando fanno perquisie si fermano ai fianchi e non gli salta in mente che una pistola possa entrare in un calzino. Possiamo dire che vinceremo questa guerra per la loro ignoranza. Bombardano le reti ferroviarie, le stazioni, ponti, strade, ma avendo questi obiettivi finiscono per colpire anche il resto del paese, buttando giù case e municipi e chiese, che sono fonte di ricchezza futura per lo stato proletariato, commenta Remo, quindi gli americani per darci il presente ci tolgono un po’ di futuro, ma son certo già che quando il futuro arriverà con la scusa che ci hanno liberato chissà cosa vorranno da noi, nessuno fa le cose tanto per, gratuitamente, o spirito missionario, anzi diffidare proprio da questi. Per questo dovremmo liberarci da soli, ma scapestrati come siamo, come facciamo come facciamo.

Non capisco bene a cosa si riferisce, cosa c’entrano le chiese, ad una certa rivoluzione non ben approfondita, capita che la complicità di Remo e Bianci mi dia sui nervi, sanno già tutto e si compiacciono di fare i riferimenti che l’altro sa, nel momento che c’è da insegnare a me e a 22 si fanno schivi e mezzi schifati, se chiedo mi indicano un libro o devo aspettare il momento di assemblea ma si parla d’altro o non si parla affatto, le solite definizioni, le solite parole che dicono il contrario della norma o del pensiero comune, che lì per lì resto a bocca aperta poi nell’intima riflessione o non ricordo niente o le trascrivo qui o non capisco cosa vogliono dire. Ho il sospetto che nutrirsi di queste parole non ci si nutrisca affatto, che almeno la retorica del duce è comprensibile ed è facile da imparare perché va toccare qualcosa che tutti sanno, ce l’abbiamo nel sangue, scorre fra le genti, non cambia le coscienze ma le calma, non agita ma rassicura. Che forse il problema dell’educazione comunista è la sua ambizione, deve saper ribaltare o ricostruire le coscienze, e non bastano assemblee, il partigianato. Serve… non so cosa serve.

*

Clorinda per passare i posti di blocco non indossa mai calzature, le vesti lacerate mostrano tre quattro strati di pelle generati dalla sporcizia, non si lava da quando è iniziata la guerra per mostrarsi zozza e nullatenente, pure per non farsi prendere dal tenente di turno, è chiaro, che questi se ne approfittano prima a smancerie e poi a mercanzie e poi a violenze carnali. Lei invece rischia il congelamento ma evita guai più grossi, quante maternità inedite e senza mariti si sentono per i Castelli! E mica perché c’è un delirio generale di libido, è perché questi arrivano e si sfamano, come un comune banchetto si servono imbavagliando, stendendo sul tavolo della cucina il pasto più caldo della giornata.

Io ora non voglio idealizzare Clorinda, essendo l’unica donna che vedo da mesi, rischiando di divenire l’eroina che ci salva tutti i giorni, a noi che siamo nelle sue incrostate e gelide mani, di divenire modello di tutti gli ideali dei partecipanti al tipo di attività che stiamo facendo, di lotta armata e resistenza. Clorinda la ciclista, Clorinda la staffetta, Clorinda la due polmoni grossi così, Clorinda la zozza, Clorinda la dea, Clorinda la trotzkista, Clorinda madre di tutte le donne, Clorinda il cui nome nessuno conosce, Clorinda la convertita, Clorinda la guerriera. In quanto Clorinda tutto questo, in quanto Clorinda più astratta che reale, che quando le chiediamo di fermarsi raramente si ferma, Clorinda rischia di spersonalizzarsi e diventare bandiera o ideale. Clorinda selvaggia che per queste colline pare essere più viva nel mondo vegetale che in quello cittadino ma poi quando apre bocca si sente tutta la sua preparazione politica: portatrice di tutte le speranze delle donne, autonome e riscattatrici, lavoratrici e istruite, votanti e cittadine.

Clorinda che gira con una Luger nella seconda giarrettiera, la prima un po’ più bassa per mostrare quello che c’è da mostrare, e la seconda più riparata per nascondere la pistola, e qui viene dimostrata tutta l’ignoranza ariana, altro che razza superiore, e la servitù maschile alla donna, che vedono una coscia scoperta e dimentico il proprio ruolo e nemmeno si chiedono com’è possibile che una contadina così lercia possa però indossare una giarrettiera nera in pizzo. Noi ce lo chiediamo perché intellettuali che studiano, tagliuzzano e pongono quesiti.

Clorinda che coi soldi risparmiati da sudori in fabbrica s’è comprata una bici e due giarrettiere, acquistate da una meretrice al bordello, rosse gliele voleva vendere, ma Clorinda l’ha volute nere, ragionando lì per lì se anche la libido ragioni per colori politici, s’è data due risposte e poi s’è detta meglio non rischiare, dammele nere. Una fortuna per due giarrettiere così, l’unica donna che s’è vista entrare in un bordello, i fascisti l’hanno presa per una di loro e già stavano con la patta aperta, lei è diventata comunista anche per trovare in futuro, dopo la guerra, l’uomo coi valori di comunista, non frequentatore di bordelli, non con la faccia inebetita, non con la patta abbassata quando vedono una donna.

Già che c’era ha rubato la pistola mentre il soldato pallido e biondo sbatacchiava e borbottava, è entrata nella stanza, giubba e calzoni gettati sulla sedia, la pistola ben in vista nella fondina, presa e infilata insieme a munizioni nella giarrettiera, la meretrice se n’è accorta e per solidarietà ha lasciato fare, forse per espiazione al suo andare coi tedeschi, che quando Clorinda ha chiesto di unirsi, o di far qualcosa, rubare altre munizioni, passargli malattie veneree, quella non ne ha voluto sapere, e poi io le veneree mica le ho come dici tu. Hai già un nome di battaglia, le diceva Clorinda, macché nome di battaglia e battaglia, di tolleranza, era quel dolce e irrevocabile tempo quando a scuola studiai le poesie di quel conte marchigiano. Clorinda non ribatté e se ne tornò a casa.

Comunque quella volta del furto ci fu qualche complicanza, il tedesco non poteva crederci di averla perduta la pistola, però strano che gli fosse stata rubata, giurava di averla con sé prima di recarsi al bordello, convinto di questo perché poco prima l’arma gli era servita per minacciare il contadino e proprio dai suoi dinieghi s’era recato al bordello, avrebbe potuto ucciderlo e combinare lo stesso quello che aveva intenzione di fare ma s’è recato da Aspasia che quando si presentava col colpo in canna neanche i soldi gli servivano per procedere, quindi non trovava la pistola e ha rivoltato la stanza e minacciava Aspasia strozzandola dicendole che le aveva rubato la pistola, ma come ho fatto io a rubarti la pistola se eri dentro di me, le ha detto lei, e lui non ci credeva e stringeva con la mano più forte, e allora è stato qualcun altro, qualcun altro chi? che non è entrato nessuno lo sai che la porta si chiude a chiave per non avere guardoni, e lui non ci credeva ancora ma le ha tolto la mano dalla gola e s’è sistemato i calzoni che ancora nudo stava. Non poteva mica passare per fesso, quello che s’è fatto rubare una pistola da una puttana. Perciò non ha detto niente a nessuno, anche perché in simili casi, quando viene rubata un’arma, si passa al rastrellamento, e non potevano mica rastrellare la casa di tolleranza, come facevano poi?

 *

Il 19 febbraio avviene un fatto simile in contrada Patrolungo assai distante da dove siamo noi, residenti un po’ nelle grotte di Barco Colonna e un po’ in quelle di Palazzolo, per depistare il fiuto. Grotte che ci salvano dai continui bombardamenti, attendiamo il momento senza nessuna notizia o ingaggio, neanche di radio disponiamo, il giornale pieno di fesserie arriva ogni quindici giorni, Amleto è diventato padre un’altra volta, Clorinda è sempre più magra e negra. Più difficile pure fare i soccorsi perché tutti si ricoverano nella villa pontificia, considerata immune e in paese non resta più nessuno. Difficile arrivare a Velletri o Lariano o Latina o Genzano o Lanuvio, paesi lontani da dove siamo noi, muovendoci a piedi per sentieri disastrati con le continue bombe che piovono giù e nessun riparo.

Neanche gli altri fanno niente, hanno rapporti costanti con gli americani, dicono di aspettare che presto arrivano, di non fare nulla, che andrebbero a complicare anche il loro movimento, che continuano a lanciare viveri e beni non solo per le bande ma per gli sfollati tutti. Prendiamo un po’ di speranza quando sentiamo dalle labbra di Clorinda che gli americani si preoccupano delle nostre azioni, significa che un impatto ce l’hanno. Pur vero che loro attaccano per tagliare collegamenti e rifornimenti, quindi isolarli, e noi per mietere e diminuirli di numero e scoraggiarli un po’. Sempre quel che riesce a fare il solo 22, noi più che altro a fare numero. Remo e Bianci entrano in discussione ogni giorno, rimuginano su cosa è giusto o non giusto fare, non è un fatto cristiano ma etico, io non uccido perché ripudio la violenza ma si dà il caso che in caso eccezionale come può esserlo questo la violenza è necessaria ed io dovrei uccidere… Quando Remo si convince di questo Bianci lo recrimina, quando si convince Bianci è Remo a farlo. Tutte puttanate dice 22, io invece non so che dire e non dico.

Comunque, in contrada Patrolungo un tedesco voleva abusare la moglie di un contadino ma lui ha preso la baionetta e l’ha sgozzato, alcuni raccontano la falce, altri il martello, ma noi lontani da agiografie riportiamo il fatto e non il mito, dice Remo, e poi basta con questi martiri, neanche vittime perché vittimistico, sono morti ammazzati, e poi fa tutto un discorso sul peso sulle parole, l’importanza delle parole, specie presso i posteri, ed i posteri sono importanti, per non far risuccedere quello che ci è successo a noi. Quando hanno trovato il tedesco morto hanno preso ventidue persone, legate, disposte al bordo di un fosso, e poi sparato uno per far precipitare tutti, all’interno del fosso hanno buttato un paio di bombe, sparato ancora. Neanche fare dei fatti un fatto macabro, neanche dare della carneficina una romantica e agonizzante descrizione (Remo).

*

Marzo e aprile passano tranquilli, gli americani sono a Cassino, si concentrano su quella linea, detta Gustav, e non pensano più ai Castelli. Altri sono ad Anzio, e pensano a convergere entro l’estate a Roma. Ci sentiamo finalmente protagonisti della lotta, con i nostri sabotaggi delle linee telefoniche, trivellamento di macchine tedesche abbandonate, omicidi dei portaordini da parte del sicario 22, una volta una mina lungo la via che porta ad Anzio ma inesplosa, gridato in giro per il paese che il paese era stato liberato dai partigiani anche se non era vero. Si è appena aggiunto un sedicenne, sceglie il nome di Mostarda, porta una ventata d’aria fresca, un po’ estatico e agitato, vuol fare vuol fare ma non sappiamo ancora cosa cazzo fare, lo teniamo a bada, rischia di farsi ammazzare.

A maggio riprendono i bombardamenti, noi nelle stesse due grotte, cambiarle ogni settimana è di nuovo l’unico motivo di stiracchiamento, Mostarda si annoia e ci insulta dandoci dei pigri pavidi, sceglie la lotta partigiana solitaria, non abbiamo fatto niente per non lasciarlo andar via e più nulla sapremo di lui. Quando sono i tedeschi a far saltare i primi ponti come quello di Ariccia famoso per i suicidi, di tutti i ranghi e tutti i colori, che io pure una volta stavo lì con un piede sospeso, capiamo che gli americani sono ormai arrivati. Non siamo poi così felici, possiamo tornare a casa e ma negli sguardi di Remo e Bianci c’è rassegnazione e timore, cosa vorranno da noi, sarà diverso ma sarà lo stesso.

La preoccupazione mia è che di tutta questa esperienza non resterà niente, di tutta questa formazione partigiana un cumulo di polvere, non perché uno dimentica, ma perché la sedimentazione dello studio è cosa altra, lo studio deve mettere radici e le radici vanno idratate, io mi sento già secco e senza nuovi risorgimenti, e non ci saranno più Remo o Bianci a dirmi cosa dire, che pensare.

Dovrò andargli a bussare al portone di casa, ogni volta chiedendo istruzioni per l’uso, se il tempo della rossa primavera è venuto, chi votare alle prossime elezioni, se votare soprattutto, se posso o meno recarmi al bordello, se posso cercare Clorinda e prenderla che una certa voglia m’è rimasta, o la moglie di Amleto perché somala e quindi vogliosa, che neanche sposati sono, che cosa sono i valori professati se l’istinto comanda o il “discorso dominante” che non so cosa sia, che cos’è l’istinto e perché entra in conflitto col pensiero politico, che fine avete fatto voi, presenti solo nell’emergenza, se era giusto starsene lì, che siamo stati peggio dei fascisti, che la nostra presenza in grotta è stata vana perché sintomo di vanità, che mi vien voglia certe volte di riprendere lo Sten e andare ad ammazzare le bande blu che dalla partita a calcio ho il sangue amaro.

Mi pare che del mio formarmi, istruirmi, politicizzarmi come dicevano loro, non sia rimasto niente e di tante parole che adesso rileggo nemmeno so il significato ma le ricordo così come loro le pronunciavano. Non è che queste pagine le hanno scritte loro, Remo e Bianci?

Alessandro Tesetti è nato nel 2000 a Cassino, vive a Roma dove ultima il percorso di Filologia Moderna. Ha pubblicato su Nazione Indiana, Pastrengo, Il primo amore, STC; per quest’ultima è editor. Nel 2024 ha vinto il Premio Spazio Letterario.

Lettere dall’assenza #7

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Cara D.

i treni sono arrivati in anticipo: ho portato a casa i millenni che mi hai confessato, li ho inseriti in ampolle, me ne prendo cura come fossero ossa. Di nuovo tutto è chiaroscuro, le ombre si alzano poco prima di mezzanotte e fanno il verso delle cornacchie, mi traforano l’orecchio, poi si quietano poco prima del sonno, ma il sonno è un artificio.
Da quanto, D., hai detto all’alba: dormire non è il fondo del veleno. Ho risposto muovendo circolare il il mio bicchiere: non ho risposto.

[Distinguere i vermi dalle buche, lumache come giorni che si fingono colline.]

Ci sono i galli i ruscelli le api i greggi i pollai, ci sono cavalli mandrie le rocce le vallate i temporali, ci sono i corvi i topi molluschi meridiani, e non ci sono io e non ci sei tu: siamo cadute di fronte a cancellate, quando le guardie dicevano entrate o non uscirete, e noi ci siamo accasciate, una scusa per stare sulla soglia.

La soglia è un’incisione provvisoria, ci fende e non rinnova l’aperto all’universo: dichiarare che l’esistenza ha un nuovo nome, la stanza: sanguisuga di assoluti.

Mi annodo le gambe, il mattino che prepara ad ogni possibilità – e quante possibilità ci sono in un giorno, D.? Quanti miliardi di Storia sono racchiusi nelle possibilità di una notte? Anche adesso, mentre ti scrivo: non è forse ogni singola parola l’inizio di una direzione diversa, una possibile diramazione? Cancello, tolgo il non che ci nega e si apre un nuovo mondo, una nuova storia, l’ennesima narrazione.

L’infinito mi angoscia le dita. Tu hai tagliato le tue.

L’hai fatto un mese di maggio e tu credevi fosse inverno. Salita sull’albero più grande. Lo chiamavamo i centorami,  un macabro ricordo per le centomani che ti avevano presa. Sei salita, ti ho rincorso – ma due roditori non fanno una persona – e hai preso il taglierino: un’amputazione per poter dire “eccomi”.
Sento ancora la colla cadermi dagli occhi: scendere dai rami, scivolare sul terreno, riattaccare il riattaccabile.

[Dentro l’abbaglio esplodono stellate: il perdono è il germogliare degli appesi.]

La carrozza del ritorno si è fermata tre volte, gli inguini appiattiti sui finestrini, facce deformate dal vetro, premute contro il paesaggio del fuori. Ho guardato anch’io, non ho visto niente. Perché quando arrivano i morti, D.: io non vedo niente. Da cadavere guardo i cadaveri e provo solo un senso di comunanza. Lo stupore dell’altro mi frastorna le giunture, mi sgrana gli occhi: dove le pupille degli altri si dilatano davanti al morto, io divento una pupilla di morte, mi apro e mi faccio stretta come un gatto da buio a luce: e ricomincia la lingua accesa, le mille possibilità di un inciampo, uno sfregamento, una virgola che sposta la lancetta delle vite di secondo in secondo.

Ma io ora non ho più nessuno a cui parlare, D. Sono scesa, chinata sul corpo disteso. Dormiva, nessun arresto cardiaco. Le persone ora muovono  e rimuovono avanti e indietro gli arti nei corridoi, i corridoi come uteri che inghiottono parole e le rimbombano: la senti anche tu, tutta questa eco, D.?  

[Ci brucano le stanze delle pietre: le mura non hanno una materia]

Posare un corpo sulla banchina, un bianco morso a pezzi per addormentarlo, per addomesticarlo come tu sai fare: addomestichi le scimmie, le vite, le pratiche di uscita, addomestichi i tramonti per poter dire “è tardi, levate le tende, è ora di andare”.
Me ne sono andata prima che potessi farlo.  Potrò mai – mi hai chiesto ridendo – costruire una pelle innaffiando le ossa? Le mie risposte non sono le tue: qui non piove, l’acqua sta finendo, le bocche spalancate non hanno più denti per mangiare.

Non rispondermi, non farlo ancora. Se puoi: non ascoltarmi nemmeno.

S.

Nebbia di guerra

1

di Chiara Cassaghi

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Quella foschia, bassa e fitta, era di quelle che alzavano i fantasmi su dalla terra dei campi.

Come ogni mattina da sei mesi, Rosa aspettava che emergesse dalla nebbia il ricordo di uno dei suoi fratelli. Ne trovava sempre almeno uno, che fosse quando usciva dalla sua cascina in riva al Lambro per girare i campi, o in questo caso, quando prendeva la strada che portava in centro.

Certe volte, camminava Anna al suo fianco in silenzio, raccogliendo fiori che sarebbero spuntati dalla neve a primavera. La sua sorella maggiore, all’alba della guerra, quando venivano affisse lunghe liste dei ragazzi che cadevano in Grecia, era stata sopraffatta da un’infezione ai polmoni.

Di solito il fantasma di Enrico era più loquace. Era quella voce in fondo ai suoi pensieri che le chiedeva cosa diavolo stesse facendo. Dove stai andando? Sei sicura di te? Non vorrai mica finire nel buco insieme a me?Lui non era mai stato un ragazzo prudente, anzi. Chissà se con gli anni sarebbe diventato davvero la voce della ragione. Dalla Russia era tornata una bara vuota.

Quella mattina, tuttavia, Rosa camminava da sola sul sentiero di fango.

Finora non le erano apparsi Tommaso e Giulio. Chissà dov’erano finiti, da settembre nessuno aveva notizie. L’esercito si era sciolto ed entrambi erano spariti nel nulla. Da allora, quando arrivavano notizie di ragazzi presi e ammazzati, Rosa si faceva prestare la bicicletta dalla zia e correva su e giù per le città della pianura. Cercava sembianze dei fratelli nei volti dei fucilati, nei corpi impiccati, nei seviziati che zoppicavano fuori da San Vittore o da Villa Reale.

Quei volti che già non erano più umani. Maschere di cera grigia, disfatte dall’orrore, dagli occhi ancora chiari di una vita troncata. A volte una cornacchia si riposava su un torace nero di sangue, girando la testa alla ricerca di un verme per colazione, inconsapevole dei fatti.

Ogni passo che l’avvicinava alla sede del comune le ricordava che magari la prossima preda sarebbe stata lei. Ogni faccia cupa che incontrava per strada allungava la fila di bestie destinate al macello. Pochi giorni prima, era saltato un carro tedesco diretto a Bergamo, nelle vicinanze del ponte. Qualcuno avrebbe pagato. Forse la signora anziana che andava in chiesa, china sul bastone. Forse quel ragazzo di quattordici anni che portava il latte su per le scale.

Il peso soffocante degli sguardi circostanti non era sbocciato dal nulla a settembre, era più anziano. Però qualcosa nel clima era cambiato. La scomparsa dei fratelli le aveva aperto gli occhi su una realtà solitaria. Sola in casa, nell’impossibilità di ripararsi dietro a due ragazzi più grandi, che di certo sapevano tutto meglio di lei. Sola in città dove una parola di traverso, un rifiuto troppo freddo, una scappata verso angoli isolati, un’associazione insolita, potevano finire con due uniformi che bussavano alla porta di casa. A messa, scambiando auguri e saluti, si stringeva la mano a vicini e delatori, nell’ignoranza totale della differenza fra i due.

Lasciandosi dietro i fantasmi della foschia e i macabri spaventapasseri delle rappresaglie, Rosa fece un passo avanti verso un mondo di tutt’altri mostri. La villa municipale costituiva ormai una delle teste del commando tedesco in città.

Quando incrociava uniformi, Rosa teneva lo sguardo fisso verso il pavimento. Era stata sua madre a dirle che la mente si ricorda dei volti di chi ci guarda negli occhi. In giro, di ragazze come lei ce n’erano tante, dalle guance arrossite dal vento, dai capelli nascosti sotto uno scialle per ripararsi dall’inverno. Di ragazze che venivano chiamate in urgenza dal segretario comunale Beretta… molto meno.

“Entri, entri. Chiuda bene la porta.”

Rosa fece appena in tempo a entrare nell’ufficio, prima che un guanto di pelle nera le apparisse davanti agli occhi, bloccando la chiusura della porta.

Puntò subito lo sguardo verso il basso. Vide solo passare tre paia di stivali dal passo marziale.

“Tenente, non l’aspettavo così presto!”

Rosa si riparò nell’angolo della stanza accanto alla libreria, con la speranza di potersi confondere con i mobili. Sarebbe stato più saggio scappare e tornare quando gli ufficiali avrebbero finito il loro intervento, però c’era un ostacolo fra lei e la porta. Due soldati tedeschi. Se si fosse mossa, stavolta non avrebbe salvato il suo anonimato. Meglio rimanere rigida e zitta… e pregare che nessuno dei tre ufficiali avesse l’occhio per le contadine fuori posto.

“Non sono venuto per gli aggiornamenti, Dottore. È arrivata la segnalazione di una riunione clandestina la notte scorsa alla Cascina Del Bosco, il comandante ne richiede l’ubicazione.”

Ed infatti, uno dei due ufficiali abbaiò frettolosamente un ordine in tedesco.

Beretta aggrottò la fronte.

“La Cascina Del Bosco?” ripeté. “Ma, tenente… Mi dispiace, non abbiamo nessuna Cascina Del Bosco nel nostro comune.”

Per un attimo, il tenente della GNR rimase in silenzio. Si girò verso i tedeschi, per tradurre l’informazione con voce cauta. Non era di zona. Chiunque fosse cresciuto andando in giro per i campi là intorno non avrebbe mai fatto quella domanda.

Però, Rosa tenne la bocca ben chiusa.

Lo scambio di sguardi fra gli ufficiali gelò la piccola stanza.

“Dottore.” il tono si fece molto meno formale. “La Cascina Del Bosco. Dove sta?”

Il volto del segretario non si scompose neanche un po’. Beretta era un uomo discreto, che andava d’accordo con i borghesi del centro e gli operai di periferia, con i ragionevoli e gli ubriachi, i bellicosi e i taciturni. Di lui si parlava tanto e si diceva poco. Rosa lo ricordava come una lontana conoscenza di famiglia, classe ’93 come uno dei fratelli di suo padre —uno era stato aldilà della terza elementare, l’altro no, però i loro cammini si erano ricongiunti sulle vette del Carso. Tommaso, se ancora vivo, sarebbe l’unico ad averne memoria di prima persona. Raccontava che a portare la bara dello zio Antonio fuori dalla chiesa nel ‘20, c’era proprio il Beretta.

“Tenente”, il segretario non abbassò lo sguardo. “La Cascina Del Bosco non esiste.”

Rosa si accostò più vicino ancora al muro, cercando di sparire dentro la pietra.

Il tenente non sembrò molto soddisfatto da quella risposta. Lanciò uno sguardo ai tedeschi alle sue spalle, senza tradurre.

Il labbro del comandante si mosse, una smorfia spazientita su una faccia già inflessibile.

In un lampo, la sua mano volò verso la pistola al suo fianco. Rosa fece appena in tempo a sobbalzare e chiudere gli occhi.

Se avesse alzato la testa, senza dubbi avrebbe fissato la canna dell’arma. Sentiva un odore di olio bruciato. Il metallo freddo le colpì la guancia e le arrivò all’orecchio il suono di una lingua che non conosceva.

“Dove sta la Cascina Del Bosco?”, le stava chiedendo qualcuno, senza la premura dovuta al segretario comunale.

Rosa tremò.

Negli ultimi mesi, andando su e giù per vari comuni, a vedere se fra i morti nelle scaramucce locali trovava un fratello, Rosa aveva scoperto cosa succedeva quando una pallottola di piombo incontrava la carne. E pur essendo stata a più funerali che matrimoni, non le era spesso venuto il pensiero della propria morte.

Forse per questo non le erano apparsi i fantasmi nella foschia. Dio aveva scritto questa giornata di febbraio con già in mente questo finale.

“Non c’è una cascina che si chiama Del Bosco”, riuscì a dire lo stesso

Il morso del metallo si fece più insistente.

Rosa aspettava solo lo sparo.

“Lasci stare quella ragazzina, Comandante”, intervenne Beretta con la stessa calma di prima. “Anzi, mi afferri uno di quei libroni sullo scaffale. Con i documenti del censo, ci sono le mappe catastali, prenda quella più recente.”

La pistola le rimase in faccia, facendo accelerare ancora la mitraglia del suo cuore in petto.

Il tenente, sospettoso, seguì le istruzioni del segretario, prendendo uno dei registri e aprendolo sulla scrivania di fronte a tutti.

Rosa tremava ancora con ogni gesto lento del dito che seguiva la traccia dei sentieri.

Sulla mappa, le cascine dovevano essere ben sette. A sud e a est, le più grosse, la Sant’Orsola e la Gioia. A nord quelle medie, la Teresina, la Vecchia e la Molina. A ovest quella dei bachi da seta, l’Alfieri. E a sudest, la più piccola, dove vivevano poche famiglie, la San Rocco.

Nessuna Del Bosco.

“I campi confinano con tanti altri comuni”, aggiunse il Beretta. “Magari il suo informatore si riferiva ad una cascina che non sta sul nostro territorio, converrebbe chiedere negli altri municipi.”

Informatore. Quella parola dal sapore amaro correva per la pianura da qualche tempo.

La mappa era formale. Se il tenente della GNR avesse aperto tutti gli altri registri, non avrebbe trovato il nome del luogo ricercato. Neanche le torture del carcere di Monza l’avrebbero fatto apparire. Era del tutto inutile proseguire con questa strategia.

Rosa non capì nessuna delle parole scambiate dai tedeschi, ma nello sguardo avevano una tale fredda determinazione che non tirò neanche un sospiro di sollievo quando la pistola le fu levata dalla faccia.

Il sollievo non apparve neanche quando i tre uomini lasciarono l’ufficio, tempestosi come un cielo di malaugurio, senza neanche un saluto. Ordini furono lanciati, udibili anche dietro alla porta richiusa.

La calma del Beretta sparì. L’uomo si teneva ormai davanti a Rosa, pietrificato e sbianchito come se avesse visto il diavolo in persona.

Quel rigido silenzio che avvolse l’ufficio aveva qualcosa di irrequieto. Come l’orizzonte boscoso prima che scoppiassero gli spari dei cacciatori.

Rosa trovò finalmente la forza di staccarsi dal muro.

“Perché mi ha chiamata, signor segretario?”, chiese

“Sì… Giusto… L’ho fatta venire.”

L’aria distratta del Beretta dava brividi.

“Il Chirico, non so se si ricorda di lui, quello che lavora all’ufficio di leva di Monza.”

La resto della frase svanì nel nulla.

Rosa alzò le sopracciglia, aspettando dettagli.

“Monza. Ecco, deve andare a Monza. È entrato in possesso di una lettera con notizie di un suo fratello, però la deve riporre al suo posto entro stasera se vuole evitare guai seri. Gliela può tenere da parte per alcune ore, ci deve andare adesso.”

Rosa si trovò con il cuore in gola. Avrebbe voluto chiedere di quale fratello si aveva notizie, ma che importanza? Era pur sempre una risposta.

Tuttavia, lo sguardo del segretario Beretta era ancora fisso sulla porta. La sua mente era altrove, le questioni che riguardavano Rosa erano diventate secondarie e lei poteva solo provare ad indovinare quale ragionamento lo facesse impallidire a tal punto.

“Ora andranno a rastrellare per tutte le cascine”, capì. “E alla fine, qualcuno che ci tiene un po’ di più alla vita gli dirà che la cascina del bosco è la San Rocco.”

Lo sguardo di Beretta le cadde finalmente addosso, con prudenza.

“E suppongo che se qualcuno non corre subito alla San Rocco, domani si parlerà di una strage.”

