Home Blog

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

1

di Jamila Mascat

(Tim & Puma Mimi, Oh My Bike, 2019)

Nonna Anna avrebbe detto “sempre meglio che una disgrazia”. Lo ripeteva con nonchalance ogni volta che – e, spesso, per quel che mi sembra di poter ricordare – perdeva un documento, un portafoglio, una chiave di casa. Perfino dopo uno scippo che nel 1985 le era costato trecento o quattrocentomila lire. Da piccola non riuscivo a immaginare una disgrazia senza contemplare la fine del mondo, perché tutto il resto apparteneva alla categoria del sempre meglio. Crescendo, però, ho imparato che anche il dispiacere vuole la sua parte, discretamente e senza clamore. A volte le cose semplicemente dispiacciono. Come la settimana scorsa che mi hanno rubato la bicicletta. Ho reimparato ad andare in bicicletta a 42 anni, dopo 30 anni di astinenza, senza aver mai coltivato alcun feticismo delle due ruote, senza aver mai partecipato a una Critical Mass, senza aver mai nutrito un grammo di ammirazione per i ciclisti vestiti da ciclisti che affannati in fila indiana arrancano sulle strade provinciali la domenica mattina presto, i fanatici del vélib parigino, gli irriducibili che si lanciano nel traffico maleodorante di Roma con o senza casco, gli inossidabili impermeabili che sfidano la pioggia battente di Amsterdam. Al culmine dell’orrore i sellini: stretti, squadrati, appuntiti, rigidi, ridicoli anche se ergonomici, per cui ho sempre provato un’inspiegabile repulsione. Poi sotto la pioggia di Amsterdam, che non è sempre così battente come la credevo, ci sono finita anch’io e sono stata catapultata in un universo della mobilità fino ad allora sconosciuto, ad andamento lento ma non troppo, alternando omafietsen (le bici della nonna, che frenano retropedalando) e bakfietsen (le bici cargo su cui si caricano bambini, cani o oggetti di grandi dimensioni).

(Shadi Ghadirian, Qajar #6, 1998)

La scoperta della bicicletta è stata un’iniziazione alla settima dimensione dei trasporti terrestri. Perché la velocità e la visuale in bici non hanno nulla a che vedere con quello che offrono piedi, treni, auto, tram, bus, quad e motorini. Pedalare è panta rei. Un pezzo pubblicato sul San Francisco Chronicle il 25 gennaio del 1879 – San Francisco a fine Ottocento è l’avanguardia ciclistica degli Stati Uniti –  e intitolato “The Winged Heel” (Il tallone alato) rende omaggio a “l’euforia della bicicletta” celebrando “un’estasi di trionfo sull’inerzia, la gravitazione e gli altri pigri vincoli che ci trattengono”.  In bici, conclude, “You are traveling! Not being traveled!”

(San Francisco, 1870).

Così, l’euforia della bicicletta ha riattivato anche in me quel residuo di ostinazione infantile, a dispetto dell’età, che di fronte al non sapere rivendica ossessivamente il diritto di capire tutto, l’utile e l’inessenziale – Come si raddrizza un manubrio storto? Come si allacciano i catarifrangenti ai pantaloni? Come decorare a festa i raggi delle ruote, ma soprattutto perché? – fino ad essere risospinta alla domanda sulle origini – ma chi ha inventato la bicicletta? –  per rimbalzare sugli orrori estrattivi del caucciù.

Come nel caso di tante invenzioni, perfezionate nel corso dei secoli, anche la bicicletta è il frutto di un general intellect che si è dispiegato lungo circa un secolo per arrivare a produrre un dispositivo su due ruote che somiglia alle bici che conosciamo. In questa staffetta di eureka si susseguono il velocipede (o draisina), ideato nel 1817 dall’aristocratico tedesco Karl Drais, la Treadle bycicle (1839) a pedali, ma senza catena, costruita dal fabbro scozzese Kirkpatrick Macmillan, la Michaudine di Pierre e Ernest Michaud (1869) che sposta i pedali in avanti, sulla ruota anteriore, quest’ultima in crescita esponenziale fino ad arrivare al Grand bi che sfoggia 150 cm di diametro (1870). E ancora la prima bici con catena (1880), fabbricata dal londinese Harry Lawson, e infine la Hirondelle (1900) – la bici dei poliziotti francesi il cui nome deriva proprio dall’aspetto dei ciclisti che indossavano un mantello nero e si aggiravano con ali di rondine –  la cui sagoma già ricorda da vicino la silhouette di una bicicletta dei nostri giorni. Senza addentrarsi nei meandri delle catene, degli ingranaggi e dei freni, di cui l’evoluzione meccanica rimane per me incomprensibile, non si può parlare di bici senza inciampare nel mistero delle ruote e dei materiali di fabbricazione di questi cerchi magici, e poi la fattura, la consistenza, la resistenza, la resilienza. E come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario sugli imperi coloniali.

È soltanto alla fine del 1800 che la gomma diventa un ingrediente fondamentale per la costruzione delle biciclette, mentre fino ad allora circolavano soltanto ruote rigide e non ammortizzate, di legno e metallo Nel 1888 sembra che il chirurgo veterinario scozzese John Boyd Dunlop, osservando il figlio pedalare con fatica in sella ad un triciclo su un pavimento accidentato, si sia posto il problema di come fare per ridurre i contraccolpi. Allora avvolge le ruote con strisce di gomma incollate e gonfiate con una pompa meccanica creando la prima rudimentale camera d’aria della storia. Nasce così il pneumatico, e nasce nel 1890 la Dunlop Rubber che brevetta e commercializza con successo le ruote di gomma. Édouard Michelin l’anno successivo perfeziona l’invenzione di Dunlop e costruisce il pneumatico smontabile, facile e rapido da riparare, con cui Charles Terront nel 1891 vince la corsa ciclistica Paris-Brest-Paris. Inizia così l’età dell’oro della bicicletta che realizza il sogno di libertà di chi non può permettersi le carrozze (né le neonate automobili) e delle donne della buona società.

Nel 1895 si contano 7 milioni di biciclette in tutto il mondo. Dunlop, Michelin, Good Year, Continental, Pirelli fanno impennare la domanda di caucciù per fabbricare pneumatici di gomma. La gomma non è una novità assoluta, già intorno alla meta dell’Ottocento viene utilizzata nelle ferrovie o nell’industria militare per produrre scarpe, stivali, protezioni per baionette, teli, borracce, bottoni, e anche protesi ricostruttive. Soltanto l’invenzione del pneumatico e il boom del ciclismo, però, inaugurano la corsa al caucciù. La gomma sintetica fa la sua comparsa solo dopo la prima guerra mondiale; fino ad allora viene ricavata dal lattice prodotto dagli alberi della gomma (l’Hevea bresiliensis o siringueira) in Amazzonia e dalle viti selvatiche (Landolphia) del Congo. La giungla congolese e la foresta amazzonica (e solo successivamente le piantagioni del Sud-est asiatico) saranno per un quarto di secolo circa i luoghi di estrazione del caucciù per excellence. Così, mentre l’Europa e l’America del Nord si godono la libertà delle due ruote, sotto l’Equatore milioni di individui vengono condannati dalla gomma ai lavori forzati.

In The Thief at the End of the World: Rubber, Power, and the Seeds of Empire (2008), lo storico Joe Jackson racconta che la popolazione dello Stato Libero del Congo, in realtà proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II dal 1885 (Conferenza di Berlino) fino al 1908, passò da 25 milioni a 10 milioni, sacrificando 15 milioni di morti sull’altare del caucciù. Un simile destino toccò in sorte alle popolazioni indigene del Putumayo tra il Perù e la Colombia. Leopoldo II non mise mai i piedi in Congo, amministrando a distanza i proventi del caucciù prodotti dalla Anglo-Belgian India Rubber Company, rifondata con capitale unicamente belga nel 1898 come ABIR Congo Company. A vegliare sui dannati del caucciù furono predisposte le milizie della Force Publique, truppe di mercenari, volontari ed ex ufficiali degli eserciti europei (belgi, italiani, danesi, svedesi, norvegesi) amanti dell’avventura, del sangue e delle punizioni corporali.

Alice Seeley Harris, missionaria inglese in Congo considerata come l’iniziatrice di una delle prime campagne internazionali per i diritti umani, raccoglierà centinaia di foto con la sua Kodak, documentando per la prima volta gli orrori delle mutilazioni inflitte quotidianamente alla popolazione congolese per sostenere il ritmo della produzione della gomma. All’inizio del 1906, Alice Harris e suo marito John viaggiano negli Stati Uniti proiettando in 49 città, con il supporto delle lanterne magiche in voga all’epoca, le immagini scattate da lei. Alcuni di questi scatti, quello stesso anno, saranno pubblicati dal quotidiano New York American durante una settimana.

Nel King’s Leopold Soliloquy (1905) Mark Twain aveva indirettamente reso omaggio alla fotografia militante di Harris per bocca del re Leopoldo che, nel corso di un’oscena apologia di se stesso, agita lo spauracchio dei missionari  – “They travel and travel, they spy and spy!”-  e della macchina fotografica – “Then that trivial little Kodak, that a child can carry in its pocket, gets up, never uttering a word, and knocks them dumb”.

Nsala, di Wala, nel distretto di Nsongo a sud di Kinshasa, fissa la mano e il piede di sua figlia Boali, amputati. 14 maggio 1904 (Alice Seeley Harris).

 

“Esperimento su Bòttego”: un nuovo e-book di Nazione Indiana

0

Un nuovo e-book di Nazione Indiana

di Andrea Inglese

Nazione Indiana, nonostante la sua un po’ spaventosa longevità, mantiene una sua giovanile inquietudine, una sua curiosità onnilaterale e poco addomesticata, anche se nel mondo letterario più si è domestici più si vive tranquilli. Segno di questa irrequietezza sono i suoi slanci editoriali, che in passato hanno prodotto incursioni puntuali, ma meditate. Alludo ai tre titoli della collana “Murene”, tutti volti all’altrove (Stephen Rodefer, poeta statunitense, curato e tradotto da Andrea Raos; Ingo Schulze, narratore tedesco, curato e tradotto da Stefano Zangrando; Miguel Torga, scrittore portoghese, tradotto e curato da Massimo Rizzante) e nati da una costante passione di condivisione, che ancora oggi non può non caratterizzarci, in quanto blog collettivo, entità policentrica e dialogante. Ai tre volumi cartacei di “Murene”, si affiancano però anche quattro e-book, che hanno la principale caratteristica di raccogliere una pluralità di voci, sia interne che esterne al blog. A parte 25 passi in file indiani, nato come raccolta libera di pezzi apparsi su Nazione Indiana a firma dei suoi redattori, sorta di “carotaggio” estemporaneo rispetto alla ricchezza dell’archivio, gli altri tre si concentrano su questioni d’attualità, cercando di “stringerle” attraverso la diversità degli approcci (e-book sulla “responsabilità dell’autore”, sugli “attacchi terroristici in Francia del 2015”, sull’esperienza della “pandemia di Covid-19”). A queste iniziative va ad aggiungersi, il volume collettivo Piccolo vocabolario autostradale a uso dei contemporanei, a cura di Gianni Biondillo.

Oggi vi presentiamo un nuovo e-book, stavolta non si tratta di una traduzione né di un lavoro collettivo. Il caso come sempre lavora per noi, dal momento che tendenzialmente anarchici come siamo non potremmo permetterci programmi di lungo periodo. Esperimento su Bòttego nasce da un “primo” esperimento, da un primo pezzo che Fabrizio Bondi, amico e attento lettore del blog, mi ha proposto di pubblicare (26 aprile 2022). La prima frase diceva: “Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto”. Il carattere anomalo, installativo, sperimentale, politico, di quel testo (corredato da fotografie), mi aveva subito convinto. E la sua fuoriuscita dal laboratorio privato ha permesso a Bondi di testarne la “resistenza” alla pubblica lettura e, chissà, ha magari contribuito a suscitargli il desiderio di radicalizzare quel primo accerchiamento / malmenamento di una celebrata figura di esploratore, militare, scienziato, avventuriero, a cui il colonialismo crispino aveva lasciato mano libera nel Corno d’Africa.

L’attuale e definitiva (?) versione di Esperimento su Bòttego arriva giustamente in ritardo rispetto a una recente ondata di attivismo decoloniale diffuso, che si è tradotto in più o meno riusciti sbullonamenti di monumenti possibilmente equestri, o comunque agghindati d’elmi, panciotti e sciabole. Ma è questo che c’interessa: con una zampata che accoglie il lato più corrosivo del post-moderno, Bondi sganghera ludicamente e perfidamente il Vittorio Bòttego, che campeggia intatto davanti alla Stazione di Parma. Mette mano alle opere di questo, riscrivendo, rimontando, sforbiciando. Nello stesso tempo, ne fa un racconto della propria infanzia, della propria vocazione mancata, di naturalista. Una tale opera imbarazzerebbe ovviamente l’asse editore-libraio. In quale collana e genere lo infiliamo? E in quale scaffale? Nazione Indiana non s’imbarazza di questa incollocabilità, nata da una del tutto avverata attitudine sperimentale. Ringraziamo, quindi, Fabrizio Bondi, che conoscevamo come studioso del Rinascimento e critico militante. Ora lo scopriamo scrittore di ricerca.

Un’ultima riga sul tema. Il pensiero decoloniale non è estraneo a Nazione Indiana, così come non lo è l’attenzione alla storia del Ventennio fascista, che riportò in auge miti, velleità e atrocità dell’imperialismo colonialista inaugurati nell’era crispina. (Ricordo, per altro, che Igiaba Scego è stata per un certo tempo, e sicuramente non invano, in Nazione Indiana.)

Il testo che segue, di Giuditta Bassano, introduce più approfonditamente di quanto abbia fatto io il nuovo e-book di Nazione Indiana. Un grazie particolare a Orsola Puecher e Jan Reister, senza i quali nulla di queste prelibatezze digitali sarebbe possibile.

*

L’esploratore esplorato

di Giuditta Bassano

Vittorio Bottègo (1860-1897), giovane aitante capitano d’artiglieria, è stato protagonista di una serie di avventure nel Corno d’Africa; attraverso queste vicende, assurse a eroe del colonialismo crispino. Come esploratore di alcune aree fluviali della Somalia e dell’Eritrea Bòttego fu naturalista ma anche uomo d’armi di indiscussa violenza, emblema di un razzismo italico alquanto poco transeunte. Vittorio Bottègo era nato a Parma: davanti alla stazione della sua città esiste tutt’oggi un monumento che ne commemora il coraggio e le imprese. Fabrizio Bondi parte da qui, cioè dall’eredità sinistra di un monumento, “l’accrocchio”, di cui appare difficile riconoscere oggi l’appropriatezza. L’autore si immerge allora nella “pelle linguistica” del Bòttego, perché l’eroe parmigiano aveva eretto “un altro monumento, un monumento a se stesso” mettendo per iscritto i suoi viaggi. Potremmo parlare di una guerriglia ventriloqua, o di una poetica (sperimentale) della vendetta.

Ariostista e professore di letteratura italiana, Bondi arma infatti la  propria sensibilità letteraria e il proprio dominio della metrica italiana (contro la retorica italica dei resoconti dell’eroe) per “montare” una testimonianza su Bòttego con le sue stesse parole. Un esperimento di pidgin politico, in cui le immagini dell’esploratore, le sue impressioni in terra africana, la cosmogonia patriottica di epoca crispina forniscono un bacino semantico che Bondi stravolge attraverso una sintassi inaudita. Saggio e testo letterario insieme, un po’ in prosa e un po’ in versi, “Esperimento su Bòttego” è un lavoro che più che leggere si può piuttosto frequentare e abitare, entrando da un punto qualsiasi del suo congegno narrativo, persino cominciando, se si vuole, dalle note finali. In questa esplorazione ci si imbatterà in una serie di appunti filosofici sul concetto di monumento, nei rapporti tra Bottègo e Carlo Dossi, nelle raggelanti descrizioni dell’efferatezza coloniale, ma non meno nella fauna del Corno d’Africa e nella saggia battaglia che le piante di fico muovono indefesse contro le statue e le opere umane di ogni sorta. È probabile che se ne riemerga convinti, con Bondi, che la “pasta, la materia della lingua, è tutto”.

⇓⇓⇓

 

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato epub

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato mobi

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato pdf

Lo Scuru di Orazio Labbate, nuova edizione Bompiani

1

 

Primo capitolo del romanzo di Orazio Labbate

 

Piazza Dante.

Poggio le mani sui lastricati in ardesia, i miei sedili artigianali, voglio fottermi la frescura ficcatasi nelle fessure buie della pietra. Il caldo s’alza dai capannoni bruciati e le nuvole diventano nere. Io sono nato sotto quelle nuvole nere; ci mangio come i cani quando divorano le carcasse dei buoi nei rettilinei verso Gela, ci mangio pane e uovo, uovo e ciliegini spaccati in due, azzanno anche le ossa del pollo e manco mi scanto, non mi caco nei calzoni. Questo caldo fuori stagione. Le scarpe, rovinate, me le sento avvampare, sembrano zone carsiche erose dal fuoco, nei buchi entrano lucertole minuscole, alzo il piede solo per calpestarle. In Piazza Dante, a Butera, d’inverno, le putìe sono serrate, mentre i bastardi assettati si nascondono nelle loro cucine e i termosifoni tossiscono mosche. Le ali rimaste s’attaccano tra le viuzze, il fieto del troppo friddu si mischia agli scarti del macellaio Sciandrù e le bestemmie, che rimbombano dai soggiorni aperti lungo i vicoli, si sciolgono negli orecchi quando mi calo con la testa dentro l’acqua fredda della fontana.

Solo. Io sono da solo, dentro la piazza.

Palpare la morte di un cristiano non m’aggrada, preferisco gustarmela, succhiare fino al midollo il folclore della dipartita siciliana. Quando s’aprono le case, per mostrare il cadavere con la sua pelle screpolata, livida, come di pollo crudo, mi introduco nella camera ardente casalinga, a odorare quel profumo di gesso friscu. Gli insetti si inerpicano sul ventaglio delle comari, sfilettano impudichi la trama di raso nero e poi si posano sulla bara: legno bello lucidu, di modo che scintilli la cassa dò muortu. Mi brillano gli occhi a ogni ricorrenza, mi brilla l’anima perché io non sono crepato. Le palpebre delle vecchie che si prefigurano la stessa sorte, l’ambiente, che mi porta a benedire il respiro lesto dei miei anni, le conversazioni sottovoce dei presenti:

“Come minchia è morto?!”
“Come se l’è preso u Signuri?”
“Stava in grazia di Dio?”
“Era un disonesto, sa pigghià ìntra u culu.”
“Era a merda, a merda della sua famigghia.”
Mi interesso agli appellativi, mi inorgoglisce discutere del poveretto, in silenzio, mentre la puzza dei fiori e il rancido sole scolorito sui mobili puntella la comicità dello scenario.

Aspetto il buio.

I completi del “cu murìu”, spacchiusi, scintillanti; le scarpe quasi leccate da una vacca incinta che s’alluminano a contatto con i riflessi del pomeriggio assolato, mentre c’è anche chi sputa sul palmo della mano per rizzittare il capello del morto per poi stuiarsi sui pantaloni dello stesso. Alcuni benedicono, altri condannano e in mezzo a quella scena i corpi, scorticati dai ventilatori, respirano a malapena, con i pantaloni appiccicati alla carne mentre quella stessa carne, che nel poveretto s’era rattrappita per volontà divina, non può riesumarsi nemmeno di fronte all’acqua benedetta, conservata nelle boccette a forma della Madre di Cristo. Nuddu poteva fare il miracolo, poteva succhiare la ciolla dura che ha il sole siciliano! “Cu mori, mori,” chi è morto è morto: non c’è minchia, fiamma, Spirito Santo o ampolle sacre che tengano. Me l’ha sempre spiato solo Zù Guglielmo, l’unico che ha capito cosa fosse u fuocu.

Nelle mani buteresi degli Spiteri, i becchini, nelle loro mani da muratori golosi di fosse da scavare, sta il corpo del dipartito. Il rito è sempre il medesimo. La Pilato Mercedes, i crisantemi stagionati colmi di vespe, il loro “ora ca muriu ni faciemmu i sordi”, il percettibile terremoto quando l’auto percorre la scala reale che allaccia Butera Bassa a Butera Alta, affinché i morti raggiungano il cimitero; il cuore secco dei parenti, come piante della macchia tranciate dallo scirocco ossidrico, i Gloria al Padre dentro l’abitacolo della macchina, e non c’è il mare, per i morti, e i parenti dei morti non possono vedere il mare, ché la sepoltura finale non ha quell’orizzonte limpido, e Butera è stinnicchiata in collina.

Io degli Spiteri amo la precisione, la coerenza nel timbrare, con un bollo di cera rossa, la caviglia del muortu, il loro farne una pecora numerata, una di quelle pecore strammate che incontro quando raggiungo Gela. Scappano da una roccia, le bestiole, lasciano pagliericcio fituso e fumoso, scattano dai burroni quasi calciati via dal culo storto del diavulu, insudiciano la provinciale. Altre volte si fanno investire, crepano lasciando la lingua buttata sui denti, penzolante e frisca. Te ne accorgi di notte, mentre viaggi, quando la luna è china e dentro c’ha il futuro degli animali perché deve fartelo vedere.

Per gli Spiteri i morti sono come gli animali: devono essere sacrificati, congelati, mostrati al miglior sguardo sofferto, offerente, e compressi nel proprio nuovo appartamento. Sono le regole, le regole per avere la minchia dura, per differenziare una morte dall’altra, tecnicamente, per imparare ad averla, per fare il becchino, e per coricarsi senza il rischio di scantarsi della propria faccia o del sempiterno aroma di lilium che avvolge anche le onde del Mediterraneo, dove non riusciresti a distinguere il buio del fondale con il buio del dormire! C’avevo empatia, c’avevo distacco partecipato, provavo compassione e versavo lacrime come un copertone che finge di forarsi sotto il vento africano, quello che t’ammacca senza torcerti. I copertoni di gomma nera, abbandonati ai lati della via, poco prima del sentiero per il cimitero: i copertoni che paiono introdurre “il posto” dei loculi costruiti per la decomposizione dei vutrìsi scaricati da dio: il cimitero, la discarica della morte.

Lassù, c’abitava Concetta, mia nonna.

Piccola, una nana lavandaia con l’amore per le uova, le frittate, cattolica sino alla stampa nera sul dito ciccione, dove si incarcava il rosario ad anello. Era un minuscolo cagnaccio, col grasso e la pancia piena di latte, un mammifero carico di figli, una cagnola che si trascina verso il Belvedere per lasciarsi cadere all’ombra del castello normanno.

Di fronte alla sua casa: il castello arabo-normanno, una villa secentesca, un orfanotrofio e un’altra casa colonica, sempre chiusa. Quattro esemplari di solitudine siciliana, quattro catacombe per sotterrare la propria esistenza mentre tutti i cristi a quattro zampe ficcano tra i cespugli incucchiati, e le gazze si affrettano a caricarsi il mangiare che il sole piano piano risucchia. I cardellini, invece, Concetta li faceva ingrassare. “Volatili a forma di baccello di cìciru verde,” diceva. Se n’è andata, Concetta. Morta, con sdillìnio, come frittura di pepi saraceni. C’era il tramonto a Butera, quella volta, mi hanno raccontato. Quel tramonto che s’appiattisce tra le case in una sorta di milza pressata dentro due lembi rozzi di pane cattivo. Oleoso. Freddo. Mia madre Angelina s’era recata, per staccare la corrente, in via Archimede, dove stava la casa che condivideva con la madre. Aveva scoperchiato il vaso di ceramica, al centro del tavolo della cucina, dove da una vita nonna Concetta conservava i nucatoli, i biscotti di Butera. Fu solo a quel punto che Angelina, una volta raggiunto il salotto, fece la scoperta del corpo della madre. Per terra, con gli occhi spirdati, un uccellino scuro che non riusciva ad uscire dalla stanza.

“Perché te ne sei andata, nonni?”
“Perché non mi hai lasciato dire le ultime cose?”
Mi ha lasciato negro, a Butera, come la solitudine di un arabo sotto il castello, pronto per essere sacrificato evangelicamente, nella tua dimora, a mangiare biscotti. E quello che mi resta, ora, è raccontare la mia storia. Come sono arrivato fino a qui.


Orazio Labbate, nato nel 1985, ha pubblicato i romanzi Lo Scuru (Tunué, 2014), Suttaterra (Tunué, 2017) e Spirdu (Italo Svevo Edizioni, 2021), e i saggi Atlante del mistero (Centauria, 2018), Piccola Enciclopedia dei mostri (Il Sole 24 Ore Cultura, 2016), Negli States con Stephen King (Giulio Perrone editore, 2021) e L’orrore letterario (Italo Svevo Edizioni, 2022). Ha ricoperto l’incarico di giurato della XXXV edizione del Premio Calvino e collabora con la Lettura – Corriere della Sera. Dirige la collana di narrativa italiana, Interzona, per Polidoro editore.

Il contenitore è il suo contenuto: su “Stellare nero” di Alessandra Greco

0

di Antonio Devicienti

 

Contenere un centro vuoto intorno a cui ruotare e continuamente ri-articolarsi pone la questione di un pieno che ha bisogno del vuoto per assumere senso e per esistere in un moto incessante e ricorsivo che contiene segni e rimandi di diversa natura e derivazione.

Si parta da un cartoncino nero sul quale siano stampate figurazioni astrali (le stelle abbiano forma di uccelli in volo) e frasi; si effettuino delle piegature seguendo precise linee-guida, s’incolli e si chiuda ad anello – il risultato sia un caleidociclo esagonale (vale a dire tre doppi tetraedri) che si apra e si chiuda in un movimento a spirale potenzialmente infinito; tale caleidociclo si chiami Stellare nero (Benway Series, Colorno, Tielleci 2023), autrice Alessandra Greco, solido geometrico complesso, ma di pochi grammi di peso, capace di caricarsi, nello sguardo e nella mente di chi guarda e legge, d’una densità concettuale ed estetica particolarmente suggestiva che trova nel concetto di contenitore una delle sue ragioni d’essere.

Il solido ruota, pulsa e si sviluppa attorno a uno spazio “vuoto” centrale che figura il segno zodiacale dell’ariete; scrive Alessandra Greco in una delle note che accompagnano il suo lavoro: «[…] Alla base della logica caleidociclica sta l’idea geometrico-matematica di ricorsività; qui sono le parole che ritornano ciclicamente e riformulano ad ogni rotazione l’assetto narrativo del testo. // Durante le fasi di ideazione e progettazione del lavoro sono emerse numerose simmetrie legate all’ordine cosmico e alla vita dell’uomo.

L’oggetto è idealmente orientato alla Pars Orientalis della volta celeste (l’Est geografico), al punto vernale: punto in cui la traiettoria apparente del Sole sull’eclittica incontra l’equatore celeste. Il punto vernale è anche detto punto d’Ariete (perché quella era la costellazione in cui anticamente iniziava la primavera) o punto Gamma: i Greci indicavano il punto con la lettera gamma (γ) perché la sua forma ricorda la testa dell’animale con le corna che si avvolgono a spirale».

In un punto del caleidociclo è inoltre riportata una sequenza numerica afferente a un file d’immagine che rimanda alle coordinate geografiche del villaggio di Čerkassk (in Kazakistan) dove un memoriale ai caduti per la difesa della località ricorda, nelle sue forme architettoniche, il caleidociclo stesso, mentre la fauna selvatica autoctona delle regioni attorno a Čerkassk vanta gli Argali (gli arieti più grandi del mondo) e l’ariete dal manto bruno, specie che devono essere connesse alla Colchide e al mito del Vello d’oro, quindi, ancora, all’inizio della primavera, cioè alla rinascita e al riavvio dei cicli vitali.

In un altro punto si leggono i nomi di Jules Alfred Pierrot Deseilligny e di Étienne Léopold Trouvelot, astronomi e artisti francesi della seconda metà dell’Ottocento dei quali compaiono sul caleidociclo precisi riferimenti a due opere visuali dedicate rispettivamente al sole e alla superficie lunare: Stellare nero contiene, dunque, sia un centro vuoto che permette il movimento del solido conferendogli la capacità di rendere visibile la ciclicità e la ricorsività (in caso contrario ci si ritroverebbe tra le mani un oggetto immobile, “morto” da più punti di vista), sia un complesso sistema di segni (alfabetici, grafici, astronomici, numerici) che si dispongono nello spazio secondo un sistema di lettura non-gutenberghiano, ma che danno vita a successioni diverse la cui interpretazione si dirama in più direzioni, ossia quella dell’incessante metamorfosi della natura terrestre e del cosmo stesso, quella dell’armonia di carattere musicale che scaturisce dal moto e dal ripetersi-rinnovarsi dei cicli, quella del respiro e del battito cardiaco che, dall’individualità dei singoli esseri viventi, si dilatano a tutto l’esistente. È in tal senso che il relativamente minuscolo caleidociclo contiene il cosmo, le sue pulsazioni e le simbologie che le culture umane hanno elaborato nel corso dei millenni; è nella potenza espressiva ed evocatrice dei segni che è contenuto l’infinitamente grande, è nel gioco del caleidociclo (serissimo come tutti i veri giochi) che è contenuta la bellezza di una realtà in costante movimento.

il vuoto è sempre un indizio

………………………………….una specie di continua vacuità

scrive Alessandra Greco con una sorta di mise en abyme dello stesso ruotare di Stellare nero attorno al suo centro vuoto, vacuum e continuum che sembrano richiamare alla mente la śūnyatā di diverse tradizioni filosofiche e religiose indiane, vuoto necessario che contiene il pieno permettendogli di venire a esistenza, o, meglio, è il movimento ricorsivo a essere contenuto nel vuoto che, non frapponendo ostacoli, permette le differenti disposizioni dei segni (non lo si trascuri) non su di un piano a due dimensioni, ma a tre dimensioni, giungendo a un concetto di “pagina” anch’esso non-gutenberghiano o, anche, post-gutenberghiano. Ovviamente “vuoto” e “pieno” andrebbero qui intesi non secondo i parametri della fisica classica, ma quantistica, facendo cioè riferimento al concetto di campo e di probabilità e Stellare nero offre un esempio notevole di come la scrittura possa (e debba) congedarsi da un atteggiamento puramente rappresentativo e/o descrittivo ripensandosi quale elemento parte della complessità del reale e, quindi, non isolato né passatisticamente contemplativo.

Un discorso affine riguarda l’esplicita dedica di Stellare nero all’etnomusicologo Marius Schneider perché il caleidociclo, contenendo riferimenti alla musica, va considerato anche quale esplicitazione della dialettica suono-silenzio e quest’ultimo, come il vuoto al pieno, consente al suono di esistere e di articolarsi, trasferendo nel campo acustico-musicale la relazione vitale tra spazi cavi e spazi convessi.

Si legge sul caleidociclo:

Le foreste profonde sono più inclini a echeggiare     rispetto all’erba alta o alla neve | se il movimento non è corretto il suono non è limpido

| alle estremità di ogni arcata c’è un angelo che suona

uno strumento musicale di tipo diverso |

sendo rivolte in suoni  |  le stelle  |  sono tipi diversi di uccelli  |

In una trina satura di suono  |

♈ | radure del respiro | avvolto più volte | ritornante in se stesso | canto fermo ripiegato |

Naturalmente se non si ha Stellare nero tra le mani occorre fare uno sforzo d’immaginazione per riuscire a intuire come tali frasi (o versi) si compongano di volta in volta con le altre che fanno riferimento agli astri, al movimento, all’erosione della superficie terrestre e dei fondali marini, eccetera – ed è qui un altro motivo per cui la dialettica contenitore-contenuto si rivela particolarmente feconda: il caleidociclo dev’essere tenuto tra le mani, sono quest’ultime a contenere l’universo di Stellare nero e tutti i suoi rimandi, le mani con la loro disponibilità ad accogliere il caleidociclo e con la loro azione che imprime all’oggetto il movimento, ma anche lo sguardo è contenitore ché accoglie e contiene quanto di volta in volta va a rendersi visibile sulle facce del solido, solido che, nel suo muoversi e per potere muoversi, abbisogna, lo si ricordi, di un centro vuoto e che, nel suo movimento, produce il suono del cartoncino sfregato dalle mani e delle varie facce che si toccano per poi separarsi e così via.

“Giocare” con Stellare nero significa approdare a un’idea innovativa di testualità, rompere con la pagina tradizionale e con il libro di derivazione gutenberghiana, rivoluzionare il concetto di contenitore, non descrivere il vuoto, ma percepirlo in atto, non descrivere il movimento, ma coglierlo come consustanziale ai segni e al loro disporsi nello spazio-tempo del caleidociclo che aprendosi e chiudendosi contiene (ed esprime) la diastole e la sistole (καρδία scrive Alessandra Greco in un punto di Stellare nero) con un battito che è a sua volta suono vitale. La “lettura” tradizionale si trasforma in un’interazione continua (e fisica) con il contenitore-contenuto, si disloca dalla bidimensionalità della pagina nello spazio tridimensionale, accade non più secondo successioni dei testi e dei segni prestabilite (d’autore).

E non si trascuri neanche il fatto che l’aprirsi e il chiudersi ricorsivi sono sempre scanditi da un’infinitesima pausa, da un arresto pur brevissimo del movimento, da una στάσις cioè che possiede affinità sia con il vuoto che con il silenzio, una caesura in atto di cui sono segni visibili anche le numerose barre verticali ( | ) presenti nelle e tra le frasi stampate sulle facce del caleidociclo. Stellare nero rende visibile un’armonia e una bellezza che, senza vane né melense retoriche, è nei ritmi vitali del cosmo, nel loro manifestarsi in cicli e in suoni.

L’isola di Giorgio

2

di

Francesco Forlani

 

Domani i funerali. Ho pensato fosse doveroso avvisarti.

 Un abbraccio da Ischia.

pausa

ti voleva bene.
Così mi ha scritto Antonietta il 26 aprile scorso ed io sono rimasto senza parole ma con una promessa fatta a me stesso e all’amica dell’isola, quella di scriverne appena ne avrei avuto la forza, il coraggio. Ricordarlo qui su Nazione Indiana perché Giorgio Di Costanzo GDC ci veniva spesso su queste pagine, il più delle volte a gamba tesa, e non a torto, non a ragione, in difesa della letteratura dimenticata o poco “attualizzata”, soprattutto una ventina d’anni fa, come per esempio l’opera di Anna Maria Ortese di cui ha per anni curato  In sonno e in veglia.
Ci siamo conosciuti vent’anni fa, poco meno, e all’inizio della mia avventura su Nazione Indiana. C’era stata un’incomprensione legata alla rinascita della rivista Sud, da me fortissimamente voluta e proprio in quegli anni realizzata, ma ne eravamo venuti a capo rapidamente al punto di diventare, poco tempo dopo amici. Ci accomunava l’amore per Anna Maria Ortese e ogni qualvolta ne avessi avuto l’occasione l’ho sempre trascinato con me, come nel caso della pubblicazione numero dell’Atelier du Roman dedicato alla scrittrice o più recentemente per una mia recensione  
all’ultima corrispondenza dell’Ortese pubblicata da Adelphi.
In un passaggio si poteva leggere:
Una menzione particolare va alla nutrita e inedita corrispondenza con Giorgio Di Costanzo, che grazie a un lavoro meticoloso e appassionato tiene in vita un archivio digitale imprescindibile sulla vita e l’opera di Anna Maria Ortese.
Giorgio è stato per molti di noi memoria viva delle avventure letterarie del dopoguerra, non soltanto meridionale, con una infinità di rapporti, corrispondenze, storie d’amicizia, particolarmente quella con Goffredo Fofi, Dario Bellezza e Anna Maria Ortese, per l’appunto.
In questo sentirsi bastarono poche telefonate all’Inglese e a me, compagni di cella con vista sul mare, nel nostro confino traduttorio a Procida per organizzare un’incursione poetica sull’isola d’ischia. Prima di lasciare parlare quelle immagini vorrei ricordare e insieme “scordare” che in quegli anni Nazione Indiana non era un blog ma un campo di battaglia, con veri e propri duelli all’ultimo post, diverse centinaia di botte e risposte (altre botte) per articolo, che potevano generare perle o porci. Attacchi sopra e sotto la cintura, diverbi, avverbi, malaverbi, querelle che più di una volta hanno visto Giorgio menare colpi a destra e a manca. A quanti lo ricordano gladiatore soltanto, vorrei  poter dire di non dimenticare la “tenerezza” della sua attenzione militante rivolta alle “piccole creature”. In questo senso riprendo un passaggio di Giorgio Agamben che traduce bene le mie intenzioni.
“Come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, infatti, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (me mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali, non aver cattivi ricordi”) nei confronti dei suoi avversari. Così facendo, i democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che era ora necessario un momento di non-memoria, di “amnistia” per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento. Non si trattava tanto, a ben guardare, di memoria e di dimenticanza, quanto di saper distinguere i momenti del loro esercizio.”

Queste sono le immagini tratte dalla sua galleria, e intitolata:

Poeti all’ultima spiaggia
5 maggio 2008
Libreria “La Gaia Scienza” Ischia Ponte
Andrea Inglese e Francesco Forlani

Se avrete voglia nei commenti di ricordare Giorgio, sarete i benvenuti.Colonna sonora Murolo Forlani, foto inviatami da Giorgio con i saluti da Ischia.

 

 

 

*
.
*
.
Aggiungo anche il mio di ricordo. Devo l’incontro con Giorgio Di Costanzo a Francesco (il Furlén, FF), che aveva rapporti diretti con lui. E ci trovammo, poi, ad Ischia a passare una giornata di spensieratezza e allegria mediterranea. (Il pretesto dell’incontro era una presentazione in libreria.) Avevo conosciuto anch’io Giorgio come commentatore di Nazione Indiana, spesso polemico, assiduo attraverso una sorta tormentone relativo all’Ortese, a cui dedicava un culto del tutto degno e controtendenza. Poi lo incontrai, e scoprii in realtà un uomo di grande gentilezza e apertura mentale. Quello che noi conoscevamo di lui, nei commenti di Nazione Indiana, era il suo lato appassionato, battagliero, che trovava uno spazio di condivisione in rete, per uscire anche da un isolamento culturale e geografico, da una periferia del mondo letterario. Ma come spesso accade in Italia, lontano dai centri di visibilità e di produzione, si scoprono personaggi straordinari, anticonformisti, profondamente gentili e appassionati come Giorgio Di Costanzo. L’amicizia che Francesco racconta è un’amicizia che è stata resa possibile dalla rete, ma anche dall’insufficienza di un dialogo puramente virtuale. Le cose si sono chiarite, la statura “umana” di Giorgio, la sua generosità, ci è parsa subito evidente, nel momento in cui siamo usciti dal puro scambio virtuale, per ritrovarci faccia a faccia con lui, a Ischia. E lo trovo, ancora oggi, straordinariamente accogliente, quando guardo la nostra foto a tre di “comunisti da spiaggia”. Noi facciamo i guitti, ma lui è perfettamente a suo agio, perfettamente se stesso, tenendosi addosso la sua camicia, e posando con noi come se fosse la cosa più naturale (e seria) del mondo.
Andrea Inglese – Champigny 2 luglio 2024.

Il voto francese che interessa tutta l’Europa

6

di Andrea Inglese

A sentire qualche amico italiano, la situazione francese è davvero preoccupante, perché l’estrema destra francese non è come quella italiana, in fondo moderata e “bonacciona”, come il nostro popolo che sembrerebbe intrinsecamente inefficace anche nel fare il male. A me sembra, invece, di tremenda efficacia il governo Meloni, che per primo sancisce in Europa l’esternalizzazione del trattamento dei migranti giunti sul proprio suolo. Anzi, ancora una volta all’avanguardia del peggio, dal momento che i centri sovvenzionati in Albania per la “raccolta” dei nostri migranti possono costituire un modello da estendere ad altri paesi europei. Siamo già ampiamente fuori da un quadro di principi e di garanzie democratiche. Ma il governo Meloni non si occupa solo dei nemici esterni, ma anche di quelli interni, e quindi ecco il disegno di legge sicurezza, che prevede pene di prigione per il reato di blocco stradale con il solo corpo. Le proteste non-violente saranno punite con il carcere. Il superamento della frontiera tra democrazia e Stato autoritario è un processo per tappe. Lo si sa dalla storia novecentesca, e lo si sa ancora meglio dalla storia recentissima. È sufficiente osservate quello che è successo nella Russia di Putin. Nel 1993 la Russia si è dotata di una nuova Costituzione democratica e federale in linea con quelle delle democrazie occidentali. Dal 2000 ad oggi, ossia dalle elezioni che gli permisero di essere presidente della Russia per la prima volta al suo attuale quinto mandato presidenziale, Putin ha progressivamente imposto, nei fatti e in parte nelle leggi, un potere dittatoriale.

Le elezioni legislative francesi sono decisive anche per tutta l’Europa non solo perché il Rassemblement National costituirebbe un’estrema destra più “dura” di quella che governa attualmente in Italia, ma perché avrebbe la possibilità di cambiare ulteriormente gli equilibri europei, seguendo la via già aperta da Meloni e grazie alla maggioranza di elettori italiani. Il progetto di queste destre estreme è chiaro: distruggere spirito e forme della democrazia, nel rispetto di un’organizzazione capitalistica della società. “I nuovi fascismi si limitano a rinsaldare le gerarchie di razza, genere e classe; la strategia politica rimane quella neoliberista. La missione dei nuovi fascismi non è combattere un’opposizione inesistente, ma portare a termine il progetto politico che è alla base delle politiche neoliberiste”. È Maurizio Lazzarato che lo scrive in un libro del 2019, Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione (DerriveApprodi). Cinque anni dopo la sua pubblicazione, le vicende statunitensi, israeliane, italiane, francesi e più generalmente “occidentali” non fanno che confermare il nucleo delle analisi svolte in esso. Sono in disaccordo solo con l’idea che i nuovi fascismi abbiano da combattere un’opposizione inesistente. Un’opposizione esiste, e lo si vede almeno nel caso francese, che dal primo mandato presidenziale di Macron ha conosciuto un ciclo di lotte sociali estremamente duro – quasi del tutto assente, in Italia, invece. Ma queste lotte sono state represse in piazza da una gestione estremamente violenta della polizia e in parlamento da un politica di governo estremamente autoritaria. In un articolo apparso su “doppiozero” il 23 giugno, intitolato Elezioni europee: tragicommedia alla francese, ho messo in luce la strategia del tecnocrate Macron per liquidare politicamente la sinistra e puntare tutto su un duello con l’estrema destra. La strategia di Macron ha doppiamente fallito: le sue riforme anti-sociali sono state platealmente condannate dall’elettorato francese, ed è il Rassemblement National che raccoglie i maggiori risultati di questa condanna.

La situazione attuale è questa: la sinistra si è unita e ha proposto un programma che io, pur non essendo votante alle legislative in Francia, voterei. E lo dico dopo aver votato per diversi anni una sinistra italiana che, invece, non mi rappresentava. I risultati definitivi del voto, dopo il primo turno, vedono il Rassemblement National e i suoi alleati a 34,34%, il Front de Gauche a 27,99%, i macronisti a 20,04%. (Gli ultrafascisti di Zemmour non sono riusciti ad arrivare all’1%.) La sinistra ha dunque resistito e non ha perso voti rispetto alle precedenti legislative. Ora, sulla carta, ci sarebbero i numeri per creare un fronte repubblicano, in grado di sbarrare la strada all’estrema destra. La maggioranza di questo schieramento sarebbe costituito dal Front de Gauche, a cui dovrebbero sommarsi i voti dell’elettorato macronista. È quanto ha chiesto ufficialmente il primo ministro Attal, ma la proposta è venuta ancora prima dalla sinistra. Il secondo turno delle legislative, fra una settimana, prevede una serie di ballottaggi, in cui rischierebbero di presentarsi almeno tre candidature: estrema destra, unione delle sinistre e macronisti. Affinché non ci sia dispersione di voti, e viga lo sbarramento repubblicano, se il candidato o la candidata di sinistra è al terzo posto, non si presenterà e proporrà al proprio elettorato di votare per candidato/a della uscente maggioranza di governo. E così dovrebbe fare quest’ultima, favorendo una candidatura del Front de Gauche, nel caso un suo candidato o una sua candidata si trovi in terza posizione. Ma a questo punto entra in gioco la cultura politica della galassia della destra che ha sostenuto il governo Macron. Una galassia di neoliberisti convinti o moderati, che ha assimilato perfettamente l’equivalenza tra nuovi fascisti e sinistra radicale (La France insoumise), seguendo in questo la vulgata mediatica, e che quindi si sente dispensata da eseguire le indicazioni di voto del suo primo ministro. In poche parole, è molto probabile che sarà una fetta di quel 20% di voti macronisti, e una parte di candidati della maggioranza uscente che deciderà della conquista del governo o meno da parte di Bardella. Stavolta, almeno qui in Francia, i dirigenti delle sinistre non potevano fare di meglio, in termini di chiarezza e di presa di responsabilità. Quello che accadrà al secondo turno non potrà essere imputato loro. Di fronte a un pericolo estremo, hanno dimostrato coraggio e lucidità. Hanno saputo unirsi, hanno proposto un programma di sinistra e hanno accettato di fare compromessi, in grado di distinguere tra avversari politici (i macronisti) e nemici della democrazia (i nuovi fascisti). Ma anche questo il passato ce lo insegna: l’antifascismo per funzionare non può essere circoscritto ai partiti e agli elettori di sinistra.

L’ultimo sogno

1

di Edoardo Mazzilli

Secondo Ania l’uomo ha perso la capacità di autodistruzione. Me l’ha detto la notte in cui ha smesso di esistere. Dapprincipio non ho capito cosa intendesse, per questo ha voluto mostrarmelo. Mi ha trascinato nella profondità di una grotta eterna dentro a cui viveva una monstera in stato quiescente. La guttazione delle foglie più antiche produceva ancora gocce d’acqua che, fievoli, cadevano sulla roccia calda spezzandosi. Ania si è inginocchiata e le ha raccolte. Mentre lo faceva mi ha preso la mano e mi ha tirato a sé. Colma la sete, mi ha detto. Mi sono chinato e ho emulato il suo gesto, portandomi poi le dita umide alle labbra. Ora dimmi dove siamo, mi ha detto. L’ho guardata negli occhi e la grotta ha iniziato a rabbuiarsi lentamente. Il suo viso è scomparso, ma lei era ancora lì. Dove siamo?

Quando è tornata la luce, Ania e io eravamo stretti da un legame indissolubile che durava dalla prima alba che la Terra avesse mai visto. Eravamo genitori di cento uomini e cento donne ed eravamo gli abitanti più anziani di una grande isola di terra e pietra accanto a cui ne sorgeva una più piccola. Ania aveva assunto tratti esotici in viso, aveva capelli canuti e stava china tra le pelli di un tricheco morto di stenti. Dove siamo?, mi chiedeva. Attorno a noi c’erano bambini nudi che correvano al riparo dal sole. Ania indicava l’isola vicina e diceva che quello era lo ieri. Questo invece è l’oggi, ripeteva sfiorando la terra su cui posavo i piedi. Non possiamo più raggiungere il passato. Dove siamo?

All’orizzonte, dove il mare nero e il cielo tetro scomparivano, si profilava un vascello ricoperto di avorio. Dal ponte colava il sangue degli uomini e delle donne uccise per mano dei loro fratelli e sorelle in ogni secolo. Ania e io eravamo nudi, distesi sul fondo dell’oceano mentre il nucleo della Terra ci scaldava amabilmente la schiena. Le nostre viscere erano collassate in un cataclisma onirico e i nostri corpi erano ormai parte di un cosmo atarattico. Il sangue scendeva lentamente verso di noi attraversando la massa d’acqua senza mischiarvisi e mentre lo fissavamo, Ania si è distesa sopra di me e ha iniziato a piangere. Solo allora mi sono accorto che non si trattava di Ania, ma di Ania bambina. Ha poggiato la testa al mio petto e mi ha chiesto dove fossimo. Sono scivolato diabolicamente dentro di lei e in quel momento la sabbia sotto di noi ha iniziato a cedere. Ania bambina si dimenava e benché non facessi niente per tenerla stretta a me, i nostri ventri si sono uniti promettendosi attrazione eterna. Ero paralizzato in un orgasmo occulto e né le sue grida né il sangue che ormai le avvolgeva i capelli e le penetrava nelle narici e nella bocca mi smuovevano dal mio stato di godimento malato.

Quando il sangue si è posato sulle mie cornee ed è sceso sotto le palpebre sono colato nel corpo di Ania risalendo le pareti calde del suo utero e mi sono fatto cellula. Ero un’unità di un plotone felice che costituiva parte dei dotti lattiferi del suo seno sinistro. I miei fratelli vivevano imperturbati la loro esistenza, senza vizi, senza ambizioni, senza eccessi né sete di potere. Ho vissuto per anni osservandoli e chiedendomi come potessero resistere. Ogni volta che uno si moltiplicava, un altro moriva estasiato. Il loro sguardo serafico in punto di morte mi sconquassava le ossa. Consumavano la loro esistenza in serie, crogiolandosi nella plasmalemma senza fare nulla per essere ricordati. Quando la cellula accanto a me si è sdoppiata, mi è stato chiesto di fare spazio e cedere all’apoptosi. Autodistruggermi. Mi sono rifiutato e ho dato vita a mia volta a un essere uguale a me, che covava lo stesso disprezzo verso i nostri fratelli. Insieme ci siamo moltiplicati ancora, generando una macchia di odio cellulare incontrollato in mezzo al plotone felice. Ci siamo fatti spazio attaccando alle altre cellule e mettendo fine alle loro inutili vite, e più uccidevamo, più accresceva nel baratro della nostra fame primordiale la voglia di uccidere. Abbiamo attaccato altri tessuti fondando una società capitalista negli organi di Ania, costruendo strade, città, quartieri e periferie in cui ci rincorrevamo per soddisfare piaceri effimeri. Abbiamo depredato il suo corpo di ogni cellula instillando le nostre e quando non ne è rimasta più neanche una delle sue, Ania è diventata il nostro pianeta depravato.