In sei mesi, nel comune non era ancora stato ammazzato nessuno. Arresti di famiglie di sbandati, di sospettati dissidenti, di operai rumorosi, tanti. Ma morti ancora nessuno.

Lei era sempre spettatrice. Arrivava sul posto quando i fatti erano già accaduti. Cosa ci fosse alla San Rocco, Rosa non se lo immaginava, però ci vivevano alcuni dei suoi coetanei, conoscenti… Come si abita nei teatri di tragedia?

“Signor segretario, tutti i corridoi fino al piazzale sono pieni zeppi di militari”, insistette. “Se appena interrogato vedono un funzionario comunale svignarsela verso i campi ad infangarsi le scarpe, faranno i calcoli.”

Mentre lei, dai campi era venuta e ci doveva pur tornare.

“Rosa, lei deve andare a Monza. Ha solo poche ore.”

“Questo lo sappiamo solo io e lei. Tanto mi serve la bicicletta se voglio arrivarci, è solo una piccola deviazione.”

Dopo un altro secondo di incertezza, i tratti del segretario si addolcirono.

“Sia prudente.”

Nessuno arrivava mai alla cascina San Rocco per puro caso. Chi non era cresciuto in zona o non ci aveva lavorato per tanti anni, spesso non ne veniva neanche a conoscenza. Sarebbe stato un luogo mitico se la realtà non fosse molto più scialba.

Per prima cosa, stava a casa di Dio. Per raggiungerla, bisognava attraversare per il lungo i campi di proprietà molto più estese, quasi fino ai confini del comune. Era un’odissea nel cuore di un mondo contadino che inquietava anche chi andava in giro con il mitra.

L’unico sentiero che ci portava seguiva un fosso di irrigazione. In apparenza era solo diretto verso un bosco selvatico. Quella era terra di cacciatori. Però, attraverso la corona di roveri, uno sguardo attento poteva scorgere l’angolo di un tetto di tegole rosse.

Le famiglie che ci lavoravano erano poche, però la prossimità delle loro terre con quelle della cascina Gioia, dove Rosa era cresciuta, aveva creato opportunità di incontri e familiarità in passato. Ed infatti, prima di arrivare all’altezza del sentiero del bosco, Rosa doveva passare davanti a casa sua.

Senza andare troppo di fretta. Un movimento fuori dall’ordinario destava sospetti. Rallentare il passo era necessario per arrivare a destinazione.

La prima cosa che le apparve sbucando fuori dall’angolo della sua cascina, fu la scia di fango lasciata dai furgoni tedeschi. Erano parcheggiati davanti al portone, circondati da un trambusto di contadini.

Rosa si fece piccola dietro al muro di pietra.

Se stavano rastrellando, fra poco avrebbero portato via gente. A caso, magari. Se qualcuno puntava il dito sulle famiglie che avevano figli sbandati, allora i suoi genitori sarebbero stati fra i primi presi di mira. Forse, prima di andare alla San Rocco, doveva passare ad avvisarli del pericolo.

Suo padre, quel taciturno dallo sguardo cupo, veterano di un’altra guerra che gli aveva concesso di tornare col corpo tutto d’un pezzo, ma con la mente infranta. Sua madre, che spegneva fuochi con le carezze e cuciva gli strappi come una pelle nuova. Immaginarli in quelle celle di tortura di cui si parlava a sottovoce da settembre, le apriva un vuoto nel petto, un abisso vertiginoso.

I minuti erano contati.

Afferrando una cesta di biancheria come copertura, come se fosse occupata da una semplice consegna, sgattaiolò verso i campi. Importava solo tenere la testa bassa, non incontrare sguardi, ignorare il rumore dei soldati che gridavano, litigando con contadini scontenti di essere interrotti nel loro lavoro. Tenere il passo rapido, ma discreto.

Ormai Rosa aveva fango fino alle ginocchia.

Ma dopo un po’, il portone arrugginito della San Rocco le apparve davanti.

A prima occhiata, i tedeschi non erano ancora passati. Uomini, donne, ragazzi lavoravano come al solito nel cortile fra stalle, granai e case. La scena era così tipica che, per un momento, Rosa si chiese se il segretario Beretta non si fosse sbagliato.

In tanti si fermarono, fissando l’intrusa alle loro porte.

“Stanno arrivando”, disse, sfiatata

Un particolare spiccava fuori dall’ordinario. I vestiti dei ragazzi. La camicia da contadino e la giacca da cacciatore, con le scarpe e i pantaloni da soldato.

Seduto sui gradini della cappella di San Rocco, ce n’era uno che rimontava pezzi di metallo nero. No. Pezzi di un fucile. Quel viso tondo, da bambino, aveva perso l’aria dispettosa con cui era partito al fronte. Quegli occhi, incrociando quelli di Rosa, divennero uno specchio del suo stesso stupore.

Non fece in tempo a correre ad abbracciare Giulio – da quando era in zona senza farsi vedere a casa? – che le apparve una figura. Lo chiamavano Turin. Il figlio dell’amministratore della San Rocco si era fatto un nome quando, a soli diciassette anni, era finito a San Vittore per attività di propaganda sovversiva fra la Falck e la Breda. Si diceva che dalla sua liberazione ad agosto tenesse un profilo basso.

“Chi sta arrivando?”, chiese, con voce calma e decisa.

“Tedeschi. Qualcuno ha denunciato una riunione ieri sera. Beretta li ha dispersi, stanno facendo il giro per trovare qualcuno che parli.”

Il Turin si girò verso una donna, sua sorella Elena, che Rosa conosceva perché avevano fatto la comunione lo stesso giorno. In quello scambio di sguardi passò una quantità di informazioni e intese. Qualcuno aveva un delatore da scovare.

I gesti seguenti del Turin contennero la stessa carica, silenziosi e diretti. Ragazzi, anche gente che non avrebbe dato nell’occhio, si dispersero per il cortile. Alcuni scattarono verso i granai, dove di sicuro erano nascosti altri.

Giulio si alzò dai gradini della cappella e si precipitò ad afferrare Rosa per mano, trascinandola nella sua corsa verso l’orlo del bosco.

“Ma da quando sei qui?”, gli urlò dietro Rosa

La fuga si fermò al vecchio pozzo. Giulio ne sollevò il coperchio di ferro, provando la solidità della corda.

“E tu? Da quando stai in mezzo alle cose del Beretta?”, ribatté con lo sguardo severo. “Se qualcuno mi prende, sono guai per mamma e papà. Se ti ci metti anche tu, chi rimane a proteggerli? Chi porta soldi in casa? Non ti puoi buttare nella mischia ad occhi chiusi, non si gioca con questa gente sanguinaria.”

Rosa strinse i pugni. Giulio la guardava dall’alto dei suoi soli due anni in più, nato al tramonto di una guerra che ormai pareva una fiaba.

“Ti ricordi lo zio Togn? Quand’ha fatto sciopero, hai mai sentito papà dire e adesso chi darà da mangiare ai figli? No, ha detto quei bastardi hanno ammazzato mio fratello”, disse. “Mi è caduta tra le mani l’opportunità di evitare un altro massacro. Come avrei guardato mamma negli occhi se sapesse che ho lasciato morire i figli di qualcuno? La guerra fa tragedie, non eroi.”

“Furgoni sul sentiero!” gridò qualcuno

Giulio afferrò la corda del pozzo, passando una gamba sopra il muretto. Prese per mano la sorella, un bagliore convinto negli occhi.

“Non restare qui. Se ti trovano, prenderanno anche te.”

Rosa strinse la cesta di biancheria contro il petto. Aveva altre domande, ma tempi crudeli lasciavano poca scelta. Abbracciò rapidamente il fratello e fuggì verso gli alberi.

Il cuore le martellava in gola. I rami le frustavano il viso. Non era mai entrata nel bosco, le dicevano sempre che non poteva, era il posto dei cacciatori. Non conosceva il cammino, seguiva solo la luce del cielo bianco che sovrastava i campi.

Sobbalzò quando sentì una mano afferrare la sua.

Era Elena, la sorella del Turin.

“Giù”, disse, tirando Rosa verso un cespuglio

Nascoste, immobili, con la bocca tappata, tesero l’orecchio verso il suono di motori in avvicinamento.

Voci si alzarono, alcune calme, altre più secche. Rosa sentì un brivido, anticipando uno sparo che non venne mai. Il tempo sembrava dileguarsi, con il solo ritmo del fiato che controllava.

Un cane abbaiò, troppo vicino.

A volte, Rosa si chiedeva se i mastini al guinzaglio dei tenenti della GNR riuscivano a capire il cane spelacchiato che faceva da guardia al pollaio.

Se Dio non aveva scritto una giornata in cui finiva con piombo in testa sul pavimento del comune, magari aveva in mente piuttosto di farla sbranare da un pastore tedesco.

Lanciò un’occhiata a Elena. Nessun timore si leggeva nei suoi occhi neri, solo una grinta di acciaio. Chissà come aveva vissuto gli ultimi sei mesi, che a Rosa erano parsi un continuo strangolamento.

Uno stridio di freni ruppe la quiete.

Elena le tirò il braccio.

“Vieni.”

Scattarono, ma nella direzione opposta alla San Rocco, verso la distesa ghiacciata dei campi.

Sul sentiero, la colonna tedesca tornava indietro, portandosi via chi era stato preso per gli interrogatori. Fra di loro, si riconosceva il Turin.

Il furgoncino si allontanava verso nord e Rosa avrebbe voluto corrergli dietro.

Le sue scarpe sprofondavano nel fango con ogni passo. Presto, la colonna sparì dietro una curva, ingoiata dalla nebbia.

Di certo li stavano portando alla Villa Reale.

Monza… Il Chirico. L’ufficio di leva, la lettera. Il sole era basso, Rosa doveva sbrigarsi se voleva arrivare prima del buio.

Elena però stava già camminando decisa verso il sentiero che portava alla Cascina Gioia. Voltava le spalle al destino di suo fratello o lo rimetteva in mani di fiducia? Giusto, c’era un informatore da stanare. Cosa fosse, nel silenzio, l’indizio che indicava a Rosa che questa missione era pure la sua, ancora non lo sapeva esprimere.

Magari l’unico indizio era la decisione che sentiva in fondo allo stomaco.

La Gioia fremeva ancora dopo la partenza della pattuglia di rastrellamento. Tuttora non era ricaduta la polvere sollevata dalle gomme nemiche.

Quella era casa sua, la sua comunità. C’era qualcosa di devastato, che non era mai apparso così chiaro, che risaliva lontano nel tempo. Rosa lo percepiva finalmente attraverso l’aria torbida.

La GNR e i tedeschi se n’erano andati, ma rimanevano gli sguardi attenti, che scrutavano ogni vicino come se fosse un sospetto. Di chi ci si poteva fidare? Di quello che teneva la zappa stretta in mano, come se fosse un’arma? Di chi spariva appena arrivava qualcuno in uniforme? Del prete che durante la messa chiamava per nome gli adulteri che si erano confessati in segreto?

La promessa di un fucile era eloquente. Chi diceva unisciti a noi sennò… non parlava mica di unione. E quella divisione che corrodeva la Gioia, la zona, il mondo era sinonimo di morte. Era il terreno fertile per il pensiero di chi si lasciava sfuggire il ruolo che ragazze come Rosa e Elena potevano rivestire. Quella divisione era il pericolo più grande. Però, chi di spada ferisce…

Sarebbe stato presuntuoso pensare che il sistema che le sottovalutava le proteggeva completamente dall’essere scoperte. Anzi, se Rosa decidesse di affiancare Elena, il rischio sarebbe di andare veramente incontro al finale tragico.

C’era cibo da portare in tavola. Le mani di una madre da stringere, le parole di un padre da ascoltare. Rosa non aveva mai pensato che si potesse essere confinati in un vocabolario. Ad una come lei, la parola libertànon si insegnava mica.

Sembrava una scelta radicale, quella di credere che nel buio potesse sorgere un solo gesto di concordia, di pura solidarietà, per sconfiggere un veleno che divide.

“Certi giorni saranno incubi, ci saranno scelte difficili da fare, e alla fine magari né tu né io vedremo il frutto di tutti questi sforzi”, disse finalmente Elena. “Dovremo avere pazienza e misura. Come hai detto, qui non si fanno eroi.”

Occhi puntati verso una meta incerta. Era una fede cieca, quella che infuocava tutto il corpo.

Il sole stava tramontando dietro il cielo bianco quando Rosa accostò finalmente la bicicletta all’ufficio di leva di Monza, trovandolo chiuso. Come se l’aspettava. C’erano tante battaglie all’orizzonte, quella doveva accettare di averla persa.

Peccato. C’era da sperare che la notizia riguardasse solo Giulio.

Spinse i pedali, riprendendo il cammino verso casa.

“Signorina Rosa! Signorina!”

Aveva raggiunto un incrocio. Un uomo frenò davanti a lei, porgendole un biglietto.

Aveva sui trent’anni e una costituzione gracile, pallida, di quelle che portano ad una vita in uffici piuttosto che campi, fabbriche o fronti bellici. Ormai non si vedeva spesso nella sua natia Cascina Gioia, il Gaspare Chirico.

“Ho dovuto riporre la lettera, ma le ho copiato l’indirizzo.”

Strappandosi dalla sorpresa, Rosa afferrò il biglietto.

Il nome del posto era in tedesco, una fabbrica magari. Un campo di lavoro.

Allora Tommaso era probabilmente stato arrestato al fronte. Aveva scritto chissà quante volte negli ultimi sei mesi per dire alla famiglia che era vivo, magari chiedendo scarpe nuove per l’inverno, ma nessuna lettera era mai arrivata a casa.

“Venivano intercettate dalla censura militare, continuava a chiedere notizie di suo fratello, che per l’esercito risulta ricercato. Se gli scrivete, non accennate a questo.”

Non era fede cieca. Era un ideale.

“Mi dispiace aver trovato notizie solo di uno dei suoi fratelli.”

Rosa sorrise. “È un inizio.”

La mattina dopo, la foschia era così spessa da cancellare l’orizzonte. Rosa, però, sarebbe diventata brava a fissare gli occhi su quello che ancora non si poteva vedere.

Nota
Ispirato liberamente alle testimonianze del Comune di Brugherio: https://www.comune.brugherio.mb.it/citta/storia-e-tradizione/1943-1945-la-resistenza/

Chiara Cassaghi è nata in Francia nel 1998 da un padre italiano e una madre portoghese. Dopo aver conseguito una laurea in sceneggiatura nel 2018, lavora nel cinema e la televisione come assistente allo sviluppo e alla produzione di documentari. Ultimamente, si è dedicata alla regia con Homenagem, un documentario sullo spopolamento della frontiera più antica d’Europa. È spesso co-sceneggiatrice dei film di suo fratello, la collaborazione più recente essendo Healing Hope (2025).

Vattinne

1

di Giorgia Giuliano

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Le chiama perevarenikabachky come se io non le vedessi. Zucchine stracotte. Dice che queste sono speciali. Mi annoda il bavaglino e copre il tubo della flebo; insieme al catetere sono due cavi dello stesso ordigno esplosivo. Quando sono esplosa è caduta in ginocchio, scola i cocci più grandi nell’acqua dolciastra delle verdure. L’ultima immagine di Mariupol è stata un supermercato distrutto e due bambini che litigavano per un pezzo di carne cruda. Ho lanciato il piatto come se il Paese in guerra fosse il mio, lei ha spento subito il televisore. Al telefono ha dato la colpa al telegiornale. Si sistema il maglione pulito, la coperta che riceve chi si salva. Lei è già sopravvissuta. Spegnere il televisore, rompere un piatto: è la stessa cosa. Sullo schermo nero c’èun’altra bambina che non vuole mangiare. Vattinne, la guerra non c’è più. La guerra con Eva è tutti i giorni. Bidna stara zhinka! Questa frase la ripete ogni volta che perde. Ma il mio corpo non vuole più niente, guardarsi neanche. L’unico ancora affamato è il mare. Navi, bombe, persone. Ha mangiato tutto, ha sempre finito il piatto. Adesso è un campo di battaglia che si è cicatrizzato.

La mia non era sempre fame. Sembrava di più, oggi ha un nome. Tutti mi credevano in salute, mi toccavano come se non fossi vera in cerca del mio punto più sano. La gente non aveva più guance, la fronte spenta, il colore del grano arso sotto gli occhi. Dicono che adesso sono io così. Sulle loro facce c’erano le grandi ombre di uno stomaco rimpicciolito, camminavano con le gambe sottili aggrappate ai vestiti. Nessuno si reggeva più in piedi, reggersi in piedi era diventato più pericoloso della guerra. Un barcollare. Un brancolare. Per strada, l’odore delle cozze e della polvere da sparo erano un crocifisso alla parete: sempre lì, fermo e impietoso. I nostri respiri erano suppliche e ronzii, preghiere dette per far arieggiare una stanza, un cuore, la mia coscienza. Avevo scoperto che ogni mese la famiglia di Corso Trieste nascondeva delle scorte di cibo in una fossa tra gli scogli. La sabbia lì era più gonfia e ogni tanto un’onda passava a indicare quel punto. Prima mi regalavano i giochi e i vestiti delle figlie più grandi, poi smisero. Mio padre diceva che era per una tessera che noi non avevamo. All’inizio piangevo, poi capii di potermi scegliere i vestiti. La ricchezza di quella famiglia si era legata a qualcosa di sporco. Ricca ma sempre legata. Raggiungevo il nascondiglio all’ora del tramonto, quando in piazza si faceva il bilancio dei feriti. Io mi curavo da sola. Il cibo era una medicina, mi gonfiava, un cortisone. Scavavo alla svelta, ma non era rubare: era proteggere la vista dal sangue, l’udito dalle bombe. La verdura era più cruda del sangue e tra i denti faceva più rumore di cento fucili. Ingoiavo patate sabbia e zucchero. Farina a manciate. Provavo a impastarla con l’acqua del mare. A volte un granchio mi guardava. In poco tempo diventai come lui, scappavo, cercavo di esistere solo di lato. Quando tornavo a casa sapevo ma non ricordavo. Nell’incoscienza della fame mi comportavo come una sonnambula.

Il corpo di mio padre si era striminzito e poteva ripararsi dietro il mio. Mia madre continuava ad apparecchiare ogni giorno una tavola vuota. Sulla tovaglia c’era l’alone di una vecchia macchia di vino, la certezza che prima non avevamo preoccupazioni. La sera ci passava un dito sopra, la accarezzava, guariva il livido. Un grappolo d’uva durava tre giorni. La buccia si masticava, il chicco si succhiava per non avere sete. La mia pancia era piena rispetto alla loro, ma il suono di una sirena la svuotava. Non potevo più vivere senza il nascondiglio. Non m’interessava il sapore del cibo, solo forma e suono. Divoravo per costruirmi un riparo. In poco tempo, il mio corpo divenne un carro armato, robusto e sicuro, lo chiamavano il miracolo. Nessuno poteva immaginare che ero più distrutta di loro.

Ero sicura che le staffette di Bari Vecchia fossero la mia salvezza. Avevo capito da che parte stare. Un pomeriggio mi fermarono per strada, una di loro teneva la gonna stretta tra le gambe facendola sembrare pantaloni. Quando si avvicinarono, sotto le ascelle avevo un pezzo di formaggio e carote, ero troppo piena per mangiarli, provai un forte desiderio di lasciarli cadere.

«Quanti anni hai?»

«Dodici.»

Mi unii a loro per consegnare aiuti ai partigiani. Imparai ad andare in bicicletta, me lo aveva insegnato Gilda. Trasportavo cibo, non pensavo più a mangiarlo, mi dimenticai del nascondiglio. Passai da carro armato a staffetta. Avevo un po’ meno paura, il mio corpo agile combatteva la guerra giusta. Un giorno il mare trascinò a riva pesci già morti che avevano nuotato sotto le bombe. Chiamai le staffette e riempimmo tre secchi, qualcuno lo portai a casa mia, mamma non fece neanche in tempo ad apparecchiare. Era felice.

Il giorno dopo mi tornò la paura. La strada che conduceva al deposito era un viale alberato. La stavo percorrendo da sola, mosca in una stanza, c’era solo il ronzio delle mie ruote. Da lontano vedevo un lungo frutto appeso a un ramo, girava su sé stesso come ancora attaccato al picciolo. Somigliava a una danza. Frutto della mia immaginazione. Quando fui vicina i miei piedi rimasero immobili sui pedali, ma la bicicletta non si fermò. La mia testa passò sotto la suola di quelle scarpe nere ancora lucide, e continuò a pulsarmi come se le avessi sfiorate. Superai una donna impiccata. Ricordo di aver schiacciato i freni solo quando arrivai al deposito. Nel frattempo però i miei freni si erano rotti: iniziai a divorare gelatine e manciate di olive. A scongiurare il carro armato perché tornasse a proteggermi.

A poco a poco diventai più lenta. Consegnavo meno provviste. Gilda mi chiese spiegazioni, lungo il tragitto aveva trovato dei noccioli sputati. Fu Emma a vedermi. Lo disse a Gilda e a tutte, mi sorprese nel deposito con un boccone di sardine. Ne sputai una parte, l’altra la ingoiai. Così fu la mia fuga: da una parte istinto, dall’altra troppo tardi. Due soldati della Wehrmacht mi catturarono quando svoltai l’angolo del Palazzo delle Poste. Uno dei due tentò di chiudere la mano attorno al mio braccio, ma le sue dita erano tarate sui fucili.

La base militare era vicina al porto, ero isolata in una piccola stanza. Non volevo finire appesa. Sul soffitto non c’erano ganci, il muro era sottile. Fuori l’Adriatico ringhiava, allontanava le guardie, non venne nessuno per due giorni. In alcuni punti l’umidità aveva gonfiato l’intonaco, le bolle mi ricordavano dolcetti di Natale. La fame prese a vedere cibo ovunque, la paura rese la stanza commestibile. Scoppiai una bolla con il dito, l’indice dritto come se l’avessi scelta. Quella. L’intonaco era un’ostia, liscio sulla lingua e farinoso quando presi a masticarlo. Era freddo e sapeva di muffa. Piangevo perché non volevo avere né paura né fame. La bolla diventò un buco. La terza sera penetrò la luce di una torcia, fu uno schiaffo sul viso. Mi tolsero dalle labbra una briciola d’intonaco. La torcia puntò prima a terra e poi sul muro: il buco fluorescente, le ombre a mezzaluna delle bolle che avrei mangiato dopo. Il fascio di luce sferzò il pavimento e tornò violento a illuminarmi, ebbi l’istinto di coprirmi come per non farmi toccare. Non sapevo da chi. Vedevo solo un guanto di pelle che copriva una mano. Per tutta la notte, le labbra mi pulsarono nel punto in cui c’era l’intonaco. La vidi la mattina dopo. La cintura della divisa esaltava il punto vita, punto più stretto di un piccolo imbuto. Il corpo stonava con l’uniforme, il fisico prevaleva. Angelico ai lati, sembrava spiegarsi come due ali. Le braccia fiancheggiavano il busto come i braccioli di un trono. La giacca tra il verdone e il grigio con una fila di bottoni, una tonalità che non ho mai più rivisto, Eva non ha vestiti di quel colore. La visiera del cappello cancellava i connotati di quel viso: il mento era l’unico punto non annerito. Cercai il suo sguardo non appena sentii la sua voce. Per un istante credetti che una donna nemica potesse mettermi al sicuro, ma la sua eleganza era solo un presagio di quanto sarebbe stata crudele. Con Eva sembro io quella cattiva. Schmeckt das gut? La guardia tedesca diede una gomitata al muro e fece cadere un pezzo d’intonaco. Lo pestò sotto la scarpa per farmi capire che c’erano cose più buone.

C’è sempre una guerra in questa casa, la stessa che rimbombava in quella stanza. La mattina dopo mi svegliai per la puzza di marcio, un proiettile che bucava la pancia senza passare dal naso. La guardia tedesca ferma davanti a me con un sacco. Cibo che era stato ricchezza, arrivato da me come miseria. I tedeschi lo avevano manipolato: il pane, la carne e le verdure erano diventati quello che volevano loro. Prima prestigio, poi insignificanza. Pescai una coscia di pollo in parte già spolpata, all’interno la carne era sfilacciata e viola. La guardia mi spinse la testa e per poco un osso non mi finì nell’occhio. Mangiai trattenendo il respiro. Da quel momento mangiare diventò assenza di respiro, una tortura. Pescai un cavolo marcio e una crosta di formaggio, il rigurgito mi risalì dalla gola, caldo, dovetti masticare anche quello. Fui costretta a svuotare un sacco pieno di scarti dei soldati. Il sacco divenni io. Ebbi una vertigine: per loro il cibo era inesauribile. Caddi di peso sul pavimento, stesa con lo sguardo sul soffitto, stomaco inginocchiato al petto. Quella pienezza che sembrava pigrizia. Immobile, mi dissanguavo. Speravo che la guardia non tornasse più. Tornò con un sacco più grande, c’erano cipolle e bucce di patata. Mi dimenai, Das arme Mädchen will nicht essen, Bidna stara zhinka!, due lingue collidono nel mio presente: una non dovrebbe essere qui, l’altra è pagata per restareMi porse una cipolla con una gentilezza che faceva terrore. Morsi, piansi, la pancia bruciava come gli occhi. Quando dissi la mia età, l’alito mi rimbalzò indietro. Me ne fece mangiare dodici. Prima di svenire guardai il buco. Quando mi svegliai, avevo l’addome calciato all’infuori. Sette giorni dopo il vestito si strappò su un fianco. La guardia stava facendo di tutto per togliermelo. Gli animali non portavano i vestiti.

Non usavo più le mani, erano legate. Mangiavo come se avessi fame. Potevo usare solo la bocca, così, quando riuscivo a immobilizzare il cibo, cercavo di finirlo al più presto. Un giorno mi scivolò un pomodoro, rotolò sul pavimento, lei lo pestò e me lo fece leccare. Un altro giorno mangiai cinquanta gambi di carciofi con le spine. Il mio corpo era il mio unico alleato, gli chiedevo di resistere e lui obbediente si gonfiava. Io non lo aiutavo: ogni volta che provava a ribellarsi, dovevo ingoiare. Ero una clessidra, il cibo cadeva dentro come sabbia. Mi dicevo che presto sarebbe finito anche quel tempo.

A girare la clessidra fu un’altra prigioniera. Aveva la faccia da Maria. Parlava con piccoli mugolii rinunciando spesso a qualche respiro. Il bavaglio le si appiccicava alla bocca come se volesse soffocarla, un triangolo bianco che le scopriva solo gli occhi. L’azzurro che cominciava ad annerirsi. Un corpicino di donna affamata che poteva essere mia madre, ma sembrava il contrario. Quando entrò nella stanza e mi vide così gonfia, mi mise subito una mano sulla pancia. Le dissi di no con la testa. In un occhio le vidi il sollievo, nell’altro la preoccupazione. Non mi sbagliavo quando pensai che Maria potesse essere mia madre. Quel giorno la guardia tedesca arrivò con un altro sacco, Maria all’inizio non capì, poi ringraziò di avere il bavaglio. La sua bocca cieca non guardava la mia, torturata. Nel sacco c’era una melma di verdure, code di pesce e tozzi di pane umidi e appiccicati. Mangiai quelle palle di cannone davanti a Maria che non smise di guardarmi. Sembrava esserci. Assistermi. Aiutarmi a finire gli avanzi. La guardia ce lo lasciò fare. Non ci restava nient’altro. Prima di andare via le annodò più stretto il bavaglio. Vidi i fori delle sue narici, i noccioli di una mela. La melma rimase ferma nella gola: se provavo a spingerla giù, la bocca si riempiva di saliva. Avevo un solo desiderio, ma le mie mani erano legate. La mia prima liberazione fu grazie a Maria. Mi portò in un angolo, mi mise una mano sulla fronte e poi due dita in gola. Ne uscirono giorni e giorni di torture. Il suo gesto aprì in me un passaggio segreto. Non avevamo niente per pulire, lei strappò un pezzo del suo vestito e ce lo mise sopra. Era un bel vestito a fiori.

Il suono delle onde nella stanza fredda mi dava il mal di mare, come una brutta sensazione. A volte però s’intrecciava alle ruote di una bicicletta o al coraggio della folla. Percepivo l’energia di una città ben difesa. L’acqua delle zucchine bollite è una risacca inodore, l’odore degli scarti vomitati era forte. La guardia se ne accorse. La treccia di Maria fu l’ultima cosa che vidi uscire dalla porta, non l’ho più incontrata da nessuna parte.

La pancia tremava di paura, coraggio, crampi. Dentro c’era un esercito di donne e di uomini pronti a combattere per la mia liberazione. La guardia non se ne accorse. Quando tornò, mi slegò i polsi per farmi raccogliere il disastro a mani nude. Placai una fitta con un colpo di reni. Mi ricordo le sue sopracciglia bionde, quasi trasparenti, a mitigare la sua cattiveria. Tirò fuori una pistola e iniziò a condurmi nell’angolo tessuto di fiori. Sentii il click dei fucili. Non perse sangue, ebbe solo uno spasmo. Smise anche di respirare. E adesso vattinne. Veloce presi la sua pistola e scappai con le gambe coperte di feci. Scendevano bollenti dall’interno coscia alle caviglie, colavano ripide, si seccarono sulla pelle come uno strato protettivo. Un soldato mi guardò inorridito al pensiero d’inseguirmi. Gli sparai facendo un favore al nemico, gettai la pistola e corsi più forte. Ero un maiale puzzolente e gonfio, pieno di fango, fuggito da un mattatoio. Poi lo vidi come adesso, sempre più azzurro, calmo, sempre più vicino. L’Adriatico. Corsi veloce e mi tuffai, le sue onde mi abbracciarono. Libertà e pulizia. Le mie feci sparirono nel mare, armi deposte.