Abbiamo continuato a riprodurci anche una volta superato il limite di saturazione e allora i più forti di noi hanno costretto i deboli a vivere nella miseria, nell’ignoranza e nella paura, accatastati negli angoli più impervi del corpo di Ania. Il sovraffollamento però ha portato all’esaurimento di ogni di risorsa e allora uno dopo l’altro siamo morti tutti. Poveri e ricchi, deboli e forti, ebeti e scaltri. Sono sopravvissuto soltanto io e Ania mi ha partorito sulla cima di un vulcano. Ha succhiato il veleno che scorreva sotto la mia cute e l’ha sputato nel cratere. Tu sei me e io sono te. Chi siamo noi?, mi ha chiesto. Il suo corpo si era rigenerato dalla necrosi, gli edifici che avevamo impiegato secoli a costruire su di lei erano crollati e dalle macerie erano fiorite distese di narcisi bianchi che io e Ania ora attraversavamo mano nella mano.

Siamo caduti in uno stato di piacere catastematico. Camminavamo giorno e notte e i muscoli non ci dolevano, ci nascondevamo in giardini tropicali e ci accoppiavamo sulle sponde di stagni limpidi, ci nutrivamo di pesche all’ombra di foglie di alocasia e palme reali e vivevamo in armonia insieme a tutte le specie animali che un tempo avevano abitato la Terra e poi si sono estinte. Attorno a noi pascolavano uri, moa, lupi marsupiali, tigri di Giava, rinoceronti neri, elefanti della Siria, ratti canguro, armadilli arboricoli e orsi dell’Atlante. Sui gli alberi erano tornati a ripararsi volpi volanti, falchi di palude, nitticore, huia e ara tricolore e nelle acque nuotavano di nuovo lipoti e focene. Non avevamo mai amato così tanto noi stessi e la materia cellulare che ci circondava. I nostri figli crescevano sani, si rispettavano gli uni con gli altri e facevano l’amore tra loro. Donne con uomini, donne con donne, uomini con uomini, e chi non sentiva la necessità di farlo non veniva giudicato. Insieme a loro, io e Ania esploravamo il pianeta e ogni giorno ci sorprendevamo di quanti paesaggi ospitasse. Eravamo una comunità ricca. La quantità di frutti che la terra metteva a disposizione ogni giorno era maggiore di quella necessaria a saziare tutti. Se uno di noi moriva, un altro nasceva e il numero di individui rimaneva sempre in perfetto equilibrio con l’ecosistema di cui facevamo parte.

Una primavera però ci siamo imbattuti in un fiume in cui non scorreva acqua, ma parole. Ogni vocabolo pronunciato nella Storia, in ogni lingua esistita, era lì dentro, placido e meditabondo. Ania ha fermato i nostri figli e ha detto loro di non entrare, ma il più giovane si è inginocchiato sulla riva e ha immerso un braccio. Quando l’ha ritirato, in un pugno teneva stretta la parola dolore. Si è accasciato al suolo colpito da convulsioni spasmodiche e i suoi fratelli e le sue sorelle hanno iniziato a piangere, allora mi sono gettato nel fiume e ho nuotato disperatamente tra i vocaboli finché in fondo all’alveo non ho trovato quello che cercavo. Sono riemerso con in pugno la parola antidoto e nostro figlio è rifiorito, ma Ania mi ha implorato di riporre quelle otto lettere nel fiume. L’equilibrio sta nell’autodistruzione, mi ha detto. Ho fatto per gettare il vocabolo, ma nostro figlio l’ha afferrato. È scappato verso Nord e l’ha portato con sé.

Io e Ania siamo diventati astri e abbiamo osservato la sofferenza degli abitanti della Terra dalla nostra nube di vuoto esoterico nell’Universo. Abbiamo assistito alla costruzione e alla distruzione di imperi, al sorgere di confini, allo scoppio di guerre e alla scrittura di leggi giuste e ingiuste. Abbiamo guardato uomini trucidarsi, lapidarsi, stuprarsi e torturarsi. Abbiamo seguito la devastazione di radure incantate per fare spazio ad abitazioni di uomini insoddisfatti, e lo stermino di animali felici per nutrire individui depressi. Abbiamo visto la creazione di antidoti che hanno risolto situazioni complesse ma che hanno generato nuovi problemi dando vita a un moto isterico, implacabile e distruttivo.

Adesso io e Ania siamo qui a guardarci negli occhi per l’ultima volta, perché lei ha un carcinoma mammario e non vuole cedere alla necrosi. Vuole l’apoptosi. Morte programmata. Autodistruzione. Adesso siamo svegli. Ania è mia madre. Il figlio più giovane sono io, ho provocato io il dolore e sono fuggito con l’antidoto. Grazie a me l’uomo è arrivato a creare i francobolli che abbiamo nel cervello, che decodificano segnali permettendomi di comunicare e creare sogni condivisi con Ania, ma non ha ancora trovato un antidoto per le cellule invidiose della felicità altrui, né per eliminare il mio autismo. Ania è una biologa ambientale e ora non ci sarà più. Ania conosce i nomi delle piante, degli animali e di tutti i luoghi della Terra, e con i nostri francobolli me li ha mostrati tutti. Ania è mia moglie. Questa notte abbiamo giocato per l’ultima volta a dove siamo? e mi ha portato sulla grande isola di Diomede, accanto alla piccola isola di Diomede, dove il cambiamento climatico ha sciolto il ponte di ghiaccio. L’ultimo sogno è finito. La temperatura media globale si è alzata di due gradi e Ania si autodistrugge. Ania si è autodistrutta, ma poco prima mi ha detto di ricordarmi sempre che il futuro si raggiunge a piedi.

Foto di Bhanu Khan da Pixabay

Il ritorno della guerra rimossa

2

di Giorgio Mascitelli

Maurizio Lazzarato, Guerra civile mondiale?, Deriveapprodi, Bologna, 2024, euro 15

Già da alcuni anni, dapprima che i conflitti ucraino e palestinese prendessero o riprendessero la prima pagina dei giornali per intenderci, Maurizio Lazzarato ha spostato la sua attenzione sulla guerra come modo di accumulazione primario del capitalismo e quindi sulla nozione leninista di imperialismo, ossia sul grande rimosso politico e culturale degli ultimi trent’anni non solo da parte del mondo liberale, ma anche delle sinistre antagoniste occidentali. In questo libro, l’ultimo di tre opere dedicate all’argomento, in particolare Lazzarato inquadra quella che con le parole del papa si potrebbe chiamare la ‘terza guerra mondiale a pezzi’ entro la categoria di guerra civile mondiale. Con questo termine Lazzarato intende il modo moderno della guerra tipicamente  capitalistico, senza il quale non c’è accumulazione primitiva,  perché non si basa sempre su una conquista territoriale, ma  anche sull’attacco a categorie della popolazione (operai, donne, popolazioni razzializzate ossia designate come minori) e pertanto non sempre appare una guerra guerreggiata in quanto ricorre anche ad altre forme di espropriazione e violenza. La guerra civile, che non coincide con la rivoluzione, anche se le rivoluzioni sono guerre civili nate da una reazione delle vittime agli atti bellici, è funzionale a una nuova organizzazione del mercato mondiale. Una nuova organizzazione del mercato mondiale non è mai pacifica non solo perché presuppone un cambiamento dei rapporti di forza tra i paesi e dentro gli stati, ma perché è una fase di una nuova accumulazione primaria, cioè la fase violenta con cui un nuovo capitalismo forma i suoi capitali. Inoltre la guerra civile non ha una dimensione solo bellica e collettiva, ma comincia per così dire con il principio di competitività tra gli individui che regge le società capitalistiche, specie quelle neoliberiste globalizzate, che lo hanno elevato a principio guida dei rapporti sociali.

Infatti la premessa ideologica della globalizzazione ossia di un superamento degli stati a favore di un libero dispiegamento delle forze economiche e dello spostamento della sovranità in una generica sfera internazionale si rivela falsa perché tutto il processo della globalizzazione è stato retto dal primato politico e militare dello stato statunitense. Affermare questo vuol dire che la globalizzazione non è affatto un fenomeno pacifico ed è invece caratterizzato da una violenza funzionale a nuove forme di accumulazione (d’altronde l’atto di nascita della globalizzazione non fu forse la Prima guerra del Golfo, definita allora come l’ultima guerra prima della fine della storia?).

La tesi di fondo di Lazzarato è che l’attuale quadro bellico nasce come risposta alla crisi dei mutui subprime del 2007-08, che segna a sua volta la crisi di un ciclo di accumulazione capitalistica, nato a partire dagli anni settanta incentrato sul consumismo, nei paesi occidentali, e sul suo finanziamento tramite il debito e dunque con un marcato ruolo di guida del capitalismo finanziario rispetto a quello industriale, basato sulla produzione. L’uso del debito per sostenere il consumo avrebbe consentito il superamento della tendenza alla stagnazione tipica del capitalismo monopolistico, ma la crisi dei subprime segnala  l’impossibilità di proseguire oltre in questo processo. Nonostante tale crisi sia stata scaricata con successo sul debito pubblico di alcuni stati occidentali, è la crisi dei cosiddetti debiti sovrani del 2011-12, la tendenza alla stagnazione resta. Questo comporta la necessità di aumentare le politiche di sfruttamento del Sud del mondo, ma anche qui il capitalismo occidentale si scontra con l’emergere di una nuova potenza capitalistica, la Cina, che le contrasta organizzando a sua volta delle politiche di penetrazione e creando un sistema di alleanza alternativo. Dunque il contesto attuale si presenta come scontro tra questi capitalismi, in particolare perché in un sistema finanziario che tramite il debito finanzia il consumo, la questione della moneta di riferimento internazionale è fondamentale e la funzione guida del dollaro è imprescindibile da un primato politico-militare degli Stati Uniti.

Questa guerra civile mondiale non comporta solo uno scontro tra stati come in Ucraina o comunque una guerra aperta come a Gaza né tensioni politiche quali quelle per Taiwan, ma anche una marcata azione contro classi o categorie di popolazione interna. In particolare la nuova fase di accumulazione basata sul debito e sulla finanziarizzazione è legata a un’eliminazione di quelle forme di compromesso con il capitale come lo stato sociale che i conflitti sociali del Novecento avevano imposto; nel contempo si è sviluppata nelle democrazie occidentali una prevalenza dell’esecutivo sul legislativo che corrisponde sia alle necessità del capitale finanziario, che si presenta dal punto di vista politico e giuridico come eccezione ed emergenza, sia alla frammentazione e tendenziale scomparsa delle varie forme di opposizione di classe. E’ probabile che questa tendenza sarà rafforzata ulteriormente dallo sviluppo della guerra.

Il libro è attraversato da una polemica nei confronti dei concetti di biopolitica e governamentalità, elaborati da Foucault per descrivere le tecniche di governo del neoliberismo, che sono a parere di Lazzarato delle false piste interpretative perché sorvolano sulla tendenza alla centralizzazione e alla violenza del capitalismo:  infatti “Il concetto di biopolitica ha riscosso tanto successo proprio perché, come il concetto di governamentalità, rimuoveva guerre e guerre civili mondiali, secondo l’ideologia per cui l’Occidente, una volta sconfitto il comunismo, non avrebbe avuto più problemi di sicurezza” (op.cit. p.67). Ora non solo alcune interpretazioni della biopolitica non nascondono gli aspetti più violenti di questa pratica ( per esempio Agamben, quando afferma che il campo di concentramento è il paradigma biopolitico, anche se non è interessato alle sue evidenti connessioni con i modi di accumulazione), ma resta il fatto che la biopolitica descrive abbastanza correttamente un certo modo di governo delle società capitalistiche. Questo dualismo di funzionamento del capitalismo, quello più soft, governamentale, parcellizzato e quello invece violento, imperialista e centralizzato può essere più utilmente spiegato con la teoria dei cicli di accumulazione di Arrighi, che considera l’imperialismo un fenomeno tipico dell’ultima fase, quella di crisi.

Un altro momento di dibattito che suggerisce questo libro ossia quello dell’importanza per i movimenti di riscoprire la dimensione del conflitto e della negazione e quella dell’importanza del contesto generale appare non tenere in conto che nel corso del Novecento la dimensione del conflitto e della rottura è stata gestita da forme organizzative più strutturate dei movimenti, di solito di tipo partitico. Se è assolutamente condivisibile l’idea di Lazzarato che le forme organizzative del passato non possono più essere usate, è d’altro canto evidente che di forme organizzative si parla e non di movimenti che fanno della spontaneità e della transitorietà il loro punto di forza.

Il merito di questo libro è la capacità di presentare un quadro complessivo della situazione attuale in una maniera articolata e con un linguaggio fruibile anche dai non addetti ai lavori. Non era affatto scontato arrivare a proporre un’interpretazione convincente della situazione in una forma chiara e sintetica, data la complessità del quadro e dei dati. E in questo Lazzarato riesce perfettamente. Certo il suo libro è di quelli che analizza la verità effettuale della cosa e non l’immaginazione di essa,  o, per dirla più modernamente, tra la pillola rossa che ti fa vedere la realtà com’è e la pillola blu che ti immette in un mondo ideale, Lazzarato sceglie come il protagonista di Matrix senz’altro la prima. E questo potrebbe spiegare perché le tesi sostenute qui differiscono in maniera sostanziale dai discorsi e dalle analisi che vanno per la maggiore.

 

 

L’ultima battaglia

1

di Marco Ansaldo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo che segue è l’introduzione di Marco Ansaldo al breve romanzo “L’Ultima battaglia”, del sivigliano Julio Manuel de la Rosa, recentemente pubblicato dall’editore Scritturapura, nella traduzione di Marino Magliani, e la cura di Alessandro Gianetti (NdR)

Morire scrivendo è forse la fine migliore per un autore. Come l’attore che crolla all’improvviso sul palco, o il corrispondente di guerra colpito sul campo di battaglia. Una scelta di vita che si sublima nell’attimo del momento supremo.
Julio Manuel de la Rosa è morto lavorando. “Scriveva sempre, anche quando semplicemente camminava”, raccontano le biografie. “Tutta la sua vita è stata letteratura”. E questo libro che avete tra le mani, L’ultima battaglia, è il testo da lui rilasciato nel 2017, appena pochi mesi prima di andarsene all’inizio dell’anno dopo.
Bene dunque ha fatto l’editore Scritturapura (specializzato nel raccogliere perle disperse, come qualche anno fa con lo splendido Lamadonna col cappotto di pelliccia del turco Sabahattin Ali) ad accogliere il consiglio di pubblicarlo in Italia, segnando così il proprio debutto nella letteratura spagnola, visto che l’autore era un orgoglioso sivigliano, nato e morto nella sua città (1935-2018). Perché questo breve romanzo, folgorante e potente nel suo attacco e nello sviluppo, è capace di conquistare un posto nel cuore del lettore.
Stalingrado, 1942-43, la battaglia più importante della Seconda guerra mondiale. Nella “Città eroica”, come la chiama il protagonista. E la sua lunga resistenza, con l’atroce sconfitta della 6° Armata tedesca e la conseguente avanzata sovietica che porterà alla caduta del regime nazista.
L’uomo è un disertore. Un soldato che ha per Dio un generale con “nome e cognome”, Gheorghi Zukov, e per Diavolo il suo avversario, Friedrich Wilhelm von Paulus. Ma il nostro uomo, benché smunto, lacero, sporco e affamato, è tutt’altro che uno sprovveduto. Nel campo di sterminio da cui è fuggito ha conosciuto Primo Levi, “il ragazzo italiano che non è riuscito a sopportare lo spettro dei suoi ricordi”, chimico che si salva dal Lager e sarà scrittore. L’uomo ne diventa amico. Gli autori italiani sono molto presenti nell’opera di Julio Manuel de la Rosa, autore che ha assorbito la lezione di Italo Calvino e scritto una biografia di Cesare Pavese. Di Levi scrive: “Era un chimico, ma quasi sempre parlava come un poeta”.
Il suo racconto è la fuga. Lo sfondo, quello indefinito della steppa. Il mezzo, il vagone di un treno. “Dio non può aiutarci, se noi non gli andiamo incontro”. Il militare scappa, e così si salva. È il momento più decisivo, ammette, della propria esistenza. Il salto doloroso dal convoglio lo ferisce, a terra c’è una figura di una donna con in mano un’ascia, e dietro una casa. La quiete arriva dopo tre scodelle di zuppa calda. Anna la vedova lo accoglie senza chiedere nulla, lo nasconde dandogli lavoro nel campo, lo ama. Ma lui, con strazio, è infine costretto a lasciarla. Deve proseguire il proprio cammino. Ora ricorda: è un cecchino della 64ª Divisione.
Il tiratore scelto si arma, e vaga nuovamente nella steppa. Ma ancora è confuso, si perde, crolla. Nella testa, assieme a Levi, ritrova un altro punto di riferimento, Socrate. “Socrate non venne ucciso: Socrate si suicidò”. Pensa ad Anna, alla sofferenza che le ha provocato, alle menzogne che le ha dovuto raccontare. Avvicina la bocca alla canna del fucile. Lo distrae, salvandolo nuovamente, il rumore di un motore. Tre soldati che bevono caffè, un odore dimenticato, e come autentici esseri umani in pace, fumano e conversano.
Il finale è poderoso: tornare, forse da vendicatore, al Grande Baraccone da dove era partito, ad Auschwitz, città anch’essa mai nominata. Da figlio della steppa (“legato a lei come un lattante alle mammelle vuote di una madre tirannica”), ha sviluppato facoltà uditive abnormi, olfatto al massimo livello, una smisurata crescita della vista. Soprattutto, ha coltivato la virtù della pazienza. Ma la guerra, non è finita? L’epilogo è l’immagine di un’apertura: “Vedo un gruppo di soldati di un esercito sconosciuto, che stanno entrando nella piazza. Tutti hanno il volto coperto con fazzoletti e avanzano pacificamente verso di me”.
Un soldato senza tempo, che attraversa tutte le guerre, un fantasma che fugge dall’orrore. Siamo noi, anche, davanti a un conflitto allargato che pare alle porte. Con la mente confusa, i ricordi frammentati. La memoria li fa passare davanti come pezzi di Storia. Il disertore indossa le toppe delle uniformi di tutte battaglie. Un testo che, con i giusti adattamenti, meriterebbe di essere portato a teatro.
Dentro, la lingua di Julio Manuela de la Rosa è tagliente e precisa. Non ci sono solo gli italiani. Vi risuonano echi di Cortázar, Pessoa, Faulkner. I due traduttori, Alessandro Gianetti e Marino Magliani, la restituiscono in purezza con parole levigate come gemme. Si immaginano le scene, si sentono gli odori, si percepiscono i pensieri. Ecco allora un maestro, generoso, affabile, che del giornalismo civile (che pure aveva frequentato) ha tratto la lezione migliore. Voleva scrivere ancora, Julio Manuel de la Rosa. Consapevole di vivere il momento più alto della sua parabola artistica. La morte lo ha fatto disertare, anche lui. Eppure, vagando fra le steppe della letteratura, “L’ultima battaglia” è la summa di uno scrittore tutto da scoprire.

 

La risposta

0

di Valentina Riva

Sono sicura che questo magma che pulsa nella bocca del mio stomaco è solo l’ultimo segno di una cena troppo pesante; basterà ignorarlo, stringere le coperte più forte e continuare a dormire. Ma per tenere a bada i lapilli che cominciano a sconfinare dalla sacca digestiva, bisogna sollevare la testa, bisogna fare leva sul gomito per raddrizzare il torace, sperando che la forza di gravità aiuti la forza del pensiero a trattenere tutti i liquidi al loro posto. Invece, il magma sale su a infiammare la gola, punta dritto ai denti e faccio appena in tempo a correre in bagno, prima di vederlo eruttare nel water.

La lava acida fatta di brandelli, coaguli e scorze lascia dietro di sé labbra stinte e pupille ingrossate, che tornano a percorrere il profilo della farfalla celeste posata sulla mia mano per inoculare nettari buoni ad accompagnare la coscienza in un posto buio e vuoto. Mi rifaccio la domanda. La risposta è nel grumo di cellule che i camici verdi hanno raschiato dal fondo del mio stomaco.

La pancia adesso è vuota abbastanza per fare largo all’ansia, e di spazio ne serve parecchio perché l’agitazione si gonfia a mano mano che il momento della risposta si avvicina. Ormai, mancano poche ore.

Il sintomo capitale di tutte le malattie è la perdita di connessione tra corpo e mente. Si capisce di essere malati quando la mente diventa una luce bianca appesa in una crosta, polverosa per la maggior parte, umida e scura nell’angolino di cui nemmeno si conosceva l’esistenza, prima che iniziasse a marcire.

Torno a stendermi, ma non mi copro; sento evaporare nella stanza il calore umido della mia pelle, mentre resto immobile e respiro piano (dalla bocca si fa meno rumore) perché, in fondo, penso che la calma possa servire a evitare una nuova eruzione; se non mi muovo, il puntino marcio, semmai esistesse, potrebbe seccarsi e smettere di infilare le sue radici infette nel resto del mio ventre.

Fuori il buio è velato dal vapore di nuvole sfilacciate, come le immagini che si infiltrano nella mia mente e, chissà come, nei buchi del naso: muco di uova crude che cola dai lati di una bocca che non è la mia, odore di stracci umidi, rognoni.

Penso a cosa potrebbe succedere se la risposta fosse quella che non voglio sentire. Il corpo malato è un oggetto fragile e va maneggiato con cura. Il corpo malato non cammina, deambula. Non mangia, si alimenta. Non beve, si idrata.

Nessuno dice che non si parla della malattia perché discutere di vite sottili appese a una flebo e al tempo che resta è fastidioso. La salute prima di tutto. Questo, sì, lo dicono in tanti, lo diceva anche mio padre quando il cancro andò ad annidarsi nel suo stomaco.

Mentre resto in ascolto di ogni segnale dal mio corpo, movimenti e dolori a sconfessare o a confermare la risposta che non voglio sentire, la luce della mia mente si fa più intensa; non è mai stata così tagliente e vasta, è una lastra d’acqua sotto il sole d’agosto. Inizio a sbrogliare il groviglio di affanni che ho sempre portato tra spalle e testa come grappoli di serpenti che mordono, stritolano, succhiano o fanno solo sentire il loro peso; li slego uno a uno: il fiato razionato dalla paura di dire quello che penso, i pugni nel petto a ogni sguardo della gente sulle cicatrici dell’acne. Uno a uno. L’inverno addosso per ogni invito che non ho ricevuto, per ogni lavoro che non ho ottenuto, per ogni persona che mi ha soffiato via come se fossi fumo. Sotto la luce dell’attesa, non sono più serpenti, sono lombrichi, facili da sotterrare nel fango da dove sono venuti. E stendo le labbra in un sorriso che ha lo stesso sapore della lava che mi ha appena scorticato la gola.

Ma il corpo cede ora? No, è sempre la testa la prima a franare. E se la testa perde il controllo, perde se stessa.

Verso lo sguardo sulla mia figura allungata, dalla punta del petto a quella dei piedi. Sono ancora intera, ho ancora forza. Nonostante tutto. Non posso controllare quale sarà la risposta, ma posso controllare il riflesso che avrà su di me, e se dovesse andare bene, userò la memoria di questi giorni come acqua per lavare via i serpenti che cercheranno di strisciarmi addosso da qui in avanti.

L’alba che comincia a dilatarsi nel buio è bianca come la mia mente, mi tiro di nuovo su e spalanco gli occhi alla luce che la notte sta generando. Sento il canto primo degli uccelli, il sudore condensato sulla schiena, la poltiglia masticata e rimasticata delle mie paure, che, invece di avvelenarmi, mi riveste.

Ora non sento più niente. Sono pronta a ricevere la risposta.

*fotografia di copertina: Karl Petzke ‘Uma & Jingle P04’. From the project DANDELION.

Altri animali

0

di Giorgio Baiocco

In città nevica polline. Fiocchi incerti risalgono in piccoli vortici appena prima di toccare la strada. Sembra impossibile che obbediscano alla stessa legge che regola la caduta di tutti i corpi. Gaia, di ritorno dal lavoro, segue un percorso altrettanto indeterminato. La fermata e il portone di casa distano appena cento metri in linea retta, ma lei non ha voglia di rientrare. Da un po’ di tempo è mossa da uno strano istinto. Una sensazione simile a quella di una creatura che le si agita in grembo – almeno stando ai racconti delle sue tante amiche che hanno già avuto gravidanze. Le succede ogni primavera. Si sente ancora addosso l’odore di McDonald’s della scimmia in completo da ufficio seduta accanto a lei in metro. Sguardo fisso sulla schermata di Zoom del cellulare, riunione e cena in corso. In passato, i suoi nonni le avevano raccontato spesso del loro viaggio di nozze a Saint Kitts, nei Caraibi. Delle scimmie sempre ubriache, diventate dipendenti dall’alcool a furia di rubare cocktail ai turisti. E di come, quando cinquant’anni dopo avevano deciso di tornare nello stesso resort per festeggiare il loro anniversario, avevano trovato proprio una scimmia ad accoglierli alla reception. A sentir loro, il mondo era cambiato in fretta. Per Gaia, invece, è sempre stato normale vedere scimmie sfruttate in azienda – una vita di lavoro, alcool, sigarette, cibo spazzatura, gocce per dormire – molto più facile che andare in cerca di piña colada in spiaggia, o peggio ancora di banane.

La strada verso casa si apre su uno spiazzo verde. A Milano esistono ancora degli angoli di natura – era stato il commento entusiasta dell’agente immobiliare che gliel’aveva affittata al suo arrivo in città, e Gaia aveva annuito, sorridendo, lei che si stava trasferendo lì proprio per studiare la Natura all’università. All’epoca nessuno avrebbe potuto prevedere una stagione di ondate migratorie così intense. Il suo quartiere è sempre stato popolato da una fauna variegata, ed era lì che si ammassavano tutti i nuovi arrivi, stazionando giorni, settimane. Ma in particolare nell’ultimo anno, quel verde natura, e ogni altro spazio aperto in città, sono diventati bivacchi perenni di numerosissimi nuovi animali, scuri e diversi. Articoli di giornale, comitati di quartiere, l’allerta è massima, ma le oasi d’accoglienza straripano e il Comune non riesce a far fronte al fenomeno. La gallina del piano terra non si dà pace. L’ha incontrata stamattina – “Una volta era un lusso avere quest’angolo davanti casa, guardi ora signorina, guardi, che schifo!” – e Gaia ha annuito, sorridendo: “Se ne andranno, vedrà, è solo questione di tempo, la maggior parte non vuole restare ma proseguire verso il nord Europa, lo dicono anche al tg”. Non si è neanche tolta gli occhiali da sole. Aveva dormito malissimo, fortuna almeno che era riuscita a farlo uscire di casa presto, con una scusa, e che quella ficcanaso della vicina non li ha visti insieme. Anche con lui, ieri sera, aveva annuito e sorriso a quel – Ti è piaciuto? – detto con tutta la tenerezza a cui può lasciare spazio una dieta di integratori proteici. Al risveglio, si era resa conto di avere addosso la sua chela posticcia, rossa e grossa. Sapeva che ad alcuni granchi tropicali poteva succedere, che potevano perdere la chela in combattimento e farsene crescere una nuova, più debole e meno mobile, ma a prima vista indistinguibile dall’originale. Con la nuova imparavano ad ingannare, continuavano a minacciare i propri pari e attrarre le femmine per l’accoppiamento. Ma era la prima volta che le capitava di scoprirlo a letto. Gaia frequentava esemplari di ogni specie, esplorando l’infinita varietà zoologica delle app di dating. Eppure, nessun incontro la rendeva felice. Molti maschi erano capaci soltanto di chiedere attenzione, prendere il meglio degli altri, a proprio uso e consumo, senza sforzarsi di dare nulla in cambio. Come l’ultimo gatto con cui era uscita per un po’. Sempre inarrivabile, con l’aria insoddisfatta di chi vuol farsi cercare, pur mantenendo le distanze. Pronto a passare lievemente su tutto, soffiare e graffiare in caso di contatto troppo intimo e ravvicinato. Altri invece erano così insicuri, fragili – tutti, in fondo, erano drammaticamente bisognosi di conferme – Signorina, mi stanno bene questi pantaloni? –. Almeno in università, dove aveva prima studiato e poi lavorato a lungo, nessuno si preoccupava dei vestiti. Ormai annuiva e sorrideva sempre, Gaia, perché di no ne aveva detti troppi, e di certo non l’avevano aiutata a far carriera. Dopo la laurea, il dottorato, anni di post-doc, borse e contratti precari, era stato un cane – il protetto del Professore – a vincere il concorso da ricercatore al posto suo. A detta di tutti il cane era molto meno titolato di lei, ma più accomodante, più servile, e il sistema l’aveva premiato esattamente per questo. La Natura originaria, quella a cui Gaia aveva dedicato tutti i suoi studi, funzionava diversamente – premiava la capacità di adattamento, certo, ma sceglieva, selezionava, anche in base alla forza, all’unicità. Se il mondo fosse stato ancora così, Gaia avrebbe potuto avere tutto – lei che era forte, intelligente e bella. Ma la Natura in sé e per sé non esisteva più, se non come una lontana materia accademica. Non si era guadagnata il posto in università, se n’era andata minacciando di fare ricorso e chiudendosi ogni porta alle spalle, ed era finita a fare la commessa in un negozio d’abbigliamento.

Le succede ogni primavera, ma quest’anno la visione dei nuovi animali scuri di fronte a casa non fa che aumentare la sua irrequietezza. La fatica compiuta per arrivare fino a là sembra aver scavato i loro corpi, come l’acqua lenta modella la roccia, lasciando muscoli e nervi emergere decisi e orgogliosi. Di quegli animali, sembra rimasto soltanto l’essenziale. Gaia è ormai arrivata. Nota subito un nuovo cartello – Si prega di fare la MASSIMA ATTENZIONE e accertarsi che il portone non rimanga MAI APERTO che tradisce la psicosi maiuscola, da assedio dilagante – non è sempre così che hanno inizio i conflitti? Nella sua tesi di dottorato, che le era valsa grandi lodi e la pubblicazione su un’importante rivista di studi sulla Natura, Gaia aveva tentato di ricostruire da materiale d’archivio l’origine e le dinamiche dei comportamenti violenti tra consimili, prima che gli animali si mescolassero agli umani. Gli scimpanzé erano stati il caso di studio principale. Le sue ricerche avevano dimostrato che sin dall’inizio gli scimpanzé, anche quando vivevano isolati, si ammazzavano tra loro: aggressioni di gruppo, ma sempre e solo ai danni di esemplari maschi adulti. Eliminare un maschio, in fondo, era un modo per avere di più. Da diversi decenni ormai in città abitava ogni sorta di animale, e ora che le migrazioni diventavano sempre più di massa, le cose non potevano che peggiorare. Gaia apre lentamente il portone, si affaccia appena nell’androne del condominio, e subito fa per ritrarsi – eccoli lì riuniti, ecco il comitato anti-degrado – galline, maiali, pecore, cani, vacche – poveri illusi, come se riunirsi al sicuro, prendere decisioni in ridicole stanze del potere, potesse davvero servire a qualcosa, quando fuori tutto è in continua evoluzione. “Ma lo sapete che ieri hanno importunato la maialina del quinto piano, quella che abita nella scala A!”, “Ma quella è una ragazzina, va ancora a scuola!”, “Mi fanno schifo!” – è tutto quello che riesce a sentire, prima di allontanarsi. La prima reazione di Gaia è quella di non riuscire a crederci, neanche un po’. Non tanto per l’età – quell’adolescente viziata è una stupida scrofa con tanto di unghie finte, trucco e vestitini volgari per uscire la sera con le amiche.  È vero che tra i nuovi animali sembra che ci siano solo maschi – saranno partiti da soli, in avanscoperta? Le femmine li raggiungeranno una volta cresciuti i cuccioli? O saranno partiti insieme, e solo loro sono sopravvissuti al viaggio? Ma se davvero vogliono accoppiarsi di nuovo, dovrebbero ambire a qualcosa di più di quella scrofetta. Diversi zoologi da talk show, invitati a parlare dell’emergenza migratoria, sostengono la teoria di un salto evolutivo. Pur mantenendo tutti i tratti somatici di animali di terra, sembra che i nuovi arrivati abbiano sviluppato un sistema di branchie per sopravvivere ai viaggi via mare. Troppo a lungo il Mediterraneo, con i suoi pesci e altri animali marini, si è cibato dei loro cadaveri. Ma le frontiere chiuse non fermano la Natura. Gaia, ogni sera alla stessa ora, è di ritorno verso casa dal negozio – la regolarità, in fondo, è una delle poche cose che ama della sua vita da commessa: niente scadenze da rispettare, bandi per finanziamenti, conferenze e lezioni da preparare di notte. Non è stata forse la Natura stessa ad aver inventato per prima i giorni che si ripetono calmi e tutti uguali, non è forse Lei la grande madre di ogni routine? Gaia, ogni sera alla stessa ora, è tentata dall’avvicinarsi un po’ di più ai nuovi animali. Non è stata forse la Natura stessa ad aver superato ogni grado di separazione con l’uomo? Con il capannello dei vicini riuniti nell’androne non può certamente rientrare a casa – non ha voglia di salutare, farsi largo sentendo i loro sguardi addosso. Allora si allontana, a passo rapido dal portone. Presa da mille pensieri, non guarda dove sta andando e finisce dritta addosso a uno di loro, perde l’equilibrio e quasi cade. L’animale la afferra – la mano chiara di Gaia si aggrappa e affonda sul suo dorso scuro e tonico. La sua zampa callosa la tiene in piedi, all’altezza del seno. Gaia chiude e riapre gli occhi in un momento – sente un odore ispido, è il fiato dell’animale, che sa di cibo vero. Un fotogramma del suo collo: eccole, sotto il pelo corto – le ha immaginate a lungo e finalmente le vede – un’infilata di piccole fessure, ipnotiche come un graffio su tela, vive, umide e socchiuse a promettere rivincita. Per un istante, ha voglia di avvicinarsi col volto, con la bocca. Ha voglia di leccare le sue branchie. Scossa da un fremito, Gaia si ricompone e si allontana in fretta, quasi scappa – portano malattie, dicono – mentre l’animale la segue con lo sguardo vivace, sembra preoccupato di averla spaventata, ma bloccato, incapace di comunicare. Chissà se qualcuno è stato testimone della scena. Le succede ogni primavera, ma non ci mette molto a capire che quello scontro ha già cambiato tutto. Anni passati a studiare la Natura sui libri, per capire e per sapere, per conoscere le regole del gioco, ed ora che non ci sono più argini, ora che la Natura è ovunque, ora che gli animali sono ovunque, è lei stessa, nel bel mezzo della città, ad essere preda della pulsione più primordiale, dell’unica che davvero conta: sopravviversi. Il calore che sente tra le gambe è un segnale, quello che si agita nel suo grembo è un vuoto che va colmato. Vuole accoppiarsi, e vuole un figlio, forte, intelligente e bello come lei, ma diverso. Un figlio che non si stancherà, che non imparerà ad annuire sorridendo, che avrà se necessario la forza di attraversare deserti e mari. In questo mondo ormai così misto, questi nuovi animali sono il vantaggio in partenza di cui ha bisogno – fuori dalla probabilità di match nel Tinder zoo, fuori da ogni canone dell’esemplare maschio medio di città, viziato al punto da aver perso di vista il valore stesso dell’essere in vita, viziato al punto da rischiare l’estinzione.

Gaia interrompe la sua fuga. Quella stessa primavera, Natura permettendo, inizierà un’attesa di nove mesi, poi crescerà e difenderà il suo cucciolo, con le unghie e con i denti – grazie a lui, è sicura che continuerà ad esserci, ancora a lungo. Di nuovo, cambia direzione all’improvviso, come un fiocco di polline, che decide all’ultimo di non toccare terra – soltanto a prima vista, una piccola disobbedienza alla legge di gravità. Stavolta, punta decisa verso lo spiazzo verde davanti a casa, verso il bivacco dei nuovi animali scuri.

Andùm?

0

di Greta Bienati

Matricula dos Immigrantes, numero 77.314. Data di sbarco: 6 marzo 1888.

Sul registro degli arrivi al porto di Santos, Brasile, il suo nome viene per ultimo. Prima c’è il capo famiglia, poi la sua mulher, il suo irmão, come là chiamano i fratelli, e quarta lei, sul cui grado di parentela il funzionario non è tanto sicuro: sarà la cunhada?

Anche il nome è sbagliato: Luigia al posto di Letizia. Ma come si fa a sentire bene in un giubileo di spintoni e fagotti, bambini che piangono e sacramenti in cento lingue differenti?

È appena scesa dal Provence, il piroscafo che parte da Genova e fa tappa a Marsiglia e Barcellona, per riempire ben bene le stive prima delle due settimane di traversata. Nacionalidade: Italia. Profissão: Agricultor, scrive il funzionario, che, per fare più svelto, mette le virgolette e non sta neanche a guardare se il registrato ha ottant’anni o sei mesi.

Oltre alle tre parole del registro, di lei è rimasto poco e niente: nessuna foto, poche briciole di ricordi, qualche carta, firmata da mani che, con la scrittura, dovevano avere ben poca pratica. Atti di nascita e di matrimonio, registri di immigrazione, schede individuali nei fogli di famiglia.

Ma a seguir le briciole e a leggere tra le righe, puoi immaginarla in una sera di gennaio, qualche giorno prima dei santi della neve, seduta vicino al camino, in una cascina di San Silvestro di Curtatone. Cinque case e una chiesa, in terra mantovana, lungo la strada che viene da Buscoldo, e tutto intorno nebbia e galaverna a nascondere i campi.

In san Silvestro, la Letizia è venuta a stare da poco, sposina da quattro settimane, ma già con la pancia tonda. Il posto dov’è nata è fatto alla stessa maniera: una cascina in Cesole di Marcaria, dove l’Oglio si butta nel Po. Una dinastia di falegnami e filandere, contadini per forza, in campi dove puoi star sicuro che, prima o poi, il Fiume rompe l’argine e si porta via tutto.

A Cesole come a San Silvestro acqua e formentone formano un mare piatto, che fa correre lo sguardo fino all’orizzonte, e ti pare di vedere la curvatura della terra. Nei campi tagliati dai canali e cuciti dai filari di gelsi, le case sono isole, e gli occhi si aggrappano ai campanili per non perdersi nel niente, verde o grigio a seconda della stagione. Il niente non è posto da confini precisi: la terra e l’acqua si mescolano che quasi non le distingui, e si vede bene che mica tanto tempo fa era palude e terra di coccodrilli. E prima ancora mare vero, con l’acqua salsa e i pesci, roba che gli aratri scavano ancora fuori conchiglie pietrificate del tempo del Diluvio.

Forse è mare anche adesso, a guardare quanto l’acqua viene vicina alle case. Una volta con la piena, un’altra con la nebbia, che non sembra ma sempre acqua è, e viene anche lei dal Po, a far umide le lenzuola, che non riesci a dormirci se non le asciughi con lo scaldino.

Visto che la Letizia è venuta al mondo di Venerdì Santo, han pensato bene di metterle un nome di buon augurio, a esorcizzare la data triste: Letizia Pasqua, un nome che più contento non si può.

Nella pancia, non lo sa ancora, ma c’è una tusa, a portar fortuna alla sposa, come si dice in tutta la Lombardia. Di nome le metteranno Maria Giuditta, per avere la protezione della Madonna (e sicuro la Letizia è andata a accendere un cero alle Grazie, per proteggere il primo parto), e quella della suocera, che è morta prima di vedere la nipote. Ma non basteranno né l’una né l’altra, perché, sulla Matricula dos Immigrantes, Maria Giuditta non c’è. E i fratelli che verranno dopo di lei non sapranno neanche che è mai stata al mondo.

Chi avrà avuto l’idea di partire? Una voce corsa a una fiera? Oppure un compaesano intraprendente (c’è sempre uno che la sa più lunga degli altri)? E magari, dopo averli convinti, lui è rimasto lì, a San Silvestro, nell’oceano di formentone e nebbia.

A chiudere gli occhi, puoi quasi vederli, nella sera di gennaio, baffi gli uomini e capelli raccolti le donne, seduti nella cucina un po’ scura, che il lume a petrolio è meglio risparmiarlo. E i due fratelli a scambiarsi le parti, uno a fare quello convinto e l’altro lo scettico, che essere contadini vuol dire esser diffidenti, perché ho mai visto girare il mondo dalla parte giusta.

– Ti dico che pagano il viaggio e danno la terra gratis, ca ‘t gnìs ‘n càncar!

– Eh già! E io ci credo!

Poi da capo, a ruoli invertiti, quello convinto che adesso ha i dubbi, e l’altro che si è deciso e torna lui a convincere il fratello. Tutto in dialetto, è ovvio. Perché l’italiano è un parlare forestiero uguale al portoghese.

Magari la Letizia tira fuori le carte, come han sempre fatto a casa sua quando c’era una decisione importante. Solo tre, scelte con la mano del cuore. Una è sicuro di quadri, a promettere ricchezza, ma forse c’è anche un picche, a dire che non saranno solo rose e fiori.

La bambina tira un calcio, per dire anche lei la sua, che qua i temperamenti sono infiammabili come zolfanelli già prima di venire al mondo, e l’intercalare che augura un canchero dice già tutto sui rapporti col prossimo. La Letizia accarezza la pancia e guarda le carte. Di lì a poche settimane, vedrà robe che, in vita sua, non si era mai neanche immaginata: il porto di Genova come un formicaio, la nave a vapore più grande della chiesa della Madonna, e poi l’Oceano, che chissà che impressione per lei che non ha mai visto il mare. E la traversata, con intorno solo acqua, in un tempo senza sapore, senza neanche un campanile a cui aggrappare lo sguardo.

E poi il Brasile, e Campinas, e avevi ragione, davvero davano la terra, ma quale terra, che qui c’è da tirar giù una foresta intera, ca ‘t gnìs ‘n càncar! E la piantagione di caffè, i serpenti e le tigri, l’ananasso e lo scimmione.

Poco cielo, che gli alberi e le colline chiudono la vista, tutto al contrario di Cesole, dove gli alberi li vedi solo sul viale che va al cimitero, e le montagne compaiono lontane lontane solo un paio di volte l’anno, nei giorni freddi di vento. E niente inverno, che qua si vive senza le scarpe anche quando vai sul calesse col vestito della festa, e i bambini non riescono a immaginarsi come sono fatte la neve e la galaverna.

E quando sei lì bene, con una fazenda, cinque figli e quello dei sei lì lì a venire al mondo, non capita mica un furto di cavalli? Lo so chi è stato, adesso vado a prenderlo. E la voce del ladro che digrigna: quando vengo fuori di galera, ti pago io.

E adesso? Adesso non puoi mica dormire tutta la vita col fucile di fianco. Lo penso io, lo pensi anche te: forse è meglio se andiamo a casa. Coi soldi che prendiamo dalla fazenda, sai quanta terra ci comperiamo a Cesole? E poi, un domani, si può sempre tornare qua, ormai sappiamo la strada, e i figli sono mezzo brasiliani.

Avanti e indietro, attraverso l’Oceano, che è sempre grande e noioso uguale. E uguale è anche Cesole, e la piana, e il Fiume. Così uguale che non facciamo in tempo a comperare la terra, che l’acqua arriva a portarla via, con la piena del Novecentosette. E giusto perché gli anni neri sono neri fino in fondo, pochi mesi e la Letizia, dopo due traversate dell’oceano e sette figli, muore di parto insieme a quello che avrebbe fatto otto.

Ma, in questa sera di gennaio, il domani sono tre carte. Qui ci sono solo la galaverna, le braci nello scaldino, la campana di San Silvestro che batte le nove. E due voci:

–  Andùm?

– E andùm, ca ‘t gnìs ‘n càncar!

Su “Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino”

2

Gualberto Alvino, Scritture verticali. Pizzuto, D’Arrigo, Consolo, Bufalino prefazione di Pietro Trifone, Roma, Carocci 2024.

di Mariano Bàino

Riguarda la prosa di quattro grandi “irregolari” della letteratura italiana contemporanea questo studio di Gualberto Alvino: quattro autori «d’eccezionale competenza linguistica e consapevolezza estetica», i quali «lavorano al trivio fra prosa, poesia e speculazione lato sensu filosofica, mirando alla rifondazione dell’arte narrativa in direzione antagonistica e di ricerca, ergo trasformando in capitale questione stilistica ogni minimo dettaglio del loro operare». Difficilmente si potrebbe dir meglio, a voler cingere in un unico cartiglio i nomi di Antonio Pizzuto, Stefano D’Arrigo, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino. Certo, l’orizzonte oggidiano della scrittura, per semplicismo stilistico, per colluvie digitale, appare perlopiù disinteressato, se non proprio avverso, alla parola inquieta, non comune, e a combinazioni retoriche raffigurabili come letterarietà radicale. Nondimeno, Gualberto Alvino, che ha dalla sua una lunga fedeltà di stilcritico ai quattro scrittori siciliani, in Scritture verticali procede con forte inclinazione ad aggiornare e sviluppare l’ermeneutica testuale già affidata a saggi e articoli linguistico-stilistici, guidando il lettore alla genesi di complessi procedimenti onomaturgici, alle preziose materie laboratoriali emergenti da carteggi privati, in generale a potenti tensioni espressivistiche.

In apertura del volume, due studi sul lessico pizzutiano, il primo dei quali apre con una citazione da Lessico e stile dell’autore palermitano riguardante il neologismo «più temerario da lui forgiato»: «L’aggettivo […] mi è rimasto impresso dalla lettura di Tucidide, compiuta quarant’anni fa, e guizzatomi dentro come un ago inghiottito che torni alla luce dopo una circolazione innocua di decenni nelle viscere […]. Lamprà: che voce meravigliosa; quel rotacismo vi mobilita il lampo infondendovi arcana vibratilità. […] Nessun’altra voce direbbe, secondo me, altrettanto». Negando alla parola la mera funzione di tramite comunicativo, privilegiandone il lato ambiguo e sfingeo, l’autore di Paginette fonda la sua nozione di narrare in contrasto a raccontare, che è il campo del solo «fatterello», un «antico sistema» del ridurre, in cui i personaggi sono «documenti», mentre nel narrare essi sono «testimoni»; qui la rappresentazione «non è più offerta ab extra, come una planimetria sottoposta al lettore, ma scaturisce intuitivamente da ciò che legge, con una compartecipazione attiva, direbbe un tomista in contuizione». I principî compositivi di Pizzuto, come ognuno sa, hanno suscitato anche commenti dubbiosi, come in Cesare Segre e in altri, per l’ipotizzata propensione a un artificio insistito fino al punto di sottrarre la parola alla sua naturale circolazione, tout court al suo agire comunicativo. Ma il controverso dibattito intorno all’autore, da qualunque parte lo si voglia vedere, non rende meno benemerite le ricerche e le scoperte di Alvino, il cui scopo dichiarato — nell’inseguire l’«estro neologico» di Pizzuto e il suo tentativo «d’occupare uno spazio unico nel mondo, battezzando la cosa e transustanziandosi in essa» — è quello «di contribuire alla riapertura d’uno dei casi letterari più formidabili del secondo Novecento». In Onomaturgia pizzutiana II vengono in particolare esaminati gli scritti più tardivi: Giunte e virgole e Spegnere le caldaie, quest’ultimo dettato dall’ottantenne scrittore alla figlia poco prima di morire. Qui la decrittazione dell’«ordigno neologico» deve fare i conti con «un’evasività semantica e […] un’ambiguità figurale senza confronti nella storia dell’italiano letterario». La prospettiva è tale da dischiudersi a «innumerevoli fughe, nell’infinita circolarità». Fra primo e secondo scrutinio Alvino rileva 666 coniazioni originali. Qualche specimen: «Desertudine […]: ‘silenzio d. tosto banditi’. Da deserto secondo il rapporto solo-solitudine»; «Giambicardia […]: ‘riccioli, g., compatto magdeburgismo’. Da giambo e cardìa. ‘Pulsazione cardiaca a ritmo giambico’»; «Verseggevoli […]: ‘notari v. in clausola’. Da verseggiare col suff. –evole. ‘Che si dilettano a scrivere versi’».