Il vestito aggrappato alla pelle era la testimonianza di cosa mi avevano fatto. Urlava Guardate. Qualcuno mi sentì e mi venne incontro, un’altra onda: gente sfollata che mi accolse. Arrivava ogni giorno qualcuno, non era necessario sapere chi, raccomandati tutti dalla stessa guerra. Tra di loro ero l’unica robusta, mi diedero due travi di legno su cui dormire e un po’ di lana da mettere nel vestito, era l’imbottitura di una poltrona che avevano distrutto per strada. Non raccontai a nessuno cosa mi era successo, mi vergognavo, ero confusa. Il nostro rifugio era uno scantinato, noi una catena di montaggio, uscivamo a piccoli gruppi, saremmo usciti tutti insieme per annientare i tedeschi. Un giorno uno sfollato portò buone notizie. Pensammo tutti ai partigiani, invece tirò fuori dalla giacca pane nero e cereali. Gli altri iniziarono a toccarlo, gli accarezzavano testa e spalle. Il benedetto. Io maledetta feci un passo indietro, restando fuori da quel cerchio. La sera prepararono una zuppa, io tremavo a guardarla. Ognuno la raccoglieva dalla pentola usando un pezzo di pane come cucchiaio. Loro felici, io turbata. Il mio stomaco era ancora in quella stanza. Dicevo mangiatela voi, che il mio corpo resiste. Trovavo tante scuse. Quando iniziai a rimpicciolirmi, loro si preoccuparono. A volte insistevano.

«Non ho fame.»

«No Daria, tu non sai dire grazie.»

Ho lanciato una minestra di pomodoro, verze bollite, una sera anche un pesce arrostito. Per tutti ero l’ingrata. Aggressiva con il cibo. Avevo finalmente capito che tipo di rapporto tenere con lui. Persi gonfiore e carne sulle braccia, ho le cosce tutt’ora divise. Ero diventata la più minuta, ma ho saputo ugualmente combattere. Un’onda di insorti contro i tedeschi, gente di mare in tempesta fino a che non ci siamo liberati.

Dopo la guerra, sui fianchi ho visto risalire qualche smagliatura. Nuova vita che metteva radici. Alberto le ha percorse tutte con il suo ditino. Sembrava riattaccarmi la pelle. Ogni volta che l’ho preso in braccio è caduto dritto in una rientranza, gli dicevo che era un nascondiglio segreto creato solo per lui. Questo corpo è una facciata bombardata a cui mancherà per sempre un pezzo, se mi alzo dalla carrozzina crollerà del tutto.

Molti anni dopo, la guerra mi ha riportata in una stanza. C’era una finestra sigillata e odore di garze pulite. Ogni tanto i vetri riflettevano una luce blu che lampeggiava. Sono rimasta a letto molti mesi, l’infermiere mi chiamava la guerriera. Arrivava con un vassoio che mi tagliava il corpo in due. Appena si distraeva nascondevo il cibo sotto il cuscino e bevevo tanta acqua prima di salire sulla bilancia. I numeri che scendevano mi facevano pensare a quanta gente avevo visto cadere. Un giorno Alberto mi ha riportata a casa, dentro c’era un’altra donna. Si fida di lei perché Eva ha un grande corpo, è lei che non si fida di me. Sa sempre che lo rifarò. Ma se non ho fame, non posso neanche arrendermi. La carrozzina tende a destra, il mio corpo dalla parte opposta, il più vicino possibile alla finestra. Eva pensa al suo Paese, combatte, non vuole arrendersi neanche lei. Il pensiero è la sua resistenza. Alberto mi guarda, le lunghe ciglia infuocate dal sole, il dito che per me è quel ditino. Mi mette tra le labbra una capsula di megestrol. Vorrei dirgli che la bocca è l’ultima cosa da cui partire. Quando mi passa il bicchiere d’acqua io ho già sputato la pasticca. Questa città si è liberata da sola.

Giorgia Giuliano, 1994, vive a Milano. Collabora da freelance con alcune testate, ha lavorato come copywriter in pubblicità. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da Nazione Indiana, Micorrize, Altri Animali, Rivista Blam e Neutopia.

Les nouveaux réalistes: Marco Peluso

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Il ratto

di

Marco Peluso

 

Quei suoi occhi di un nero viscido spalancati su di me durante le lezioni, carichi di un’ottusa benevolenza: avrei voluto cavarglieli! Strappargli dalla faccia esangue quel ghigno da ritardato, una screziatura bianca in mezzo a una folta barba che gli conferiva l’aria di un vecchio rachitico, non un ventenne piantato nei banchi in prima fila, sempre solerte ad anticipare ogni mia domanda, nauseandomi con il suo odioso sigmatismo. Sembrava lo squittio di un topo.

«Pvofessciove, la declinascione dei sciosciantivi russci avviene scecondo il genere della frasce.»

Ero certo lo facesse di proposito, giusto per infastidirmi con quella sua parlantina ispida. Eppure in facoltà si aggirava nei corridoi ridotto a un’ombra, una creatura informe che ancheggiava il suo sedere a poppa ostentando quel sorriso simile a una paresi capace di renderlo imperscrutabile. Persino i pasti li trascorreva da solo seduto in qualche aula, pronto alla prossima lezione.

Nell’istante preciso in cui mettevo piede in classe incontravo quel suo dannato sorriso. Sembrava non solo mi aspettasse, ma che fosse lì per sfidarmi.

Appena rincasavo, a due passi da quella stessa università dove un tempo insegnava mio padre, come prima cosa mettevo su un pezzo di Bach sul giradischi, desideroso di scacciare via quella vocina stridula.

«I sciosciantivi neutri e mascili scingolari al dativo pvendono scempre il sciuono u.»

Ma per quanto la musica soverchiasse la sua voce repellente, tra i tomi ingialliti nelle librerie, nel mezzo delle porcellane sulle mensole o da dietro le tende vedevo emergere i suoi occhi a palla, due bolle che affioravano dalla penombra e mi seguivano ovunque andassi.

Seduto alla scrivania, ingollavo un bicchiere di vino dopo l’altro nella speranza di cancellare quell’immagine, ma vedevo il suo ghigno formarsi persino dal fumo di sigaretta che esalavo dalla bocca.

«Pvofessciove, sciono andato bene all’esciame?»

*

Davide Astolfi, quel nome era un ascesso che mi affliggeva, ero pronto a fargli passare qualsiasi esame pur di spurgarlo. Invece appariva da ogni angolo, lo incontravo persino in bagno.

«Pvofessciove, penscia che potrei fare richiescta per l’erascmusc?»

Ogni volta fuggivo, finché un giorno, nel scendere in fretta una rampa di scale mi schiantai su di lui e ruzzolammo sui gradini.

Me lo trovai faccia a faccia, i suoi occhi a palla fissi nei miei assieme a quel ghigno inamovibile.

Lo spinsi via, disgustato nel sentirmi addosso quel corpo informe.

«Inutile ritardato! Cosa diavolo vuoi da me?»

Corsi giù per le scale, accerchiato dagli occhi avidi di decine di studenti, lì a osservarmi stupefatti; nell’aria rimbombavano ancora le mie parole, assordanti.

«Inutile ritardato!»

Soltanto tornato a casa la consapevolezza di ciò che avevo detto mi afferrò lo stomaco, schiantandomi contro una parete; da una foto lo sguardo severo di mio padre sembrava scavarmi nella pancia, strabordante di disgusto.

«Non capisco come tu possa essere mio figlio. Guardati, fai schifo. Un animale! Neanche sai parlare come un uomo.»

Agguantai una bottiglia di vino dal frigo e corsi a chiudermi in camera da letto, al buio. Accesi alla svelta il giradischi e mi accasciai in un angolo, la bottiglia incollata alla bocca e gli occhi spalancati verso la porta, spaventato dal pensiero che mio padre potesse irrompere con la violenza di una erpice.

«Vuoi ficcarti in quella testa bacata che русский, usato per definire la nazionalità, non fa da sostantivo ma da aggettivo?»

Serrai di colpo le palpebre e diedi un sorso deciso al vino, tra le note di Bach udivo qualcosa strisciare nella stanza, sempre più vicino, finché percepii dita sottili e viscide sfiorarmi una coscia e nella penombra apparve un ritaglio latteo, simile a uno spicchio di Luna.

Indietreggiai di scatto e schiacciai la faccia contro la parete.

«Pvofessciove, lei penscia sciul scerio che sciono sctupido?»

*

L’indomani, in aula, ero certo di trovare il rettore, invece l’intera classe se ne stava composta dietro ai banchi, in prima fila Davide Astolfi mi fissava con i suoi occhi bovini e sorrideva.

Ero certo che tramasse qualcosa. Appena alzavo il capo, incrociavo il suo sguardo ebete piantato su di me e quel ghigno con cui pareva canzonarmi, quasi si beasse nell’avermi finalmente in pugno. Per giorni continuò a ostentare quell’odioso sorriso, i suoi occhi tondi non mi mollavano un attimo, sembrava fiutasse ogni mio passo, sbucava da qualsiasi anfratto e se ne stava imbambolato a fissarmi, sempre sorridendo. Appena rincasavo, chiudevo la porta a chiave e sbarravo le finestre, alzavo al massimo il volume della musica per raschiare dalla mente quella sua vocetta pungente. Invano. Lo sentivo caracollare nelle stanze, inerpicarsi sulle pareti e strisciare sul soffitto.

Raggomitolato tra le lenzuola o appiattito in un angolo a bere vino, scorgevo da sotto lo spiraglio della porta la sua ombra gonfiarsi.

«Pvofessciove, perché sci nascionde?»

In facoltà imposi agli studenti di prendere posto secondo le mie disposizioni, una scelta a cui nessuno osò opporsi, intimoriti dal mio sguardo ferino segnato dalle occhiaie, le labbra tremule e l’aria sfatta. Cercavo di non sollevare neppure la testa dalla cattedra per evitare di scorgere oltre le file di giovani quegli occhi dilatati su di me, prevenivo ogni domanda pur di impedire a quella voce stridula di martoriarmi. Appena terminata la lezione, filavo via dall’aula prima che gli alunni lasciassero i banchi, ma appena svoltavo un angolo lo trovavo piantato al centro del corridoio, trapassato da decine di studenti che neanche vedeva. Esistevo solo io.

*

Dopo quasi trent’anni di carriera, decisi di marcare malattia. Barricato in casa, neppure uscivo a fare spese né mi azzardavo a chiamare il supermercato dopo che, il primo giorno, aveva bussato alla porta un giovane garzone.

«Scignore, ho la sciua scpescia.»

Gli avevo urlato di mollare tutto fuori la porta e andarsene subito, di lasciarmi in pace. Ma era inutile, lui trovava sempre un modo per assalirmi, ero certo che fosse ovunque.

Acquattato a letto, tracannavo vino e tenevo gli occhi sgranati sui mobili ammassati contro la porta, stringendo nell’altra mano un coltello da cucina. Sentivo un ticchettio incessante di zampette acuminate battere sul pavimento del corridoio, seguito da un risolino affilato, finché quei passi iniziava a trottare alla svelta e lasciavano spazio a pedate così pesanti da sembrare spaccare le mattonelle. Poi dei colpi brutali contro la porta, e quella voce…

«Lo vedi che ore sono? Ti decidi ad alzarti o devo trascinarti giù io?»

Serravo le palpebre e schiacciavo i palmi sulle orecchie, tremando come una bestiola.

«Sc… sciusa… sciusciami, papà…»

Appena spalancavo gli occhi, scorgevo quella macchia deforme immersa nell’ombra, nelle tenebre non esistevano altro che quelle biglie bianche calcificate su di me e quell’orrendo sorriso.

«Pvofessciove, sci scente bene?»

*

Tornai a scuola dopo due settimane. Quando avevano telefonato dalla segreteria, avevo avvertito gonfiarsi in petto un moto di pace, la grazia della morte che libera un condannato.

Invece quello sgorbio non aveva parlato, erano semplicemente preoccupati per me.

Quando varcai la soglia della facoltà me lo trovai davanti, gli occhi impressi nei miei e quel sorriso amorfo lì a bearsi della mia disfatta.

«Pvofessciove, come scta?»

Lo agguantai per un braccio e lo trascinai in fretta tra zaffate di studenti, fino a sbatterlo in uno sgabuzzino buio.

«Perché diavolo mi stai facendo questo?» gli urlai in faccia, scuotendolo per le spalle. Ma lui neanche tremava, mi fissava con quelle sfere annebbiate e sorrideva.

Digrignai i denti i una smorfia mostruosa e serrai le palpebre, infilai alla svelta una mano in tasca e, un istante dopo, sentii solo un tonfo sordo, poi del liquido denso e vischioso colarmi tra le dita.

I suoi occhi erano ancora spalancati nei miei, il sorriso macchiato da un rigagnolo di sangue.

Appena il coltello mi scivolò di mano, lui crollò a terra, simile a una bambola rotta.

Sorrideva ancora.

*

Chiusi il corpo in un sacco per rifiuti e lo gettai in un cassonetto, assieme al coltello. Uscito da lì, sorridevo e avanzavo fiero tra schiere di studenti che mi osservavo inquieti, diretto verso l’aula dove finalmente non avrei dovuto più subire la presenza di quel mostro, ma prima che varcassi la soglia avvertii una brezza gelida frustarmi il collo, poi dei passi spediti dietro di me e una risata acuta, appena un accenno di quella sua vocina stridula.

«Pvofessciove…»

Mi voltai di scatto. Niente. Solo alcuni studenti che oziavano nel corridoio.

Frastornato, il sorriso tremulo sul volto, entrai in classe e andai a sedere alla cattedra, di fronte a decine di giovani sistemati dietro ai banchi. Appena sollevai lo sguardo sentii il cuore esplodermi nel petto, il sudore cominciò a sgorgarmi dalla fronte, fino a corrodermi la faccia.

Davanti a me si stagliava una schiera di occhi spalancati, mi fissavano imperturbabili, privi del più misero barlume di intelligenza.

Serrai di colpo le palpebre e scostai il capo. Quando le dischiusi, gli alunni sbirciavano flemmatici quaderni e libri sistemati sui banchi.

Sorrisi e allentai la cravatta.

«Bene, oggi parleremo dei verbi intransitivi» bofonchiai, sfogliando un tomo, ma nell’aula non si udiva nulla, non un fruscio. «Allora?» domandai, alzando il capo, ma in un lampo balzai dalla sedia e mi appiattii contro la parete, nelle pupille vibravano decine di sorrisi, denti di marmo stretti in una morsa impietosa, bianchi quanto gli occhi che seguitavano a scrutarmi.

Poi quella voce…

«Pvofessciove, ma che disce? Sci è sciordato che i verbi intranscitivi li abbiamo fatti scei scettimane fa?»

Scaraventai al suolo la cattedra e mi avventai sulla porta, giravo con forza la maniglia ma nulla, non si apriva; dietro di me sentivo incedere dei passi cadenzati, un risolino stridulo gracchiava nella stanza.

Crollai al suolo e mi accasciai in un angolo, la faccia schiacciata al muro e la testa stretta tra le mani, inerme al cospetto di quella risata che si ingigantiva su di me.

«Pvofessciove, sci scente bene?»

«Basta!» urlai, staccando i palmi dal capo e fissando in avanti con occhi offuscati dalle lacrime. «Io ti ho ucciso! Ti ho ucciso, schifosa bestia. Lasciami in pace!»

Le risate sfumarono lentamente in un misero eco, appena un sogghigno leggero che si dissipò in un silenzio di pietra. Udivo solo il tremolio delle mie ossa e, man mano che le lacrime si dissolvevano, davanti a me apparivano, incancellabili, i volti sbiancati degli studenti e i loro occhi ora spalancati dal terrore.

A fatica, le ossa ridotte in vetro prossimo a spaccarsi e una morsa lancinante a serrarmi il petto, mi tirai in piedi e barcollai contro una parete, incapace di sollevare lo sguardo.

«Sc… sciusciate, non mi scento bene…» sussurrai, per poi precipitare al suolo. I volti degli alunni, i loro occhi, ogni cosa fu inghiottita da un manto latteo in cui vedevo avanzare solo un’ombra gracile, un risolino stridulo si mischiava al sibilo che mi trapassava la testa, fino a perdersi nel battito furioso del mio cuore, sempre più veloce.

Poi una fitta pungente al torace mi fece agitare braccia e gambe in modo spasmodico, come un insetto sfiorato da una fiamma: giusto un attimo; percepii i muscoli distendersi fino a liquefarsi, assieme al mio intero corpo, le palpebre chiudersi avvinte da una pesante stanchezza. Persino il ritmo del cuore parve scemare, riuscii a stento ad avvertire qualcosa di caldo e bagnato scorrermi su una guancia. E quella voce…

«Pvofessciove, sciu, adesscio possciamo andare?»

«Scì…»

Poi, finalmente silenzio, e buio.

Galline di montagna

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di Rodolfo Sgro

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Pollaio di Collegno, 1945

Nuove galline sono entrate nel pollaio. Il babbeo le ha fatte entrare per prendergli le uova. Gionni dice che saranno guai con l’arrivo di queste galline di montagna. Secondo me Gionni non capisce mai niente: me ne fotto di chi arriva. Se non altro, meno uova devo fare io per il babbeo. Gionni dice che le galline di montagna porteranno tutte noi altre galline a scioperare. Io gli ho detto che gli scioperi li fanno solo i comunisti e che qui di comunisti non ce sono (a parte lui).

“Tu non ti rendi conto di cosa sta succedendo” mi ripete Gionni, come se fosse il più sveglio della baracca. “Queste arriveranno e ci costringeranno a fare come loro. Portano i loro slogan da comunisti e sai come finisce? Finisce che andiamo tutte a fare la fine di Lella e Gina. Io lo guardo e alzo le piume delle spalle. Lella e Gina sono sparite qualche settimana fa. Le ha portate via il babbeo, una mattina che non avevano deposto le uova. A mio modesto parere, se non fai le uova in questo posto, rischi di finire a terra, la “macchinetta” ti finisce. Qui tutti parlano ma nessuno ha mai davvero visto la macchinetta. E comunque, anche se la vedi poi perdi la memoria. Anche io sono passato dalla macchinetta: ha il suo tavolo, le cinghie e tutto l’occorrente per far deporre le uova. Prima una scossetta, poi una scossona e così via sempre più forte. Se deponi torni al pollaio, se non deponi ti buttano nella spazzatura. Io dico che è sempre meglio essere in tanti e dividersi il lavoro nel pollaio. Gionni, io voglio la mia razione di becchime. Se il babbeo me la dà, a me sta bene così. Meglio sopravvivere qui che essere macellata fuori. Mi scappa quasi un “a meno che…”, ma non lo dico. Ho i miei pensieri, però non voglio che Gionni si metta a fare il saputello come sempre. Che poi lui è un pollo avvocato erudito, il motivo per cui è qui non me l’ha mai voluto dire. Antonello, per gli amici Gesù Cristo, che fa sempre la morale a tutti, dice che andava a pollastrelli. Ma a “Gesù Antonello” non crede mai nessuno.

Tornando a noi. Le galline di montagna sono spuntate una mattina presto, con le piume ancora umide di rugiada (o sarà sudore? Chissà). Camminano dritte, guardandosi attorno come se niente potesse fermarle. Una, in particolare, ha la macchia nera sotto l’occhio sinistro: Tosca, la chiamano. La gente mormora che sia la “capa” di quelle galline. “Questa qua ci creerà solo casino” mi sussurra Gionni. “Magari ci porta una ventata di novità” ribatto io, fingendo noncuranza. Sono diverse, Gionni: noi ci siamo rassegnate a vivere nello sporco di questo pollaio. Tosca si avvicina alla rete di divisione tra il suo recinto e il nostro. Muove la cresta in modo strano, come se volesse farsi notare. “Ehi, pettorute!” dice con un tono che a me pare quasi di sfida. “Allora, siete pronte a dare una svegliata al babbeo o avete intenzione di continuare a farvi spennare?”. Gionni sbuffa, grattando il terreno con la zampa. “Lo sapevo… un’altra comunista che vuole scatenare polveroni!”. Io gli tiro un colpetto sulla schiena: “Taci un secondo, fammi sentire che dice”.

Intanto, il babbeo gira nella corte col solito sorrisetto bavoso. Quando si piega, gli cola il grasso dalla pancia fin sopra le braghe che gli scendono. Un bell’imbecille, se non fosse che ha sempre quell’aria di chi può farti male, e sul serio. “Allora, bambine mie, oggi quante uova mi fate?” urla. Alcune galline corrono e gridano “coccodè”, terrorizzate all’idea di finire come Lella e Gina. Io, di solito, vado e depongo in fretta. Ma stavolta non ci riesco: sono troppo concentrata su quelle nuove. “Laggiù in montagna si vive da galline libere” continua Tosca, rivolgendosi a me e a Gionni. “Dicono che non bisogna per forza obbedire alle regole di un babbeo qualsiasi. Anzi, se si fa squadra, magari si abbatte il pollaio e si vola via…”.

“Ah, volare… certo” sbotta Gionni, sarcastico. “E chi ci protegge dalla volpe schifosa? E dal freddo? Almeno qui hai un tetto, e se fai una decina di uova a settimana ti lasciano stare.” “Fino a quando, Gionni?” lo incalza Tosca. “Credi che Lella e Gina siano in vacanza alle terme?” aggiungo io.

Tosca ci studia con quei suoi occhi furbi. Poi abbassa il volume della voce, così bassa che quasi non la sento: “Ti dirò la verità: siamo arrivate qui per convincervi a ribellarvi. Vogliamo smettere di fare uova per il babbeo, scioperare, se preferisci chiamarla così. E poi scappare. Dobbiamo solo trovare il modo di forzare quella rete là in fondo, dietro il fienile. È arrugginita, potremmo bucarla con beccate notturne”.

Sento Gionni sbuffare. Io cerco di darmi un contegno: “E se il babbeo se ne accorge?” chiedo, lanciando un’occhiata al ciccione che adesso sta minacciando due galline per un paio di uova in meno. Tosca sorride, ma è un sorriso amaro. “Se se ne accorge, ci prepara la sua macchinetta, la… come la chiamate? Elettroqualcosa? Insomma, ci frega. Però se non ce ne andiamo, finiamo comunque spennate. Vuoi davvero vivere così?”.

Mi ritiro in un angolo del pollaio, stizzita. Gionni, dietro di me, scuote la testa e borbotta: “Te l’avevo detto, questi di montagna fanno solo casino. Tu credi che a loro importi di noi? Vogliono solo trascinarci in una follia che ci farà fare una brutta fine”. Chiudo un attimo gli occhi. La verità è che sono stanco di deporre uova a comando. Stanco di sentirlo urlare ogni giorno: “Allora, quante uova mi fate?”, come se fossimo macchine, e non esseri viventi.

“Magari Tosca ha ragione. Magari un po’ di casino ci serve, per smuovere le acque. Altrimenti siamo tutte già morte, solo che non ce ne rendiamo conto.”

“Parli da comunista” ribatte lui, alzando la cresta. “Ti avverto, non voglio finire come i tuoi amici sognatori.”

Quella notte, mentre Gionni dorme, esco dal mio recinto e giro intorno al fienile. Tocco con la punta del becco la rete arrugginita di cui parlava Tosca. Effettivamente, cede un po’. Basterebbe colpirla con costanza, in silenzio, per aprirci un varco abbastanza grande da infilarci le piume e scivolare via.

“Ehi, pettoruta, lo vedi? Ti dicevo la verità” mi sussurra una voce alle spalle. È Tosca, con altre due galline di montagna. Sembrano dure, coperte di lividi e graffi, come se avessero già vissuto battaglie.

“Allora, che si fa?” mi domanda. “Vuoi starci o vuoi continuare a obbedire al babbeo?”. Mi volto di scatto.

“Ci provo. Ma se va male…”

”Se va male, almeno avremo tentato” conclude Tosca, guardandomi con uno scintillio negli occhi.

Nel frattempo, il babbeo si è accorto che qualcosa non va. Il giorno dopo, mentre zampetto nella paglia, sento che grida contro un paio di galline: “Non avete fatto nemmeno un uovo! Che diavolo state tramando? Vi sistemo io!”. La sua risata si sente da un capo all’altro del cortile. Provo un brivido freddo quando lo vedo avvicinarsi a Gionni: lo afferra per le piume del collo, solleva la cresta e lo studia come fa un cacciatore con la preda. Poi lo lascia andare con uno spintone. Gionni mi guarda, terrorizzato, e credo che in quell’istante si stia rendendo conto che non si scherza. Qui finiamo tutti male, con o senza scioperi.

Io e Tosca ci diamo appuntamento la notte successiva. L’idea è semplice: beccare la rete arrugginita finché cede del tutto, poi sgusciare fuori e correre verso la montagna, dove le galline libere vivono senza babbeo. “È un piano da pazzi” mi dico ogni tanto, ma poi mi ricordo che siamo in manicomio e tutto torna coerente. Gionni dice che non se la sente di unirsi. “Se volete morire, fate pure” sussurra. “Io rimango. Almeno qui ho la ciotola di becchime.” Lo lascio perdere. Quando il buio avvolge il pollaio, e il babbeo sembra ronfare dentro la sua lurida baracca, io, Tosca e le altre due di montagna andiamo dietro al fienile. I nostri becchi battono sul metallo arrugginito, piano, cercando di non fare troppo rumore. Col tempo, uno squarcio si apre, un taglio netto che potremmo allargare con un altro paio di colpi. “Se ci becca, finiamo tutte sul tavolo del capanno” sussurra Tosca, guardando in direzione della casa. Lì dentro c’è la “macchina delle uova”, come la chiamiamo noi — la roba che ti fulmina la testa e ti lascia inerme. “Sì, ma se non agiamo, tanto vale farci spennare subito” ribatto.

Infiliamo la testa nello squarcio, una alla volta, aprendo un varco abbastanza grande. Io vado per prima. Mi taglio un po’ la zampa, ma riesco a passare. Tosca e le altre mi seguono. Cerco con lo sguardo Gionni, sperando che sbuchi all’ultimo momento. Ma niente. Adesso siamo fuori. L’erba umida sotto le zampe ha un odore nuovo, che non avevo mai sentito. Apro le ali, quasi per istinto, come se potessi davvero volare. Tosca mi fa cenno di andare avanti, verso il bosco. All’improvviso, sento un rumore alle nostre spalle. È il babbeo, che corre con un lanternino e urla come un pazzo: “Fermate quelle maledette! Vi sistemo io!”. Ha due aiutanti dietro di lui, grandi come buoi. “Correte!” grida Tosca. “Non fermatevi!”. Scattiamo in avanti, inciampando sui ciuffi d’erba, mentre i cani/infermieri si avvicinano. La lanterna del babbeo oscilla, gettando ombre deformi su di noi. Penso di essere spacciato. E invece, con uno sforzo disperato, raggiungo la fila di cespugli e mi tuffo dentro.

Corriamo per un’eternità finché non ci ritroviamo in un piccolo avvallamento, coperto da alberi e rovi. Ci accucciamo lì, senza fiato, il petto che sale e scende a ritmo forsennato. Tosca mi guarda e fa un breve cenno di soddisfazione. “Ce l’abbiamo fatta” sussurra. “Siamo fuori. Ora dobbiamo proseguire. La montagna è più in là, ci vuole una notte di viaggio.” Io annuisco, Gionni, avevo ragione, idiota. Mi domando se si sia pentito o se, dopotutto, preferisce il pollaio. Affari suoi.