Al di là di una naturale, comprensibile Familienähnlichkeit tra i profili dei quattro autori, Scritture verticali rivolge il suo focus soprattutto all’arte personale di ognuno. Nel caso di D’Arrigo molto si evince dalle lettere indirizzate all’amico ragusano Cesare Zipelli lungo l’arco di quasi mezzo secolo, contraddistinte da «un’assoluta — e, si badi, affatto involontaria — negligenza estetica», con la superficie della carta insaziabilmente inondata dall’inchiostro, e con l’evidenza di una «rapidità esecutiva e un malgoverno linguistico poco meno che traumatizzanti» se riferiti a un autore divenuto per l’opinione invalsa «l’incarnazione stessa dell’amletismo e dell’incontentabilità». L’epistolario smentisce tali miti, ci dice di uno scrittore che lungo il ventennio che va dal primo abbozzo di Horcynus Orca alla pubblicazione mondadoriana nel 1975 ha lavorato saltuariamente e senza una precisa strategia di revisione, oppresso dalla sua malattia, la sindrome bipolare. Per Alvino questo è il fil rouge che attraversa, salvo trascurabili differenze formali, tanto il modus epistolandi quanto il romanzo. La parola, «risucchiata nel gorgo infinito della coazione a ripetere, si fa motore d’una sorta di borbottio paranoide, di mantra ipnotico privo di motivazione tematica, sicché la corrente diegetica vacilla, si smorza, cede alla libera fulgurazione associativa, sotto specie d’impetuosa proliferazione, di ingovernabile narcisismo verbale schiacciato in una pressoché totale intransitività». Il furor linguisticus darrighiano, nello scrutinio di Scritture verticali, trascina con sé «forme e costrutti ai confini della grammatica», «ripetizioni non funzionali a distanza ravvicinata», «filze di subordinate del medesimo tipo», soprattutto «relative e causali, come negli scritti dei semianalfabeti». L’insieme, nel contribuire alla formazione della lingua orcinusa, determina la scommessa di D’Arrigo: il conseguimento «di un valore e di una ‘verità estetica’ senza precedenti». Epperò, se di reale scarto dalla norma e di autentico sperimentalismo linguistico si può parlare circa Horcynus Orca è essenzialmente in virtù di un lavoro che resta al di qua di un confine rigidamente lessicale, restando gli svii di natura sintattica di modesta entità. Com’è scritto in un saggio degli anni Settanta del Novecento di Ignazio Baldelli, citato da Alvino, «il genio insistentemente deformante di D’Arrigo ha la sua più evidente manifestazione stilistica nel gusto derivativo ed etimologico: lungo tutta l’opera si svolge una festa sfrenata di denominali, di deverbali, di parasinteti verbali, di parole composte e ripetute». Centralità assoluta, nello scrittore messinese, e non solo in senso squisitamente onomaturgico, del profilo lessicale, dal quale sono escluse del tutto coniazioni riconducibili al greco, poche quelle che rinviano al latino, mentre prevalgono le basi concrete e dialettali. Dal glossario allegato al secondo studio su D’Arrigo, fra le 956 voci scrutinate vi sono 554 neologismi d’autore, fra cui: «Abbranchiante […]: ‘la membrana grisposa, a. e sditata delle manuncule’ Part. pres. d’un supposto *abbranchiare, da branchia col pref.a(d) – illativo. ‘Simile a una branchia’. Ma anche da abbrancare ‘afferrare’, ‘ghermire’»; «Orcinato […]: “il suo essere orcinuso aveva pigliato la via dell’aceto degenerando in o., dall’essere la Morte e passare per immortale all’essere un mortale, a essere un morto”. Part. pass. d’un supposto *orcinare, dall’agg. lat. orcinus ‘dell’averno’, ‘dei morti’»; «Pomponellaro […]: “in gran pomponella, s’ammassarono là, […] quelle pomponellare s’allontanarono”. Dal sic. pumpinella ‘sfottò’ col suff. –aro di mestiere».

Nelle pagine di Scritture verticali dedicate all’arte della parola di Vincenzo Consolo si incontra, per sottolinearne la furia combinatoria, l’immagine dell’«olla podrida», antica pietanza della cucina spagnola, a dire di un calderone dove cuociono i più svariati ingredienti. In effetti, nei testi esaminati, da La ferita dell’aprile al Sorriso dell’ignoto marinaio, fino a L’olivo e l’olivastro, «l’amministrazione della cosa linguistica» mette in moto «sperimentalismo convulso», «esuberanza dell’elemento retorico», mescolio di codici, «esaltazione del livello fonosimbolico». Un’olla podrida che ribolle di tensioni discordanti ed esposte al rischio del feticismo lessicale, dell’acrobatismo sintattico. «Un itinerario — annota Alvino — discontinuo e talora eclatantemente contraddittorio, tenendo fermo che scrittori come Consolo — pur tutt’altro che inappuntabili […] da ogni rispetto — costituiscono una risorsa preziosa e vitale per la prosa letteraria italiana». Nell’espressivismo consoliano, «cruento ed estremistico», spicca per originalità il particolare valore dato alla metrica, con la preminenza dell’endecasillabo, in solitario o in gruppo. Gli eventi fonetici si arricchiscono di rime e quasi-rime, di assillabazioni, risonanze allitterative, fin quasi a «un’adorazione estenuata del significante». Il comparto lessicale mostra una notevole vivacità, sia in sede onomaturgica che dialettale, con l’uso di parole antiche o desuete, di neoformazioni d’autore, e soprattutto di rielaborazioni di vocaboli dialettali. Le coniazioni originali computate sono 57, con alta frequenza di univerbazioni, composizioni e forme pre- e suffissali, mentre arrivano a 184 i dialettalismi. Fra questi, «Calasìa […]: ‘Bellezza’, ‘non improbabile grecismo’, ‘si tratta sicuramente di una parola del lessico familiare dello scrittore», che non ha riscontri lessicografici siciliani né calabresi; «Cuffiesco […]: “torture, angeliche muffoliche cuffiesche”. Da cuffìa del silenzio, ‘antico strumento di tortura’»; «Incastronare […]: “sciortivano gli acini o cocci per fare, infilando o incastronando con l’oro e con l’argento, paternostri”. Incastonare + incastrare».

Nell’«universo monologico, unilingue, graniticamente atemporale» dell’opera di Gesualdo Bufalino — qui esaminata non solo attraverso Diceria dell’untore, ma anche ripercorrendo i testi poetici, gli scritti saggistici e gli elzeviri — Alvino riconosce «lo statuto d’una scrittura duttile, densa, sorprendentemente viva e vitale, capace di contrastare la dilagante mediocrità espressiva» e di offrire all’esegeta, più di ogni altra, ricchi stimoli critici. «Comparata al modulo ordinario, è certo che la lingua di Bufalino si connota per una insaziata ricerca d’inattualità, una fuga dal presente posta in essere mediante vistosi sovvertimenti topologici affatto incomprensibili fuori dell’istanza ritmica, tale intendendo non già l’edificante laccatura d’una sonorità additiva e tutta esteriore, ma signoria della misura sull’impulso, equilibrio architettonico e tonale, desiderio di rifondazione d’una civiltà letteraria». È Bufalino stesso, in Essere o riessere, a suggerire per le sue pagine una lettura musicale, «un’attenzione al ritmo, alle andature melodiche […] ai campi metaforici, alla prosodia nascosta nei meandri del periodo». Circa il lessico, tra recuperi di varianti arcaiche e ricerca di fascinose sonorità, spicca il comparto neologico, con i suoi 120 neologismi d’autore. Fra le formazioni avverbiali: «Annakareninamente […]: “finita poi suicida, a., sotto le ruote di un treno”. Da Anna Karenina, protagonista dell’omonimo romanzo tolstojano». Nel settore delle formazioni pre- e suffissali: «Irraggiunto […]: “libri amati e irraggiunti”. Da raggiunto col pref. in- negativo». Fra le procedure univerbizzanti: «Madreterna […]: “Scadendo […] dal suo trono di m.”».

Il percorso seguito da Alvino, buonissimo esempio di consapevolezza metodologica e di indagine linguistica, è provvisto di una qualità che a buon diritto lo rende imprescindibile nello studio dei quattro autori siciliani.

I giorni di vetro

1

di Mauro Baldrati

La purina (poverina, che carina). E’ una delle parole che ricorrono frequentemente nel testo, come babina, bagattare (rovinare, distruggere), svettole (sberle) e altro ancora, in un particolare slang romagnolo tradotto che ci invita a tuffarci nelle acque antiche della Romagna anni Trenta. Una Romagna arcaica, patriarcale, popolata da contadini, pastori, segnata da una miseria inimmaginabile, dominata dalle superstizioni, dalla paura, dai fantasmi.

L’incipit è uno shock anafilattico immediato, siamo già dentro:

Era molto meglio prima, quando io non c’ero e non c’era nessuno dei miei fratelli, né i vivi né i morti. C’era solo mia madre che si rivoltava sul materasso del camerino e urlava: “Ammazzatemi, osta dla Madona” e la Fafina rispondeva: “Sta’ zeta ché chiami il Diavolo”, e andò avanti così per tre giorni e tre notti, finché mia madre lanciò un grido feroce e venne fuori Goffredo, il primo dei miei fratelli morti. Quando gli diedero lo schiaffo per farlo piangere lui non pianse, allora la Fafina scosse la testa e disse: “E’ segno che a Dio Cristo lassù gli bisognavo un angiolino”.
Ne vedeva tanti di bambini nati morti, e quello era uguale a tutti gli altri, anche se era suo nipote.
Mia madre la guardò avvilita. “Perché?” chiese.
“Perché hai mangiato troppo cocomero. Il cocomero fa acqua nello stomaco e il bambino si è annegato, il purino”.

La madre, Adalgisa, ne partorisce altri due, Tonino e l’Argia, tutti morti. Una maledizione. La madre dovrebbe rivolgersi al dottore di Castrocaro – una cittadina termale della provincia di Forlì – ma qui si tratta di un caso speciale, per cui va dal fattucchiere, “erudito di piante e radici e intrugli che Dio sa cosa”. E’ un santone che possiede un bastone appartenuto a Sant’Antonio, nonché “Aveva guarito anche donna Rachele, che dopo avere avuto Bruno si era ammalata di malinconia, e il Duce era venuto di persona da Milano, una mattina, a ringraziarlo con dieci casse di Albana di Predappio”.

Questa la “cura” di Zambutèn:

Dovete aspettare che vi venga il mestruo. Il primo mestruo dopo la bambina morta è quello buono. Dovete stare seduta su un pitale d’argento e raccogliere il sangue, quindi dovete farne bere dieci gocce a vostro marito, diluite nel Sangiovese. Dopo dodici giorni lui deve prendervi, e anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Poi non dovete guardarvi più. Voi dovete dormire in un letto e lui in un altro. Vi nascerà una figlia che ancora addosso la scarogna, ma camperà.

Infatti nascerà Redenta, l’eroina principale di tutto il romanzo, la babina, la ragazzina, la donna segnata dalla scarogna, per di più storpia (avrà la polio, raccontata in un capitolo impressionante in cui ci sembra di vivere di persona quella tragedia) e “inscimunita”.

In realtà non lo è affatto, scimunita, è solo piegata, rassegnata dalla sua sorte imposta da un ambiente spietato, che non ammette deroghe, quasi si trattasse di un biotopo di animali dei boschi, o del deserto, o dei pesci di un fiume, dove chi soccombe viene semplicemente abbandonato, o mangiato, perché sono le dure regole della sopravvivenza.

E così comincia il viaggio in questo multiverso antico, popolato da una folla di personaggi ammantati da un che di leggendario, di folle, di barbarico, con storie talvolta divertenti e paradossali – come un ballo popolare in una sala soprastante un porcile, poi il pavimento crolla e i ballerini precipitano nel troiaio dei maiali. Compaiono i personaggi che seguiremo nel racconto, partecipando alla loro crescita e alle loro scelte, che in realtà non sono tali, perché sono imposte, dalle famiglie, dalla storia.

Ma non si immagini un romanzo di tipo antropologico o folkloristico. Certo, il folklore romagnolo, unico nel suo genere in tutti i folklori nazionali, filtra, ma anche se non ne abbiamo consapevolezza siamo già stati avvolti dalla elaborata ragnatela che un astuto ragno letterario sta tessendoci intorno. E’ iniziata la storia, con una quantità di dettagli che ritroveremo nella progressione, quando le vicende si complicano, o precipitano nella violenza e nella guerra.

Ecco un esempio perfetto di quel meccanismo ad alta precisione che costituisce l’intreccio: dopo il “balzo della belva”, ovvero la brusca accelerazione del flusso narrativo, inciso sulla pietra in questa riga finale della parte seconda (Giovinezza): Se non fossi mai nata, non avrei mai incontrato Vetro, quando siamo già scesi negli inferi della violenza fascista, abbiamo un’illuminazione, e soprattutto un risarcimento. Vetro, il gerarca della milizia fascista, un uomo bello, affascinante, prende in moglie Redenta, anche se ha la scarogna, ed è sciancata e scimunita (più avanti scopriremo il vero motivo). Non la chiede, lo comunica. Naturalmente i genitori sono entusiasti, che fortuna! E qui siamo già sprofondati nell’abisso oscuro dell’orrore, pubblico e privato. Vetro è stato un criminale di guerra in Etiopia, ha partecipato a orrori che se non superano – perché forse è impossibile superarli – quelli delle Tontenkops SS tedesche e ucraine, quanto meno li eguagliano. Lo stesso orrore sadico lo rivolge a Redenta, poi a una misteriosa donna nazista alla quale, all’inizio, appare sottomesso. Ma anche lei diventa una vittima, torturata lentamente, finché Redenta, che fino a quel momento ha accettato la sua sorte senza lamentarsi, la porta via, in fin di vita. Poi si prepara a essere uccisa da Vetro. A questo punto  ci chiediamo chi era quella donna, e vorremmo sapere che fine ha fatto. Perché se sparisse nel nulla, mentre il racconto avanza, resteremmo con un fastidioso senso di insoddisfazione. Tranquilli, lo sapremo. Anzi, lo sappiamo già. Perché l’autrice sta lavorando al personaggio, lo sta sviluppando, lo sta conducendo da noi, finché come nei più grandi noir esclamiamo: Santo cielo, allora era lei quella donna! E per lo stupore abbiamo una piccola vertigine.

Vetro, che dà il titolo al libro, è il Male, il fulcro su cui si appoggia la svolta narrativa, quando dopo la deflagrazione della violenza fascista entriamo nella resistenza, ritrovando i nostri personaggi che sono usciti dall’infanzia e corrono a tappe forzate verso l’età adulta. E qui entra in campo la seconda eroina, Ines. Forse per “una questione privata”, per seguire il tenebroso, nervoso ragazzino Bruno (diventato il comandante Diaz), di cui sia lei sia Redenta sono innamorate, diventerà una comandante partigiana

Le pagine sulla resistenza sono intense, avventurose. Nicoletta Verna ovviamente non ha vissuto quell’esperienza, per cui, oltre a una accurata ricerca storica (l’eccidio del villaggio di Tavolicci, pagine brucianti di atroce violenza nazifascista, è realmente accaduto per mano di un battaglione di SS italiane) è inevitabile la lezione di Fenoglio, del Partigiano Jonny e, appunto, di Una questione privata. Ma non vi è nulla di retorico o didascalico, le anime dei personaggi sono vive, sempre all’erta, segnate dalle contraddizioni e dai desideri e dalle speranze, quella questione privata che costituisce la forza motrice di ogni evento. Ines sente di avere una missione che la spinge, la domina, ma l’autrice ce la rappresenta in tutta la sua debolezza umana: quando sta per giustiziare il gerarca criminale di guerra Graziani, in una formidabile azione gap, la mano si rifiuta di premere il grilletto. E per questo sarà divorata dal rimorso.

Coraggio, rassegnazione, sprezzo del pericolo, paura, amore totale e disperato, tutti questi sentimenti ricorrono nel racconto epico, che, come in una sinfonia quando gli strumenti iniziano a preparare il finale, vira inesorabile verso la grande tragedia della storia.

 

 

Πόθος e altre poesie

0

di Maddalena Claudia Del Re

 

Πόθος

Predispongo,
da luoghi lontani,
invisibili ad altri,
la mente,
l’animo,
le mani al fare.

Staccando dall’esile fusto del Πόθος
la foglia ingiallita,
do ordine al mondo.

***

Funerali accanto

Figli, morti, funerali accanto.
Fosse comuni. No benedizioni.
No riti funebri scanditi
da ritmi consolanti forgiati nei millenni.

Mariti, mogli, funerali accanto.
Padri, madri, funerali accanto.
Fosse comuni.

Tutto si invola.
Tutto si contorce.
Le mani, dita ossute, occhi, strabismi.

Amici, amiche, funerali accanto.
Il gatto del vicino. Funerale accanto.

Campane, muezzin, il sacro Gange.
Sassi sul marmo. Fiori sul marmo.
La croce, mezzaluna, stella di Davide.

Ingenuo Ganesh con i colori sgargianti delle spezie profumate.
Macabro Cristo col tuo corpo nudo martoriato e offeso e sanguinante,
esposto,
accessibile,
anestetizzato nelle infinite ripetizioni.

Potente Madonna di misericordia.
Potente Madonna di salute.
Potente Madonna della serpe. Schiacci il male col piede di tuo figlio.

Distanti stelle. Non insegnate più la via.

Mare. Ricoprimi. Spuma nel naso e acqua nei polmoni.

Sole. Riscaldami. Bruciami. Inceneriscimi. In un parcheggio d’asfalto bollente dove non trovo più la mia auto.

Vento. Vertigine di foglie secche e cartacce.
Stracci,
gomiti consumati nell’attesa della tua venuta.
Vento. Violento, sollevami
1000 piedi da terra
e poi rallenta,
calmati,
chetati,
tranquillizzati,
fermati, fermami,
lasciami precipitare,
guardami precipitare,
sfracellare
ossa umane
sul marciapiede dissestato di questa Roma disgregata, disordinata, degradata, maltrattata, abbandonata, sozza e irrecuperabile.

Non vi trovo più.
Non mi trovo più.

***

Funerali accanto – seguito

Le ossa impattate sull’asfalto del parcheggio
il brecciolino lacera lo zigomo già frantumato
sangue e saliva dal labbro spaccato
copertoni di auto e tubi di scappamento
i miei occhi si schiudono appena.
Rumori di tacchi scolpiti nell’aria.
Aspetto qualcosa.
La morte o un camice bianco

La pelle respira avida
il bello della terra.
Ancora mi nutro.
Ancora mi nutri.

Castel del Monte,
le sue geometrie.
Il falcone si posa sul braccio,
protetto dal cuoio oleato, inciso, traforato,
del rosso imperatore.
Rivolge lo sguardo alla piana
il rosso imperatore.
Io poso lo sguardo alla piana
compresa e sopraffatta.

San Giorgio Maggiore
sorgi dalle acque
innalzata con gesto magico
di serenissime simmetrie.

Mi emoziono
e forse mi ritrovo.

Vacanze hegeliane. Magritte, Lenin e Zetkin persi in un bicchiere d’acqua

4

 

Les vacances de Hegel (1958)

(olio su tela, 60×50, collezione privata*)

di Jamila Mascat

Pare che René Magritte amasse chiamare a raccolta i suoi amici per ricevere suggerimenti su come battezzare le sue opere. In realtà, stando a quanto riportato da sua moglie Georgette, “spesso accadeva che, il giorno dopo, non fosse più soddisfatto delle loro invenzioni [le proposte suggerite dagli amici] e scegliesse allora un nome che piacesse a lui”.

Nel 1958 Magritte dipinse il quadro qui sopra che, come già “La dialectique appliquée” (1944-45) e “L’Éloge de la dialectique” (1937), avrebbe ricevuto un titolo d’ispirazione hegeliana. Non è chiaro se, in questo caso, “Les vacances de Hegel”  fosse stato concepito da Magritte o suggerito dall’amico e poeta surrealista belga Paul Nougé.

In una lettera al critico Suzi Gablik, l’artista spiegava così la genesi dell’opera :

“Il mio ultimo quadro è nato con la domanda: come mostrare un bicchiere d’acqua in un dipinto in modo tale che non risulti indifferente? O capriccioso, arbitrario,  debole – ma, permetteteci l’espressione, con genio? (senza falsa modestia). Ho cominciato disegnando tanti bicchieri d’acqua, sempre con un segno lineare sul bicchiere. Questa linea, dopo il centesimo o il centocinquantesimo disegno, si è allargata e alla fine ha preso la forma di un ombrello. L’ombrello è stato poi inserito nel bicchiere e, per concludere, sotto il bicchiere. Che è l’esatta soluzione alla domanda iniziale: come dipingere un bicchiere d’acqua con genialità. Ho poi pensato che Hegel (un altro genio) sarebbe stato molto sensibile a questo oggetto che ha due funzioni opposte: allo stesso tempo non ammettere l’acqua (respingerla) e ammetterla (contenerla). [Hegel] Ne sarebbe stato deliziato, credo, o divertito (come in vacanza), e ho chiamato il quadro Le vacanze di Hegel“. (R. Magritte, Les mots et les images).

Ma l’idea che l’unità degli opposti espressa dal bicchiere avrebbe mandato Hegel in vacanza, non è l’unica speculazione possibile sui riferimenti dialettici contenuti nel dipinto. In fondo perché un bicchiere d’acqua? Come non pensare a Bucharin, e di rimando a Lenin?

In “Lenin e il movimento femminile” (1925) Clara Zetkin ricorda a distanza di qualche anno il suo incontro con il leader bolscevico a Mosca per discutere della questione.

“La nostra prima lunga conversazione su questo argomento ebbe luogo nell’autunno del 1920, nel suo grande studio al Cremlino. Lenin era seduto davanti al suo tavolo coperto di libri e di carte, che indicavano il suo genere di occupazione e il suo lavoro, ma senza ostentare ‘Il disordine dei geni'”.

Dopo aver tessuto le lodi delle “magnifiche operaie russe”, Lenin, curioso, chiese a Zetkin: “Ma ditemi, come va il lavoro comunista all’estero?”

E Zetkin riferì soprattutto della situazione in Germania, e di “Rosa [Luxemburg che] riteneva della più gran­de importanza conquistare alla lotta rivoluzionaria le masse femminili”.  Purtroppo, quanto alla situazione negli altri paesi in Europa, disponeva di “informazioni limitate, dati i collegamenti deboli ed irregolari che esistevano tra i partiti aderenti all’Internazionale comunista”.

Lenin si dimostrò un ascoltatore paziente, interessato anche ai dettagli apparentemente irrilevanti. “Non conosco nessuno che sappia ascoltare meglio di lui, osservò Zetkin, classificare cosi presto i fatti e coordinarli, come si poteva vedere dalle domande brevi, ma sempre molto precise che mi rivolgeva ogni tanto mentre parlavo, e dalla maniera di ritornare poi su qualche particolare della nostra conversazione”.

Desideroso di saperne di più Lenin continuò incalzando Zetkin: “Come insegnate alle compagne? Questo problema ha un’importanza decisiva per il lavoro da svolgere tra le masse. Esso esercita una grande influenza perché penetra proprio nel cuore delle masse, perché le attira a noi e le infiamma. Non posso ricordarmi in questo momento chi è che ha detto: non si fa nulla di grande senza passione [ma come può non ricordarselo? Hegel! “Dobbiamo dire in generale che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione”, G. W. F. Hegel,  Lezioni sulla filosofia della storia (1837), I, 62-63, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pp. 73-74]. Ora, proseguì e concluse Lenin, noi e i lavo­ratori del mondo intero dobbiamo veramente compiere ancora grandi cose.”

Ma la domanda – Come insegnate alle compagne? – non era ingenua, e mirava ad una risposta precisa.

“Senza attendere la mia risposta, Lenin continuò:  “La lista dei vostri peccati, Clara, non è ancora termi­nata. Ho sentito che, nelle vostre riunioni serali dedi­cate alle letture e alle discussioni con le operaie, voi vi occupate soprattutto delle questioni del sesso e del ma­trimonio. Questo argomento sarebbe al centro delle vo­stre preoccupazioni, del vostro insegnamento politico e della vostra azione educativa! Non credevo alle mie orecchie.”

Zetkin contrastò l’idea di Lenin secondo la quale “questa abbondanza di teorie ses­suali, che non sono in gran parte che ipotesi arbitrarie, provenga da necessità tutte personali, cioè dal bisogno di giustificare agli occhi della morale borghese la pro­pria vita anormale o i propri istinti sessuali eccessivi e di farli tollerare”.

“Feci notare, rispose Zetkin, che le questioni sessuali e matrimoniali in regime di proprietà privata suscitavano problemi molteplici, che erano causa di contraddizioni e di sofferenze per le donne di tutte le classi e di tutti gli strati sociali. La guerra e le sue conseguenze, dicevo, hanno aggravato all’estremo per la donna le contraddizioni e le sofferenze che esistevano prima nei rapporti tra i sessi. I problemi, nascosti finora, sono adesso svelati agli occhi delle donne, e ciò nell’atmosfera della rivoluzione appena cominciata. Il mondo dei vecchi sentimenti, delle vecchie idee scricchiola da ogni parte. I legami sociali di una volta si in­deboliscono e si spezzano. Si vedono apparire i germi di nuove primizie ideologiche, che non hanno ancora preso forma, per le relazioni tra gli uomini. L’interesse che que­ste questioni suscitano esprime il bisogno di un nuovo orientamento. Qui appare anche la reazione che si pro­duce contro le deformazioni e le menzogne della società borghese. Il cambiamento delle forme matrimoniali e fa­miliari nel corso della storia, nella loro dipendenza del­l’economia, costituisce un buon mezzo per sradicare dallo spirito delle operaie la credenza nella perennità della so­cietà borghese. Fare la critica storica di questa società significa sviscerare senza pietà l’ordine borghese, mettere a nudo la sua essenza e le sue conseguenze e stigmatizzare tra l’altro la falsa morale sessuale. Tutte le strade condu­cono a Roma. Ogni analisi veramente marxista riguar­dante una parte importante della sovrastruttura ideolo­gica della società o un fenomeno sociale notevole deve condurre all’analisi dell’ordine borghese e della sua base, la proprietà privata; ciascuna di queste analisi deve condurre a questa conclusione: « Bisogna distruggere Car­tagine ».”

Lenin sorrise soddisfatto, per un verso, dell’arringa di Zetkin, ma continuò con tono sempre più inquisitorio:  “Molto bene. Voi avete l’aria di un avvocato che difende i suoi compagni e il suo partito. Certo, ciò che dite è giusto. Ma potrebbe servire soltanto a scusare l’er­rore commesso in Germania, non a giustificarlo. Un errore commesso resta un errore. Potete garantirmi seriamente che le questioni sessuali e matrimoniali non sono discus­se nelle vostre riunioni che dal punto di vista del materialismo storico vitale, ben compreso?”.

E poi, come in un crescendo, scettico e quasi condiscendente: “Ditemi, vi prego: è proprio questo il momento di tenere occupate le operaie mesi interi per parlare loro del modo con cui si fa all’amore […]?”.

Zetkin si difese da “l’accusa di restare ancora fedele alle sopravvivenze del­l’ideologia socialdemocratica e dello spirito piccolo borghese di vecchio stile”, reclamando tutta l’importanza vitale della faccenda.

Lenin irremovibile continuò a dipanare lungamente il suo pensiero.

E fini per perdersi in un bicchiere d’acqua:

« Nel suo nuovo atteggiamento nei riguardi delle questioni concernenti la vita sessuale, la gioventù si richiama naturalmente ai principi, alla teoria. Molti qua­lificano la loro posizione come “rivoluzionaria” e “comunista”. Essi credono sinceramente che sia così. A noi vecchi non ce la danno a intendere. Benché io non sia af­fatto un asceta malinconico, questa nuova vita sessuale della gioventù, e spesso anche degli adulti, mi appare molto spesso come del tutto borghese, come uno dei molteplici aspetti di un lupanare borghese. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “libertà dell’amore”, cosi come noi comunisti la concepiamo. Voi conoscete senza dubbio la famosa teoria secondo la quale, nella società comunista, soddisfare i propri istinti sessuali e il proprio impulso amoroso è tanto semplice e tanto insignificante quanto bere un bicchier d’acqua. Questa teoria del “bicchier d’acqua” ha reso pazza la nostra gioventù, letteralmente pazza.

« Essa è stata fatale a molti giovani e a molte ra­gazze. I suoi sostenitori affermano che è una teoria marxista. Bel marxismo quello per cui tutti i fenomeni e tutte le modificazioni che intervengono nella sovrastrut­tura ideologica della società si deducono immediatamen­te, in linea diretta e senza alcuna riserva, unicamente dalla base economica! La cosa non è così semplice come ha l’aria di esserlo. Un certo Friedrich Engels, già da molto tempo, ha sottolineato in che consiste veramente il materialismo storico.

« Io considero la famosa teoria del “bicchier di acqua” come non marxista e antisociale per giunta. Nella vita sessuale si manifesta non solo ciò che noi deriviamo dalla natura ma anche il grado di cultura raggiunto, si tratti di cose elevate o inferiori.

« Engels, nella sua Origine della famiglia, mostra l’importanza propria dello sviluppo e dell’affinamento dell’impulso sessuale in rapporto all’individuo. I rap­porti tra i sessi non sono semplicemente l’espressione del giuoco della economia sociale e del bisogno fisico, dissociati in concetti mediante un’analisi psicologica.

« La tendenza a ricondurre direttamente alla base economica della società la modificazione di questi rap­porti, al di fuori della loro relazione con tutta l’ideologia, sarebbe non già marxismo, ma razionalismo. Certo, la seta deve essere tolta. Ma un uomo normale, in condizioni ugualmente normali, si butterà forse a terra nella strada per bere in una pozzanghera di acqua sporca? Oppure berrà in un bicchiere dagli orli segnati da decine di altre labbra? Ma il più importante è l’aspetto sociale. Infatti, bere dell’acqua è una faccenda personale. Ma, nell’amore, vi sono interessate due persone e può venire un terzo, un nuovo essere. È da questo fatto che sorge l’interesse so­ciale, il dovere verso la collettività. Come comunista, io non sento alcuna simpatia per la teoria del “bicchier d’ac­qua”, benché porti l’etichetta del “libero amore”. Per di più, oltre a non essere comunista, questa teoria non è neppure nuova. Voi vi ricordate certamente ch’essa è stata “predicata” nella letteratura romantica verso la metà del secolo passato come “emancipazione del cuore”, che la pratica borghese cambiò poi in “emancipazione del­la carne”. Allora si predicava con maggior talento d’oggi. Quanto alla pratica, non posso giudicarne.

«Io non voglio affatto, con la mia critica, predi­care l’ascetismo. Sono lontanissimo da ciò. Il comuni­smo deve apportare non l’ascetismo, ma la gioia di vivere e il benessere fisico, dovuti anche alla pienezza dell’amore. Secondo me l’eccesso che si osserva oggi nella vita sessuale non produce né la gioia né il benes­sere fisico ma, al contrario, li diminuisce. Ora, in tem­pi rivoluzionari, ciò è male, molto male.”

——————————————————————————————————

*L’opera ha sempre fatto parte di collezioni private: prima acquisita dalla Iolas Gallery, New York nel 1959, passa di seguito a William Copley (Los Angeles), Paul Kantor Gallery (Los Angeles) e infine alla Galerie Isy Brachot (Bruxelles). Da qui nel 1979 viene acquisita da un altro collezionista privato che a sua volta l’ha rivenduta tramite Christie’s nel 2011 all’attuale proprietario al prezzo di 10,162,500 USD.

(c) Ringrazio Nikita Dhawan che,  a Dresda, durante una conferenza su Hegel e la riproduzione sociale, mi ha fatto conoscere questo dipinto.

 

Buena Vista Social: Alessandro Trocino

0

Questa  rubrica è normalmente dedicata alle “cose belle” trovate sui Social, a dimostrazione del fatto che fare rete è oggi, più che mai, una risorsa. Oltre alle cose anche le persone attraversano talvolta le misteriose maglie delle reti, e sconfinano come pensieri liberi.effeffe

A Clochard, Paris. 1928, André Kertész

 

Su, in strada

di

Alessandro Trocino

 

Christian Raimo me lo passa al telefono: «Se vuoi parlargli è qui, è un po’ ciucco». Janek ha una bella voce squillante, anche se un po’ strascicata. «Sì, mi sto curando dall’alcolismo, ma senza alcol non riesco a vivere. Non lo so perché. Non lo so. Voglio smettere ma un po’ di vino o birra devo, sennò non funziono. Bevo da 50 anni. Ho fatto percorso di cure psichiatriche, ho fatto ricovero. Lì non bevevo ma poi davo soldi a infermiera e bevevo. Sì, anche a Rebibbia. Lì ti danno tre birre al giorno o mezzo litro di vino, ma poi paghi e bevi quello che vuoi».

Janek Gorczyca è uno scrittore. C’è il suo nome in calce alla copertina di «Storia di mia vita», appena uscito da Sellerio. Che effetto t’ha fatto? «Boh». È uno scrittore ma anche una persona che ha vissuto per anni per strada, dormendo nelle tende, sulle panchine, nelle strutture abbandonate. Quello che una volta si chiamava barbone, per i più raffinati «clochard» o «vagabondo», poi «senzatetto» e ora «senza dimora». Prima andava a farsi solo le lavatrici e qualche doccia, dal 2017 dorme a intermittenza a casa di Raimo, che è scrittore, insegnante, attivista e che alla militanza politica unisce una coerenza di vita. Insieme a Janek viveva la sua compagna di vita, Marta, anche lei senzatetto per molti anni.

«Perché se avevo tutte altre possibilità, alla fine ho scelto la strada peggiore da immaginare?».

A un certo punto, qualche anno fa, Gorczyca torna a Rebibbia. Per una di quelle assurdità giuridiche che perseguitano chi ha problemi con la legge, i magistrati fanno un ricalcolo della pena residua e si accorgono che deve scontare ancora qualche mese. Gorczyca torna in carcere. Forse per un furto di auto di qualche anno prima, forse per un’aggressione. Da Rebibbia scrive lettere all’amico Christian. Che le legge e pensa: qui c’è qualcosa, sì è sgrammaticato ma ha una forza narrativa incredibile. Durante il periodo del Covid, anche per sfuggire all’angoscia del lockdown, gli dice: «Janek perché non scrivi qualcosa? Perché non scrivi la storia della tua vita?».

Ci dice Raimo: «Mi ha sempre fatto incazzare che i poveri vengano scritti e descritti da altri. Già in politica mi infastidisce che sia impossibile la soggettivazione delle persone subalterne. E poi trovavo paradossale che ci fosse tutta questa retorica dei mille progetti sulla povertà e di fatto quello che vedevo in giro, non era solo indifferenza ma una forma di assistenzialismo, di moralismo, di paternalismo. Così gli ho detto, prova. Scrivi di te e di Marta».

Janek ci pensa un po’, poi comincia. Di giorno fa il muratore, di notte scrive a mano su dei quaderni, in stampatello, a caratteri grossi. Senza punteggiatura, con diversi errori di grammatica, senza articoli. È un periodo duro. Marta sta molto male. Beve, come lui, ma soprattutto ha un tumore, che tornerà più volte. Janek vive a Roma da 30 anni, conosce bene l’italiano ed è un tipo colto, anche se naturalmente ha una formazione disordinata, una cultura quasi schizofrenica. Quando gli chiedi se ha letto libri in italiano, si offende: «Questo mi prende per altro. Ha sbagliato persona. Io ho letto Faletti. Seneca. Puskin. Tolstoj. Posso citare a memoria mitologia latina e greca». Il suo scrittore preferito però è polacco: Adam Mickiewicz, scrittore e patriota, eroe dell’Ottocento. Giuseppe Mazzini lo definì: «La natura poetica più potente del secolo».

L’incipit del libro è folgorante.

«Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile».

Janek racconta la sua storia come un cronista, attaccato ai fatti. Pochi aggettivi, pochi commenti, la sua vita rocambolesca, quella di Marta e dei suoi amici che trova per la strada. In quei giorni conosce Christian, che allora studiava all’università e frequentava la comunità locale come volontario.

Non è un capolavoro questo romanzo, eppure è un libro unico, originale, emozionante, da leggere tutto d’un fiato. Il sospetto di un’operazione commerciale ti coglie subito, sin dal titolo: «Storia di mia vita». «L’avevamo ben presente – dice Raimo – ma con Mattia Carratello di Sellerio abbiamo fatto un editing leggerissimo. Mi sono dato come codice quello di intervenire solo dove il testo non fosse comprensibile e dove ci fossero ripetizioni. Per il resto qualche correzione degli errori, sempre insieme a lui. Alcune sgrammaticature abbiamo deciso di lasciarle. Non tolgono nulla alla dimensione letteraria e alla qualità narrativa del testo».

Che non scade mai nel pittoresco, nel gratuito. Non sono, per capirsi, le frasi ad alto sospetto di manipolazione di «Io speriamo che me la cavo», con la loro sintassi sgarrupata. Qui l’italiano zoppicante dà ancora più forza al testo, lo rende più «vero» e più credibile. Anche perché la sua è un’operazione di pedinamento della realtà.

Nel ‘99, senza soldi e senza alloggio, Janek decide insieme a Marta di andare a vivere a Villa Farinacci, che fu un tempo rifugio del gerarca fascista e che era stata abbandonata.

«Dal primo giorno rinuncio di nascondermi. A distanza di anni mi domando che cosa mi ha spinto di fare questa scelta difficile. Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso della responsabilità? Più probabile voglia di vita un po’ sbandata».

È questa voglia di vita sbandata che lo porta a vivere con gli altri per strada, in situazioni di abbandono, sempre a rischio. Eppure lavora come fabbro, porta a casa soldi. Perché non si trova una casa? «E che ne so – dice lui – forse voglia di vita ribelle». Ma non è solo questo, dice Raimo. A un certo punto gli trova una casa lui, a Quartaccio: «Ma non ce la facevano a starci. Certo, è una casa, è un tetto, è un posto tranquillo, lontano dai pericoli. Ma quando ci sono condizioni di povertà estrema, quando sei alcolista grave, la cosa più intollerabile è la solitudine e la mancanza di solidarietà. Vivere per strada e con della gente, con cui magari mangi un panino, per loro è spesso preferibile rispetto a vivere da solo e isolati dal mondo. Rimedi un bicchiere e ti ributti con le ossa rotte su una panchina». Intorno c’è un’umanità, magari criminale o sbandata, magari folle o disperata, ma comunque persone che sono come te e sono lì con te.

«Io ho la benzina per il gruppo elettrogeno, me la rovescio sulla testa, prendo un accendino e domando a Marta: devo accendere?»

La storia con Marta è straziante, raccontata con durezza e pudore, sin dal primo incontro: «Nasce un sentimento». Questo sentimento resiste a tutto, ai ricoveri, all’alcol, alle malattie, alle botte, ai tentati suicidi. Non c’è niente di stucchevole, di finto, c’è una vita come quelle che per strada non vediamo e che magari abbiamo letta raccontata da Victor Hugo e da chissà quanti altri. Ma leggerla nelle parole di uno di loro è un’altra cosa.

«Per me è un ricordo doloroso e mi sono posto una domanda, perché lei deve soffrire tanto, ma dopo mi sono reso conto che questo era destino suo e anche mio».

A un certo punto del libro, Janek racconta la sua prima vita, picaresca come l’altra. Il lavoro nelle centrali elettriche in Polonia e in quelle nucleari in Russia, il matrimonio con una russa e la separazione, le missioni folli durante il servizio militare, l’arrivo di Solidarnosc. La sua rabbia e la decisione di abbandonare la Polonia per sempre. Sta per andare in Finlandia quando qualcuno gli dice che è meglio l’Italia. E così arriva a Roma.

Janek ora farà le presentazioni del suo libro, come uno scrittore qualunque. Ha ricevuto i soldi dell’anticipo, che può anche usare, perché dopo molti problemi Christian è riuscito a recuperare il suo pin. Si gode questa popolarità inaspettata, a 62 anni, come scrittore. A noi racconta: «Quando ero in carcere ho conosciuto Valerio Giusva Fioravanti, che lì faceva lo scrivano. Siamo diventati amici. Quando sono uscito, sono andato a trovare lui e Francesca Mambro a casa loro. Lo so che sono stati condannati per strage, ma di questo non parlavamo mai. Nessuno è cattivo. Poi può succedere di stare in mezzo a cose sbagliate. Ma combattiamo. Un altro br, Vittorio Antonini, quando è uscito ha fondato una biblioteca, Papillon».

«Qui voglio finire mio racconto, perché ho sofferto troppo».

E ora? «Voglio scrivere ancora. Di persone che vivono per strada. Di chi è pagato per aiutarli e non fa nulla. Sapete quante persone stanno per strada? Le vedete?».

“Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter del Corriere della Sera Il Punto – La Rassegna”

Digitale naturale

1

di Nadia Agustoni

Il codice genetico del DNA è una forma naturale di archiviazione digitale dei dati” da Wikipedia

Gli ultimi Neandertal nel fuoco di una scogliera davanti all’oceano, tutto di loro è andato via e forse loro erano stelle i Sapiens la notte. Così la nostra èra ha un DNA imperfetto e oscuro con cui superiamo l’ascia e il coltello, crescendo tombe, pietra su pietra.

Diventa un ruggito la parola, in uno snuff di televisioni dove la modernità ha l’incanto del male e il digitale terrestre mischia il grande vuoto con l’immagine: corpi abitati da un fantasma. Sulle pareti delle grotte, le figure di animali e piccoli uomini sono la storia perduta.

 

Un editore rompitascabile

0

di Romano A. Fiocchi

Antonio Castronuovo, Formíggini. Vita umoristica (e tragica) di un editore del ’900, Edizioni Pendragon, 2024.

Lessi Parole in libertà di Formiggini nel 2009, quando venne pubblicato nell’accurata riedizione della casa editrice Artestampa di Modena. L’anno successivo lo utilizzai, come se fosse un talismano della libertà di stampa, per inaugurare una rubrica sul primo numero di «TuonoNews.it», quotidiano digitale di Alessandria. Ma Angelo Fortunato Formiggini rappresenta ben più della semplice libertà di stampa, tanto che la piacevole biografia pubblicata nel maggio scorso dalle Edizioni Pendragon, a firma di Antonio Castronuovo, riesce a farne meritatamente «un punto luminoso del Novecento». Castronuovo procede con agilità di penna tra umorismo e approfondimento, spirito goliardico e aneddotica. Uno stile ironico e autoironico, elegante e garbato al tempo stesso, che l’inventore dei “Classici del ridere” avrebbe sicuramente apprezzato. Castronuovo parla insomma di Formiggini con la stessa leggerezza scanzonata di Formiggini. E lo fa iniziando dal fondo, che è in realtà la parte più drammatica.

Era il 29 novembre 1938. Angelo Fortunato Formiggini, uno dei più geniali editori del XX secolo, italiano «di sette cotte» ma di origini ebraiche, dopo aver sopportato le già pesanti ingerenze del regime, rifiuta di accettare l’estremo affronto delle leggi razziali. Da Roma, dove risiedeva, torna alla sua Modena, sale sulla torre Ghirlandina e si lancia nel vuoto urlando «Italia! Italia! Italia!» In tasca gli troveranno alcune banconote da centomila lire. Cifra allora esorbitante, a dimostrazione del fatto che il suo non era un suicidio per problemi economici ma per protesta. Il regime si affrettò ad insabbiare tutto: nascose l’identità del suicida, impedì ai giornali la pubblicazione della notizia, vietò qualsiasi necrologio a pagamento, autorizzò solo un funerale notturno, per poi concedere, dietro le lamentele della vedova, una cerimonia di mattina presto con pochi parenti e amici strettissimi nonché, come deterrente, una scorta di diverse decine di poliziotti in divisa e in borghese.

Formiggini ci ha lasciato circa seicento titoli, varie annate di riviste («Rivista pedagogica», «Rivista di filosofia», «Gioventù Italiana», «L’Italia che scrive»), un archivio editoriale di trentamila lettere scambiate con autori, collaboratori e istituti, i duemilatrecento volumi e centoquaranta periodici dell’eccentrica collezione della Casa del Ridere, infine l’archivio familiare con documenti che risalgono al XVII secolo. Gran parte di questo materiale è conservato nella Biblioteca Estense di Modena. Ed è lì che Castronuovo è andato a rovistare. Naturalmente di persona. Naturalmente con in tasca una copia di Parole in libertà, gli ultimi scritti di Formiggini, usciti postumi nel 1945. Naturalmente, come ci racconta, dopo essersi recato ai piedi della torre Ghirlandina, dove spicca la lapide di marmo rosato con la celebre iscrizione:

Al tvajol ed furmajin [il tovagliolo del Formaggino] / così chiese ai Modenesi che venisse chiamato / il piccolo spazio che c’è fra la Ghirlandina / e il monumento al Tassoni / Angelo Fortunato Formiggini, / accingendosi a testimoniare con il suicidio / l’assurdità delle leggi razziali. / Nel cinquantesimo anniversario di quel tragico evento / i Modenesi, esaudendo il desiderio / del geniale editore concittadino, / ne accolgono il messaggio antirazzista / e ricordano alla coscienza civile degli Italiani / l’infamia del regime che promulgò le leggi razziali. / Modena, 29 novembre 1938 – 29 novembre 1988.

Castronuovo inizia dunque dall’evocazione del tragico epilogo e suddivide la vita di Formiggini in una trentina di capitoletti, talvolta vere e proprie digressioni, che tuttavia restituiscono al lettore l’inventiva, la cultura e la ‘filosofia del ridere’ di questo straordinario editore, ucciso da quello stesso fascismo che all’inizio aveva paradossalmente abbracciato senza poterne prevedere l’ottusità e la vigliaccheria. Ci sono curiosità che vanno dal perché del suo nome e di quella “i” con l’accento acuto (Formiggini andrebbe scritto Formíggini) alla cronaca della distruzione delle antiche carte di famiglia, distruzione così bizzarra quanto per fortuna limitata. Poi il periodo spassoso della goliardia universitaria, con la sua vocazione per lo scherzo e la burla, gli studi a Bologna, a Modena, a Roma. Fondatore dell’Accademia del Fiasco, Formiggini finisce per conseguire addirittura due lauree, una in giurisprudenza e l’altra in lettere e filosofia, quest’ultima discutendo una tesi intitolata Filosofia del ridere.

«Nella vita di Formiggini serpeggia lo spirito mordace della Secchia rapita di Alessandro Tassoni, anzi: quella storia costituisce una sorta di tubero esistenziale inestirpabile», scrive Castronuovo. Non per nulla proprio Tassoni sarà il suo primo autore: nel 1908, in occasione di una festa eroicomica a lui dedicata, pubblica i due volumi La Secchia e Miscellanea Tassoniana di studi storici e letterari, rispettivamente una raccolta di sonetti inediti e burleschi del Tassoni e un insieme di saggi eruditi sullo stesso. Da quel momento Formiggini diventa editore. Nel giro di poco tempo appare chiara la sua strategia: dare più importanza all’argomento e alla veste editoriale ma soprattutto concatenare i titoli in precise collane. Il materiale che Castronuovo passa in rassegna, per quanto in una prosa discorsiva, è davvero vasto. Mi limiterò ad alcune segnalazioni.

Tra le collane più celebri: i “Profili” e i “Classici del ridere”. I primi sono volumetti in diciottesimo che rappresentano sintesi di figure significative della letteratura, dell’arte, della filosofia, della religione e della politica, senza limiti né geografici né di tempo, indirizzati sia a un pubblico specialistico sia al lettore medio, e tutti scritti da autori competenti. Un solo nome di esempio: Massimo Bontempelli. Ecco invece alcuni titoli: Francesco d’Assisi, Botticelli, Darwin, Esiodo, Malthus, Milton, Edgar Poe. I “Profili” furono affiancati dalla collana “Medaglie”, in buona sostanza profili minori dedicati alle figure contemporanee ancora viventi, la cui scelta subirà già le prime interferenze del regime.

I “Classici del ridere” constano di centocinque volumi usciti in ventisei anni. Comprendono, fra gli altri, testi celebri come Satyricon, Il Decamerone, Gargantua e Pantagruele di Rabelais, L’asino d’oro di Apuleio e, ovviamente, La secchia rapita del Tassoni. Ma anche una seconda edizione a firma dello stesso Formiggini: La ficozza del fascismo, dove il suo umorismo graffiante denuncia lo scippo con cui il regime – nelle vesti di Giovanni Gentile – gli sottrasse il controllo di una delle sue creature più amate, L’Italia che scrive, rassegna bibliografica uscita in ventuno annate con ben tredicimila libri recensiti, cinquantamila annunciati e millecento articoli pubblicati.

C’è poi la collana “Aneddotica”, con i volumi Aneddoti teatrali, Aneddoti universitari, Aneddoti bolognesi, milanesi, genovesi, quelli sui personaggi illustri come gli Aneddoti rossiniani, carducciani, garibaldini, fino agli Aneddoti bibliografici (questi ultimi hanno sicuramente ispirato Castronuovo per il suo splendido Dizionario del bibliomane, pubblicato per Sellerio nel 2021). Davvero speciale è il Dizionarietto rompitascabile degli editori italiani compilato da uno dei suddetti, dove questo suddetto non è che Formiggini e dove gli editori italiani vengono elencati con la sua consueta mordace ma garbata ironia. Infine le varie edizioni del Chi è?, vero e proprio repertorio degli italiani illustri viventi.

Castronuovo si sofferma sul più volte citato Parole in libertà. Che è un insieme di testi di una forza ironica impressionante, parole espresse in assoluta libertà perché appartengono a un uomo che non ha più nulla da perdere. Formiggini denuncia l’assurdità delle leggi razziali, accusa i fascisti di aver tradito i fratelli vendendoli «al tedesco», aggredisce più volte il Duce arrivando addirittura a cantarne il requiem: «Ribaldo; / il tuo bieco destino / lo avevi segnato nel nome; / soltanto nel dì che n’andrai / sarai veramente / Ben… ito». Non passeranno neppure sette anni perché la nemesi della Storia gli darà ragione.