*

Ricordo ancora la notte in cui varcammo la recinzione arrugginita e ci inoltrammo nel bosco, quasi incapaci di credere d’essere davvero usciti dal maledetto pollaio. Per un po’, vagammo fra i campi, nascondendoci dai buoi del babbeo che ci braccavano. Alla fine, grazie all’aiuto di chi ci considerava trovammo un rifugio dove altre galline di montagna ci accolsero con affetto. Avevamo fregato il babbeo e la sua “macchina per le uova”, e nessuno ci avrebbe mai più costretti a subire le scariche elettriche. Quel vigliacco di Gionni alla fine è scappato anche lui, lo ritrovammo due giorni dopo che tremava come una foglia dietro dei rovi. Tosca sembrava più viva che mai, con quel fuoco di ribellione negli occhi. Gionni, invece, era teso e silenzioso; a volte lo vedevo piangere, quando pensava che nessuno lo guardasse. Io? Io mi sentivo come se avessi iniziato una nuova vita, finalmente libera dall’odore di pollaio e dalla paura dei corridoi. Nei mesi successivi, mi accorsi che non eravamo più galline: stavamo perdendo le piume. Tosca scomparve quasi subito: mi disse che voleva continuare a far casino insieme ad altri compagni di montagna. “Se vogliono arrestarmi, che ci provino” mi aveva detto, prima di sparire all’alba con uno zainetto di stracci. Gionni rimase nel rifugio ancora per un po’, ma si muoveva inquieto, come se non riuscisse a trovare pace. Io cercai di adattarmi. Nessuno venne a cercarci per un po’. Scoprii solo più tardi che il babbeo era stato fatto fuori e che la volpe schifosa si era avvelenata insieme alla moglie e ai cani a Berlino. Dopo qualche tempo, cominciarono a diffondersi voci su processi, vendette e ritorsioni. Non tutti quelli che avevano lottato contro il babbeo erano considerati eroi; alcuni avevano compiuto azioni violente, e adesso le istituzioni volevano fargliela pagare. Fu così che seppi che Tosca, ricercata, s’era rifugiata in città, sotto falso nome. Lavorava come domestica presso una famiglia di borghesi. Viveva nascosta in casa altrui, per non finire dentro. Mi hanno detto che ogni tanto sgattaiola via per parlare ai giovani di quanto sia importante non piegarsi mai. Gionni, invece, era sparito nel nulla. Ci vollero mesi prima che scoprissi cosa gli fosse successo. Venni a sapere che, durante le perquisizioni, era stato fermato non solo perché sospettato di tradimento (sembra che non fosse davvero un pollo ma un fagiano), ma anche perché l’avevano scoperto mentre andava a pollastrelli. “Lo hanno costretto a una cura ormonale”, mi raccontò qualcuno con gli occhi bassi, come se fosse una vergogna da riferire. “Poi… poi s’è tolto la vita in una stanza d’albergo”. Mi chiesi se avesse passato la malattia anche a me, anche se mi sono sempre sentito uguale al solito insieme a lui. Secondo me i nostri medici non hanno capito niente di polli, galline e fagiani. Una mattina, mi svegliai e mi ritrovai circondato da facce conosciute, con camici bianchi e siringhe pronte. Mi dissero: “La tua testa non funziona bene, dobbiamo riportarti nel manicomio”. Volevo urlare che stavo solo cercando di vivere, che non avevo più un pollaio, che non ero più una gallina. Ma non mi ascoltarono. In pochi istanti, mi ritrovai di nuovo legato a un lettino, con un sosia del babbeo col suo stesso sguardo vacuo che mi girava attorno, farneticando di terapie. La macchinetta del pollaio era più viva che mai. Tosca, buon lavoro con i tuoi borghesi. Gionni, sei morto come un citrullo.

Mi applicavano gli elettrodi alle tempie. Loro continuavano a parlarmi e a invitarmi a non agitarmi. Ma io non sentivo più nulla. Nella mia mente, non ero più una gallina. Alla faccia loro. Poi la corrente elettrica attraversò le mie ossa, trasformandomi in un grottesco ammasso di tremiti. “Chissà se so deporre ancora uova” mi chiesi, dato che non ero più gallina.

Sono di nuovo qui, nel reparto 5, con quelle luci fredde sul soffitto. Ho imparato a deporre di nuovo. Quantomeno non mi hanno macellato. Nelle orecchie un gallo canta all’alba. E allora sorrido: Gionni, maledetto fagiano, sei ancora qui a rompermi l’anima?

Rodolfo Sgro. «Sono nato a Torino nel 1994 e dal 2002 al 2025 ho vissuto a Collegno. Sono medico, specializzato quest’anno in Psichiatria, da gennaio lavoro nel reparto di Psichiatria dell’ospedale di Rivoli. Nei ritagli di tempo, sono anche chitarrista della band cantautoriale “Spaghetti Spezzati”. La città di Collegno rappresenta lo sposalizio più bello fra i miei due mondi: la Resistenza da un lato (pensate che ho abitato fino a gennaio di quest’anno in via staffette partigiane, 18) e la salute mentale dall’altro (il famoso manicomio di Collegno). Non potevo non partecipare alla vostra chiamata, proprio perché queste due realtà fanno parte della mia vita. Visito spesso l’ex manicomio, oggi museo, con i suoi padiglioni in cui venivano suddivisi gli utenti in base ai loro trascorsi (fra essi, c’era anche un’area dedicata ai dissidenti politici, nonché agli omosessuali). Subito ho pensato di poter ambientare un racconto in quel manicomio. Per una questione di libertà espressiva, ho fatto in modo che tutto fosse visto dagli occhi di uno psicotico delirante che si credeva gallina in un pollaio. Vorrei infine ringraziare tanto la scrittrice Benedetta Tobagi, che non conosco ma che vorrei tanto incrociare, perché con il suo libro “La Resistenza delle Donne”, letto a luglio 2024, mi ha aperto un mondo. L’idea di ambientare questo racconto in manicomio è sicuramente nata grazie ai suoi resoconti.»

Fantasma: vedere ciò che appare

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di Danilo Maglio

La creazione dell’apparizione e la solitudine dell’incontro

Al soggetto appare l’oggetto. Esso si dà all’occhio del soggetto e così appare. C’era già da prima poiché è già da prima che apparisse ma è solo quando appare che il soggetto lo riconosce, ne è sorpreso e deve arrendersi al suo essere oltre sé, prima di sé, prima che lo vedesse apparire. Ciò che appare mi ha forse prima spiato, oppure ha guardato, come me, da un’altra parte e anche io, io soggetto, sono ciò che appare a lui, anche io sono ciò che lo stana nel suo essere lì, in quel momento, che è dettato dal fatto che anche io sono lì, in quello stesso momento. Ed è proprio lo stesso. Poiché siamo apparsi quando lui mi è apparso e io sono apparso a lui. Eppure, questo non ci unisce poiché questo incontro è solo, poiché io da solo sono apparso a lui, lui era già ancor prima che io gli apparissi e che lui apparisse a me, era già ancor prima che io lo vedessi, ma è stato solo il suo apparire che lo ha fatto essere all’occhio mio e di nessun altro e quindi a me. Si è reso visibile poiché io mi sono reso visibile a lui. Io ho creato l’apparizione con la mia presenza, con il mio vedere ciò che appare, che è il mio stesso apparire nella solitudine di questo incontro.

Gesù, in posizione frontale, immobile, con le mani giunte e gli occhi bassi, riceve il battesimo da San Giovanni Battista. Dal cielo è apparsa una colomba, è la colomba dello Spirito Santo, con delle sottili striature dorate che assomigliano a graffi, simbolo della luce divina. A sinistra, accanto a un grosso albero ricco di foglie, tre angeli assistono alla scena, uno di loro, quello con un drappo rosa sulla spalla guarda dritto verso l’osservatore[1]. In lontananza, sulla destra, invece, un uomo si sta spogliando per essere a sua volta battezzato, l’albero dietro di lui, diverso dal primo, è secco. Sul fondo un gruppo di farisei attraversa lo spazio. Uno di loro indica il cielo.

Intanto tutto il popolo si faceva battezzare. Anche Gesù si fece battezzare e mentre pregava, il cielo si aprì. Lo Spirito Santo discese sopra di lui in modo visibile come una colomba, e una voce venne dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, che io amo. Io ti ho mandato”.[2]

L’opera, che guarda al passo evangelico e a cui mi sono riferito nella breve descrizione, è Battesimo del Cristo[3] di Piero della Francesca. La scelta ricade sulla tavola realizzata dal pittore italiano poiché in essa si manifestano i due elementi fondamentali attraverso cui verrà indagata la capacità di vedere ciò che appare, la capacità di vedere il fantasma: la creazione dell’apparizione e la solitudine dell’incontro. È necessario per me partire da un’analisi più profonda dell’opera di Piero della Francesca, prima di procedere in questo tentativo paradossale di contornare il fantasma e provare a parlare di come la sua presenza si manifesti in teatro. Per farlo mi servirò di un’opera del regista italiano Romeo Castellucci: Orphée et Eurydice (2014).

Ma prima, come dicevo, rivolgiamo l’attenzione all’opera pittorica. La composizione della tavola è dominata da precise regole matematiche, vi è una rigorosa costruzione geometrica tramite l’uso di solidi platonici, che non è casuale in quanto Platone stesso rinveniva in questi corpi la presenza di una razionalità superiore e li indicava come intermediari tra la perfezione dell’Iperuranio e la mutevolezza dei fenomeni naturali, arrivando sino ad affermare, secondo quanto scritto da Plutarco in Quaestiones convivales[4], che Dio geometrizza sempre. La tavola è composta da un quadrato sormontato da un semicerchio, al centro del quale è collocata la colomba, emblema dello Spirito Santo, le cui ali si distendono lungo il diametro. Sull’asse verticale si distribuiscono la colomba stessa, il corpo di Cristo, al centro come centro del mondo incarnato, il cui ombelico coincide con l’incontro delle diagonali del quadrato, e la mano di Giovanni Battista. Il vertice inferiore del triangolo equilatero costruito sul lato superiore del quadrato coincide con i piedi di Cristo, mentre il triangolo equilatero costruito sul lato inferiore, trova il suo vertice nella mano che regge la coppa battesimale del Battista. Vi è poi un pentagono costruito all’interno del quadrato che contiene tutte, o quasi, le figure della composizione. L’albero dal fogliame fitto è posto in corrispondenza del rapporto aureo, simbolo della vita che si rigenera con la venuta del Messia, in contrapposizione all’albero secco che si riferisce a coloro che rifiutano il battesimo. Continuando la disamina simbolica incastrata nella geometria della tavola, i tre angeli tra gli alberi, vestiti di bianco, rosso e blu[5] sono il simbolo della Trinità: essi incarnerebbero da sinistra a destra, il Padre, lo Spirito Santo e il Figlio. Ma gli angeli non sono l’unico riferimento alla Trinità: lo stesso lato superiore del quadrato, passante per le ali della colomba, è anche la base del triangolo equilatero che è l’antico simbolo trinitario, al cui centro, come detto, c’è Cristo. La Trinità nella teologia cattolica è il mistero riguardante la costituzione di Dio che è uno solo ma comune a tre Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. La natura è unica così come unica è l’essenza della divinità che sussiste nelle tre Persone divine. In Battesimo di Cristo la Trinità è presente simbolicamente nei segni che si sono individuati, compositivi ed estetici. Padre, Figlio e Spirito Santo sono nell’opera, in una molteplicità di simboli, oltre che nelle figure stesse del Cristo e della colomba. Tuttavia, la questione su cui mi interessa portare l’attenzione del lettore è relativa all’assenza non simbolica del Padre. Non vi è un’immagine di Dio, se può esserci un’immagine di Dio, se non nel suo essere presente nei simboli sopradescritti. È un’apparizione quella di Dio poiché è nel riconoscimento e nella traduzione dei simboli da parte dell’osservatore che esso è percepito, benché egli ci sia già. L’osservatore traduce, attingendo dalle sue sapienze, i simboli e così Dio gli appare, c’è, anche se prima c’era già, ma c’è in quel momento poiché è apparso. Il Padre è il fantasma che abita la tavola di Piero della Francesca, poiché è sì in Gesù e nella colomba, poiché trini, ma è nella sua invisibilità resa visibile nel momento in cui vi è l’apparizione creata dall’osservatore, che nel simbolico attinge all’immaginario che si scontra con ciò che è già – il reale – e fa sì che egli possa vedere il fantasma, possa sentirsi arreso dal suo apparire che non è un comparire poiché egli era già. È un incontro che non ha compagnia. L’osservatore è solo nel suo essere in quel momento apparso e quindi nell’aver visto apparire; è arreso davanti all’essere oltre sé dell’oggetto della sua visione. Non vi è incontro coi fantasmi. Non vi è incontro con Dio. L’unico possibile è di solitudine dinanzi al fatto che egli non stava aspettando, era lì poiché non poteva non essere e nel soggetto si instaura l’angosciante sensazione che, se non avesse tradotto quei simboli, non avrebbe mai potuto vederlo e che, quindi, in sé, non sarebbe mai esistito[6]. Il rovescio della stessa angoscia è altrettanto interessante e pone degli interrogativi che toccano nel profondo la materia invisibile e la sua visibilizzazione attraverso l’apparizione. Se l’osservatore non sapesse o non fosse capace di tradurre quei simboli, e quindi non creasse neanche l’apparizione, Dio esisterebbe? Evidentemente sì poiché è insito nei simboli, ma evidentemente no per l’osservatore. Esiste nel reale della tavola pittorica ma non in quello a cui può accedere l’osservatore nel suo vedere. Questo comporta che anche per Dio, individuando esso come oggetto del vedere dell’osservatore e quindi come soggetto che è veduto e quindi vede, l’osservatore non è poiché non è apparso. Il sillogismo si concluderebbe con l’asserire che l’osservatore non vede Dio e quindi che Dio non essendo visto non vede. Tuttavia, l’asserzione cade, si frantuma, dinanzi a una questione ontologica ossia che Dio, in questa analisi, è individuato come fantasma. La parola fantasma deriva dal latino phantasma, derivato dal greco φάντασμα, a sua volta da φαντάζω «mostrare» o da φαντάζομαι «apparire». La radice φαν-, che esprime l’idea dell’apparire ci riporta inevitabilmente a quanto si sta dicendo, alla condizione teatrale e al teatro in quanto luogo della visione[7]. Il fantasma è un’immagine, ed è in questa affermazione che vive il cuore della questione. Esso è qualcosa che appare e quindi inevitabilmente qualcosa che si vede, e ciò che si vede è un’immagine, poiché essa è la rappresentazione alla mente di una cosa. Il fantasma è però invisibile, come Dio nel Battesimo di Cristo, in quanto è nel visibile. Esso, diventa un quesito di rappresentazione teatrale importante, poiché la rappresentazione non può sfuggire alle immagini, in quanto è una concatenazione delle stesse, ma si trova a far fronte all’invisibilità dell’immagine stessa. Come rappresentare l’invisibile? Ma la domanda più prossima a ciò che ci interessa è: come creare l’apparizione? L’unica risposta possibile è un lavoro sull’immagine a priori, poiché l’invisibile è dentro al visibile, quindi, a qualcosa che chi vede riesce a vedere: un’immagine. Allora, la soluzione si situa in questo, nel vedere ciò che è visibile e farlo scomparire, destarlo, aprirlo, scandagliarlo, squarciarlo sino a individuare il suo interno, fino a scovare il dentro ossia l’invisibile poiché è contenuto nel visibile. Bisogna aprire il visibile, farlo a pezzi, sino a trovare – quindi a inventare – al di là di esso e proprio in esso ciò che si cerca, ossia l’in-visibile: ciò che gli sta dentro. Esso vede il soggetto anche se questo non lo vede, come suggerisce Derrida in Spettri di Marx nella sua teorizzazione dell’effetto visiera.

Questa Cosa che non è una cosa, questa Cosa invisibile tra un’apparizione e l’altra, non la si vede in carne ed ossa neppure quando riappare. Tuttavia questa Cosa ci guarda e vede che noi non la vediamo anche quando c’è. Una dissimmetria spettrale interrompe qui ogni specularità. Disincronizza, ci richiama all’anacronia. Lo chiameremo l’effetto visiera.[8]

Il fatto che il soggetto non veda chi lo vede non corrisponde alla sua cecità, che invece sarebbe assai propizia al vedere l’oggetto, ma è il non scovarlo, poiché egli è lì, dentro ciò che il soggetto guarda. «Si tratta comunque di un corpo, un’immagine […] Fare sparire i corpi, le immagini, e fare venire i corpi, e le immagini, che non ci sono ancora»[9], se non nel dentro di qualcosa che ancora non è stato aperto. Apparire è il rovescio di scomparire: scompare il visibile per far apparire l’invisibile, si rovescia il primo per far fuoriuscire il secondo, l’immagine – il fantasma – che, come lo spettro è «la frequenza di una certa visibilità»[10]: la visibilità dell’invisibile. La questione è che la visibilità «per essenza, non si vede»[11] poiché resta «al di là del fenomeno e dell’essente»[12]. Eppure, il fantasma è legato etimologicamente alla fenomenologia, all’essere manifesto o, più propriamente, al fatto di restituire «l’immagine come l’apparire di un essere, il punto più vicino alla visibilità»[13]. Quanto dice Derrida, invece, comporterebbe l’impossibilità della distinzione tra essere e fenomeno, tra idea e immagine, tra spirito e spettro[14]. In conclusione, non vi sarebbero che spettri, ossia un qualcosa che non è nella forma della presenza ma che riguarda «l’origine non-visibile del visibile»[15]. La differenza con il fantasma consterebbe in questo allora, nel fatto che questo è una qualche forma di visibilità dell’invisibile, come lo spettro, ma presente, che è invece ciò a cui lo spettro sfugge.

Quel che distingue lo spettro o il revenant dallo spirito, inteso anche come spirito nel senso del fantasma in generale, è anche una fenomenicità indubbiamente soprannaturale e paradossale, la visibilità furtiva e inafferrabile dell’invisibile o l’invisibilità di una x visibile, quella sensibilità insensibile di cui parla Il Capitale.[16]

Una certa “tangibilità” che non è mai presente poiché il “corpo” proprio allo spettro è un corpo supplementare[17] che l’evanescenza della fantasmaticità non può contenere. Il fantasma è impossessato dallo spettro si potrebbe dire. Il fantasma che non ha corpo viene spettralmente posseduto da un corpo, intrappolandone la tangibilità. È parlante la mano sinistra del Battista in Battesimo di Cristo che appare come bloccata da un confine immaginario, non va oltre la sua veste, non può toccare il Cristo poiché è uno e trino, poiché è uomo e Dio, è invisibile nella sua visibilità, è il corpo dello spettro che è intrappolato dal fantasma: il Padre. L’incontro non si verifica, non in un senso fisico, non può esserci se non nella sua solitudine. Lo spettatore a teatro è come il Battista nella tavola di Piero della Francesca, è in-contro al fantasma che abita la scena ma non arriva mai a toccarlo poiché il corpo che questo ha – lo spettro che lo impossessa – è costretto nella visibilità dell’invisibile: nel fantasma stesso. Lo spettatore, così, «scopre la lontananza»[18], lo spazio che sempre c’è in ogni possibilità di incontro e si serve dell’immagine poiché essa (come la parola) dis-allontana dall’impossibilità di vedere lo spettro. Immaginare per ridurre la distanza, essere fonte dell’immagine incontrollata e sintetizzarla in una rappresentazione al fine di conoscere l’oggetto, che invece resta intrappolato nella sua inaccessibilità. Si tratta di «riconoscere e ricevere consapevolmente su noi stessi la distanza che già c’è»[19], e se non avviene questo processo si rifiuta non solo l’ontologia dell’oggetto ma anche la propria: non vi è identità e, quindi, non può esserci nessun incontro, poiché se non c’è l’io non c’è neanche l’altro. Il riconoscimento, invece, diventa la chiave per scoprire la solitudine dell’esistere e, conseguentemente, il fatto che l’incontro con l’immagine – con il fantasma – non può che essere di solitudine. La creazione dell’apparizione, e quindi l’immagine della stessa, diviene per lo spettatore il mezzo attraverso cui avvicinarsi alla cosa, per quanto «essa opera potentemente sul piano della lontananza; anzi, sembra nascere direttamente dalla distanza stessa […] e non solo, la custodisce al proprio interno come anima»[20]. È il tentativo disperato di raggiungere la vera immagine della cosa, che però essendo appunto l’immagine e non la cosa, non sarà mai la cosa stessa, per quanto la sua verità sia l’oggetto del teatro. Il cuore della questione vive nel fatto che l’accesso alla verità della cosa non può che avvenire attraverso le immagini poiché la verità è accessibile solo attraverso lo scontro tra reale e immaginario, che non può che avvenire nel simbolico, quindi attraverso le immagini. I processi attraverso cui avviene lo scontro, realtà e finzione, permettono di arrivare alla verità della cosa: la solitudine dell’incontro, poiché è l’immagine di sé stessi che si incontra, è uno specchio dell’io, poiché è nel soggetto che è l’immagine e, quindi, la verità, poiché è in sé che c’è il reale senza più nessun immaginario. È nello spettatore l’opera che lo vede da dentro e quindi è lui che vede sé stesso, il suo occhio, che nel suo essere soggetto funzionale, conserva, pur essendo soggetto, il suo essere mezzo per vedere che è il significato proprio della parola spectrum, spettro. È in lui lo spettro, come Dio è in Gesù, come l’invisibile nel visibile: lo spettatore è il fantasma del suo spettro.

La creazione dell’apparizione coincide, quindi, con lo svelamento dell’invisibile nel visibile, dello spettro nel fantasma. Le modalità attraverso cui, in teatro, accade questo svelamento sono diverse. Nel lavoro di Romeo Castellucci un ruolo cruciale è ricoperto dalla realtà. Castellucci la utilizza in maniera non dissimile da quella “quotidiana”, il punto è che «un tale residuo di realtà – ad esempio lo stupro nel “Purgatorio”, ma anche Pol Pot in “Santa Sofia. Teatro Khmer” (1986), Auschwitz in “Genesi” (1999) o il coma in “Orfeo ed Euridice” (2014) – […] rivela allo spettatore ciò che è celato dentro lo spettacolo»[21]: una dimensione altra, in cui le immagini appaiono, poiché è lui stesso a crearne l’apparizione. «L’immagine non appare come la realizzazione integrale di significati disposti dal regista»[22] ma come il frutto della visione dello spettatore, che avviene in un presente senza tempo. L’immagine è data all’occhio imponendo all’individuo l’accettazione della sua posizione all’interno di questa materia dinamica – la messa in scena – immersa nel soggetto stesso, creando una situazione in cui «non è più possibile separare lo spettatore dal mondo in scena, dal visibile e dall’invisibile, dal conscio e dall’inconscio»[23]. Il problema dell’immagine, che la si analizzi come frutto malato, poiché incontrollato, dello spettatore o come esercizio registico, consiste nel fatto stesso che sia un’immagine e che, quindi, necessiti di qualcuno che la veda per essere ciò che è: qualcosa che si vede. Nel suo Orphée et Eurydice[24] Romeo Castellucci «penetra in profondità il mito dell’ingiunzione a “non guardare!” – mito antiteatrale par exellence – che è al cuore della sua riflessione scenica[25]»[26]. Ad essere posto in questione è lo spettatore stesso, che è investito della colpa di star guardando, costretto e convocato a stabilire una relazione con l’immagine che lo rende colpevole. Lo spettatore è posto dinanzi a un’immagine di cui è la fonte e questo rappresenta sempre un rischio che per Castellucci è una condizione necessaria all’arte: «il cuore della condizione teatrale»[27]. Avvertire questo rischio è inevitabile poiché «quando siete davanti a un’opera d’arte, avete la sensazione di essere guardati dall’opera, e non il contrario. Il vostro sguardo non si posa su un oggetto ma diventate voi, piuttosto, l’oggetto dell’opera […] improvvisamente non siete di fronte, ma dentro l’opera»[28] e, quindi, l’opera è dentro di voi.

Orphée et Eurydice permette quindi all’artista italiano di incontrarsi e interrogarsi sui rischi, le problematicità ma anche i godimenti e i piaceri dello sguardo. Lo sguardo dei due amanti dinanzi al divieto di scambiarsene, di riconoscersi, di ricontrarsi nello sguardo dell’altro, di leggerci la verità in esso. «Lo sguardo e lo sguardo soltanto, conferma l’autenticità dell’amore così come la realtà della vita»[29]. Orfeo ed Euridice, Daniel ed Els, lo spettatore e la scena, tutti si guardano e allo sguardo corrisponde il rischio, il pericolo più grande: vedere ciò che non deve essere visto. «L’ingiunzione è tentazione, non tollera né errore, né sbaglio»[30], l’ordine a non guardare diviene per Orfeo l’unica via per riavere con sé Euridice, ma per quest’ultima lo sguardo privato del suo amato la rende invisibile, poiché nessuno la guarda, non può essere immagine, non è segmento di vita e allora non può essere amata. Orfeo non può amarla perché non la guarda e quindi non c’è. Lo sguardo per confermare il proprio amore, per far sì che l’invisibile esca dal visibile perché visto. Lo sguardo che dà la morte, l’occhio di Orfeo che vede, che crea l’apparizione di Euridice che, è vista, e quindi è, esiste e può morire per un’ultima volta. Euridice è un fantasma multiplo, è il fantasma del principio, della narrazione, poiché è morta ancor prima che essa sia nata in scena, ma è anche il fantasma etimologico che esplicita la visibilità dell’invisibile. Nel momento in cui Orfeo si volta, in cui Euridice è data al suo occhio, si crea l’apparizione, lei è un’immagine, è un fantasma, si verifica l’incontro di solitudine, poiché il corpo che muore ancora è costretto, rinchiuso, imprigionato nell’evanescenza di qualcosa di inaccessibile che è l’altro, che è Euridice. Allo stesso modo, può essere interessante guardare anche a Orfeo come a un fantasma, almeno narrativo: il poeta tracio dopo la concessione degli dèi parte per il suo viaggio negli inferi ed è letteralmente un uomo vivo che attraversa il regno dei morti. L’uomo cammina, canta fra le anime degli inferi, attraversa uno spazio altro che non appartiene al suo mondo, appare come il fantasma della vita alle creature dell’altrove ed è, ancora una volta, grazie alla presenza di esse che lo ascoltano, reagiscono alla sua presenza, ma che soprattutto lo vedono che Orfeo è visibile, esiste nel suo cammino negli inferi: non è un luogo vuoto, buio e abbandonato, le anime entrano in contatto con lui. L’uomo vivo, che non appartiene al mondo dei morti, che, quindi, non può essere in quel mondo, è, ed è l’invisibile scovato nel visibile della morte, il rovescio della vita. La vita – Orfeo – che è invisibile nella morte, è in essa e quindi può essere scovata, d’altronde: la fine è già nell’inizio, la fine è essa stessa l’inizio.

Dal punto di vista scenico, invece, l’utilizzo che Castellucci fa dello schermo apre a delle necessarie considerazioni rispetto allo spazio e come esso è diviso e quindi dato all’occhio dello spettatore. Esso diviene lo spazio dimensionale in cui ricercare visivamente e anche più semplicemente spazialmente il vedere ciò che appare, l’apparizione del fantasma e l’incontro con lo stesso. La scena è divisa fin dall’inizio da un velo di garza che determina un doppio spazio sul palco e allo stesso tempo funge da schermo. Il dispositivo resterà sul palcoscenico per tutta la durata della messa in scena; è il principale elemento di una doppia scenografia, sia fisicamente in quanto oggetto, ma anche dal punto di vista drammatico come metafora visuale del mito che viene posto sulla scena. Orfeo non attraversa mai questo velo di separazione, che è simbolo parlante della distanza fra il poeta e la sua amata, esplicita l’appartenenza dei due protagonisti a due mondi diversi (anzitutto visivi) ed evidenzia l’inaccessibilità che il soggetto ha verso l’altro. È importante puntualizzare però che fino a che narrativamente Orfeo non incontra Euridice, lo spazio in cui si trova l’attrice che interpreta la ninfa è completamente buio, questo comincia ad essere illuminato, a divenire visibile e a permettere allo spettatore di vedere l’interprete solo nel momento dell’incontro, ossia quando i due entrano in contatto e possono vedersi. Questo è un nodo cruciale nell’analisi che si sta tentando, poiché Orfeo ed Euridice entrano in contatto – si vedono – solo nel momento in cui il primo cede e causa la morte dell’amata. Orfeo la fa immagine, crea l’apparizione, la incontra poiché la vede e ne causa la morte.

L’immagine è la morte. […] L’immagine è una morte o la morte è una immagine. L’immaginazione è, per la vita, il potere di rendersi affetta da sé della propria rappresentazione. […] La presenza del rappresentato si costituisce grazie all’addizione a sé di quel nulla che è l’immagine, l’annuncio del proprio spossessamento nel proprio rappresentante e nella propria morte. Ciò che è proprio del soggetto è solo il movimento di questa espropriazione rappresentativa. In questo senso l’immagine, come la morte, è rappresentativa e supplementare, quindi spettrale.[31]

L’immagine è lo spettro della presenza che è fantasmatica, poiché è l’unico mezzo per vedere che ha Orfeo, che ha lo spettatore. Lo spettatore è Orfeo, è il colpevole della morte poiché è lui che vede Euridice, è lui che la rappresenta alla sua mente, che la fa essere nella sua visione e che quindi la ammazza. È la colpa di vedere e, quindi, di far esistere le cose in sé, nell’impossibilità di potervi accedere. Euridice appare dietro il velo, sfocata, opaca e materialmente e corporalmente diversa rispetto al nitido Orfeo, al corpo vivo dello spettatore. La ninfa è sospesa, almeno così appare, in una dimensione intangibile che può essere solo vista, nella solitudine di questa visione che ne causa la morte. Non c’è possibilità di attraversamento, il velo resta, la patina grigia, l’ombra di qualcosa che non si può toccare ma solo vedere che è ciò che crea l’apparizione al di là del velo e ciò che fa ripiombare, lo spazio scenico tutto, nel buio assoluto. Il fantasma si impossessa del teatro ed è l’unico a vedere ancora, e ancor prima che tutto accadesse. Euridice vede già Orfeo. Euridice vede già lo spettatore. Oltre il velo essa è già, ancor prima che apparisse, ancor prima di essere all’occhio dell’amato, dello spettatore.