Completa il volume un’aggiornata bibliografia essenziale che va da La ficozza filosofica del fascismo, la prima edizione del 1923, ai recentissimi Vita da editore (Elliot) e Lezioni di editoria (Italo-Svevo), usciti entrambi del 2022. Più un elenco delle principali opere su Formiggini. Un’ultima particolarità editoriale: questo Formíggini di Castronuovo è in realtà una terza edizione aggiornata. Le prime due risalgono rispettivamente al 2005 e al 2018 per Stampa Alternativa.

Come allargare il fronte ecologista

0

di Fatima Ouassak

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I passi che seguono sono tratti dalla parte conclusiva dell’introduzione (“Come allargare il fronte ecologista”) di Fatima Ouassak al suo “Per una ecologia pirata… e saremo liberi!” pubblicato recentemente da Tamu Edizioni, nella traduzione di Valeria Gennari. Un’utile intervista all’autrice si può leggere su Reporterre (NdR)

In Francia le manifestazioni per il clima sono quelle più popolate dalle categorie socio-professionali privilegiate e dai bianchi. È questa la loro grande debolezza. Infatti, quando i poteri in carica aprono la finestra sotto la quale decine di migliaia di persone scandiscono la necessità di «proteggere il vivente», e vedono che i viventi presenti sono quasi esclusivamente bianchi di classe media e alta, come possono prenderli sul serio e preoccuparsi? Certo, sui cartelli si invoca la rivoluzione, ma può un simile movimento, in un paese con milioni di persone delle classi popolari e non bianche, portare davvero a una rivoluzione? O almeno a una rivoluzione che vada verso la giustizia sociale e ambientale? Questo spiega certamente perché, al momento, le autorità concedono a chi manifesta sotto le loro finestre solo piccoli privilegi, come i sussidi per garantire l’isolamento termico delle case a cui, in realtà, hanno diritto solo le classi medio-alte. Alla fine, ciò che il potere in carica propone non è che un mondo putrido ancora più iniquo. Ovviamente sono molti, all’interno del movimento per il clima, a non volere questo tipo di mondo e a cercare di organizzare un allargamento del fronte ecologista. In particolare, e com’è logico che sia, queste persone guardano ai quartieri popolari, poiché i loro abitanti sono quelli che più hanno da guadagnare dalla lotta contro il riscaldamento globale. Da diversi anni si organizzano dei momenti di riflessione sulle strategie per allargare il fronte. Ci si lamenta che il movimento per il clima sia così poco presente nei quartieri popolari, nonostante questi siano – come si suol dire – enormi serbatoi di energia che aspettano solo di essere sensibilizzati per espandere il movimento. Questa strategia di allargamento del fronte climatico riflette una visione coloniale dei quartieri popolari. Non è specifica del movimento per il clima, ma si inscrive in quel continuum coloniale del trattamento riservato alle persone che li abitano, considerate come energia da estrarre per ampliare questo o quel fronte.

[…] Nonostante ciò, si continua a cercare di sensibilizzare sulla questione climatica, quando invece bisognerebbe innanzitutto fare un’informazione chiara, obiettiva e pertinente nei quartieri popolari. Si cerca inoltre di sensibilizzare senza mai porre la questione dell’accesso al potere politico dei residenti. Si parla loro di «sviluppo sostenibile», «sviluppo umano» e «transizione ecologica». Ma in questi quartieri, tra i neologismi della «politica urbana», l’ipocrisia dell’universalismo alla francese e i programmi di aggiustamento strutturale – che già negli anni ’70 mobilitavano gli ossimori ingiuntivi del neoliberalismo nei paesi africani d’origine –, siamo abituati ai falsi moralismi. È normale che le orecchie rimangano sorde a espressioni di questo tipo. Credere che i margini si uniranno al centro per difenderne gli interessi è quantomeno un errore di calcolo: non hanno tutto questo tempo da perdere. Tanto più che questa volta non si può chiamarli forzatamente a raccolta. La mobilitazione attraverso le campagne di sensibilizzazione non funziona, lo si vede dalle foto delle manifestazioni. Quindi, dato che i media, le Ong – soprattutto nordamericane – e i social network fanno pressioni per una maggiore «diversità» piuttosto che porre le domande di fondo, il movimento per il clima, non riuscendo ad allargare il fronte, lo decora con qualche corpo non bianco. In questo modo cerca di mostrare che il progetto non è razzista, che risponde agli interessi di tutte e tutti. Ma nella misura in cui solo la classe media bianca lavora al progetto, in cui il razzismo strutturale non viene realmente preso in considerazione e le istanze ecologiche dei quartieri popolari vengono folclorizzate, questo espediente decorativo ovviamente non inganna nessuno. Penso che il movimento per il clima non si stia ponendo le domande giuste. Le campagne di mobilitazione non funzioneranno finché non espliciteranno in maniera chiara la natura politica del progetto ecologista. Non si tratta di allargare il fronte o di diversificarlo. Non è una questione di mobilitazione. Il punto centrale riguarda le caratteristiche del progetto politico in nome del quale siamo chiamati a unirci. Ci si continua a comportare come se fosse sufficiente trasferire dei dati scientifici dall’alto verso il basso, dagli esperti ai non istruiti. Si sventolano le conclusioni dell’Ipcc e si avverte: «Presto! Ci restano solo tre anni per fare qualcosa». È troppo vago. L’ecologia non difende necessariamente la causa di una pari dignità umana; può essere fascista, reazionaria, sessista o transfobica. Nel campo dell’ecologia si può trovare sia il meglio che il peggio. D’altronde il termine «ecologia» fu coniato nel 1866 da un teorico europeo della supremazia bianca, Ernst Haeckel. E l’ecologia europea ha ampiamente accompagnato l’impresa coloniale in Africa, misurando e mappando a destra e a manca, contribuendo a fare di quella parte del mondo, umani compresi, delle riserve di energia da sfruttare per garantire l’ascesa del capitalismo industriale europeo. L’ecologia europea ha indiscutibilmente contribuito al disastro ecologico dell’intero continente africano. Ecco perché non basta usare il termine ecologia per definire un progetto politico. Occorre specificare la natura del progetto. In Francia, il progetto ecologista mainstream, quello attualmente promosso dai partiti politici e dalla maggior parte delle organizzazioni ecologiste, rivela a mio avviso non un’aspirazione al cambiamento, come sostiene, ma piuttosto al mantenimento dell’ordine sociale attuale. Si parla molto di protezione ma mai di liberazione; esso esprime chiaramente una preoccupazione nei confronti del cambiamento («vogliamo che i nostri figli abbiano la nostra stessa vita») e un’aspirazione a preservare la vita com’era prima, prima del riscaldamento climatico, prima dei rischi demografici e migratori. Se lo si legge con attenzione, appare chiaro che questo progetto ecologista è volto a garantire il mantenimento, nel limite del possibile, di un certo livello di benessere. Mangiare bene, vivere a lungo e in buona salute all’interno di case grandi, muoversi liberamente nel mondo, viaggiare, essere liberi di esprimersi o di protestare, contemplare la natura, essere felici: questo progetto è sostenuto da una parte della popolazione francese che ha potere politico e peso elettorale e che vuole negoziare, nella cornice dei rapporti di forza, la possibilità di proteggersi il più possibile dalla devastazione ecologica. Esso invade il campo politico ed elettorale con le questioni dell’adattamento e dell’adattabilità, negoziando la possibilità di proiettarsi in avanti in termini di risorse mobilitate per fronteggiare lo sconvolgimento climatico. In sostanza, questo progetto consiste nell’adattarsi prima degli altri, perché il livello di benessere di coloro che lo promuovono è tale che non può essere esteso a tutta la popolazione; il benessere di alcuni sarà possibile solo al prezzo dello sfruttamento e della distruzione degli altri.

[…] Presentato in questo modo, il progetto ecologista mainstream in Francia è tutt’altro che popolare, ed è facile capire perché. Esso non corrisponde in alcun modo alle aspirazioni di cambiamento dei quartieri popolari – dove il timore è, piuttosto, che nulla cambi – «non vogliamo che i nostri figli abbiano la nostra stessa vita». Oggi, nell’arena politica, prevalgono in larga misura le aspirazioni delle classi medie e alte a mantenere le proprie comodità materiali. Ma esistono delle tensioni, soprattutto all’interno del movimento per il clima, molto più ricettivo nei confronti delle questioni anticoloniali e antirazziste rispetto ai partiti politici e alle organizzazioni ambientaliste più tradizionali. È quindi possibile imporre un rapporto di forza a favore di un progetto alternativo volto a costruire un grande e solido fronte ecologista. Se vogliamo vedere le cose in maniera più chiara e fare dei passi avanti, sarà necessario rispondere ad alcune domande essenziali che raramente vengono poste nel dibattito politico. Siamo d’accordo sulla necessità di risolvere il problema del clima, ma dal punto di vista di chi e nell’interesse di chi? È l’umanità che vogliamo salvare o solo la ricca e fortunata minoranza bianca? Che tipo di ecologia garantisce tutte le libertà, compresa quella di movimento e di insediamento per tutti, indistintamente? Che tipo di ecologia stiamo difendendo? Un’ecologia che aggiunge frontiere alle frontiere o un’ecologia che cerca di abbattere i muri? L’ecologia pirata proposta in questo saggio cerca di rispondere a queste domande e contempla la possibilità di liberarsi dal sistema responsabile del disastro climatico e delle restrizioni alla libertà di movimento di cui esso ha bisogno per perpetuarsi. Se l’ecologia è una scienza, allora l’ecologia pirata è la scienza delle strategie per riprendersi potere, tempo e spazio sottraendoli al sistema coloniale-capitalista. Se l’ecologia è una lotta, allora l’ecologia pirata è una lotta collettiva affinché ogni individuo possa circolare liberamente. Se l’ecologia è un movimento sociale, allora l’ecologia pirata è il movimento di tutte e tutti coloro che rifiutano l’ingiustizia e vogliono lasciare ai propri figli qualcosa di diverso da questo mondo nauseante. L’ecologia pirata è un progetto di resistenza che ha come obiettivo la liberazione della terra e come orizzonte la pari dignità umana e la libertà di movimento. Molti di noi stanno soffocando in questo mondo, costretti nelle proprie case da mille muri invalicabili. Da qui nasce la nostra sete di libertà. Ma possiamo liberarci solo insieme, attraverso un’avventura collettiva. Il Re dei pirati è una Regina, e quella Regina saremo noi!

 

“Morto, è già morto”

2

di Elisabetta Bruni

C’è una vecchia che grida aiuto, ma nessuno ci bada. La normalità di un urlo disperato nel corridoio di un ospedale. Aiutatemi, aiuto! Perché non mi aiutate?

Oggi il 21 esce. Se si forma una piaga da decubito quello si complica e poi non esce più, quindi esce oggi. Aiuto. Aiuto. Sì, però non esagerate con le dimissioni perché metà degli infermieri sta male. Ho capito, ma qua abbiamo già sette pazienti poggiati negli altri reparti, se oggi entra qualcuno dove lo mettiamo? Il 21 esce, dico solo di non farne uscire quattro tutti oggi. Aiutatemi… Mi fate morire… Perché devo soffrire così?

Una specializzanda entra e le chiede che c’è a volume altissimo, la vecchia ripete aiuto, aiuto. Una delle compagne di stanza scuote la testa, dice lascia perdere, sono due giorni che fa così, non ci ha fatto dormire.

Quando l’ho vista per la prima volta, mi è sembrato di conoscerla. Credevo che fosse la madre di un amico di mio padre, ma il nome non era lo stesso. Se fosse stata davvero lei, la madre dell’amico di mio padre… provo a immaginare che lo sia e quindi immagino la vecchia da giovane che accompagna il figlio a casa dell’amico, cioè mio padre. La immagino dirgli di comportarsi bene. Vedo mia nonna che le offre il caffè, lei che accetta e resta a chiacchierare tutto il pomeriggio, la aiuta a sgranare una busta di fave che non finisce più, alla fine nonna gliene regala la metà. Quando si avvicina l’ora di cena recupera il figlio, che ha i vestiti zozzi di polvere e nero perché chissà dove si è andato a strusciare e lo riporta casa. Immagino la vecchia che è un po’ meno vecchia di oggi e ormai gestisce un bar in autonomia da una trentina d’anni, caccia gli ubriachi quando danno fastidio, serve i minorenni senza controllare il documento. La immagino incontrare mio padre al supermercato, gli dice mio figlio ora lavora al Nord, è ingegnere. Mio padre le dice che lo sa, la saluta con affetto. Immagino la vecchia comprare i fiori da portare al cimitero dov’è sepolto il marito.

La guardo contorcersi nelle lenzuola bianche, con le braccia piene di ematomi e lividi, una cannula in vena e gli occhialini per l’ossigeno nelle narici. Non sembra cosciente, non sembra neanche umana. Forse perché si muove come un neonato, ma ha il corpo di qualcuno che dovrebbe sapere che ogni tanto va cambiato il filtro della cappa. Sbava, gli occhi sono strani, capiscono ma non capiscono. A volte, quando in questi giorni mi è capitato di visitarla, ho iniziato a parlarle normalmente, come a una qualunque persona adulta sana, per poi scivolare in un linguaggio che detesto, quello che si usa coi bambini e coi cani e io non uso per nessuno, generalmente. Alla fine, ho smesso di parlare con lei, di rispondere alle sue frasi sconnesse, trattandola alla stregua di una pianta. Può sembrare cinico, ma per me è più dignitoso che trattarla come una bambina di pochi anni. Immagino che la sua coscienza abbia sprazzi di lucidità e spero per lei che non succeda mentre le cambiano il pannolone, mentre la lavano o mentre le parlano come se una volta, tanti anni fa, qualcuno in sua presenza non si fosse sentito in soggezione.

Il giorno dopo le prendo i parametri, ma non riesco a misurare la pressione, non riesco a sentire la massima. Ha un respiro lento, sincopato, gracchiante, cupo. Al terzo tentativo capisco che quella che credevo essere la minima è la massima, ha la pressione bassissima, in parole povere sta morendo. Chiamo gli altri, si materializza un circolo di dottoresse attorno al letto che la guardano e basta, mormorano sì, eh, chiamate il figlio, è qui fuori? Eh, chiamatelo. Se ne sta andando. Prendete un separé.

Mettono il separé attorno al letto della vecchia. Pochi minuti dopo, durante il giro visite vedo la sagoma del figlio attraverso la plastica bianca del separé, sento i suoi singhiozzi, il respiro della vecchia si è fatto ancora più profondo e rumoroso, quasi gorgogliante. Le dottoresse chiedono alle altre pazienti in stanza, allora, come andiamo oggi? Urlando, perché sono tutte vecchie, tutte sorde. Va meglio? Sei andata al bagno stamattina? Bene, bene.

Più tardi, mentre passo davanti alla stanza, vedo che il separé non c’è più, il letto è vuoto.

Non fanno così tanto effetto, i morti, se non li conosci. Mi sembra strano, ma è così, per quanto mi riguarda provo solo un leggero nervosismo. Quando assistetti a un’autopsia, all’università, fortunatamente portavo una mascherina. Non per l’odore, onestamente non ho mai sentito la famosa puzza di decomposizione perché tutti i morti che ho visto non erano morti da abbastanza tempo. Avevo iniziato a sorridere come una pazza da televisione, mi veniva da ridere così tanto che mi dovevo mordere le guance, ma era il nervosismo! Poi l’hanno aperto ed è andata meglio, perché una volta eviscerato un corpo non sembra più un essere umano, fa molta meno impressione di quando è integro e vedi quel colorito pallido che sembra finto, sembra trucco.

Siamo dei personaggi di Bret Easton Ellis quando si parla di morte, è tutto diverso da come dovrebbe essere. Ho fatto una constatazione di decesso l’altra notte, una tossicodipendente quarantacinquenne. Sono arrivata davanti alla casa e c’era una folla di parenti e cercavo di mantenere un’espressione neutra, né troppo serena né troppo addolorata, poi ho visto uno di loro ridere e ho cercato di rilassarmi. Mi sono venuti incontro due uomini vestiti di nero, quelli delle pompe funebri, erano talmente stereotipati – ma che mi aspettavo? Una bella ragazza in completo beige e tacchi a spillo?

Sapevano già tutto loro, mi hanno guidata nella stanza della morta e prima di entrare sono passata davanti a tre signore che piangevano, penso che una fosse la madre. La morta aveva un’aria orribile – e non venite a dirmi che è ovvio, ho visto dei morti che paiono addormentati, che ti danno l’impressione di poter avere uno spasmo e sbadigliare e tirarsi fuori dalla bara da un momento all’altro. Lei no, era talmente gialla che sembrava fatta di cera, aveva la bocca aperta e le braccia spalancate, le mani penzoloni dal bordo del letto, aveva ancora l’ago conficcato nella pelle. Non le avevano chiuso gli occhi, azzurri. I morti con gli occhi chiari sono doppiamente inquietanti perché somigliano a dei vecchi bambolotti, di quelli poco realistici, fatti di pessima gomma.

Mi incuriosiva più di quanto non mi spaventasse, e l’unica emozione che ho provato guardandola è stata… non esattamente un’emozione, ma sono stata percorsa da una sorta di brivido, una scossa elettrica, come se il cervello volesse ricordarmi che io ero viva, al contrario di quella donna. Probabilmente non è nulla di razionalizzabile, è solo che era notte fonda e vedere un cadavere mi ha fatto impressione. Ma un’impressione così, diciamo, fuggevole, niente di traumatizzante. La mattina dopo sono andata a cercare il nome della donna su Facebook e ho trovato una quantità di messaggi sul suo profilo da parenti, amici, conoscenti. Ho scoperto che aveva una figlia – non so perché, ma la cosa mi ha sorpresa. Forse perché mi era parso di capire che vivesse a casa della madre, me l’ero immaginata come una che entrava e usciva dalle comunità, una che non si era mai fatta una famiglia.

La figlia non era maggiorenne e le aveva scritto un post bello lungo, ricordo tra le varie frasi: “Anche se mi hai sempre fatta preoccupare sei stata la mamma migliore del mondo”, mi sono sentita cattiva quando ho pensato che il lutto tira fuori dalla gente bugie incredibili. Non credevo che quella donna potesse essere stata una buona madre. Mi era più facile immaginare che la figlia l’avesse odiata per la maggior parte del tempo. Mi sono detta di non giudicare una sconosciuta, che non potevo sapere, che sparare sentenze del genere è sintomo di ignoranza, ma è davvero ridicolo quando sento il bisogno di correggere i miei stessi pensieri come se qualcuno potesse sentirli, indignarsi ed esigere le mie scuse.

Dunque, personaggio di un libro di Bret Easton Ellis, lo dico perché la morte e le situazioni deprimenti non mi fanno più effetto. Non ci fanno più effetto, l’essere grottescamente insensibili è diffuso. Quando ho detto ai pazienti in fila fuori dalla Guardia Medica che dovevano aspettare che tornassi perché mi avevano chiamato per quella constatazione di decesso, una signora ha sbuffato ed è venuta avanti chiedendomi di scriverle una ricetta prima di andare.

«Ma ha capito che si tratta di una constatazione di decesso?», «Appunto! Se ci vai fra cinque minuti che cambia? Morto, è già morto.»

E poi tempo fa, sul letto assieme al mio fidanzato, guardavamo la sua home di Reddit. Si fermava a leggere i post che sembravano divertenti o interessanti, a guardare alcuni video, alcuni meme. A un certo punto appare un video intitolato qualcosa come “rapina finita male” – non ricordo neanche su quale sub-reddit fosse stato pubblicato – girato da una telecamera di videosorveglianza in quello che sembra un negozio di alimentari, si vede un uomo che spara a una persona già a terra, con la schiena contro, mi pare, un frigorifero. Si vede la pozza di sangue che nel video è molto più scura di quanto sarebbe dal vivo, si allarga dopo due o tre colpi. Mi attraversa quella stessa scossa elettrica di quando ho visto la donna morta di overdose, ma il mio fidanzato scorre, vede un meme e scoppia a ridere.

Io lo guardo e gli dico: “Ma ti pare?”, “Cosa?”, “Stai ridendo, ti rendi conto che abbiamo appena visto una persona che veniva uccisa?”, al che fa una smorfia, un’espressione che esprime soltanto un superficiale senso di disagio, come se le mie parole scalfissero esclusivamente uno strato sottilissimo del suo guscio, infatti il sorriso non svanisce completamente, “Eh, sì, lo so, ma sai… se ne vedono così tanti che non mi fa più impressione”, risponde. Ha ragione, non è che sia inquietante lui, siamo tutti talmente sovraesposti, ma lì per lì mi fa paura. Quella pozza di sangue che si espande. Non era mica un personaggio di un film. Forse è proprio colpa dei film, è la violenza in televisione, sono i canali true crime su YouTube. Che vorrà mai essere uno che viene ucciso in una sparatoria in un supermercato, la scorsa settimana giravano su Twitter i filmati del massacro in quella scuola elementare negli Stati Uniti. Mi pare pure quelle di una fucilazione… da qualche parte. Insomma, hai idea di cosa facesse alla gente quel John Wayne Gacy? Uno sparo non è niente. E con ‘sta storia dell’intelligenza artificiale possiamo creare immagini di qualunque mostruosità, non sarà mai abbastanza tremendo, nulla. C’è un limite all’empatia, immagino, simile al limite dei recettori nervosi – se eccessivamente stimolati, non rispondono più.

Ho un ricordo di Parigi, di quando avevo sedici anni, un senzatetto sul marciapiede. Ero in gita scolastica, ma in quel momento ero sola, alla ricerca di un souvenir nel Quartiere Latino. Era una bellissima mattina e mi ero imbattuta in un corpo umano accasciato a terra. Non si muoveva ed era difficile dire se la sua schiena si sollevasse ritmicamente, se respirasse, perché era disteso a pancia in giù e indossava un cappotto di un materiale piuttosto rigido. Pensai che potesse essere morto, la notte precedente doveva essere stata gelida, era il mese di febbraio e quell’uomo era perfino scalzo.

Mi guardai attorno, nessuno ci faceva caso, nessuno posava un occhio su di lui, sembrava che fosse invisibile, eppure era pieno di passanti, di turisti. Il commerciante nel negozio antistante spazzava l’ingresso come se niente fosse, rimasi per qualche minuto nel dubbio, dovevo chiamare qualcuno? La polizia? L’ambulanza? Dovevo toccarlo, assicurarmi che fosse ancora vivo? Avevo avuto paura di toccarlo, paura che si sarebbe svegliato all’improvviso, che mi avrebbe… afferrato le caviglie, credo. Non conoscevo la lingua, poi, bella scusa, bella giustificazione, non parlo francese, ma il 118 è valido anche qui? O è un altro, il numero? Non so, non lo so, trovarmi in questa situazione mi angoscia. Che ci pensi qualcun altro, io non ho voglia di immischiarmi, sono in vacanza e tanto se è morto, è già morto, mi ero detta. Io cosa posso farci. Morto, è già morto. Eppure, a distanza di quindici anni, mi chiedo ancora se…

Foto di Dmitriy da Pixabay

Personaggi oltre le righe. Rileggere Brianna Carafa nel suo centenario

0

di Anna Toscano

Nella cinquina del Premio Strega del 1975, vinto da Tommaso Landolfi, comparivano i nomi di Eraldo Miscia, Laudomia Bonanni, Vittoria Ronchey e Brianna Carafa. I nomi delle scrittrici ritornano tra vincitrici e finaliste dello Strega in quegli anni, Brianna Carafa no. Arrivata in cinquina nel 1975 con il romanzo La vita involontaria, edito da Einaudi, libro di cui Italo Calvino e Claudio Magris, tra gli altri, scrivono benissimo, Carafa non era lontana dalla vita letteraria del suo tempo. A Roma, sua città di adozione, negli anni Cinquanta, lei architetta di primi studi e poi psicologa per scelta, era nella redazione della rivista culturale “Montaggio” e già aveva pubblicato racconti e poesie. Erano state le poesie, edite nel 1957 dall’editore romano Carucci, e i racconti apparsi in riviste a farla conoscere come scrittrice.

La sua è una scrittura distaccata e precisa, una penna che cerca nella storia dei suoi personaggi i tasselli dissonanti, una pervicacia nell’affondare nell’animo umano per parlare di follia, margini, voragini e scelte, che si è confermata nel suo secondo romanzo, Il ponte nel deserto, uscito postumo nel ’78 per Einaudi.

Nata nel 1924 a Napoli e confrontatasi sin da bambina con figure femminili che avevano intrapreso vite non convenzionali – la madre precipita mentre pilota un aereo sportivo nel golfo di Napoli, la nonna paterna traduttrice di Tolstoj, la nonna materna grande attivista per i diritti delle donne – aveva deciso di lasciare il padre, duca Antonio Carafa d’Andria e la di lui madre per trasferirsi a Roma da Marianne Frankenstein Soderini, la nonna materna.