La riflessione rispetto all’uso che Romeo Castellucci fa del velo/schermo impone una focalizzazione rispetto all’importanza che il regista cesenate dà al corpo, alla fisicità e, quindi, alla figura, all’immagine. Il corpo porta con sé in scena un senso plurale, non solo incarna un personaggio con le sue caratteristiche fisiche, ma diviene parte integrante della scrittura scenica. Questo fenomeno trova un suo punto di massima esposizione dal momento che il corpo dell’attore incontra lo schermo: «il contenuto dell’immagine diffusa attraverso lo schermo rivela il corpo in una maniera differente da quella che emana la presenza dell’attore sulla scena»[32]. Proprio per questo, anche le modalità di diffusione dell’immagine del corpo attoriale diventano elementi drammatici, così come lo diventano gli strumenti di cattura della stessa: la camera o l’attore intento a filmare.

Lo schermo, per Romeo Castellucci, ha un senso doppio rispetto al suo significato e alla sua funzione. È sia l’immagine che permette di proiettare che un materiale scenografico. Ha degli elementi in comune con lo schermo cinematografico, in quanto il supporto di immagini o video proiettati, apre naturalmente uno spazio scenico supplementare che apporta delle immagini differenti da quelle sul palco.[33]

In Orphée et Eurydice lo schermo, oltre a una funzione prettamente dimensionale, ossia di divisione spaziale con la conseguente creazione di dimensioni diverse, assolve a un ruolo fondamentale nella narrazione della storia di Els, attraverso l’utilizzo di didascalie e, poi, in maniera decisiva nel rendere possibile la sua presenza in teatro: la rende visibile, fa sì che essa possa apparire e possa incontrare lo spettatore. Lo schermo porta in scena il reale di Els attraverso la sua immagine quindi il suo fantasma, che appare sulla scena pur non essendoci fisicamente. Lo schermo permette la presenza visiva di Els, che diventa puro oggetto della visione dello spettatore. Il più grande oggetto posto in scena e anche, inevitabilmente, quello più ingombrante rispetto alle problematicità che l’incontro con lo spettatore crea in quest’ultimo, costretto in una posizione voyeuristica in relazione a un corpo infermo. È il corpo al centro della scena, un corpo incapace di muoversi se non attraverso il movimento delle palpebre e degli occhi, un corpo costretto all’immobilità seppur cosciente, capace di vedere e sentire, un corpo assente fisicamente sulla scena che diventa presente, raddoppiando il personaggio di Euridice – o ancor più brutalmente – incarnandolo. Castellucci attraverso il dispositivo scenico tenta di collegare due spazi, quello reale dell’ospedale e quello immaginario dello spazio scenico, poiché Els è realmente presente come immagine. Il suono del teatro è diffuso nelle cuffie indossate da Els e l’immagine, prima della strada e poi della stanza 416 dell’ospedale in cui è in cura la donna è proiettata sullo schermo. «Nasce allora una confusione tra reale e immaginario […] il mito e la storia di Els si intrecciano come queste due Euridice presenti in scena»[34], la vita vissuta da Els invade il palco, si fa teatro, confondendosi con il mito di Orfeo ed Euridice. Nonostante la sua immobilità, il suo silenzio, la sua reclusione fisica e sebbene sia assente, diventa scrittura scenica e si inscrive fortemente come presente nella scena, imponendo una riflessione rispetto al tema della corporeità. «Lo schermo diventa un mezzo per far apparire immagini insolite, rafforzando la caratteristica profondamente umana del corpo a un punto che il solo corpo dell’attore non potrebbe raggiungere»[35]. Vi è accesso a una visione diversa che non crea alcuna contraddizione con il corpo organico, pur mancando nella sua concretezza fisica, pur essendo Els solo proiettata, rivelando e sottolineando, anzi, l’importanza della materialità corporea dell’attore come necessaria prova della sua esistenza, per quanto la presenza simultanea di due attrici che interpretano lo stesso personaggio crei inevitabilmente un paradosso relativo proprio alla materialità. «È un paradosso attorno al corpo presente sullo schermo, che non è di carne e ossa ma rivela ugualmente la materialità del corpo»[36]. La presenza di Els, nel suo essere immateriale pur rivelando la sua materialità, mette lo spettatore dinanzi alla considerazione non solo della sua immobilità ma anche a relazionarsi in modo serio al suo stato. Ma forse soprattutto al «tipo di atto che lei ci offre in quello stato come testimoni. E il suo stato è qui e ora, in qualche modo il contrario del potenziale che la performance ci promette sempre quando fa apparire un atto, poiché il suo stato è, per definizione, irreparabile»[37].

Giorgio Agamben definisce la condizione di irreparabile come ciò che è consegnato senza alcun rimedio al suo essere tale e questo, allo stesso tempo, lo pone in una condizione di abbandono, di non aver nessun riparo[38]. Il corpo di Els è irreparabile rispetto alla sua condizione e il suo atto, il suo essere presenza nell’assenza materiale, essere un’immagine, essere, quindi, un fantasma, immette lo spettatore in una posizione di osservazione della condizione stessa di inerzia del suo corpo, ma allo stesso tempo della propria inerzia verso un incontro che non può avvenire, se non nelle proprie solitudini. «Per tutto ciò l’irreparabile chiaramente non è nulla. Per Els, in un certo senso è “tutto”»[39] e lo spettatore diviene testimone di questa irreparabilità che riempie la scena, che si scontra con l’orizzonte che l’opera gli presenta, ossia, il non essere in grado di non essere. «La necessità che nonostante o forse a causa di tutto Els continui a vivere, la potenzialità di poter non essere […] ma qui ci viene anche mostrata una situazione straordinaria dove Els è in grado di “non non essere”, dove lei è appunto capace dell’irreparabile»[40]. E lo spettatore inerme e attonito, stanato dall’apparizione, dal suo essere, dal vedere questo invisibile che è nella sua irreparabilità nel suo “non non essere”, ne è investito. È un’irreparabilità che grida esistenza quella di Els: la capacità di fuggire dalla non esistenza nonostante la condizione del suo corpo non abbia alcun rimedio, nonostante nell’immagine di questa donna si incastrino in una simultaneità problematica anche i due caratteri dell’irreparabilità per Spinoza – la certezza della sicurezza e della disperazione – «non si teme per lei, poiché si trova nel più sicuro luogo possibile, ma si potrebbe disperare per la situazione»[41]. Els nella sua irreparabilità vive l’unica condizione possibile per fuggire dalla stessa. Els nella sua immagine vive l’unica condizione possibile per essere nel presente vivo del teatro. Come Euridice nella sua morte trova l’unica via possibile per essere all’occhio dell’amato e dello spettatore, per essere e scappare dal non essere e, quindi, dal non poter essere amata. Come il fantasma nel suo essere invisibile trova l’unico modo per essere visibile, mostrando la visibilità dell’invisibile.

Un’ultima riflessione che intendo sviluppare rispetto all’opera di Castellucci è intorno ai ri-guardi che abitano l’opera. Come detto, le due parti dello spazio scenico dentro cui si muovono le due cantanti-attrici sono divise dallo schermo – e quindi create dalla sua presenza – che proietta le immagini relative a Els, costituendo a sua volta un ulteriore spazio visivo. Tuttavia, vi è un ultimo spazio fondamentale: la platea abitata dagli spettatori. L’asserzione principale e fondante in questo caso è: l’incontro tra i vari spazi non può prescindere in alcun modo dall’evento della messa in scena. L’incontro accade perché ci sono le attrici sul palcoscenico, Els in ospedale proiettata sullo schermo e gli spettatori o, meglio, ogni singolo spettatore seduto in platea. Senza questa condizione non vi è incontro, non c’è occhio, non c’è corpo. È l’evento teatro che crea l’incontro, lo fa apparire, rende possibile che le attrici possano guardare la platea, gli spettatori possano guardare il palco e che l’immagine di Els, quindi il fantasma, possa guardare davanti a sé. Allo stesso tempo, quanto detto è vero anche alla rovescia ossia che il fatto che i vari soggetti possano vedere, possano quindi incontrarsi, crea l’evento teatro. Walter Benjamin parla del teatro come diviso da un «abisso che separa l’attore dal pubblico come i morti dai vivi»[42], il punto è che Romeo Castellucci, nel reintrodurre questo abisso, non divide realmente pubblico e scena: «il regista sembra risvegliare questa potenzialità, connaturata al teatro, di stabilire un incontro fra i vivi e i morti […] fa in modo che questo incontro si produca attraverso un abisso che divide il pubblico da sé stesso»[43]. Questo è possibile in quanto ciò che accade sul palco non è semplicemente dato all’occhio dello spettatore, ma si compie in esso, così come nelle attrici e in Els: tutti si vedono, tutti si lasciano attraversare nel loro essere corpo senza organi dotato di occhio che permette tutto ciò. Tutti vedono l’apparizione l’uno dell’altro, perfino il fantasma di Els – la sua immagine. L’abisso di Benjamin è dislocato, non è in platea, trova la sua dimora nel palcoscenico stesso che diventa il punto di incontro di questi ri-guardi che fanno essere gli oggetti degli sguardi stessi, quindi vicendevolmente, ma nella solitudine del proprio occhio che vede ciò che appare. È come se nel buio dell’abisso, del palcoscenico, si incontrassero i fantasmi di Orfeo ed Euridice, e, insieme a loro, il fantasma di ogni singolo spettatore e quello di Els, o se non il loro, quello dei loro occhi, dei loro sguardi. Uno sguardo, quello dello spettatore verso Euridice ed Els che è volutamente sfocato poiché il regista italiano sostiene essere «la sola condizione possibile per guardare l’abisso che si offre ai nostri occhi, in quel preciso istante. Vederla e allo stesso tempo non vederla, la mancanza di dettagli nel campo visivo, significano una distanza attraverso la quale io spettatore posso confondere quella persona sdraiata nel letto con la mia figura»[44]. Poiché, è sempre di un ri-guardarsi che si tratta, poiché tutto è un riconoscimento di sé, un ri-trovarsi al di là dello specchio e allora l’incontro è con sé stessi: è un incontro di solitudine.

Neppure nell’atto di volgersi da un tipo di spettatore all’altro, vale a dire dalla platea verso la profondità del palco, verso la superficie dello schermo in cui è proiettato “il regno delle ombre” giacché l’intero “regno delle ombre” insieme al pubblico che sembra contenere, si dissolve fino a diventare nulla più che la superficie bianca di uno schermo. È in questo momento, nell’atto di girarsi a guardare, che si rende impossibile il vedere; è qui che l’allestimento organizza le relazioni fra i suoi spettatori: una relazione impossibile che, per almeno uno dei gruppi (il pubblico a teatro), offre l’esperienza di tale impossibilità sentita come condizione di solitudine estrema. Una solitudine in relazione.[45]

La messa in scena diventa un’esperienza vissuta tra vivi su cosa sarebbe essere morti gli uni per gli altri: è un richiamo alla separazione e all’opacità che, pur potendo compiersi solo con la propria morte, è presente nonostante tutto, durante la vita.[46] È il mistero della verità della cosa, quindi, del teatro che è il fantasma che rende possibile l’incontro, è la visibilità dell’invisibile che è già, del reale che incontra l’immaginario, nel simbolico e fa sì che il teatro sia. In qualche modo è il mistero della vita, dell’umano, dell’identità che è solo nel suo apparire, nel suo rendersi immagine, nel suo incastrarsi tra gli occhi dello spettatore, laddove i filosofi greci pensavano si incastrassero i sogni. Dinanzi alla visione di Orphée et Eurydice «lo spettatore sperimenta la radicalità di un teatro del corpo che abbraccia le altezze e le profondità dell’esperienza umana, che rivela la tragedia di essere caduti in un corpo, la nostra irrimediabile cosalità»[47]. Se per Els l’irreparabilità costituisce l’unica condizione per sfuggire al fatto stesso di non essere, per lo spettatore costituisce l’impossibilità di sfuggire a una riflessione sulla prigione del corpo, sulla sua caducità e la sua fine: in questo caso, ancor più crudelmente, su una fine che non è finita, ma che continua ad essere, senza tempo, incarnata da Els.

In questa visione qualcosa ci commuove. È una commozione che rifiute la stereotipata condiscendenza del sentimentalismo. È forse la pietas che si genera quando ci sorprendiamo per essere stati chiamati per nome. E in quel preciso momento sta a noi decidere se distogliere lo sguardo, attardarsi, o forse guardare per l’ultima volta.

Come Orfeo nel mito, come Daniel per Els, lo spettatore è chiamato alla scelta, l’unica vera scelta che ha sull’immagine, sull’essere dell’immagine. Lo spettatore, fonte dell’immagine incontrollata, è l’unico che può interromperne l’essere, l’unico che può porre fine alla rappresentazione, al teatro: è in questa fragilità dell’immagine che si nasconde la bellezza dell’arte teatrale, il rischio che il teatro si prende ogni volta che accade, quello della propria esistenza. Basta veramente poco e nulla c’è, nulla esiste. Basta che lo spettatore distolga lo sguardo, che ponga il suo occhio in un altro luogo, che vada via, che si sottragga al suo essere creatore di ciò che appare, che venga meno all’incontro con la solitudine della sua esistenza. Basta che rifiuti di inventare – di trovare – nel fondo del visibile l’invisibile, che rifiuti di apparire e quindi di far apparire, di stanare e quindi di essere stanato. Basta poco: basta che rifiuti la bellezza che è nell’opera, che è nel teatro, che, quindi, è dentro di lui.

È questa la bellezza: essere stanati. La bellezza non è un oggetto. È in ognuno di noi. Non è semplicemente una forma bella, ben proporzionata. La bellezza è venire sorpresi, anche dalla bruttezza, dalla violenza, e dalla tenerezza, ovviamente. La bellezza è come un raggio capace di toccare un angolo nascosto nel fondo di noi stessi. […] La bellezza sta nell’esattezza. Siamo toccati dall’esattezza di una forma, dall’esattezza di un altro tempo in grado di esprimersi, di andare oltre la comunità, trascendere il linguaggio, rompere gli argini e penetrare la coscienza.[48]

È l’inespresso, l’indeterminato, è ciò che permette allo spettatore di raggiungere le ragioni più inesplorate del pensiero, la visione di ciò che appare poiché ciò che l’altro è, è inaccessibile. Il teatro non concede tregue ma solo sguardi sulla vita in cui ognuno è chiamato a salvarsi. Sguardi di cui lo spettatore è testimone, è chiamato a essere memoria di ciò che ha visto, destinato ad essere luogo e voce dei resti della visione, dell’immagine che è mortifera: c’è nascita, passione e morte, non c’è resurrezione, c’è solo un luogo abbandonato, il sepolcro vuoto di Gesù Cristo che è inizio del cristianesimo che è cuore pulsante e tenebroso del teatro. C’è solo lo spazio tra la mano del Battista e il corpo inaccessibile di Dio, ed è tutto in quello spazio che resta come traccia del fantasma, della sua apparizione, del suo essere prima ancora che appaia e sia quindi per me che lo vedo. Ci sono gli occhi di Els, le mani di Daniel che le carezzano i capelli, lo spettatore che guarda ancora una volta e il buio del teatro. C’è la fine: un nome su uno schermo e il dolore di essersi visti e non essersi mai incontrati. Si può dare forma al dolore? L’occhio che si chiude e piange una lacrima. Si vela e rivela sé stesso, si fa spazio per essere attraversato, per accogliere il mistero che è l’altro e mostra ciò che è oltre lo sguardo, ciò che è dentro l’occhio stesso, la visibilità dell’invisibile: la lacrima. Una lacrima che vede.

 

NOTE

[1]A questo proposito, è interessante osservare come l’angelo in questione, che guarda dritto verso l’osservatore svolge una funzione pressoché identica a quella del “festaiuolo”, colui che, nel teatro rinascimentale, commentava e presentava gli spettacoli. Nel quadro il ruolo è esplicito nella sua posizione oltre che nella sua azione che corrisponde a un richiamare l’occhio dell’osservatore e direzionarlo, tramite gli sguardi degli altri due angeli, verso la figura di Gesù.

[2] Vangelo secondo Luca, 3 21-22, trad. it. TILC

[3] La datazione dell’opera è incerta. Gli storici dell’arte concordano nel dire che è plausibile che sia stata realizzata tra il 1440 e il 1450.

[4] Cfr. Plutarco, Quaestiones convivales, VIII 2 (Moralia 718c-720c)

[5] Il rosso, il blu e il bianco sono i colori degli abiti dell’Ordine dei Trinitari istituito da papa Innocenzo III nel 1198.

[6] L’esistenza in questa analisi non è un discorso di fede, ma un discorso ontologico.

[7] Cfr. Supra, Fondamenti teorici o anche: vocabolario organico, par.1

[8] J. Derrida, Spettri di Marx, Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, trad. di G. Chiurazzi, Milano, Raffaello Cortina, 1994, p.14

[9] R. Castellucci, Incontro con Romeo Castellucci, DAMS Università di Bologna, 15 aprile 2021, mio il corsivo

[10] J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.129

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] F. Saffioti, La questione dello spettro e l’autoritratto, Giardino di B@bel, n.8, 2010, p.216

[14] A questo proposito, Francesca Saffioti afferma: «Lo spirito vorrebbe rimanere puro, al punto da poter prescindere anche dall’essere in vita, rischiando sempre di cadere nello spiritualismo. Lo spettro invece non si sottrae al mondo, o meglio, si offre al mondo nella forma della sottrazione, assumendo una qualche forma corporea, liminare, sospesa fra il visibile e il non visibile» (F. Saffioti, La questione dello spettro e l’autoritratto, cit., pp.215-216)

[15] F. Saffioti, La questione dello spettro e l’autoritratto, cit., p.217

[16] J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p.14

[17] A questo proposito, Derrida in Della grammatologia fa coincidere la questione dello spettro con quella del supplemento, dichiarando che l’uno è l’altro in quanto sono una «presenza di morte nel cuore della parola viva» (J. Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, trad. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri e al., Milano, Jaca Book, 1969, pp.163-164). La parola, così come l’immagine, non può restituire la cosa, ma è un sostituto della stessa, un supplemento inteso come ciò che è al posto di una presenza a cui non si può mai attingere.

[18] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p.137

[19] S. Vitale, La dimora della lontananza, cit., p.33

[20] Ivi, pp.35-36, mio il corsivo

[21] D. Semenowicz, Le cattive immagini in P. Di Matteo (a cura di), Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, Napoli, Cronopio, 2015, p.106, mio il corsivo

[22] Ibid.

[23] Ibid.

[24] Nel 2014 Romeo Castellucci ha messo in scena Orfeo ed Euridice in due versioni: quella di Gluck nella versione del 1762 nel quadro del Wiener Festwochen a maggio; quella nella riorchestrazione di Berlioz del 1859 alla Monnaie di Bruxelles a giugno. Più che di due opere strettamente connesse fra loro, bisognerebbe parlare di due possibilità rispetto allo stesso motivo, con libretto e orchestrazioni simili. Le differenze seguono anzitutto le caratteristiche musicali delle due versioni dell’opera: il passaggio dall’italiano al francese, dal contro-tenore – Bejun Mehta nella versione di Gluck – alla mezzo-soprano – Stéphanie d’Oustrac in quella di Berlioz – e quattro Euridice: Christine Karg, soprano, e Karin Anna Giselbrecht a Vienna, e Sabine Devieilhe, soprano, ed Els a Bruxelles. Castellucci, infatti, con una scelta radicale e dalla enorme forza emotiva, decide di assegnare il personaggio di Euridice contemporaneamente a una cantante e a una giovane donna realmente in coma o pseudocoma (locked-in syndrome), alla quale resta la possibilità di comunicare attraverso il movimento dei soli occhi. In questa sede la versione di riferimento è quella andata in scena a Bruxelles. Trovo necessario darne una descrizione al fine di rendere agevole al lettore i riferimenti alla stessa presenti all’interno del saggio. La scena è composta da un gigantesco schermo e al centro del palco una sedia vuota. Lì si collocherà Orfeo per alzarsi durante le arie cantate, i cori, i duetti e i recitativi, Euridice, invece, sarà posta al di là dello schermo, segnando già soltanto logisticamente una differenza spaziale fra i due personaggi. L’altra Euridice è Els la cui storia è raccontata, in un primo momento, da scritte proiettate sullo schermo che sembrano costituire il vero libretto d’opera. Lo spettatore, quindi, vede contemporaneamente Orfeo in primo piano in scena, Euridice al di là dello schermo e sullo schermo la storia e le immagini di Els. È proprio in questa sovrapposizione e in questo montaggio tra la storia di Orfeo ed Euridice e di Els e del marito, che tenta invano di riportarla in vita (Orfeo o il marito di Els?) sta l’intuizione di Romeo Castellucci e l’intero sviluppo dell’opera. Le due storie si intrecciano, si mescolano, vanno di pari passo, poi si superano e poi ancora si ritrovano, in una linea temporale che è descritta e inscritta proprio nella coincidenza impressionante fra le due narrazioni, nel parallelismo tra mito e tragedia reale e intima che risulta sempre più evidente. Nel libretto dell’opera la scena si apre con Euridice morta: sarà Amore a intercedere e indicare la via per l’Ade a Orfeo, al racconto della morte della ninfa corrisponde il dramma inaspettato di una trombosi celebrale della giovane Els mentre è a casa con i suoi due figli. Il dolore di Orfeo è espresso dalla e nella triplice invocazione d’apertura a Euridice che si incrocia con la vicenda di Els attraversata dalle memorie del quotidiano che sfuggenti attraversano lo schermo, e quindi la scena. Amore porta Orfeo nell’Ade da Euridice, ma allo stesso tempo un altro uomo, il marito di Els, Daniel, si sta dirigendo in un inferno fatto di camere asettiche, respiratori e, soprattutto, silenzio. Tutto è sfuocato e il viaggio prende la forma di una presa diretta sulla strada vista da una macchina in corsa che giunge dapprima in un boschetto, figurativamente i Campi Elisi, che non sono altro che i giardini dell’ospedale e poi alla stanza 416: la stanza di Els. «L’inferno invano ci separa» canta Orfeo. Daniel, il marito, in viaggio verso Els, ha dinanzi a sé un corridoio bianco che si perde in un quadrato nero: è lo sconosciuto, è la distanza, è ciò che lo aspetta ma senza arrendersi perché come prosegue a cantare il suo alter ego in teatro: «L’amore tiene in vita la fiamma». L’opera prosegue, a poco a poco entriamo nella stanza di Els e di lei, sfocatamente, cominciamo a vederne i dettagli: la sua mano bianca, immobile, come morta. Poi l’incontro, il contatto: «Vieni, vieni Euridice, sono io», la mano di Daniel sfiora Els con tenerezza, si incontrano gli sguardi, gli occhi che sono l’unico modo che la giovane donna ha per comunicare, l’unico modo che ha per parlare col suo amato. Ma lo spettatore è come Daniel, è in Daniel, è Orfeo che cerca la sua Euridice, lo spettatore difatti vive il tutto in una soggettiva. Ma il contatto non è solo narrativo e neppure siamo solo noi ad averlo con Els attraverso la ripresa nella sua stanza, il contatto avviene anche in verso contrario e la moneta di scambio è la musica del poeta Orfeo, delle cuffie rendono possibile per Els l’ascolto di ciò che accade in teatro. Il soprano piange, Euridice si tormenta, perché il suo amato non le rivolge lo sguardo. Orfeo resiste, poi vacilla, lamenta agli dèi il tormento inflitto, chiede aiuto, sta perdendo la ragione: Orfeo, non ce la fa, si volta. Gli occhi di Els, ora, messi a fuoco, si muovono, le pupille paiono fissare lo spettatore alle volte, altre scompaiono dietro le palpebre. Orfeo di spalle in teatro, «O dio, muoio» canta Euridice, la telecamera che piano si allontana da Els fino al bianco infinito dello schermo, che è il luogo in cui perdiamo la giovane donna in ospedale ma è anche il luogo che sottrae la cantante alla scena. La cantante che interpreta Orfeo intona la famosa e triste aria J’ai perdu mon Eurydice: tutto ora è buio, le luci di tutto il teatro si spengono, il bianco diventa nero, la vista diventa cecità, lo sguardo fatale è fatale anche per lo spettatore, tutto sprofonda nel vuoto, poi piano il lamento di Orfeo che invoca la sua morte, «Che la morte mi accolga». Ma l’opera prevede un happy ending: Amore torna sul palco e fa incontrare i due amanti nel mondo dei vivi, un meraviglioso scenario in video 3D creato da Apparati effimeri, collaboratori di Castellucci, che riporta dal buio assordante della scena al paesaggio bucolico dove appare Euridice nuda e bianca come una Venere di Botticelli: «la Ninfa-Euridice riguarda ancora una volta Orfeo al di là della garza. Il progressivo trascolorare dall’alba alla notte fonda allude a una ciclicità inalienabile». (P. Di Matteo, Catabasi d’amore, programma di sala, Teatro Grande di Brescia) Orfeo la raggiunge, Daniel raggiunge di nuovo Els, le sue mani delicatamente tolgono le cuffie alla sua amata e le accarezzano i capelli tre volte: il contatto si interrompe, sullo schermo resta l’unica cosa che non è reale (per volontà della stessa paziente), il nome: Els.

[25] Diverse sono le produzioni di Romeo Castellucci in cui il mito antiteatrale è affrontato: è il caso della prescrizione a «Non guardare» o «Non guardarmi» rivolta allo spettatore nel secondo atto di Giulio Cesare, in alcuni Episodi della Tragedia Endogonidia, in Schwanengesand D744.

[26] P. Di Matteo, Catabasi d’amore, programma di sala, Teatro Grande di Brescia

[27] J. Perrier, La disciplina dell’errore, cit., p.75

[28] Ivi, p.76

[29] Ivi, p.155

[30] Ibid.

[31] J. Derrida, Della grammatologia, cit., p.210, mio il corsivo

[32] S. Kim, L’écran chez Romeo Castellucci: une recherche sur l’humain, in J. Féral (a cura di), L’acteur face aux écrans. Corps en scène, Parigi, L’entretemps, 2018, p.249, mia la traduzione, mio il corsivo

[33] Ibid.

[34] Ivi, p.252, mio il corsivo

[35] Ivi, p.253

[36] Ibid.

[37] A. Read, Orfeo ed Euridice di Romeo Castellucci. Scene dall’ultimo spazio umano, in F. Bortoletti e A. Sacchi (a cura di), La performance della memoria. La scena del teatro come luogo di sopravvivenze, ritorni, tracce e fantasmi, Bologna, Baskerville, 2018, p.466

[38] Cfr. G. Agamben, Irreparabile in Id., La comunità che viene, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp.28-29

[39] A. Read, Orfeo ed Euridice di Romeo Castellucci, cit., p.466

[40] Ivi, p.467

[41] Ibid.

[42] W. Benjamin, Che cos’è il teatro epico?, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. di E. Filippini, prefaz. di C. Cases, Torino, Einaudi, 2003, p.130

[43] N. Ridout, I vivi e i morti: la solitudine in relazione in P. Di Matteo (a cura di), Toccare il reale, cit., p.107

[44] P. Di Matteo, Catabasi d’amore, cit.

[45] N. Ridout, I vivi e i morti: la solitudine in relazione, cit, pp.113-114

[46] Cfr. Ivi, p.114

[47] P. Di Matteo, Catabasi d’amore, cit.

[48] J. Perrier, La disciplina dell’errore, cit., pp.76 e 120-121

Nun si parti

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di Sofia Rigoli

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Palidda non sapeva leggere né scrivere. La sua maestra veniva dal nord, dove i bambini imparavano entro i sei anni, diceva. Lei invece di anni ne aveva nove, quasi dieci, e ogni volta che doveva mettere le lettere in fila su un foglio per dargli senso si confondeva e finiva per distrarsi. La maestra le diceva che era svogliata, che se non avesse imparato sarebbe tornata a dover lavorare la terra come i suoi nonni. Allora lei si era impegnata, vedendo che sua madre ci rimaneva così male nell’avere una figlia babba e con la testa nta l’aria. Alla fine per farla contenta aveva imparato a scrivere il suo nome: non Paola, ma Palidda, come la chiamavano tutti. Aveva capito presto che c’erano tante cose che lei non riusciva a fare e gli altri bambini sì. Per esempio, non riusciva a memorizzare le preghiere. Ne recitavano sempre una prima delle lezioni, appena arrivati a scuola. Lei non aveva una buona memoria, non riusciva a ricordarsele. Finiva per balbettare e farsi rimproverare. Allora aveva imparato a muovere la bocca senza produrre alcun suono, in modo che la maestra non si accorgesse che stava sbagliando tutte le parole. Fingere di saper leggere, invece, era più difficile. Aveva provato anche quello, cercando di indovinare cosa potesse esserci scritto nei libri ogni volta che le veniva chiesto di leggere un testo ad alta voce. Anche se si vergognava faceva finta di ignorare le prese in giro degli altri bambini e i rimproveri della maestra, che tanto alla fine aveva ragione lei: la scuola non era cosa sua. Del resto a Palidda non era mai interessato saper leggere o scrivere, non le sembrava importante.

Poi suo fratello era partito e tutto era cambiato. Nessuno sapeva dove sarebbe andato, si sapeva soltanto che un giorno lo avevano caricato su un camion dell’esercito e se lo erano portato via. C’era la guerra, questo glielo avevano detto più volte. A quel punto le risate dei suoi compagni e lo sguardo deluso della sua maestra ogni volta che faceva scena muta davanti ai libri non le importavano più. Continuava a pensare a suo fratello Viru, che era salito sul camion mentre lei era a scuola senza neanche un saluto. Palidda aveva passato ogni notte a domandarsi perché nessuno volesse dirle dove era andato, e soprattutto perché non era potuta andare con lui. Allora aveva deciso di chiederlo a suo padre, che era sempre buono con lei.

“Picchì tu sì fimmina, e poi sei piccola”, le aveva spiegato pazientemente. Palidda non si era convinta. Su quegli autocarri aveva visto salire bambini di tutte le età, pure poco più grandi di lei, e se avesse potuto sarebbe salita anche lei senza pensarci due volte.

Un giorno aveva visto un militare fuori da casa loro e gli aveva chiesto se poteva partire anche lei. Vedeva spesso i camion, fermarsi alla prima casa di una strada e percorrerla tutta finché non erano pieni.

Sua madre si era voltata, sconvolta, e l’aveva guardata a lungo negli occhi prima di parlare.

“Una cosa così non la devi dire mai più”, le aveva detto infine. Poi si era scusata con il militare e l’aveva trascinata dentro casa.

Sua mamma provava a renderla partecipe, le diceva che lei era una bambina intelligente anche se non sapeva leggere, che era importante che capisse.

Si stavano portando tutti i loro ragazzi, le diceva, stavano privando la Sicilia di tutte le braccia forti che dovevano sorreggerla e lo stavano facendo per combattere una guerra e neanche sapere per chi la stavano combattendo. Anche Viru era partito senza essere sicuro di dove lo avrebbero spedito, e tutta la famiglia stava ancora aspettando sue notizie. Sua mamma usciva di casa a controllare la cassetta della posta più volte al giorno, anche quando sapeva che a quell’orario i postini non lavoravano o non sarebbero passati di lì.

“E non puoi chiedere aiuto agli americani?”, aveva domandato a un certo punto la bambina.

A Palidda gli americani facevano simpatia. Con lei erano sempre gentili, anche se a volte la intimorivano. Le faceva paura che non sapevano parlare la sua lingua, e lei la loro. Cominciano sempre i problemi, quando non ci si capisce. Un po’ come quando tutti i suoi compagni recitavano a memoria le preghiere che lei non sapeva. Ogni volta che vedeva i soldati confabulare o ridere tra loro, voleva chiedergli cosa avessero da dirsi, voleva sapere cosa ci facevano lì. E poi voleva chiedergli se sapevano dove fosse suo fratello Viru.

Sua madre, in ogni caso, le diceva di non stargli vicino troppo a lungo. Le diceva “nun ti fidari mai di nuddu”, e Palidda se lo ripeteva ogni volta che un soldato americano le rivolgeva un sorriso per strada.

Poi le scuole vennero chiuse per un po’. Quando riaprirono, sua mamma si rifiutò di mandare la figlia.

“Ci sono cose più importanti da fare qui, Palidda.”

Lei non si era opposta. La scuola non le piaceva, e poi così si sarebbe potuta concentrare meglio sul suo obiettivo: raggiungere suo fratello. Nel frattempo era arrivato gennaio del 1945 e c’era sempre sole. A Palidda sarebbe piaciuto uscire per strada a giocare, andare a bussare alla porta dei vicini di casa per chiedere delle loro figlie. Tutti però sembravano distratti da qualcos’altro, pure sua mamma, che di quei tempi era sempre nervosa.

“È meglio se te ne stai a casa, per ora.”

Palidda si annoiava, e ogni volta si rimproverava quando si sorprendeva nel pensare che le mancavano perfino le lezioni, con tutte le prese in giro dei suoi compagni. A un certo punto aveva deciso che se non era riuscita a imparare a leggere seduta dietro i banchi di scuola, avrebbe imparato da sola. A casa sua non c’erano molti libri, ma Palidda sapeva che sua mamma teneva sempre una bibbia sul comodino. Una mattina aveva aspettato che lei andasse fuori a controllare la posta, e poi era corsa nella sua stanza per prendersi la bibbia. Era un po’ ingiallita e alcune pagine sfuggivano alla rilegatura, ma era un bel libro, su quello non c’era dubbio. Palidda se l’era portata nella sua stanza, e l’aveva nascosta sotto le coperte. Sapeva che sua mamma la prendeva in mano solo la sera, quando era a letto e la sfogliava distrattamente prima di dormire. Per qualche giorno aveva tentato e ritentato di dare un senso a quello che vedeva sulle pagine senza alcun risultato. Le lettere si confondevano tra di loro, sovrapponendosi l’una all’altra. Un pomeriggio, mentre sua madre riposava, Palidda era silenziosamente andata a rubare la bibbia accanto a lei. Un bigliettino ben piegato era scivolato giù. Palidda lo aveva raccolto da terra, lo aveva aperto ed era rimasta inorridita. Cosa ci fosse scritto dentro non poteva saperlo, ma la calligrafia di suo fratello l’avrebbe riconosciuta tra un milione. C’era anche il suo nome, proprio in cima al foglietto, ed era l’unica cosa che Palidda poteva decifrare del suo contenuto. Era corsa nella sua stanza a piedi scalzi, dimenticandosi che non doveva fare rumore. Palidda si era sentita stupida tante volte nella sua vita, ma quella fu la peggiore di tutte. Aveva creduto a lungo che leggere e scrivere fosse inutile, aveva creduto che non le sarebbe servito mai in tutta la sua vita e aveva sostenuto non le interessasse. Era riuscita a superare le prese in giro e i rimproveri a testa alta, solo per scoprire che le parole erano importanti per davvero e lei non avrebbe mai saputo farle sue. La vergogna bruciava nella sua gola e nel suo stomaco, ma Palidda non voleva piangere. Aveva pensato, per un momento, di andare a svegliare sua madre per farsi dire cosa ci fosse scritto dentro quel biglietto. Poi aveva deciso di non farlo, un po’ perché si vergognava a dover chiedere e un po’ perché se lo sentiva, che quello era un segreto. Se Viru avesse voluto, quel biglietto lo avrebbe potuto poggiare sul tavolo della cucina, e invece lo aveva nascosto dentro una bibbia. Qualcosa le diceva che neanche sua madre sapesse che era lì. L’idea che suo fratello avesse lasciato qualcosa indietro per lei le dava speranza, le faceva pensare che forse lo avrebbe rivisto davvero.

I giorni seguenti erano stati peggio dei precedenti. Se prima Palidda si annoiava e basta, adesso l’attesa era un’agonia. Non aveva niente da fare, se non ripassarsi quel pizzino tra le mani, cercando di immaginare cosa suo fratello avrebbe potuto dirle. Sapeva che per le strade la gente si stava agitando, vedeva i suoi genitori più tesi che mai. In parte si chiedeva cosa stesse succedendo là fuori, per causare tutto quel casino. In realtà, però, le interessava solo di Viru e delle sue ultime parole. La bibbia la rubava ancora, di tanto in tanto. Ma sapeva che era inutile, tanto non sapeva leggerla. Avrebbe voluto fare quello che le diceva la maestra e affidarsi a Dio e alla sua volontà. Avrebbe voluto saper credere a quello che diceva, quando sosteneva che tutti i ragazzi che erano partiti lo avevano fatto per la patria e anche per lei. Avrebbe voluto convincersi che ci fosse un piano e un motivo, ma non riusciva a togliersi le parole di sua madre dalla testa. Si ricordava ancora le sue grida e i suoi pianti, quando era tornata da scuola e l’aveva trovata accasciata sul pavimento della cucina, aggrappata al piede del tavolo.

“U figghiu miu, si pigghiaru!”, urlava. “Quei bastardi me lo ammazzano, io lo so!”.

Tutto il vicinato gli aveva fatto visita nelle ore seguenti. Era venuta Lina, quella della casa di fronte, e sua figlia, Carmela, con cui Palidda aveva giocato a mosca cieca fino a pochi mesi prima. La madre non le aveva parlato per tre giorni interi. Non aveva parlato a nessuno, a dire la verità. Siccome suo padre doveva andare a lavorare e sua madre stava tutto il giorno a letto come se si fosse ammalata, spesso veniva lo zio a trovarla. La portava a fare una passeggiata quando poteva, oppure le teneva compagnia con storie di ogni tipo. Palidda lo sapeva che se le inventava, ma lui giurava fossero vere e le raccontava così bene che finivano per crederci entrambi. Le aveva detto di un bambino che si chiamava Giufà — era un po’ un crastuni e viveva per strada. Giufà era solo un picciriddo ma era intelligente, le aveva spiegato, anche se tutti dicevano che in realtà era uno scimunito che non era mai andato a scuola. Si cacciava sempre nei guai, ma riusciva a tirarsene fuori ogni volta. Lo zio aveva detto di averlo conosciuto personalmente, anche se Giufà sapeva nascondersi bene. Un pomeriggio avevano deciso di andare a cercarlo insieme. Prima di uscire, Palidda aveva messo i panni bagnati sopra la fronte di sua mamma come aveva chiesto lei, “così mi do una calmata”.

Per strada i militari americani li guardavano con sospetto, ma lo zio aveva detto a Palidda di non farci caso. Giufà non lo avevano trovato, però nel vederla così delusa gli americani avevano offerto a Palidda una tavoletta di cioccolato.

“Forse hanno portato via anche lui, sui camion dei soldati”, aveva ipotizzato la bambina. 
“Forse”, aveva detto lo zio.

Quando si poteva, Palidda accompagnava la madre a casa della vicina, per distrarsi. Si assicurava che il biglietto di Viru fosse ben nascosto sotto il cuscino, e poi la raggiungeva in cortile. Le due si facevano compagnia mentre pulivano la verdura. Quel giorno Palidda si era seduta su un gradino mentre sua madre sbucciava i piselli. Di politica di solito si cercava di non parlare, per non litigare. Di quei tempi era proprio impossibile, soprattutto perché sua madre era sempre arrabbiata.

“Hai fatto la cosa giusta, a farlo partire”, le aveva detto Lina.

“Nun mi lassaru scègghiri.”

“Quando una madre offre un figlio alla causa bisogna ricordarlo con orgoglio”, aveva continuato quella, imperterrita.

Sua madre era andata su tutte le furie. Si era alzata di scatto, rovesciando tutte le bucce dei piselli a terra. Le aveva detto che non era giusto, che suo figlio morisse così. Non era giusto che morisse lontano da casa.

“La patria nostra è questa isola qui, e puru idda va liberata dai fascisti e dagli oppressori!”. Era l’ultima cosa che aveva detto, prima di tornarsene dentro casa sbattendo la porta e lasciando Palidda fuori, ancora seduta a terra.

In quei giorni la Sicilia era in confusione come un formicaio. Ma era un disordine necessario: i siciliani si stavano organizzando, si stavano preparando a lottare. A Catania avevano bruciato il municipio perché i militari avevano sparato a un giovane sarto senza motivo. A Ragusa una donna incinta si era distesa davanti alle ruote del camion diretto al distretto militare e si era rifiutata di muoversi. L’avevano arrestata insieme ai suoi concittadini e l’avevano accusata di aver istigato la sommossa. In seguito l’avrebbero condannata e spedita a Ustica, dove avrebbe partorito lontana dalle rivoluzioni.

Palidda queste cose le aveva sentite dai suoi genitori, da suo zio, dai vicini di casa. Sapeva che stava succedendo qualcosa di importante, di molto più grande di lei che era solo una bambina testarda.

“Nun si parti, ma darreri nun si torna”, si sentiva urlare dalle piazze. I siciliani dicevano che non avrebbero accettato un altro ventennio, non sarebbero tornati indietro. Erano stanchi di mandare i loro figli a morire, ma ancora di più erano stanchi di saperli morti non appena li vedevano partire per la guerra. Avevano organizzato cortei, erano scesi in piazza e non si erano nascosti per scappare ai militari. La guerra l’avevano guardata negli occhi e l’avevano rifiutata. Si erano difesi come potevano, donne e uomini, e ne stavano pagando il prezzo. La risposta non era stata positiva: li avevano accusati di essere criminali separatisti e fascisti solo perché gli faceva paura che si stavano ribellando. Poi avevano arrestato ognuno di loro. Per difendere la loro terra dai fascisti e dai monarchici, avevano imparato che la violenza era un diritto di tutti. Palidda, tutte quelle cose, le guardava da lontano senza capirle come avrebbe voluto. Sospettava che sua madre partecipasse anche lei a quelle manifestazioni, ogni volta che la vedeva uscire tutta trafelata con una scusa. Suo padre faceva finta di non farci caso, si impegnava nel rimanere fuori quei dieci minuti in più per darle il tempo di rincasare prima di lui, come se non se ne fosse mai andata. Palidda li guardava mentirsi a vicenda, ma non diceva mai niente.

L’unica cosa che le era chiara era che tutti stavano facendo qualcosa, tutti stavano combattendo. E suo fratello? Chi combatteva per lui, quando se lo erano portato via prima che nessuno potesse fare qualcosa? Di aspettare, Palidda non ne poteva più. Allora aveva deciso che avrebbe sfruttato la distrazione di sua madre per scappare, e qualcosa lo avrebbe fatto lei. Così aveva messo qualche vestito dentro la sua cartella di legno che una volta usava per andare a scuola e aveva riposto il biglietto di suo fratello nella tasca della sua giacca. La gente si affollava per le strade, i militari con i fucili in mano si agitavano e urlavano cercando di sovrastare la folla. I giovani siciliani combattevano per scendere da quei camion, lei per salire.

Era sgattaiolata fuori poco dopo l’ora di pranzo, quando suo padre era ancora a lavoro e sua madre era fuori a fare chissà cosa. Aveva paura di incontrarla, e quindi faceva attenzione ogni volta che voltava un angolo. Tanto sapeva bene dove stava andando: nei giorni precedenti aveva osservato i militari e i loro camion, aveva capito da dove partivano e si era appostata proprio dietro uno, in attesa di poter salire. C’erano quattro uomini, lì davanti. Avrebbe aspettato che si distraessero per scivolare dentro e nascondersi. Palidda aveva atteso con pazienza per più di venti minuti, cercando l’occasione giusta. Quando le sembrò il momento adatto, mentre i soldati erano impegnati a chiacchierare tra di loro con la sigaretta in mano, si fece strada silenziosamente verso il camion. Era diventata brava, a forza di rubare la bibbia e poi rimetterla al suo posto più volte al giorno. La bambina si arrampicò aggrappandosi a tutto quello che trovava, impaziente di trovarsi dentro il camion come tante volte aveva desiderato. Per un momento immaginò che dentro quell’autocarro ci avrebbe trovato suo fratello. Ancora non sapeva cosa ci fosse scritto dentro quel biglietto che le aveva lasciato, ma le piaceva pensare che le stesse chiedendo di seguirlo. Aveva paura che sua madre l’avrebbe trovata, aveva paura che le avrebbe impedito di vederlo. Avrebbe dovuto nascondersi per bene come Giufà, avrebbe dovuto essere intelligente come lui. Un piede dopo l’altro era quasi arrivata in cima. Poteva quasi vederlo, Viru, sorriderle da dentro il camion, orgoglioso di lei. E poi si era sentita tirare indietro, e poi in basso e sempre più in basso, verso la terra. Allora aveva sperato fosse sua madre, ma le mani che sentiva pressare sulle sue costole erano troppo grosse, troppo callose, troppo decise. Erano stati gli americani a trovarla. In qualche modo erano sempre dietro l’angolo, a supervisionare ogni movimento. Palidda si era agitata e aveva cercato di divincolarsi. Il soldato la teneva per un braccio, l’aveva costretta a stare ferma e a guardarlo negli occhi. Era solo un ragazzo anche lui, alla fine. Aveva i capelli biondi e gli occhi di un colore che Palidda non aveva mai visto, e la mettevano a disagio.

“What are you doing here?”, le aveva chiesto.

“Devo andare da mio fratello”, rispose lei, cercando di indovinare cosa il soldato le avesse chiesto come indovinava i testi dei suoi libri di scuola. “Si chiama Viru, è partito due settimane fa.”

“Go back to your parents”, aveva detto quello. “You shouldn’t be here.”

“Voglio salire sul camion anche io”, insisteva Palidda.

“Go away.”

Palidda non aveva intenzione di muoversi. Appena il ragazzo aveva allentato la presa, forse sperando che se ne sarebbe andata davvero, lei era scattata di nuovo in avanti verso il camion.

“Hey!”, urlò un altro soldato. “Get off the truck!”.

La acchiapparono da dietro, le tirarono i capelli. Palidda si mise a urlare come una bestia ferita, attirando l’attenzione di tutti i passanti.

“State fermi!”, intervenne una voce familiare. Palidda non riusciva a vedere perché aveva gli occhi pieni di lacrime e i capelli davanti alla faccia, ma smise di gridare.

“La conosco io, questa crasticedda. Datela a me.”

I soldati si guardarono tra di loro, poi con un cenno di intesa la lasciarono andare. Palidda corse tra le braccia dello zio.

Per diversi minuti non era stata in grado di parlare, il viso paonazzo e la gola bloccata. Aveva smesso anche di piangere, ma non riusciva a guardare suo zio negli occhi. L’aveva portata lontano dai soldati, camminando a passo svelto.

“Cosa pensavi di fare? Eh?”, l’aveva ripresa lui appena si erano fermati, poco lontano da casa.

Palidda non aveva risposto, aveva tenuto gli occhi bassi e aveva sperato che il solito senso di vergogna sarebbe passato da solo.

Quando si convinse ad alzare il mento abbastanza da incrociare lo sguardo dello zio, vide che non era così arrabbiato come pensava lei. Anzi, le stava quasi sorridendo.

“Dimmi la verità, Palidda. Cosa stavi facendo, su quel camion?”

Palidda non rispose per qualche altro minuto, ma suo zio aspettò senza insistere.

“Volevo andare da Viru”, confessò infine tornando a fissare le sue scarpe.

Solo a quel punto lo zio sembrò tranquillizzarsi. Allora si sedette a terra, in modo da guardarla negli occhi.

“Ti spiego una cosa, piccirì”, le aveva detto. “In parlamento ci chiamano fascisti, ma noi fascisti non siamo. Ci chiamano accussì picchì nun ci piace che noi la nostra terra la vogliamo libera dalle monarchie e dalle armi. Per lei moriremmo mille volte, ma neanche una per Mussolini o per Umberto II. E stiamo morendo per le nostre idee, stiamo morendo per liberare la Sicilia dai feudatari e dai fascisti.”

Lo zio le sorrise di nuovo, come a volerla incoraggiare.

“E se ti posso dire la verità, se si può solo scegliere dove morire, allora meglio morire a casa propria. Tuo fratello ha fatto una cosa coraggiosa, ma so che se avesse potuto scegliere sarebbe rimasto qui. U capisti?”

Palidda annuì, di suo zio si fidava.

“Tu sì ntiliggenti, e chiaramente u curaggiu nun ti manca. Adesso anche tu devi fare la tua parte: t’ha stari ccà.”

Avevano camminato in silenzio verso casa. Lo zio non aveva raccontato niente a sua madre, e lei non aveva chiesto. Palidda aveva ricominciato ad andare a scuola, e aveva tenuto quel foglietto nella tasca del suo giubbotto per mesi. Poi un giorno si era toccata la tasca e il biglietto non c’era più. Si era disperata, aveva rivoltato la cartella e tornata a casa aveva smontato tutta la sua stanza, ma non lo aveva trovato. Ormai si era perso e insieme a lui si erano perse le ultime parole che suo fratello aveva voluto dedicarle. Palidda aveva pianto e pianto tutta la notte. Non avrebbe mai saputo cosa volesse dirle Viru.

Poi la guerra era passata, e Palidda era cresciuta. Aveva imparato a leggere e a scrivere come tutti gli altri, ma una bibbia non l’aveva presa mai più in mano per paura di cosa avrebbe potuto trovarci dentro. Le dissero che suo fratello neanche ci era arrivato, al fronte. Lo avevano ammazzato prima, mandandolo nelle trincee. Era morto come tutti gli altri, solo e senza motivo. Non avevano neanche trovato il cadavere per poterlo restituire alla famiglia. Suo zio aveva detto che era una disgrazia che tutti questi ragazzi fossero morti per la causa sbagliata. Palidda non trovava un senso a quella frase. Suo fratello era morto e lei non lo avrebbe rivisto mai più, non avrebbe mai saputo cosa voleva dirle. Era quella, la vera tragedia. Anni dopo, lo avrebbe capito. Ai siciliani veniva sempre chiesto di partire, mai di restare e lottare. Suo fratello e i suoi coetanei avevano lasciato tutta la loro vita per le bombe e le mitraglia e non avevano saputo perché. Però erano andati via comunque, e i loro familiari e concittadini avevano lottato comunque per chi era partito e per fare in modo che non ne partisse più nessuno. Aveva capito cosa intendeva suo zio quando diceva che “U curaggiu nun servi, per morire. Quello lo potevamo fare pure a casa nostra.”

Non era sempre coraggio, anzi, non lo era quasi mai. Era la paura di morire ammazzati ed era la voglia di resistere a ogni violenza e ogni tirannide per proteggere la propria terra e la propria famiglia.

Lei aveva cercato di costruire un futuro per sé stessa e per i suoi genitori. Era pure andata all’università e aveva studiato filosofia, visto che poi tanto babba non era. Quando aveva ventidue anni le era stato offerto di proseguire gli studi a Trento. Palidda era stata la prima della sua famiglia a laurearsi e sarebbe stata la prima a trasferirsi così lontano per studiare. Il pensiero la intimoriva ma la incuriosiva pure. Più volte aveva pensato a cosa poteva aver provato, Viru, quando era partito anche lui. Si chiedeva se era spaventato come lo era lei, e sperava che la loro terra li avrebbe perdonati entrambi.

Note bibliografiche 
La maggior parte della ricerca necessaria per la scrittura di questo racconto è stata svolta negli anni tramite la connessione e il dialogo con persone che hanno vissuto gli eventi qui riportati (in prima persona o attraverso i racconti dei parenti). Il sito dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), https://www.anpi.it, è stato la mia fonte primaria di informazioni e mi è stato molto d’aiuto tramite articoli come questo: https://www.anpi.it/una-storia-di-resistenza-dimenticata-i-moti-del-non-si-parte-sicilia. Mi sono servita anche delle foto, dei video e dei documenti dell’Archivio Storico Luce disponibili online.

Sofia Rigoli è nata a Palermo nel 2003, dove adesso studia all’università nel corso DAMS. Vive vicino al mare, per fortuna. Cerca di raccontare agli altri quello che sa e a volte anche quello che non sa. Quando non sta scrivendo sperimenta con i diversi tipi di arte visiva come la fotografia e il videomaking.

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Immagine generata da AI
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(Questo racconto contiene testi espliciti. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso da temi e parole che riguardano la sessualità.)

di Alberto Comparini

L’autistico il comunista il giullare di corte il nipote dell’ordinario l’allievo scarso del barone il figlio dell’operaio rimasto bloccato al secondo piano dell’ascensore sociale l’inconsapevole arrivista il dottorando rampante (la formula non è mia, ma l’autore vuole rimanere anonimo): c’è posto per tutti, all’università, anche per me che sono apertamente di destra (ma non posso dirlo a nessuno, in pubblico), un po’ perché sono neurodivergente (secondo l’ultima diagnosi non richiesta), un po’ perché sono un provocatore (così ama ripetere la badante cieca di un mio ex compagno di corso), un po’ figlio un po’ zio un po’ fratello diciamo anche un po’ testa di cazzo (confermo), di certo non sono un intellettuale (professore associato a 35 anni: fortunato ignorante raccomandato) – sono quello che mi si crede, il mio padre spirituale in fin dei conti è Giovanni Giolitti, il GGG: troppo alto rispetto alla media nazionale, troppi capelli in un cimitero di stempiati anche se si iniziano a intravedere i segni del tempo lungo la linea frontoparietale, evitiamo di affrontare l’argomento spalle (ma non poteva giocare a basket, perché lavora all’università), non si capisce mai cosa penso davvero (balbetto, mi mangio le parole, bestemmio), quando scrivo, poi, non ne parliamo sono democratico finché serve un leader controverso, mi piace pensare di essere sempre necessario. Che dire: Giano Bifronte, fino alla morte.

L’altezza, sia chiaro, non è stata una scelta (mio padre è il vero GGG), non è stata nemmeno un vantaggio nella tarda adolescenza quando i vestiti non mi entravano zoppicavo vistosamente le ragazze non mi volevano succhiare il cazzo; ora che sono adulto (contratto a tempo indeterminato fino al 2058) mi sono identificato nella mia altezza americana (6’3 ¼’’, in italiano sono più basso) i vestiti mi entrano ma costano troppo le ragazze che vogliono succhiarmi il cazzo. È una questione di prezzi, così dicono quelle povere sventurate che le dimensioni non contano quando provano a regalarmi un momento di piacere aggrappandosi alla cintura dei miei pantaloni. Eppure, nonostante la loro esperienza di lunga durata (la mia educazione sessuale è cominciata piuttosto tardi osservando dietro una tendina semitrasparente le schiene nude di alcune ragazze vestite solo di un camice a quadretti e di una malattia terminale), l’operazione risulta più complessa del previsto: l’intreccio in pelle delle cinture di Andrea Morando permette di regolarne liberamente la chiusura ma la loro origine è bovina lei è una insopportabile radical chic di sinistra che invece di succhiarmi il cazzo mi attacca una pompa infinita sui diritti degli animali senza notare che la fibbia in metallo è d’argento che il modello della cintura è Made in Italy che la regola della elle era un’invenzione dei colleghi più bassi che si erano specializzati nei cazzi degli altri.

Il danno, comunque, è fatto, lei è intelligente ma parla troppo, tu per precauzione ti avvali del quinto emendamento anche se l’espressione è perfetto non rende pienamente giustizia a tutti gli sforzi fatti per venire in bocca all’ennesima ragazza conosciuta dopo gli atti di un convegno (ah shit, here we go again era il 2004 giocavi ancora alla Playstation). Che fatica, avrà scritto con malcelata ironia alle sue amiche nella chat di gruppo Girls4Ever c’era sicuramente anche sua sorella più grande che fa l’ingegnere meccanico a Dublino le avevi chiesto per cortesia di non diffondere la notizia, delle mie cicatrici parlo spesso e volentieri a degli estranei per strada a lezione nei saggi che scrivo di mattina per ottenere l’abilitazione scientifica di prima fascia (entro un anno bisogna pubblicare una nuova monografia), nel palazzo in cui ci siamo spogliati l’ultima volta ho una reputazione da difendere: tutti mi credono un casanova trentino.

Sono persone più che discrete i miei vicini di casa hanno un lavoro reale il classico nove diciassette dei figli degli animali domestici almeno una macchina per marito e moglie dello zio pervertito preferiscono non parlare delle amanti come i tuoi colleghi vogliono conoscere ogni dettaglio (la cementoplastica è una procedura utilizzata per rinforzare un osso colpito da un tumore, in questo modo si allevia il dolore associato alla lesione metastatica, si prevengono delle fratture invalidanti): di cosa stai parlando, dove sono gli amplessi il cigolio dei materassi (una doga era ancora rotta dall’ultima volta dei nostri incroci) le richieste più disparate la libreria sta in piedi per miracolo non posso sbatterti al muro altrimenti rischiamo di fare dei nuovi danni all’apparato muscolo-scheletrico degli arti inferiori (è nuovo questo corpo mi è costato tanto), al massimo ti posso prendere per i capelli sul divano il sesso durava poco appena ti toccavo venivi subito sto venendo non posso più venire qui non capisco perché stai fingendo a chi importa sapere quando sei venuta ancora a Trento si era fatto tardi devo andare al Santa Chiara l’orario delle visite è terminato da almeno un’ora il corridoio di via Lampi 14 era vuoto (lei aveva preso le scale, tu l’ascensore, per un attimo non vi siete incrociate), quella sera avevi toccato con mano i tagli che attraversavano il mio corpo compongono un disegno anomalo per le tue dita che cercavano di rendere meno anomalo l’imbarazzo del giorno dopo. Lo sapevi, lo sapevo cosa sarebbe successo.

Provi a sdrammatizzare, i tuoi racconti li aveva letti da qualche parte in rete devo aver scritto qualcosa in cui volevi credere (alcune poesie in prosa, la morte di ML, i limiti della finzione) non è come sembra è la prima volta che mi succede (non l’ho mai fatto con nessuno, dicevi, lo dite tutte, te lo giuro), se vuoi possiamo riprovare in piedi, la posizione orizzontale per te è un atto performativo troppo intimo scoprire qualcosa di me prima di ingoiare il mio seme starai più comoda in camera da letto dovrebbe andare meglio le sollecitazioni a cui sono sottoposte le articolazioni delle ginocchia non sono da sottovalutare (il parquet è in legno massello), proviamo così in piedi per qualche minuto saremo lontani dal divano iniziamo a toccarci in un’altra stanza, dove sei finita dopo la seconda ondata o era la tua terza visita non mi ricordo più quando sei scomparsa durante un convegno di filosofia in Germania ero andato a farmi vedere da un oncologo di fama internazionale, a Bologna ti volevo solo parlare l’idea di per sé non era malvagia il nostro campo visivo era ancora verticale (le due torri in piazza Maggiore, Basket City, una stanza al secondo piano dell’Istituto Ortopedico Rizzoli).