La sua formazione come architetta e poi quella come psicologa non ha diviso i suoi campi di attenzione, semmai ha intrecciato l’indagine di Carafa sull’animo umano a partire dall’essere e dai suoi manufatti, piccoli o grandi che siano: una sorta di sguardo sulle cose con due diverse, opposte, acute prospettive. La sua prematura morte ha fatto sì che vari strati di polvere cadessero sulle sue opere. Ma per lei, come per molte altre scrittrici del passato, tale è stata l’unicità dei loro libri da farli sopravvivere all’oblio.

Per noi che amiamo spulciare le bancherelle di libri usati, le casette del bookcrossing, i siti di vecchi libri – per noi che a ogni scaffale del reparto usati ci pare di esser morti e di vedere lì i nostri scaffali – Carafa è una vecchia conoscenza e le edizioni Einaudi, acquistate a uno o cinque euro alla copia, erano pure regali scelti col cuore per le persone care.

Quando in piena pandemia si guardavano le coste dei libri delle proprie librerie casalinghe, li si sfogliava e spolverava pensando sempre più titubanti al futuro, quasi si coccolava questi libri come compagni corpi di casa, ecco la notizia che la casa editrice Cliquot inizia a ripubblicare proprio Carafa. In tempo di lockdown esce La vita involontaria, poi il secondo romanzo e i racconti, mettendo in moto un interesse molto vivo per questa autrice.

Oggi, che ricorre il centenario dalla nascita di Brianna Carafa, ci teniamo a ricordare i libri di questa grande scrittrice, a rileggerli, anche in vista di un volume di inediti in uscita il prossimo anno, sempre per Cliquot.

La vita involontaria, in cinquina allo Strega nel 1975, ha come protagonista Paolo Pintus, un ragazzo che cerca di crescere e diventare adulto nonostante le aspettative di genitori e familiari, quasi ormai tutti sepolti. La storia dei suoi parenti, le loro proiezioni dal passato sul futuro del ragazzo lacerano Pintus. Lui prova a districarsi nelle relazioni umane cercando risposte che non sa darsi, decisioni che non sa prendere, guardando alla storia dei suoi genitori e di suo nonno cercando risposte che non trova e divincolandosi dal loro esempio. Il punto di osservazione sembra dipanarsi su una tangente unica: cosa determini ciò che siamo.

Pintus fa ogni cosa affinché il proprio passato non determini il suo futuro, per essere in grado di compiere una scelta propria. La storia del nonno, la casa dai tetti rossi, l’osservazione delle persone sono le tre costanti della narrazione: cerca dall’unica zia vivente il motivo per cui il nonno urlasse recluso in una stanza, non avrà mai risposte ma riuscirà a darsele da solo. Il ricordo dei Tetti Rossi, luogo misterioso e taciuto da tutti sebbene sotto gli occhi della città: un manicomio.

Lascia ancora ragazzo Oblenz, città natale sul mare, per andare in una città fredda e sconosciuta a studiare in una facoltà che non lo interessa. Nella nuova città, Vallona, Pintus affronta un percorso di formazione fortemente determinato dalle assenze degli amici – chi lo ha tradito, chi deluso, chi si è suicidato – dalla presenza di donne – nel percorso di lasciare ed essere lasciati, del subire il gelo o farlo subire – e dell’alcol che spazza via tutto.

La storia si svolge per incontri: è l’incontro con l’umano, che talvolta si rivela inumano, che mette in grado Pintus di dare uno scacco alle aspettative degli altri e al contempo farlo crescere nelle proprie aspettative. In un attimo di rivalsa su sé stesso sceglie un luminare di psicologia come mentore e la facoltà di psicologia per vedersi nel futuro, per mettere insieme tutte le tessere del mosaico di sé che ha a disposizione. Pintus tornerà ai Tetti Rossi con la conferma di quanto aveva intuito sin dall’infanzia: che il disagio psichico per i ricchi è una stanza ben ovattata, per i poveri un manicomio di cui nessuno osa parlare, che l’essere umano è composto di bene e male e che è una scelta quale delle due strade intraprendere.

Con il secondo romanzo, Il ponte nel deserto, Carafa affonda ancor più le mani nel fango dell’umano nelle sue contraddizioni, per stenderlo sulla carta. È Roberto Berla, chiamato Bobi, il protagonista: le foto sul pianoforte che lo ritraggono da bambino, accanto alla perfetta sorella, sono mosse e lo sgabuzzino in cui viene spesso rinchiuso dalla fida cameriera della madre perché è svagato è pieno merletti mangiati dalle tarme. Il bambino non rispecchia le aspettative di una ricca famiglia che preferirà decretare su di lui una colpa anziché una malattia, diventerà un importante ingegnere senza perdere la sua vaghezza. La colpa, che invece era malattia, lo condurrà a una fine tragica per chi fa parte di quella ricca borghese società pronta ad additarlo, a una fine che Bobi prenderà con sollievo nella sua svagatezza.

Nella raccolta di racconti Gli angeli personali Carafa attingerà alla sua storia personale, regalando ritratti di grandi personagge, come la governante o la nonna materna, sempre con la sua scrittura curata, un lessico sorvegliato e preciso, uno stile che ricorda la narrativa mitteleuropea a lei contemporanea.

È l’umano che interessa Carafa, un umano in una storia critica, difficile, altra, che lo pone ai margini di una società preconfezionata che vuole metterlo per sempre in un luogo oscuro, uno sgabuzzino, una casa dai tetti rossi o una stanza isolata. Carafa ci dice con le sue narrazioni che è a lui che bisogna guardare, come lo diceva in poesia già nel ’57: “Lascialo entrare: /lascia cercare al forestiero /nei tuoi occhi /l’immagine di sé /che tu portavi e non volevi dargli”.

Bambini perduti nei Giardini di Kensington

3

di Flavio Luzi

  1. Chiunque volesse, oggi, accostarsi alle opere di James M. Barrie dedicate a Peter Pan si troverebbe, suo malgrado, in balìa di due differenti mistificazioni tanto insidiose quanto decisive. La prima risale alla pubblicazione del libro The Peter Pan Syndrome Up di Dan Kiley nel 1983, dove, attraverso una malaugurata distorsione psicoanalitica, la figura di Peter Pan è associata alla situazione della neotenia psichica. Kiley ha prodotto così una duratura confusione fra i tratti di un bambino che desidera insistere nella propria condizione di bambino e quelli di un adulto che, al contrario, rifiuta la propria condizione di adulto. Che si tratti di una vera e propria falsificazione è evidente dal sottotitolo del libro dello psicologo, ovvero Men Who Have Never Grown, che, in maniera mendace, calca il sottotitolo di Barrie, The Boy Who Wouldn’t Grow Up, capovolgendone il senso. Non serve, certo, un critico raffinato per rendersi conto che un uomo o un adulto che non è mai cresciuto è tutt’altra cosa da un ragazzo o un bambino che non vuole crescere. La seconda mistificazione risale, invece, al doppiaggio italiano del film d’animazione Peter Pan, prodotto nel 1953 dalla The Walt Disney Company, promotore di uno dei più subdoli equivoci a cui si potesse assistere in un Paese non anglofono, capace di condizionare, con la connivenza dei genitori, l’immaginario di intere generazioni di bambini che di lì a poco avrebbero integralmente sostituito la fruizione del cartoon alla lettura del libro. La mistificazione in questione è quella che riguarda la traduzione dell’espressione lost boys con la ben più tendenziosa “bimbi sperduti”. Non si tratta di un mero cavillo filologico. La ricercata forma “sperduto” o “sperso”, da “sperdere” (variante letteraria di “disperdere”), mediante l’apposizione del prefisso s- (riduzione piuttosto infrequente del prefisso dis-) tende a sfrondare la ricchezza che conviene al campo semantico della perdita, mitigandone gli aspetti più inquietanti. A pensarci, si tratta di un’operazione del tutto coerente con la sistematica edulcorazione delle fiabe e della letteratura infantile perseguita dalla Disney. John R. R. Tolkien, autore che non amava le raffigurazioni disneyane, ha scritto una volta che la letteratura per l’infanzia nasce dal disinteresse degli adulti nei confronti di libri dei quali non gli sarebbe importato nulla se i bambini li avessero usati in modo improprio. Se ciò è vero, allora, non v’è dubbio che, secondo la diagnosi rilasciata da Walter Benjamin già nel lontano 1929, la crisi di questo particolarissimo genere letterario abbia coinciso con il momento in cui quegli stessi libri hanno attirato nuovamente le attenzioni degli adulti, cadendo vittima degli specialisti e dei pedagoghi di professione.

 

  1. Bambini – se non ragazzi – perduti, dunque. La polisemia del verbo “perdere” (dal lat. perdĕre “rovinare”) si mostra senz’altro più adeguata a rendere la versatilità dell’inglese lose, dall’antico inglese los “distruzione”, derivato dal protogermanico*lausa-, dalla radice i.e. *leus-, forma estesa di *leu-, cioè “allentare, dividere, tagliare a pezzi”. Bambini rovinati, smarriti, sconfitti, errati ed erranti, financo deceduti. In francese, secondo una formula che si sarebbe stabilmente impressa nel lessico militare per indicare la fanteria leggera sacrificabile, ossia la carne da macello, si sarebbero chiamati enfants perdus, come quelle truppe di avanguardia, composte da gente scalza e priva di denaro, che sul finire dell’XI secolo, nel corso della Prima Crociata, precedevano l’esercito, trasportando viveri, scagliando sassi contro i nemici e rovesciandone le macchine da guerra. Ed enfants perdus è la medesima espressione a cui ricorre Guy Debord nella sua terza opera cinematografica, Critique de la séparation, per riferirsi alla propria vita e a quella dei suoi amici:

 

Tutto ciò che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto di me stesso, il tempo passato: e la scomparsa, la fuga; e più generalmente il trascorrere delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso dunque più volgare dell’impiego del tempo, ciò che si definisce il tempo perduto, s’incontra stranamente nell’antica espressione bambini perduti (enfants perdus), incontra la sfera della scoperta, dell’esplorazione di un terreno sconosciuto; tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia. È a questo incrocio che ci siamo trovati e perduti. (G. Debord, Critique de la Séparation, in Id., Œuvres, Gallimard, Paris 2006)

 

 

Non è certo casuale che, con una felice intuizione, Vincent Kaufmann abbia definito il progetto rivoluzionario situazionista come una singolare lettura di Karl Marx da parte di Peter Pan.

 

  1. Giorgio Manganelli ha opportunamente sottolineato come i libri di Barrie, non meno di quelli di Lewis Carroll, affondino saldamente le proprie radici «nel mito puerile di “essere perduti”, perduti una volta per tutte all’atto di nascita, segnati di una perdizione che la madre potrebbe stornare, ma non lo farà» perché «[n]aturalmente, anche la madre è “perduta”» (G. Manganelli, Peter Pan amore mio, «Europeo», 28 dicembre 1981). Ci si può perdere nelle nebbie del fumo o nei fumi dell’alcol, tra le pagine dei libri, nelle alterne fortune del panno verde o nell’insurrezione che viene, ma anche fra gli inganni deliziosamente crudeli delle fate, creature gelose e fugaci dedite alla danza e a ogni altra attività non possa essere considerata di alcuna utilità. Quale perdita è, qui, in questione? Senz’altro una perdita dal significato ontologico, che, in qualche modo, le co(i)mplica tutte senza prediligerne alcuna. Si prenda Peter Pan stesso. Le descrizioni proposte da Barrie sono numerose. Nella sceneggiatura Peter Pan, or The Boy Who Wouldn’t Grow Up del 1904, è un bambino piuttosto piccolo, scappato senza esitazioni nei giardini di Kensington il giorno stesso in cui è venuto al mondo, non appena ha udito i piani che i suoi genitori serbavano per lui e la sua vita – per il suo futuro. La sua condizione è quasi quella di un mai-nato, il suo essere quasi quello di un mai-stato. Il suo posto è Neverland (in greco si direbbe: οὐ τόπος), il luogo dove vivono i bambini perduti, i bambini caduti dalla carrozzina che nessuno viene a reclamare entro sette giorni dalla scomparsa. Nei successivi libri Peter Pan in Kensington Gardens e Peter and Wendy, rispettivamente del 1906 e del 1911, emergono altri dettagli su questo personaggio enigmatico. Peter – spiega Barrie – è molto vecchio pur avendo sempre la stessa età, cioè una settimana: a sette giorni, infatti, ritenendosi ancora un uccello (perché tutti sono stati uccelli prima che esseri umani) fuggì da una finestra senza inferriate per fare ritorno ai Giardini di Kensington. Piuttosto allusivo. Vi è, infatti, un modo certo per invecchiare conservando sempre la stessa età e questo, effettivamente, è gettarsi dalla finestra: morire – scrive Manganelli –, morire subito. La perdita che concerne questo bambino di nome Peter, allora, è quella del decesso prematuro, della morte in culla, del figlio che abbandona il genitore. Ma non è finita. Dopo qualche tempo, infatti, al pensiero della disperazione materna, provò a far ritorno a casa, salvo trovare la finestra chiusa e provvista di inferriate, intravedendo all’interno dell’appartamento sua madre dormire serenamente abbracciata a un altro bambino. La perdita che concerne questo Pan, allora, è altrettanto quella dell’orfano, del reietto, del figlio abbandonato dal genitore. Un doppio abbandono. Gilles Deleuze l’avrebbe chiamata una doppia cattura o un doppio furto, tale da produrre «un blocco asimmetrico, una evoluzione a-parallela» (G. Deleuze, Conversazioni, Ombrecorte, Verona 2019, p. 12). E, infatti, come gli rivela il sapiente corvo Solomon Caw, Peter Pan è innanzitutto un Betwixt-and-Betwinn, un mezzo-e-mezzo, un tra-questo-e-quello, niente più che un fra, un frattempo o un frammezzo, ma un frattempo o un frammezzo assoluti che, da “tra” e “mentre”, si fanno “qui” e “ora”. Una creatura della soglia o, come direbbe Victor Turner, un essere liminale. La sua storia, d’altronde, nasce nel mezzo delle conversazioni tra Barrie e il piccolo David (George Lewellin Davies), in un reciproco narrare e rinarrare, rifare e disfare, che si interrompe solo quando nessuno potrebbe più riuscire a ricondurre il racconto all’uno o all’altro, all’adulto o al bambino – salvo avvisarci che la maggior parte delle riflessioni morali (most of the moral reflections) appartengono ai rigurgiti dell’adulto. Né uccello né umano, né vivo né morto, né essere né nulla, né puersenex, “Peter Pan” non è il nome di un vero e proprio personaggio, ma del medesimo divenire in cui è trascinato ogni bambino perduto e che, irriducibile ai termini delle dicotomie, cresce fra di essi e fuori di essi, secondo una propria avventurosa direzione. Tutt’altra cosa dall’adolescente, non-più puer e non-ancora senex, che sta lì ad articolare e mediare, introducendo il bambino nell’adultità. Se Peter Pan ha da insegnarci qualcosa è proprio che l’adolescenza non esiste. Ma questo vuol dire che neppure il passato e il futuro lo determinano, perciò non ricorda e non pianifica. Manganelli lo considera un fantasma senza memoria e, pertanto, senza vendetta: dimentica i pirati che giocosamente uccide, sostituisce continuamente le vecchie avventure con le nuove, vive l’anno avanti come fosse il giorno avanti. Si potrebbe quasi azzardare ch’egli convochi tutte le forze dell’avventura contro la parola “esperienza”. Il suo però non è un eterno presente, omogeneo e vuoto: l’avventura conosce solo la pienezza dell’attimo. Senza provenienza e senza destinazione, senza memoria e senza progetto, Peter Pan non è qualcuno, non ha un’identità, ma è l’immagine o l’idea di quel movimento di perdita che pertiene, in più alto grado, al divenire-bambino e lo deterritorializza su Neverland. Ciascuno dei bambini perduti, ognuno a suo modo, è Peter Pan. Da ciò, la solitudine che sembra affliggere il protagonista: non si può condividere né compartecipare l’indivisibile o l’impartecipabile che si ha già sempre in comune. Come Peter Pan vola via dalla finestra dopo una settimana di vita, così i bambini vengono mandati a Neverland sette giorni dopo essere stati perduti. Ciascuno di loro è, quindi, un mezzo-e-mezzo, da qui l’imposizione di indossare le pelli degli orsi che hanno ucciso (the skins of the bears slain by themselve) in modo da assomigliargli il meno possibile (to look in the least like him). In caso contrario, infatti, sarebbe semplicemente impossibile distinguerli dall’idea, la loro singolarità si dissolverebbe nell’assoluta genericità di ciò che Károly Kerényi poteva chiamare das Ur-Unentschiedene, l’Indifferenziato originario, o, più semplicemente, das Ur-kind, il Fanciullo originario. In maniera speculare, non appena sembra che stiano crescendo, Peter li sfoltisce (thins them out) senza alcun rimorso o esitazione. Significativo è che la stessa peculiare serialità faccia la propria apparizione nella descrizione di Neverland: «tutti i Neverland hanno una somiglianza di famiglia (a family resemblance), e se stessero fermi in fila diresti che hanno lo stesso naso, e così via» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). A caratterizzarlo c’è il fatto di non essere grande ed esteso con noiose distanze fra un’avventura e l’altra, ma ben riempito (with tedious distances between one adventure and another, but nicely crammed). Non è, forse, un Neverland il Paese dei balocchi in cui Pinocchio si perde tra gli innumerevoli giochi di quell’unico smisurato giorno festivo? Non lo è Saint-Germain-des-Prés, il quartiere di perdizione in cui, tra artisti, delinquenti, intellettuali, immigrati e tossicodipendenti, i giovani lettristi avevano trovato il loro rifugio nel piccolo e malfamato bistrot Chez Moineau? E non lo è, parimenti, il Wonderland nel quale si perde Alice? A questo punto, una rettifica si rende doverosa. Barrie, in uno dei suoi rigurgiti moraleggianti, fa affermare a Peter che tra le file dei bambini perduti non ci sono bambine (girls) perché «sono troppo intelligenti per cadere dalla loro carrozzina (are much too clever to fall out of their prams)» (J.M. Barrie, Peter Pan, or the boy who wouldn’t grow up). È ormai, però, risaputo che fra le bambine c’è sempre fortunatamente qualche Alice ardente di curiosità che, senza sapere cosa farsene di libri privi di dialoghi e figure, è pronta a precipitarsi alla rincorsa di un coniglio bianco munito di un orologio da tasca, seguendolo fino in fondo alla sua stretta tana e perdendosi nel Wonderland. Se è senz’altro vero che una ragazza vale più di venti ragazzi (one girl is worth more than twenty boys) non è certo per il senno piccolo borghese che, sin dalla culla, vorrebbe instillarle suo padre.

 

  1. Talvolta c’è stata una Wendy che a un certo punto, dopo aver condiviso numerose avventure, ha tentato di indicare a questi bambini perduti una nuova strada di casa. Coloro che l’hanno seguita si sono ritrovati e hanno, così, davvero finito col perdersi. Come ammette lo stesso Barrie con un insolito contegno: «non vale la pena di dire altro su di loro (it is scarcely worth while saying anything more about them)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Sono andati nelle buone scuole, dove hanno appreso cose serie. È possibile che abbiano addirittura imparato a suonare uno strumento, dedicando il poco tempo libero a ogni sorta di attività sportiva. Sono diventati coscienziosi; si sono sposati. In altre parole, sono cresciuti. Si sono realizzati. Sono diventati qualcuno. Ogni giorno, alla stessa ora, si recano al loro ufficio con un ombrello sottomano, per non rischiare di farsi sorprendere dalla pioggia e buscarsi un malanno, o, peggio, sgualcirsi il completo. Qualcuno è ingegnere, qualcun altro giudice. Si sono definitivamente congedati dalla loro avventura, hanno ritenuto di portarla a termine, di metterci un punto, piantando i piedi bene in terra e perdendo a poco a poco la capacità di volare. Infatti, «[s]olo chi è allegro (gay), innocente (innocent) e senza cuore (heartless) può volare» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Nessuno di loro sarebbe ormai in grado di raccontare una storia ai propri bambini – una storia sufficientemente buona da spingere le rondini che costruiscono i nidi sui cornicioni delle case a origliare, s’intende. Né, tantomeno, saprebbe cogliere il bacio segreto, ma perfettamente visibile, che riposa indelibato all’angolo sinistro della bocca gentilmente ironica delle loro consorti. Solo un bambino perduto – magari proprio quello che fu – potrebbe ancora, con estrema facilità, riuscire a rubare quel bacio che non avrebbe dovuto essere di nessun altro. A distinguerli dal Capitano James Hook, probabilmente, c’è solo la pressoché totale accettazione dell’adultità, con la conseguente assenza di risentimento nei confronti di Peter Pan. Se Hook, questo etoniano che ha abbandonato Oxford per darsi alla pirateria e accumulare le ricchezze di una vita di dura fatica (of a life of toil) – uno che, per intenderci, «simpatizzava più per i classici che per i moderni (his sympathies were with the classical rather than the modern side)» e, sostanzialmente, «[i]n politica era un conservatore ([i]n politics he was a Conservative)» (J.M. Barrie, Captain Hook at Eton) – detesta così tanto i bambini perduti è unicamente perché, attaccato al ricordo della propria infanzia, al non-più del bambino che è stato, non riesce a estrarre alcuna gioventù dalla sua età, trovandosi precluso l’accesso a qualsiasi divenire. Per questo motivo il tempo non può non apparirgli nelle sinistre sembianze di un coccodrillo annunciato da un inesorabile ticchettio, ben intenzionato a seguirlo ovunque al solo scopo di divorarlo.

Gli altri, invece, quelli che la strada di casa non gli è mai riuscito di impararla, hanno continuato a trovarsi perduti in mezzo al crocevia fra la perdizione e l’avventura, fra la dissoluzione e la scoperta, fra la destratificazione e la sperimentazione, tra le nebbie del fumo e i fumi dell’alcol, tra le pagine dei libri, le alterne sfortune del panno verde, le rivolte fallite e i trabocchetti spietatamente graziosi delle fate. “Trovarsi perduti”: veramente perduto, infatti, non è ciò che esige di essere cercato e trovato, ma ciò che esige di essere trovato in quanto perduto, di restare perduto e, in quanto tale, imperdibile. Per questo Henrik Ibsen negli ultimi versi del IV atto del Brand poteva scrivere che la felicità nasce dalla perdita e davvero eterno resta solo ciò che è perduto. Come dei novelli Ade – e, in effetti, questi Pan (o, per meglio dire, “questi Iakchos” e, ancora, “questi Diónysos”) hanno più di qualche familiarità con i misteri di Eleusi – hanno estorto a Demetra la promessa di poter tornare a prendere Kore a ridosso di ogni pulizia di primavera, salvo poi dimenticarsene, sospesi, senza passato né futuro, tra le loro molte avventure. D’altronde, mantenere una promessa non ha mai voluto dire soddisfarla. E così Wendy non ha potuto fare a meno di crescere, ma quel che ferisce maggiormente è che lo ha fatto deliberatamente, «di sua spontanea volontà un giorno prima delle altre ragazze (of her own free will a day quicker than other girls)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). Niente tocca più da vicino del gesto con cui, di fronte alla sopraggiunta incapacità di Wendy di saltare sulla schiena del vento, Peter si lascia cadere sul pavimento per precipitare in un pianto inconsolabile – inconsolabile, sì, ma scevro da qualsiasi nostalgia o rimorso. Ché, chi è così pieno di avventure, non ha alcun senso del tempo (He had no sense of time), neppure del tempo trascorso. Perciò non è facile comprendere per quale ragione piangesse. Forse piangeva per Wendy, consapevole che ormai «non era una bambina con il cuore spezzato per lui (a little girl heart-broken about him)», ma «una donna adulta che sorrideva di tutto questo (a grown woman smiling at it all)», anche se con sorrisi privi di allegria e innocenza, «sorrisi dagli occhi umidi (wet eyed smiles)» (J.M. Barrie, Peter and Wendy). O, forse, piangeva per se stesso, perché, nonostante conoscesse estasi infinite (ecstasies innumerable), quella modesta serenità domestica non poteva che rimanergli distante e incomprensibile, sbarrata per sempre (for ever barried) da una finestra con le inferriate. Sfuggevolmente impalpabile, come per chi cercasse di afferrare il tepore. Nemmeno il tempo di porsi la domanda e asciugare le lacrime, tuttavia, che il pianto è già dimenticato.

In una Neverland che, di volta in volta, all’ora della chiusura si disvela nei giardini di Kensington o nei vicoli di Trastevere, nous vivons en enfants perdus nos aventures incomplètes.