Sul divano non era possibile evitare le tracce del mio passato (le cicatrici erano all’altezza delle tue pupille le mani sull’addome contratto la lingua immobile pronta a muoversi sul glande, mi fissavi), per te la questione era molto più semplice siamo qui insieme entrambi a tempo determinato tra tre anni finisce il tuo contratto prevede una piccola estensione a causa del Covid-19 può durare ancora fino al 2024 non sono sicuro di arrivarci spero che non sia un problema darci un tempo limitato capire velocemente chi siamo che cosa senti quando ti prendo per mano dove stiamo andando, di là in camera smettila di parlare perché non mi riempi la bocca col tuo cazzo, va bene, inizi a piegarti il movimento è perfetto, il mio ortopedico di Sondrio si chiama Alberto sarebbe molto soddisfatto della tua mobilità articolare, non hai problemi a ridurre l’angolo tra il tronco e le cosce sei bravissima come fai a muovere così bene le ginocchia si piegano senza problemi fino a raggiungere la superficie in legno ti fermi, il peso del tuo corpo viene trasferito dalle piante dei piedi alle ginocchia grazie all’aiuto degli avambracci riesci a mantenere intatto l’equilibrio intorno alle aree turgide del mio corpo non hai bisogno di distogliere il campo visivo questa volta deve rimanere verticale.

Quando vuoi puoi andare l’appartamento è a due passi dalla stazione non c’è bisogno di controllare l’ora sappiamo benissimo che ore sono, i rumori dei freni guidano la nostra percezione del tempo ogni ora passano regionali veloci treni austriaci anche i fischi del capotreno hanno un suono più aspro i tuoi desideri soffocati dalla mia erezione, sono nudo sei nuda chi siamo in questo momento a chi stai mostrando il tuo seno, le tue amiche dicono che sono un inconsapevole arrivista i verbali dei commissari di I e II fascia (Padova Verona Venezia Roma) mi chiamano giullare di corte per come parlo e scrivo (sai il ricorso a Torino) assomiglio di più al figlio dell’operaio rimasto bloccato al secondo piano dell’ascensore sociale, te l’avevo detto prima sul divano quando volevi evitare a ogni costo di toccare il mio passato.

Era inutile insistere non sarebbe cambiato nulla stando in piedi si prolunga solamente il dolore alle giunture elastiche, allora spingi più forte fammi capire perché sei convinta di essere più importante del dolore, fermati siamo troppo vicini, la tua bocca si stringe intorno alla curvatura dorsale del mio cazzo alzi nuovamente gli occhi non devi abbassare lo sguardo, le tue amiche ti avevano avvertito, mantieni il contatto visivo così finisce prima, se continui a guardarmi io posso venire vorrei venire da te purtroppo non mi hai ancora dato il tuo indirizzo, questa sera mi hai chiesto di venire su di te vuoi sentire l’attrito dinamico dei corpi la trasformazione dell’energia cinetica in calore un po’ di cardio il Plank orizzontale qualche caloria di troppo da bruciare dopo cena il tuo piacere che invade il mio liquido seminale, ci siamo: lo sperma scivola lentamente sulle piccole labbra come nei film americani il tuo compito è finito, prendi fiato, seduta a terra per sbaglio incroci di nuovo le mie cicatrici cheloidi sono il mio passato, domani mattina sarà più semplice salutarsi alla fermata dell’autobus.

Nascondino

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Foto di Ercole Sartori da Pixabay

di Nicola Maria Fioni

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.


Fra le campagne che costeggiano le anse del grande fiume, proprio lì dove l’Arda s’allarga per esserci risucchiata, un’eco risuona.

«Sarà scappato sull’argine…» sussurra Mancini a Bianco, culo stretto, appoggiati al muro.

«Sei still!» tuona il tedesco medagliato quasi fosse una salva di rivoltella: «Wenn wir ihn nicht finden, bringen wir euch alle um.»

Dalle nostre parti si direbbe: «Fa zitto, che se lo truverem miä, ad massarem tüt

Eppure nessuno lo trova, Cudicini.

Quando quel furbone del tedesco si è girato per appicciarsi una sigaretta, lui ha fatto ciao con la mano da mercante, è saltato giù dalla finestra e se l’è svignata chissà dove.

Eh già, dove? Perché, che si passi da Cignano, come da Soarza o da Busseto, le vie d’accesso a Villanova d’Arda son bloccate: i partigiani di Castelveder hanno avuto la bella idea d’ammazzare un qualche tenente per fregargli una motoretta e ora, per far tornare i conti, ne han fermati venti dei nostri.
Poco importa che i documenti siano tutti a norma, i primi venti che c’avevano il nome o la faccia da partigiano li han presi tutti.

C’è Bazzana che ha solo quindic’anni, ma il torto di chiamarsi come quel combattente che in Val Padana si fa chiamare il Biscia; Torelli che è vecchio e buono a far ubriacare di vino e di parole le persone; Sanfelici che ha fatto le scuole dei dotti e Parisi che ha la sola sfiga di essere emigrato da queste parti nel momento sbagliato.

Ci sono Mancini e Bianco che li abbiam già visti e son sempre insema, poi Goretti, Bosio, che è un po’ troppo bruno, il piccolo Marinelli e altri di cui, non s’offendano, ma in questa sede non varrebbe la pena raccontarne.

I venti, ora diciannove, son tutti prigionieri in quell’obbrobrio che han fatto diventare il palazzo del Comune. Tutti che rischiano la vita. Sul serio. Mica da ridere.

La Maria, la signora che fa da interprete (si dice che se la fa con più di un qualche repubblicano lombardo), fa che se Cudicini non salta fuori gli brucian la casa, giusto da monito. Aggiunge anche che se non torna per i sei rintocchi della campana, faran cascare qualche testa.

Ma in dove s’è ficcato quel matto del Cudicini? 

Cudicini. In paese c’è chi lo chiama vile, chi scaltro, chi Boeri perché è biondo come i coloni olandesi, e infatti di nome di battesimo gli hanno dato Albino.

È figlio della Grande Guerra e mentre fugge diretto non so dove per i campi, fischietta un motivetto che potrebbe essere se non ci ammazza i crucchi, che non serve essere certo comunisti né cattolici per esser anarchici e antifasci. Basta esser coraggiosi.

Cammina Cudicini, cammina erto nella piana e continua a inneggiare una qual canzone partigiana che magari se l’è addirittura inventata da lui, di sana pianta.

Ha gli stivali chiusi nella molta di ottobre, e a ogni passo fa un chaf che si sente solo nella terra d’autunno o fra la merda delle vacche che ci han pascolato.

«Cudicini, guarda che se ti va bene ti mettono dentro, sennò t’ammazzano direttamente.»

Ara la Viliana. Sta passando in bicicletta sulla strada che più che bianca è color polvere. Robusta ma bella, ha sedici anni e quando non tesse la tela, consegna giornali con dentro, pinzati di qua e di là, messaggi criptici e criptati.

Cudicini è basso in mezzo al campo, e per farsi sentire urla come chi non soffre la morte, o chi la soffre troppo.

«Viliana, io di farmi prendere da un tedesco, non c’avevo mica voglia. E t’assicuro che ne ho ancora meno ora che son almeno do óre che mi trascino in bel mezzo del fango.»

Ha un sorriso stanco. Stanco delle guerre, stanco del fuggire, stanco pure un po’ di fare il bravo.

La Viliana fa silenzio, pedala a passo d’uomo che schiacciare la ghiaia troppo irruenta, sarebbe come schiacciare il cuore del Cudicini.

«Albino, te ci hai mai giocato a nascondino?»

«Da pütel, perché te no?»

«Io non son mica come te che pensi solo a te stesso… io a nascondermi, ci gioco tutti i giorni. Tüt el dè

Alle quattordici di tedeschi di guardia ce ne sono cinque, che aspettano solo di muovere quelle MG che portano, chi nel fodero, chi già in mano.

Di colpi in pancia i nostri non ne hanno ancora presi, ma c’è qualcuno che non si sente un granché di stomaco. Stan “chiamandoli dentro”, a uno a uno, per farsi dire dove potrebbe essere finito quell’altro là.

Bianco, secondo solo ad Agliardi e Bazzana, è appena uscito. Sta ancora ammanettato, che guai se qualcun altro prova a fare il furbo, dice uno dei due “carabinieri italiani” sul posto.

Bianco Giovanni marcia accompagnato, diritto quanto può e non ha segni di percosse. Tiene gli occhi sbarrati come chi, in strada, segnala un posto di blocco con i fari, sperando che l’amico fraterno sia allerta. Dovrebbero andare in ordine alfabetico, eppure tocca già a Mancini, adesso. È il dilemma del prigioniero.

Mancini si caga addosso, che vorrebbe piangere.

I tedeschi, uno per lato, lo prendono per le asce, sudate come agli adolescenti che hanno appena scoperto l’amore. 

Quello a sinistra ha un naso lungo da cane, gli strattoni di quello di destra invece sono quasi timidi: forse è un fifone o forse nemmeno a lui piace dover stare lì.

Mancini ora è riverso per terra e per rispondere all’interrogatorio tocca stargli mezzo sulle ginocchia. Tra lui e l’inquisizione corre un vuoto che sembra occupare tutto lo stanzino. A dividere Mancini dal tenente, che pare si chiama Von Mayer, c’è solo una scrivania, teutonica nella tempra quanto lui.

Di fianco c’è la Maria. Guarda Mancini con occhi da puttana che si è venduta per chissà quale prezzo incommensurabile e traduce.

«Col Cudicini siete amici voi, no?»

Come se quella là non lo sapesse.

«Abbiam fatto le scuole insieme, fino alla seconda.»

Elementare s’intende.

«Dove potrebbe essersi nascosto il suo amico?»

Mancini non parla: per prima cosa non è mica un infame, e poi lui davvero con Cudicini ha poco da raccontarsi, da quella volta che gli ha ciuffato duemila lire giocando a pinella.

«Guarda che non è mica mio amico… non saprei.» La voce di Mancini esce lenta e a scatti come il piscio dall’uretra dei vecchi.

Quella della Maria serpeggia fra un tedesco imbastardito e un italiano perentorio, ma dettato da qualchedun altro.

«Bianco… ce l’ha detto della bisca.»

Mancini, che già pareva un cadavere caldo, prende il colore del cognome del compagno. È davvero il dilemma del prigioniero. 

Il corpo genuflesso si fa rigido come i pensieri, che in quei momenti lì la testa è vuota come alla lavagna davanti a una divisione.

Non è che Bianco abbia nominato degli affari che succedono nel retrobottega? E si che di solito è una tomba…

«Perché? È illegale giocare a carte?»

La Maria indica, con gli occhi più che coll’indice, il plico di scartoffie che tiene sulla scrivania germanica. Non serve nemmeno che il tedesco della Foresta Nera parli.

«Lo dite voi, Signor Mancini… e lo dice il Regio Decreto Legge del 19 gennaio 1931, n. 773.» 

Per farsi più seria e convincere sé stessa quanto il prigioniero, la Maria sfoglia tra le carte e prende un foglio che per via della miopia del Mancini, per lui potrebbe anche esserci scritto “va al diavolo”.

Ma Mancini non è mai stato un gran pensatore, di solito ragiona col cuore. Fa un respiro forte che sembra abdicare: «Andate a casa di Cudicini. Entrate dalla porta dello stufone, magari lo trovate che conta i soldi… di certo c’è qualcosa che v’interessa.» 

Il sole di ottobre seppur parco scalda le guanciotte di Cudicini, che ora è tutto solo nei campi in maggese. 

Lo sfrigolio della dinamo della Viliana, insieme alle sue parole di staffetta, oramai si perdono tra i bianchi pioppi maculati della golena.

«Me durante il dè g’ho de laourà. E chi glielo dice a lei che anche io, magari, non nascondo qualcosa.» Balbetta Cudicini, che pensa che sarebbe anche l’ora di rientrare a ca’, oppure passar per la bottega, per vedere se sotto il suo tetto stanno tutti bene.

Ormai passeggia come chi ha da pensare Cudicini, che conosce quei campi come nessun altro. Ha fatto finta per una vita di fare il bracciante e mentre intortava i caporali, ne studiava i gesti e le frottole.

Al bivio che porta alla ferrovia, l’Albino svolta a destra che sennò c’è il pericolo di scivolare giù dal campo del Pedroni e di non riuscire a tirarsi più su dal fosso.

Passate le ortiche e i gerani ormai marci, il biondo boero riprende quella sorta di asfalto che parte dal curvone dove sorge casa sua, prende il viale e va. Va verso la sua seconda casa.

Il tenente Von Mayer ha ordinato a qualche soldato di basso rango di andare a bussare alla porta di Cudicini, che se nessuno apre, di sfondarla a suon di pugni, o di entrare dal retro, proprio come suggerito da quello che definisce il traditore, Mancini.

Dal Comune son partiti in due, quello feroce con il muso da cane e quell’altro che si vergogna di sparare. Non son più fieri ed eretti come un tempo.

E nemmeno così svegli che se avessero fatto più attenzione avrebbero visto che il Boeri, nascosto fra i bagolari schiacciasassi, spirava verso di loro come il vento che vien su, dalla parte opposta alla loro marcia.

A differenza dell’inquilino, la casa di Albino Cudicini non la si può mancare: è la seconda che si vede entrando in paese da Cremona.

È rosso mattone, ma diventa più rosina man mano che ci si avvicina al porticato che la affossa in una conca. Non appena era fuggito la mattina, sperando di trovarlo in panciolle impoltronato, le guardie avevano già suonato lì dal biondo Boeri ma non avevano trovato nessuno, nemmeno i fratelli; e se in mattinata erano stati avari coi toc toc, ora bussano ostinatamente con le nocche e col battente.

È un bussare convinto ma sordo, come se la porta fosse fatta di cartapesta.

Insiste il cagnaccio ma la porta non viene giù. 

«Entriamo da dietro» dice in lingua madre a quello che non è propriamente un “compagno”.

Nel giardino di Boeri c’è un recinto che suggerisce che prima della guerra lì ci dormisse un bastardo.

Facendo attenzione non sia elettrizzato, i tedeschi lo tagliano abbastanza da farci un buco da passarci senza rimanerci impigliati col bavero della giacca o secchi, fulminati.

Dentro al recinto è pieno di buche e avvallamenti che il cane c’ha scavato per farsi la fossa o lì dentro c’è esplosa una qual mina.

Man mano che ci si avvicina alla basculante che scorre, chiusa da un lucchetto da armadietto del dopolavoro, si sentono dei respiri forti, bestiali; anche l’odore al naso è animalesco. Il tedesco che comanda esorta il giovane a darsi una mossa che lì c’è sicuro qualcuno, o meglio qualcosa, vista la razza. Obbedisce.

Poco prima delle quindici e trenta, c’è un timido sole che è già sulla via del tramonto e Cudicini ha deciso di costituirsi. Ha la scusa già bella che pronta da pronunciare, onesto, alla Maria e a quello che se la fotte: «Dovevo andar da mangiare alle bestie, a quei cinque capi che mi son rimasti. Che ci vuole tempo e sennò in tempi di guerra, anche quelle mi muoiono. Che già è morto il mio fratello Gino, che se l’è portato via il tifo o qualche altro malanno che inizia con la lettera “t”».

Se la ripete lungo il viale dove ha visto quegli arroganti dei tedeschi passare, questa storia.

«Mi manca giusto passare dalla bottega.»

È un paio di anni che il boero Cudicini si è messo a vendere le bovine per quanto gli è permesso.

In paese, proprio di fianco a Musetti, che aggiusta le biciclette e sta imprigionato anche lui, tiene una bottega in cui stocca i mangimi, per non far impuzzolentire nella casa rossiccia dove dorme senza più il papà. 

Cudicini si avvicina furtivo, manco dovesse scassinarlo quell’ufficetto o se volete magazzino, che dovrebbe essere di sua proprietà.

Le serrande sono giù. Non è giorno di lavoro.

Girato l’angolo, passa per la servitù del Musetti, pregando che nessuno gli abbia fatto del male. La portoncina verde del retro bottega si apre con chiavi da scrigno, fuori misura.

«State tutti bene?», la voce supersonica di Cudicini, stavolta è un bisbiglio. Ha il dito davanti al naso a far segno di non fiatare troppo forte.

Uno zingaro di nome Ardit, circondato dai suoi bimbi, fermi come dopo un girotondo, gli fa segno con il pollice che è tutto ok.

I tedeschi arricciano il naso, che non han trovato né tartufi né uomini.

«Es sind nur Kätzchen!», esclama il giovane con occhi di sollievo, mentre piangono, piangono, piangono quei quattro gattini che dormivano nello stufone della casa rossiccia che oggi, come allora, apre le porte di Villanova. E che, grazie a chi ha avuto coraggio, fa come civico il 64, di Viale Martiri per la Libertà.

Nicola Maria Fioni è nato a Cremona nel 1996. Dopo una laurea in International Management e un biennio creativo alla Scuola Holden, ha firmato per brandstories i podcast “Dire Fare Curare” e “Così Vicini”, mentre per INinfluencer media ha scritto il programma “Motors” in onda su MotorTrend. Oggi lavora per il Branded Entertainment Department della casa di produzione Fremantle dove inserisce prodotti e servizi non troppo occultamente su “X Factor” e altri format. Di recente, ha vinto il premio Città di Cremona con il racconto “Il banco di Tazio”, mentre con Affiori Editore ha pubblicato “Verrà l’estate”, il suo unico romanzo.

La riscoperta dell’alfabeto di Alessandro Conforti: “La mula e gli altri”

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di Daniele Ruini

Per confrontarsi apertamente con i Grandi Autori ci vuole coraggio, e un po’ di incoscienza; qualcuno potrebbe parlare anche di presunzione, ma non sarebbe certo un termine appropriato per il libro di cui ci stiamo occupando. Non si percepisce infatti nessuna ombra di superbia nel modo in cui il parmense Alessandro Conforti ha voluto omaggiare l’esordio letterario del suo illustre concittadino Luigi Malerba, che nel 1963 si presentava ai lettori con la raccolta di racconti La scoperta dell’alfabeto (poi ampliata in seconda edizione nel 1971), dando il via ad una delle avventure più brillanti della narrativa nostrana. Davvero tanti sono i fili che collegano quel folgorante esordio alle 12 storie de La mula e gli altri: faccende semiserie di provincia (Il ramo e la foglia edizioni), a partire dall’ambientazione in una provincia-campagna parmigiana che non si concretizza in coordinate temporali precise ma che guarda ad un passato precedente la società dei consumi. E come già in Malerba, nemmeno in Conforti si coglie alcun rimpianto per un supposto contesto idillico ormai scomparso, anche se è vero che i personaggi irregolari protagonisti dei suoi racconti riescono ad attingere a una profondità che sembra invece preclusa agli altri.

Lasciando al lettore il piacere di scoprire le vicende che l’autore pennella con una scrittura essenziale in cui non c’è nulla di superfluo, basti qui dire che –esattamente come nella Scoperta dell’alfabeto (esplicitamente richiamato nel racconto che dà il titolo al libro, dove ritroviamo un vecchio alle prese col tentativo di imparare l’alfabeto)– a dominare La mula e gli altri è un tono tra il malinconico, il grottesco e il fantastico: è questo il filtro usato da Conforti per far emergere l’assurdità ma anche la grazia dell’esperienza esistenziale dei suoi personaggi. E non stupirà che questi ultimi siano spesso bambini o ragazzi, oppure adulti che hanno «la stessa incoerenza che si vede nei piccoli» (p. 46): il loro sguardo ingenuo si dimostra infatti ideale per far emergere punti di vista alternativi (si veda il brillante racconto rodariano L’ora di Grammatica) o per soppesare gli effetti del diventare adulti (così nel conclusivo La luna rideva, il cui narratore ci regala questa rivelazione: «Mi ci è voluto degli anni, per capire che avevo ragione da bambino»).

Il tema del passaggio del tempo, in effetti, occupa un posto rilevante nella raccolta di Conforti, anche questo sulla scia del Malerba della Scoperta dell’alfabeto (di cui, ne La mula e gli altri, ritroviamo anche la struttura sottilmente circolare: il primo racconto s’intitola L’Oceano, e dell’oceano si torna a parlare, sempre in maniera immaginifica, nella storia conclusiva). Il pensiero della fine suscita sgomento («Il buio che ci aspetta mi fa tanta paura» dichiara la protagonista di Elsa e Damiano), ma la morte è anche al centro di vicissitudini beffarde (come in Lazzari) o di metamorfosi stregonesche (come in Fiori di stramonio). E al motivo della caducità, spesso presente sullo sfondo, fanno da contrappunto manifestazioni di semplice tenerezza umana: un marito che mormora alla moglie addormentata sul divano che è ora di andare a letto (L’Oceano), o un nipote che, in visita alla nonna in una casa di riposo, sale le scale insieme all’anziana donna sentendo «le sue scapole sottili sotto il maglione in pile» che «s’alzano a ogni respiro» (Il castagnino).

Per parafrasare la conclusione del libro, quella suonata da Alessandro Conforti è una «musica delicata» e tutt’altro che banale, capace di regalarci uno sguardo pieno di stupore sui destini di esseri umani ai margini della Storia.

 

Il canto

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di Sean Ashmore

Racconto selezionato per la pubblicazione nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Salve, Regina, Madre di misericordia,
vita, dolcezza e speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, noi esuli figli di Eva.
A te sospiriamo, gementi e piangenti
in questa valle di lacrime.

Vibra nell’oscurità la nota in mi della sillaba finale. La decanta una sagoma illuminata da un’unica lampadina penzolante. In ginocchio con le braccia aperte, la bocca spalancata. La sagoma, l’uomo, il prigioniero 16670, non termina l’inno, non riesce. Rimane così, affannato, con le lacrime che gli solcano il viso. Un viso scavato dalla fame, dal terrore e dalla morte. Eppure, gli occhi non sono quelli di un disperato, ma quelli di un bambino. Eternamente incantati, sembrano guardare oltre la lampadina, il cavo, il grezzo soffitto crepato in cemento armato. Attraverso i grotteschi limiti del bunker in cui vi sono rinchiusi, penetrando oltre le tavole di legno e oltre l’area riposo riservata alle guardie. Volano attraverso il primo piano dell’infermeria e sopra il tetto su cui fuma una sentinella infreddolita, i suoi occhi, se non solo per un istante, bucano il buio cielo della notte, tra le nuvole, oltre l’atmosfera. Schizzano danzanti tra gli astri, con la sola luna come degna compagna dei sogni loro. La vergine luna, madre di misericordia, vita, dolcezza e speranza…

“Prigioniero 16670! Se non la smetti con sti cazzo di canti, ti do in pasto ai cani”, abbaia un cane a sua volta, sbattendo sulla porta con i tacchi ferrati.

La sagoma cade, ritorna a terra tra il fango. Al suo fianco un uomo geme sofferente. Sulla gamba destra dell’uniforme lisa, il numero 16850. Sul petto, un triangolo rosso. Assieme a loro, sparpagliati nella stanza, sei corpi in putrefazione.

“Non ce la faccio padre, non ce la faccio, non voglio morire. Padre la prego, ho troppa fame, mi lasci provare. Il corpo, il corpo di David. La prego, è morto solo qualche ora fa”. La sagoma si raddrizza, guarda l’uomo nell’ombra. Gli aveva parlato dandogli le spalle, senza farsi vedere. Trema, piange, soffre. La sagoma gli accarezza la spalla, lo consola.

“Guardami”, sussurra la sagoma. L’uomo si gira. Immediatamente scoppia in un pianto diverso, non più dato dalla fame o dalla paura. Il sorriso della sagoma è perfetto, senza timidezza, senza angoscia. Si distende in un’armonia di serenità e compassione. Era lo stesso sorriso che lo aveva portato in quel bunker, lo stesso con cui aveva barattato la propria vita per la libertà.

~

“In che senso Y. è scappato?”

“Sì sì te lo assicuro, non si trova da nessuna parte. Al risveglio, quella merda di S. l’ha cercato ovunque per la baracca e non l’ha trovato. Quel moiser è andato dal Blockführer. Ancor prima di dirgli cosa fosse successo stava strisciando a terra pregando che non lo ammazzassero.

“Quel pazzo, solo Dio sa quanto ce la farà pa…”.

“TUTTI FUORI CANI BASTARDI! FUORI DALLA BARACCA E IN FILA SULLA RIGA D’ISPEZIONE, SUBITO!”, urlò bestialmente il Blockführer. Con gli stivali lustrati e il colletto inamidato, il capitano delle SS Z. gocciolava di sudore, mentre stritolava i suoi guanti in pelle nera. Guardava uscire a occhi sgranati i prigionieri che immaginava sempre come ratti schifosi, magri e sporchi. Il capitano non riusciva a vederli diversamente e il solo pensiero che la maggior parte di loro, quelli della baracca 15, avessero potuto rappresentare un possibile pericolo per il Reich, gli faceva venire i conati di vomito. Li osservò inciampare uno sull’altro, farfugliando qualche parola sgrammaticata, spelacchiati qui e lì, con le uniformi a righe talmente larghe da farli sembrare quasi comici, e per un attimo gli venne effettivamente da ridere, poi notò l’uomo mancante sulla riga d’ispezione e non rise più.

Come poteva essere successo? Uno uomo fuggito sotto la sua sorveglianza, per di più un ebreo, uno dei pochi della 15, trasferito da poco insieme ai prigionieri politici. Pensandoci bene, si ricordò che lo avevano trasferito per colpa di alcune voci che giravano tra i Kapò dell’altra baracca, la 13. Originariamente non aveva voluto sapere il perché, gli interessava solo non perdere altri prigionieri prima del dovuto. Forse c’entrava qualcosa con quei sentito dire che aleggiavano qui e lì. A quanto pare, gli ebrei praticavano la Cabala durante la notte, mormoravano parole nel buio, sigillavano alleanze, si preparavano a vendette metafisiche. “Potrà mai essere?”, pensò, e se il fuggiasco avesse veramente fatto un patto con il diavolo, trasformandosi in un pipistrello o un ratto, uno vero? Sentì un brivido schizzargli su per la schiena e i peli del collo rizzarsi come antenne.

“Non vi è bastato aver cospirato contro il Reich! Cospirate anche qui, contro il campo, contro di me. Avete il tempo che io accenda una sigaretta, se nessuno si farà avanti, la pagherete peggio del prigioniero 15433 una volta acciuffato e ve lo assicuro, verrà preso. Ma ora non dovete pensare a lui e al suo corpo appeso a testa in giù dal pilone centrale… ora vi conviene pensare a voi, alle vostre misere vite. Fate pure con comodo, ci mancherebbe, lo sapete bene che per me, prima crepate tutti e meglio dormo la notte.” Il Blockfürer mise con calma i guanti nella tasca esterna della giacca, passò lo sguardo avanti e indietro per la linea d’ispezione, tirò fuori il portasigarette e ne estrasse una bianchissima e snella ospite. Con due dita recuperò la scatola di fiammiferi dal taschino sinistro e ne sfilò uno. Battè due volte la sigaretta sulla scatola, ma. attorno, solo il rumore dei merli e la brezza estiva.

“Tz tz tz tz, ragazzi ragazzi, cosa vi devo dire? Vi diamo tutte le possibilità di redimere le vostre schifose e inutili vite, vi facciamo lavorare, vi diamo dove dormire, da mangiare, ora anche la possibilità di fare giustizia, aiutando nella cattura di un fuggiasco pericoloso e infame. Io lo dico sempre al Lagerführer; dovremmo essere più duri con voi. Ma purtroppo, anche oggi, dobbiamo fare a modo suo. Kapò S.! L’elenco dei prigionieri, presto!”

Il Blockführer selezionò dieci uomini e fece loro fare un passo avanti. A uno a uno li passò in rassegna e a uno a uno li fece brutalizzare dalle guardie. “Voi, cari, siete stati selezionati per fare da esempio agli altri, non siete contenti? Andrete nel bunker a morire di fame. Vedremo se ad altri verrà in mente di fuggire”, disse raggiante, mentre teneva immobilizzata la testa gonfia e sanguinante dell’ultimo tra i selezionati. L’uomo boccheggiava con la faccia impressa nel fango. “Dieci, solo dieci me ne ha dati…”, diceva incantato il blockführer, fissando l’uomo che si dimenava. Gli pareva di osservare la scena dal di fuori, da un’angolazione un po’ diversa, più bassa e ravvicinata. Provava piacere, un piacere che non capiva, ma che non poteva arrestare. “Dieci…”, mormorò. “Ma anche se fossero undici. Uno in più o uno in meno, di questi vermi, cosa cambia?” Impossibile sollevare il piede ora, con lo sguardo del verme quasi perfettamente terrorizzato, così vicino, così impotente, a un passo dalla soglia.

~

La sagoma osserva la scena dall’estremità della riga d’ispezione. Lacrime gli rigano il volto prima ancora che se ne possa accorgere, forse piange da ore, forse da sempre. Si muove verso l’uomo a terra, lentamente. Né il Kapò né il Blockführer si accorgono di lui. I suoi compagni lo spiano con la coda dell’occhio, prima l’uomo, poi la sagoma e infine il Blockführer, l’uomo, la sagoma e il Blockführer, l’uomo, la sagoma… il suo viso; se ne accorgono ormai che è a un passo dalla sua meta. Piange, eppure sorride senza remore, sembra un padre pronto ad abbracciare il figlio. La stessa realizzazione accomuna tutti. L’intento è chiaro, ma non solo, tutto sembra guadagnare senso, anche la scena assurda e brutale dinanzi a loro, e, alzando lo sguardo per la prima volta dal loro arrivo, anche il campo sembra mostrare un significato nuovo, velato.

“Blockführer, basta, la prego”, dice a bassa voce e con una calma fuori luogo la sagoma. “Non vede? Così lo soffoca”. Gli uomini sulla riga d’ispezione non possono credere alla scena davanti a loro. Molti sono stati partigiani, dissidenti o attivisti politici prima di finire nel campo, ma una volta arrivati, molto presto, hanno perso ogni forma di resistenza. Certe cose, nel campo, portano solo a sofferenza immediata e brutale, e per quanto forti prima, quando la morte certa, senza condizioni, ti attende dietro ogni parola, ogni respiro, nessuno l’affronta a testa alta.

La sagoma si china a terra. Aiuta l’uomo a ripulirsi la bocca dal fango e ad alzarsi. Il piede del Blockführer si ritrae meccanicamente, il suo sbalordimento è quanto quello dei prigionieri.

“Blockführer, la prego, scelga me al posto del Signor M. Ha quattro figli, una moglie. È così giovane, io ormai sono vecchio. Ci vado io nel bunker al posto suo. La prego…” Parla ora in piedi, davanti all’aguzzino, sempre con il suo sorriso, toccandolo sulla spalla. Il Blockführer non si capacita a tal punto che non può non balbettare “Dici sul serio? Nel bunker vai a morire, non pensare altrimenti…”

“Mi è chiaro Blockführer, chiarissimo anzi. La prego, lasci solamente rialzare il signor M., non c’entra niente con la fuga di Y., glielo assicuro. Dorme a fianco a me in branda. Senza di lui sarei già morto di freddo da un pezzo. Mandi me nel bunker.” Gemendo, pian piano, l’uomo coperto di fango si alza. La sagoma lo regge dirigendolo tra i compagni. La riga d’ispezione, e gli uomini ritti che la componevano, si è disfatta senza obiezioni e senza punizioni. Tutti si girano a guardare la sagoma mentre viene portata via, la scena surreale, il suono ovattato, le orecchi palpitanti dal battito del sangue in circolo.

La sagoma cammina tranquilla, sorridente, senza essere strattonata dalle guardie. Nel loro viso da bambini, anche se armati con grossi fucili e tempestati di scintillanti insigne, lo smarrimento. Il sole buca le nuvole e con esso ritorna il suono della brezza, i merli continuano il loro canto, gli astri il loro moto, gli uomini il loro respiro.

~

“Sono morti solo due prigionieri, Herr Kommandant.”

“Herr Lagerführer, quando ho deciso di lasciare la questione in mano sua speravo in una risoluzione rapida e indolore e soprattutto speravo che la faccenda non disturbasse il delicatissimo equilibrio che rende possibile il funzionamento di qualsiasi campo.”

“Nessuno ha mai resistito oltre una settimana nel bunker, Herr Kommandant. Senza cibo, senza acqua, in quello stato, mai avrei pensato che dopo dieci giorni, più della me…”

“Herr Lagerführer, è mai stato in Africa? Ha mai sentito parlare delle lotte tra tribù di scimmie in quelle terre? Sa, ho avuto occasione di studiarle prima della guerra. Deve sapere che laggiù i branchi di scimpanzé lottano brutalmente per i territori e per le risorse, proprio come noi. Bene, da mesi studiavamo un gruppo enorme nell’Africa Orientale Tedesca. La tribù era cresciuta a dismisura e necessitava di più spazio e soprattutto, più cibo. Affianco a loro, viveva una comunità molto più piccola e a tutti gli effetti più debole. Quando finalmente ci fu la lotta, la disfatta della tribù svantaggiata era pressoché certa, ma accadde qualcosa a cui non riesco a smettere di pensare da quando sono qui, tra queste mura. Vede, durante lo scontro alcuni esemplari della piccola comunità vennero spinti all’interno di una caverna sopra la quale avevamo appositamente posizionato i nostri accampamenti. La tribù di casa, che ne conosceva gli anfratti, si lanciò nella caverna senza timore e, dal buio assoluto che ne edificava le viscere, iniziò a urlare. Herr Lagerfüher, io non so dirle se furono delle grida dettate dall’istinto di sopravvivenza o se le alte pareti di quel posto causarono il rumore che sentimmo allora. Le so dire soltanto, che alla fine, le grida terrorizzarono gli invasori e diedero forza ai deboli, i pochi sconfissero i molti.”

“Her Kommandant, glielo garantisco personalmente, non permetterò che alcunché disturbi l’andamento del campo.”

“Caro Herr Lagerführer, non prometta quello che non può e sul suo essere il mio certificato di garanzia non avevo già alcun dubbio, è proprio a questo che servono i Lagerführer, non ne era al corrente? Ora vada, l’aspetto domani per il suo resoconto giornaliero.”

Il Lagerführer uscì imperlato di sudore dall’ufficio del Kommandant. Non riusciva a spiegarsi la resistenza dei dieci prigionieri. Come tutti, aveva sentito i resoconti delle condizioni degli uomini chiusi all’interno del tugurio. I prigionieri, avendo realizzato velocemente il destino a loro riservato, invece che arrendersi, avevano iniziato a pregare, pregare e cantare. Guidati dalla sagoma, i loro canti si sentirono nei locali circostanti, la lavanderia posta a fianco, il locale pattume e smistamento a pochi passi di distanza. Quei locali, assolutamente essenziali per l’andamento regolare del campo, erano perennemente popolati di kapò, guardie e prigionieri. La posizione del bunker punitivo era stata scelta appositamente in prossimità dei prigionieri e degli addetti; un modo subdolo di infiltrare le menti, rammentando a tutti la sorte di chi osava resistere.

L’idea era stata proprio del Lagerführer, allora Blockführer. Tanto bene aveva funzionato il suo stratagemma che Herr Kommandant lo aveva nominato Lagerführer con nota al merito per l’implementazione tecnica di ingegneria sociale volte all’efficientamento del campo. Il metodo venne addirittura esportato in altri campi di simil portata e ciò portò a una lettera di elogio, firmata personalmente dal Reichsführer-SS, la quale, incorniciata e appesa a fianco al letto, fungeva da reliquia per il suo piccolo destinatario. Per quante notti, la lettera fu l’ultima cosa che il neo-Lagerführer aveva guardato prima di prendere sonno, immaginandosi il sorriso paterno di Herr Himmler intento nel porgli una medaglia alla giacca.

Ora, però, la grande idea rischiava di costargli grosso, forse tutto. Per colpa di una manciata di zeloti la stabilità del campo era in pericolo. Dopotutto, se dieci uomini condannati alla fame senza cibo né acqua potevano resistere alla morte cantando per giorni, cosa potevano fare 70.000 uomini con una zuppa al giorno? Una luce sembrava apparire dal luogo più buio del campo. E in un luogo fondato sull’oscurità e sulla totale assenza di speranza, un singolo punto di luce può comportare… “Cosa può comportare?”. Questo si chiedeva il Lagerführer, camminando ansioso per i corridoi del blocco centrale.

Nei giorni seguenti, morirono molti degli uomini nel bunker. Herr Lagerführer ebbe un’altra idea efficiente. La sera dell’incontro con Herr Kommandant si era sdraiato sulla sua branda, tremolante e con la lettera del Reichsführer-SS sott’occhio, aveva iniziato a rimuginare. “Come posso abbattere lo spirito di quei dieci fanatici? Ormai non posso farli fucilare nei boschi, significherebbe fallire agli occhi dell’Herr Kommandant e il mio bunker rischierebbe di sparire e forse pure io…”

Perso nei suoi deliri, il Lagerführer si scavò grattandosi un buco nella parte morbida della mano, tra il pollice e l’indice. Il sangue iniziò a macchiargli le dita e, ripreso dal suo incanto, lo notò d’improvviso. Si alzò di scatto terrorizzato, delle urla pietose e acute rimbombarono nella stanza. Herr Lagerführer era sempre stato impressionato dalla vista del sangue e aveva sempre rifuggito qualsiasi atto di violenza. Il suo sconforto non derivava dall’implicazione morale di questi atti, ma piuttosto da una paura fanciullesca e irrazionale dell’estetica legata a essi. Poteva facilmente svenire al primo fiotto di sangue o al primo brandello di carne. Ancora Blockführer, gli ufficiali colleghi di campo lo avevano iniziato a chiamare ‘Der Rattenmann’, in nome dell’espressione che assumeva nei suoi momenti di paura e svenimento.

Fu durante queste ansie e meditazioni che il Lagerführer trovò una soluzione al suo problema: avrebbe lasciato i corpi esamini dei morti nel bunker, lì dove cadevano. Sperava di demoralizzarli completamente. Anche se non osava immaginarselo, in modo astratto puntava sulla brutalità degli uomini, soprattutto su qualche istinto cannibale.

La strategia si dimostrò fin troppo ben studiata. Gli uomini, non mangiarono mai della carne dei loro compagni, ma morirono ugualmente uno dopo l’altro in pochi giorni. Alla fine, si sentì soltanto la voce della sagoma. Egli trattò ogni cadavere con la stessa cura. Cercò di asciugare e spolverare uno spazio su cui adagiare i corpi, li pettinò con la sola mano e gli chiuse le palpebre. Nel sottofondo di tanta miseria, non cessò mai di risuonare il canto. Le melodie non diminuirono mai nella loro bellezza, il volume non perse mai la sua forza, le note continuarono a risplendere limpide e certe.

Gli altri prigionieri, alle prese con i lavori nei locali circostanti, fingevano una patetica indifferenza. La loro finzione, però, non illudeva nessuno e ora dopo ora si scambiavano sguardi ansanti ogni qualvolta il canto veniva meno. A ogni nota che bucava il silenzio, i volti si illuminavano speranzosi. L’atmosfera si fece elettrica, le guardie ansiose, i prigionieri spavaldi. Il Lagerführer, ogni sera alle 20.00, verificava tremante lo stato del suo incubo e, ogni sera, raggiungeva gli uffici di Herr Kommandant preparandosi alle sue ampollose minacce. Da giorni non riusciva a prender sonno per colpa delle melodie sotterranee perpetuamente riecheggianti nella sua mente.

All’alba del ventesimo giorno, Herr Lagerführer sembrava invecchiato di dieci anni. Si guardò allo specchio, spessi cerchi neri contornavano i suoi occhi, il contrasto con la pelle sottile e chiara lo faceva somigliare più a un avvoltoio che al giovane che si era arruolato solo due anni prima. Non mangiava da tre giorni, le braccia gli parevano troppo leggere e le orecchie gli bruciavano per colpa di una febbre che non risultava al termometro. Passò la giornata nella sua stanza a camminare su e giù per i pochi metri che contenevano il letto e la scrivania, confabulando, piangendo, ridendo. Più volte strappò la lettera di Herr Himmler dal muro, fissandola incantato. Alle 19.00, mandò un sottoposto a controllare il bunker.

~

La sagoma interrompe il suo canto. Non mangia e non beve da 20 giorni, ma non è la secchezza delle labbra, della gola e della bocca a fermarla. No, piuttosto è una luce bianca che si fa sempre più luminosa e distinta sul muro davanti. Inizialmente aveva pensato fosse uno scherzo della mente data dalla stanchezza e dal buio. L’unica lampadina penzolante si era spenta, e lui era rimasto solo, immerso nell’oscurità. Pian piano però, la luce si era distinta in un’immagine, un volto di donna.

Cerca di distinguere quella faccia. Finalmente, gli sembra di riconoscere qualcosa, o meglio, qualcuno, sì, deve essere lei, deve essere sua madre. Non la riconosce subito, data la giovinezza dei lineamenti, tratti che non può ricordare, forse che non ha neanche mai avuto modo di conoscere.

Per la prima volta da quando ha firmato la sua condanna, prova timore. Gli cade il capo. Con il mento sul petto, singhiozza disperato. Gli tremano le spalle, le braccia, le gambe, la pancia. Non vuole morire, tutto d’un tratto si ricorda di quando era ragazzo e sua madre gli faceva trovare una fetta di pane burro e zucchero dopo i giochi con gli amici. Vede distintamente il piatto bianco in ceramica con leggeri rilievi decorativi, rammenta il profumo di pane fresco, anche la voce dell’amico che lo saluta dalla finestra sembra riecheggiare con lui nel buio. Non vuole morire, non vuole morire… Infine, senza poter più distinguere tra sotto e sopra, avanti o dietro crolla a terra, sbatte la testa e galleggia nell’oblio. Non vede niente, non sente niente, non prova niente. 

Il respiro si calma lentamente, apre gli occhi. Ora riconosce il viso di sua madre, è quello che ricorda nei suoi ultimi anni di vita, tra le linee uno sguardo felice, sereno, uguale al suo. Lo ricambia. Con sforzo e intento, si rizza ritrovando stabilità, si ricorda di avere ancora una scelta in quell’oscurità. Può sempre cantare. È libero, anche se in catene. La pace torna come un’onda delicata sulla battigia. Salutando in silenzio il volto che lo guarda tenero, si schiarisce la gola e riprende il canto. Con esso l’universo intero vibra e si assesta secondo le sue modulazioni. Ogni nota, ogni vibrazione, è contemporaneamente immortalata come eterna ed effimero sulla tela del mondo, il quale, immobile, sfreccia a velocità incalcolabile nella buia e fredda trama dello spazio.

~

Ricevuta la notizia del canto continuo nel bunker, il Lagerführer corse in infermeria. Fece chiamare il dottore e preparare una sala. Cacciava ordini senza poter nemmeno sentire le parole che uscivano dalla sua bocca. I colleghi e i sottoposti imbarazzati, obbedirono a testa bassa cercando di intendere le sue volontà. Pronti in meno di un quarto d’ora, sbraitò che portassero immediatamente la sagoma nella sala. Le luci bianche al neon, l’odore di formaldeide e il fischio acuto che gli era apparso senza preavviso lo obbligarono a reggersi alla credenza dei farmaci, sbatacchiava le palpebre cercando di ritrovare un minimo di contegno.

Entrò la sagoma in quell’istante. In viso il suo sorriso. Tra le labbra, il suo canto. Il fischio nelle orecchie del Lagerführer sparì. Alzò lo sguardo, l’uomo gli sembrò immenso, alto quanto un palazzo, una spira che bucava il cielo, scoperchiando il tetto. Osservando il sorriso monolitico davanti lui per un’ultima volta la stanza inizio a roteare. Sbiascicò gli ultimi ordini e svenne sul posto.

Il prigioniero 16850 morì quella sera per via di una iniezione letale di fenolo. La sua morte non scatenò alcuna rivolta e non portò ad alcun cambiamento nel campo; eppure, il suo nome e il suo canto vennero raccontati dai pochi sopravvissuti, liberati più di quattro anni dopo da Auschwitz.

Questa storia è ispirata alla vita di Massimiliano Maria Kolbe. Il suo canto risuona ancora…

Sean Ashmore, nato a Milano nel 1993. Laureato in Filosofia, lavora agli Istituti Edmondo De Amicis. Dalla finestra di casa vede i tetti della città. Tra rotaie del tram e scie aeree sogna di scrivere storie.

La parte per il (quasi) tutto. I sintomi di Umberto Fiori

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di Matteo Cristiano

Umberto Fiori è senza dubbio uno dei poeti più importanti degli ultimi decenni di poesia italiana. Esordiente nel 1986 con Case, è uno dei maestri di poesia che esce dal Novecento e cerca di rifondarsi, dopo il crollo del canone, del campo poetico e dell’istituzione poetica. L’Oscar Mondadori del 2014 ne celebra l’opera, raccogliendo tutta la produzione fino a quell’anno e anticipando un lungo romanzo in versi che uscirà solo nel 2019: Il Conoscente. Seguono due volumi di saggi e l’Autoritratto automatico, l’ultimo libro di versi di Fiori. Queste ultime opere in versi sono raccolte da Garzanti, insieme a tutta la produzione precedente, che pubblica Tutte le poesie nel settembre del 2024. Ora Fiori sta nel pantheon dei Grandi Libri garzantiani insieme a Rosselli, Luzi, Caproni, Campana, Betocchi. A parte la mediocrità fisica di queste edizioni Garzanti siamo ben content* di vedere la consacrazione finale del nostro Fiori, che così in sordina, con le sue poche bravure, si è fatto spazio libro dopo libro nel canone contemporaneo, interpretando magistralmente lo zeitgeist. Al suo Conoscente ho dedicato la mia tesi di laurea magistrale, e non posso dire di essermi annoiato a contare le sillabe metriche e a sistematizzare il ritmo della poesia di Fiori. Quello che mi ha divertito di meno, però, è stato considerare la traiettoria di Umberto Fiori, storicizzandolo. L’idea che mi sono fatto dopo anni di riflessione continua a confermarsi ad ogni occasione. La storia poetica e intellettuale di Umberto Fiori può essere considerata la metafora della storia intellettuale italiana degli ultimi cinquant’anni. Vediamo perché.

Umberto Fiori è stato famoso già negli anni Settanta, quando era diventato la voce e la penna degli StormySix, un gruppo rock-progressive attivo dai primissimi anni Settanta e legato alla controcultura politica sviluppata in seno al ’68 studentesco e operaio. Stalingrado, La Fabbrica, Rossa Palestina, Dante di Nanni, canzoni ormai popolari della cultura politica, canzoni che la Bandabardò può suonare sul palco del Collettivo di Fabbrica exGKN. Poi il gruppo si è sciolto, ma prima che si sciogliesse il gruppo era già la cultura politica che andava sciogliendosi. Dal ’68, per più di dieci anni, la società civile italiana era invasa dai temi politici, dall’attivismo, dalla prassi. La politica era direttamente implicata nella quotidianità delle persone: diritti civili, rivoluzione, partito comunista ecc, tutta una mitologia (come la consideriamo ora) che tuttavia era condivisa dal basso, dalla base. Così come era successo nel 1943, l’ondata di contestazioni del 1968 e dintorni aveva imposto la parola d’ordine del politico e gli stessi intellettuali, forse soprattutto loro, erano implicati in questo discorso. La cultura, i mezzi critici e artistici erano al servizio della causa, di quel “noi” che il socialismo si immagina(va).

Poi, sappiamo come sono andate le cose (ma forse non lo sappiamo ancora così bene): tardo capitalismo, postmodernismo, esclusione delle utopie, stigmatizzazione della cultura di sinistra, regressione, individualismo, consumismo di massa, washing vario. Come sempre succede, il capitalismo era riuscito ad addomesticare le contestazioni, a screditare tutte quelle posizioni che non si adattassero al compromesso che andava imponendosi al mondo occidentale: puoi fare la sinistra solo se non sei anticapitalista, su tutto il resto puoi rompere (decorosamente) le palle. Idee, riflessioni, speranze, utopie messe da parte, crollate insieme all’URSS e shakerate in un ottimo cocktail martini in salsa berlusconiana. Se già Gramsci si ricordava dell’implicita ipocrisia degli intellettuali italiani, non ci stupisce vedere come poi ci si sia irrimediabilmente accucciati. Gli anni Ottanta sono stati il liberi tutti della politica: la responsabilità individuale dell’elettore è scomparsa, il distacco tra politica istituzionale e quotidiana espressione politica della cittadinanza fattosi così grande da dover lanciare una teleferica kilometrica.

Tutto questo cedimento, chiaramente, ha provocato una grave crisi sovraindividuale della quale ancora subiamo le conseguenze. È proprio in questo momento che la sconfitta politica, invece di diventare volano per l’aggiornamento di pratiche e di teorie, diviene il momento della rimozione: rimozione del trauma, delle possibilità, delle lotte.

Per tornare a Fiori: il gruppo si scioglie, Fiori passa dalla musica alla poesia, risponde a questo trauma sviluppando una poetica, in senso forte. Il volume garzantiano è importante perché leggendolo dall’inizio alla fine possiamo tenere traccia di questa poetica, che si fonda in gran parte sullo statuto della soggettività e sulla problematica etica. Nei primi libri di Umberto Fiori la prima persona singolare, l’Io, resta categoricamente escluso: il soggetto lirico forte ha cessato di esistere, ha finito di essere una ontologia in grado di formare la struttura cognitiva degli individui che di conseguenza lo ridiscutono, lo estromettono. Poi pian piano questa soggettività ritorna, radicalmente mutata, fino all’autofinzione e poi all’autobiografia, rispettivamente ne Il Conoscente e nell’Autoritratto automatico. Fino al Conoscente, del 2019, trentatré anni dopo il primo libro, la lotta politica non rientra nelle poesie di Fiori. È completamente rimossa. Quando ritorna nel romanzo in versi è messa in discussione, osservata da lontano, come una ubriacatura dell’adolescenza. In Autoritratto, si parla di maschere, come di un teatro. Sembra che in quegli anni, nei Settanta dell’«ortodossia del dissenso», per usare le parole di Alfredo Giuliani, si abbia puramente sognato.

Tempo fa avevo parlato di Olindo, un personaggio becero del Conoscente, sostenendo come Olindo fosse l’ideal tipo dell’italiano medio. Mi accorgo solo ora, dopo aver ricostruito un po’ di storia culturale del nostro paese – dove l’impegno politico è sempre stato una sfumatura del pensiero dell’intellettuale – che Fiori rappresenta solo il lato cosciente di quell’Italia media, il lato più disilluso e, probabilmente, addomesticato. Il trauma degli anni Settanta e Ottanta ha provocato una regressione nel pensiero radicale italiano, e quella generazione che, giovane, aveva corso nei cortei studenteschi e operai si è rimessa le mani in tasca, ha smesso di crederci e ha iniziato, conformandosi al senso comune, a stigmatizzare le nuove forme di dissenso. Questo non vuole essere un discorso colpevolizzante, ma semplicemente la registrazione dello svolgimento di un discorso culturale. L’estromissione della politica nella poesia di Umberto Fiori è sintomatica rispetto alla rimozione dei discorsi politici nella cultura generale media italiana.

Tutto ciò si è svolto senza che, nella cultura istituzionale e dominante, vi sia stato spazio per l’autocritica, la storicizzazione, l’aggiornamento. Al berlusconismo non si è saputo rispondere, e l’egemonia culturale si è stabilizzata su un discorso superficiale, tra zecche, benpensanti, buonisti eccetera eccetera. Forse qui, sì, con il silenzioso beneplacito di tutta quella classe intellettuale italiana che non sentiva più necessario, perché non determinante, opporsi con le proprie armi, e magari con altri strumenti, a discorsi culturali ideologicamente orientati. E ancor di più, l’azione politica viene screditata se accompagnata da un corollario estetico, creativo. Il lungo e in verità mai cessato discorso sulla letteratura e la realtà viene deriso sulla scorta di luoghi comuni che riportano al Neorealismo, a Zdanov, agli anni Settanta, senza che si riesca veramente ad entrare nel discorso, senza visualizzarlo con i pregiudizi della sconfitta. Quando si ragiona di inserire quello che è, ricordiamolo, un fenomeno sociale (e come tale soggetto a manipolazioni, gerarchie, illusioni, convenzioni) all’interno di una più ampia concezione del mondo – una concezione attiva e non passiva – si scade immediatamente nella bagarre del “cambiare il mondo con la letteratura”. È risibile come idea, e dimostra quanto non si prenda sul serio il tipo di approccio intellettuale che non autonomizza il fatto artistico. Parlare di letteratura impegnata, ora, può essere ridicolo: come è ridicolo valutare fatti sociali, necessità emergenti, con gli occhi gerarchici e determinati del passato. I Neorealisti, secondo i dominanti ermetici della torre d’avorio, sporcavano la poesia con dei contenuti che non corrispondevano alla forma; i giovani sessantottini che richiedevano per sé la possibilità della creazione artistica o sostenevano l’idea dell’azione erano dilettanti; il neo-impegno underground fenomeno di tossici senza possibilità teoriche o estetiche: la storia sociale della poesia del Novecento è la storia di una classe dominante che garantisce autonomia alla letteratura – e in questo modo all’ideologia – e una classe dominata che cerca di abbassare il letterario rasoterra, all’altezza di tutto e di tutti.

Non so se Umberto Fiori abbia smesso di credere nelle possibilità, chessò, di un’assemblea di collettivo, o anche di un’assemblea di condominio. So, tuttavia, che queste pratiche politiche sono ancora la base della cultura politica delle generazioni che oggi bloccano le strade, occupano case sfitte di proprietà dello stato, provano a prendere parola nei luoghi del potere – luoghi dove la loro parola non è considerata. Generazioni che, sì, fuori dallo sguardo cinico della cultura istituzionale, vivono politicamente la loro vita quotidiana, tanto da scriverci anche delle poesie. So anche che queste generazioni sono quelle che vengono sbeffeggiate, stigmatizzate, prese per il culo, etichettate, sottovalutate, censurate nei luoghi dove si fa la cultura di massa, nei giornali e nelle televisioni, e vengono sbeffeggiate da quelle generazioni passate, dei nostri nonni o genitori, che hanno pur visto gli operai guadagnarsi i diritti sul lavoro, le femministe guadagnarsi diritti civili, subalternità che riuscivano a ribaltare forme di potere con l’azione, la prassi, la comunità. Generazioni che fanno della letteratura, della scrittura, delle arti uno strumento di conoscenza e di definizione dell’esistente, generazioni che conoscono l’arbitrarietà dell’estetica e dell’autorità. Una letteratura strumentale, perché no. Alla fine, basta riconoscere placidamente che lo è già: la produzione letteraria è già strumentale all’ideologia e alla concezione del mondo che l’ha prodotta. È la doppia realizzazione del mondo sociale: le norme della società si realizzano fuori di noi e dentro di noi, e noi stessi, con la nostra vita, le riproduciamo.

Non serve che lo dica io che la forma contemporanea del capitalismo ha soffocato quelle forme di pensiero alternative, quelle che permettono di svegliarsi la mattina e chiedersi se sia giusto il proprio modo di fare e se non si possa imparare altro, e di conseguenza fare altro. Spesso, quelle persone che hanno vissuto la cultura politica dell’ultimo Novecento sono quelle meno disposte ad ascoltare i ragionamenti che escono dalle assemblee dei collettivi e delle associazioni. E chi è venuto dopo, chi è venuto dopo il trauma, ha vissuta già nella rimozione. Eppure, in sordina, fuori dalle telecamere potenti, la controcultura si è svolta, è andata avanti arrancando. Studiando la questione intellettuale ed engagé del secondo Novecento, ci si rende conto di quante cose vere abbiamo già detto e ci siamo dimenticat*, quanta esperienza abbiamo macinato, quanto possibilità abbiamo proiettato. Negli infiniti rivoli del discorso che lega riflessione, azione politica e fatto letterario, credo che qualcosa ancora si debba discutere.

Il Conoscente di Fiori, per il suo carattere retrospettivo, può essere un ottimo flashback per riflettere su questi ultimi cinquant’anni di storia culturale dello stivale. Ci sono le speranze, i traumi, i regesti, i blocchi, le paure. E per quanto dia la speranza di un’apertura sul mondo, sugli altri, il romanzo in versi si conclude come si conclude la giornata di ciascuno di noi, nella individualità, nel ripiegamento sul sé:

 

Ho alzato gli occhi.

in mezzo al mare, laggiù,

ho visto avvicinarsi la mia nave.

 

Spesso, almeno alle mie latitudini, si ha l’impressione che una certa vague nuovamente impegnata si stia facendo largo. O almeno, che i discorsi sulle gerarchie della produzione culturale e sul suo asservimento si stiano espandendo sempre di più. Come già ciclicamente avvenuto, le nuove generazione entranti nel campo (letterario, politico, accademico) percepiscono la stasi e, nel migliore dei casi, fanno autocritica e criticano il sistema in cui sono inseriti. Il femminismo, il decolonialismo, le subalternità hanno dimostrato come quella della separazione oggettiva della cultura sia una concezione frutto dell’ideologia neoliberale, e in questo si dimostra violenta, censoria, discriminante. Una grandissima fetta di lettori e lettrici preferisce leggere il saggio sulla scrittura dal margine o il libro autoprodotto stampato grazie ad un crowdfunding piuttosto che leggere il bel romanzo: bello secondo un’estetica deteriore, stancamente ereditata. Una nuova parabola deve scriversi, la parabola che parte dal ripiegamento su di un sé debole e autocompiaciuto del fatto culturale ad un sé forte perché comunitario, costruito collettivamente e con il sangue della critica, che non discrimini la forma e che si faccia strumento di incontro. Il che vorrebbe dire che non è, appunto, un libro sulla comunità che si vuole, ma un libro della comunità, un libro che non imponga interessi e disposizioni estetiche. Intanto, il libro che raccoglie l’opera di Umberto Fiori deve essere letto con attenzione, con tutte le premesse storico-culturali che ci permettono di verificare non solo una poetica letteraria, ma forse una poetica del sintomo, una poetica della cultura. Memorabile resta Voi, del 2009, il luogo testuale che, a mio parere, meglio rappresenta quella frattura interiore tra interno ed esterno, fra realtà e proiezione. E il Conoscente, chiave di lettura di tutta un’opera, deve ancora insegnarci come ci si può allontanare da sé, deindividualizzarsi, vedersi da fuori.