Helga Fanderl: una lunga vacanza sulla terra

 

In occasione del ciclo di proiezioni Screening exercises, curato da Flavia Mazzarino e Filippo Perfetti all’università IUAV di Venezia, ospito qui una conversazione con la cineasta Helga Fanderl, protagonista del primo incontro del ciclo. I prossimi appuntamenti saranno con Sílvia Das Fadas e Jan Kulka (qui il programma completo).

© La Chambre blanche d’Arnaud Baumann

 

“È vero, diceva, che nella progressione dei tempi le donne staccavano le stelle per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un fuso e facevano girare queste trottole di fuoco per mostrarsi tra loro come funzionava il mondo. Ma non era che un gioco (…)”

Dio d’acqua, Marcel Griaule

Ho incontrato Helga Fanderl al Festival di Pesaro, nel 2015, mentre introduceva quella che mi era sembrata, allora, una piccola ingegneria dello stupore. Quando, come nel cinema di Helga, è in opera uno sforzo di comunione, il dono della presenza piena appare ineludibile, e ogni elemento è teso a portare, meticolosamente, il peso e la forma del suo mistero. Sottrarre questa costellazione di film alla pratica che li vuole ogni volta ricomposti, ravvicinati e disgiunti (come fosse un’allegoria coniugale, un tappeto cucito e inconsutile) vorrebbe dire destinarla ad un divorzio dal destino che le è proprio, quello cioè di indicare una misura del mondo che sappia essere, allo stesso tempo, richiesta, decifrazione e deposito di senso. Ho iniziato a scrivere ad Helga accennando alla sua raccolta di memorie legate insieme (900 film archiviati e digitalizzati), e sempre per accenni e incursioni ne è nata una conversazione colma, mi sembra, di una devozione e di una attenzione verso il cinema oggi ritenute perlopiù illegittime. Eccola qui.

 

Salve Helga. Mi piacerebbe raccogliere qui, più che un sommario di esperienze, una testimonianza del tuo modo di guardare. Ricordo che nel 2015, durante il festival di Pesaro (dove proiettasti una “costellazione” di tuoi lavori), parlasti del girare in Super 8 come una pratica di resistenza formale. Mi chiedo cosa voglia dire, per te, filmare attraverso un supporto che potrebbe venire a mancare, filmare cioè come nel mezzo di una “sparizione”.

Non mi ricordo in che senso avevo parlato del girare in Super 8 come una pratica di resistenza formale. Però mi piace quest’idea. Quando ho scoperto la cinepresa Super 8 e le caratteristiche del formato negli anni ’80 questo mezzo per fare film amatoriali o film di famiglia per eccellenza stava già scomparendo. Il video l’aveva sostituito. Tanti laboratori abbandonavano lo sviluppo della pellicola reversibile e non facevano più copie Super 8 o addirittura chiudevano. La scelta delle pellicole Super 8 si riduceva come anche la produzione di cineprese e di proiettori. Sviluppare e fare delle copie Super 8 diventava sempre più caro. Erano finiti i bei tempo degli anni ’60 e ’70 quando molti cineasti ed artisti giravano in Super 8 liberandosi delle convenzioni del cinema amatoriale e di famiglia, ma anche delle convenzioni del cinema narrativo e documentario in generale. Il Super 8 era molto economico e permetteva di girare in modo più spontaneo, inventivo e creativo.

 

Mi sono messa a fare film con la cinepresa Super 8 in un momento poco promettente. Anzi mi confrontavo, sin dall’inizio, con la minaccia della sparizione del mio mezzo di creazione artistica. Dovevo sempre lavorare con cineprese e proiettori di seconda mano che spesso si sono rotti e che non si potevano riparare. Tutto è peggiorato da quando il digitale ha soppiantato il film in pellicola: da anni non esiste più la pellicola per fare copie di originali Super 8 reversibili, e per questo ho fatto fare dei gonfiati in 16mm. La versione 16mm di parecchi miei film permette la partecipazione ai festival internazionali. Ormai mi piace elaborare programmi combinando Super 8 e 16mm. Continuare lo stesso a girare in Super 8 ha a che fare con le qualità particolari della pellicola Super 8, i suoi colori, la sua grana, la sua bellezza e soprattutto con la cinepresa, lo strumento assai leggero e piccolo che mi accompagna e mi permette di montare direttamente in macchina, girare con grande attenzione e concentrazione. Mi piace poter immergermi in una situazione e comunicare con il soggetto mentre sto filmando. Se di resistenza possiamo parlare si tratta della difesa di un mezzo di creazione artistica che mi va bene e che amo.

 

 

Mi sembra sbagliato considerare il film digitale semplicemente come progresso e miglioramento tecnico rispetto al film come film in pellicola. Perché il digitale dovrebbe farlo sparire totalmente? Il digitale permette altre pratiche, nuove pratiche, ma non può rimpiazzare le qualità specifiche ed uniche della pellicola. È possibile disegnare e pitturare sul computer. Ma per questo non spariscono matita, matita colorata, pastello, colore a olio o a acrile, pennello, carta, lino etc. La sparizione del film come film in pellicola è dovuto innanzitutto ad un interesse economico gigantesco. Si potrebbe dire allora che continuando a girare film in Super 8 faccio una specie di resistenza. Però non si tratta di una posizione ideologica o retrograda, ma legata alla mia esperienza artistica. Ma di resistenza formale si potrebbe anche parlare in un altro senso. Rispetto alla stragrande parte della produzione di cinema narrativo e documentario il film personale e poetico cerca altri se non nuovi modi di espressione e non serve gli interessi del mercato.

 

I tuoi film sono montati direttamente in macchina e spesso ritorna, nel tuo fare cinema, una misura ritmica. Si tratta di intuire attraverso la cinepresa la musicalità del mondo, l’accordo tra le singoli parti, o si tratta, piuttosto, di indicare proprio attraverso il cinema una nuova formula, una nuovo modo di guardare alle cose?

Sono spesso proprio i ritmi che trovo nel mondo attorno a me che mi ispirano a fare un film. Come hai detto in modo poetico, si tratta “di intuire attraverso la cinepresa la musicalità del mondo“. Però non basta vedere e riprendere questa musicalità. Fare un film significa strutturare il tempo, costruire un ritmo filmico nella durata. Montando i film direttamente in macchina sto molto attenta alla creazione di ritmi in corrispondenza con il soggetto che sto filmando, ma allo stesso tempo presto attenzione alla creazione di ritmi che esprimono e rendono percettibile la mia visione delle cose, cioè cerco simultaneamente di intuire proprio attraverso il cinema “una nuova formula, un nuovo modo di guardare le cose.” Il ritmo trovato nella realtà viene (ri)costruito e trasformato tramite il mio uso di varie velocità di registrazione, in ogni singola ripresa come anche tramite le loro relazioni nella durata di ogni film.

 

 

Da una parte le misure ritmiche si trovano in comunicazione con i ritmi inerenti al soggetto, dall’altra parte produco ritmi espressivi, consapevole del fatto che il film consiste in serie di singoli fotogrammi che nella proiezione e nella nostra mente vediamo come un continuo. Accentuare il contrasto tra continuità e discontinuità permette di dare una visione puramente filmica e diversa della realtà che trascende la visione dell’occhio. Vorrei creare una corrispondenza tra la musicalità del mondo e la musicalità del film.

Parte della tua pratica cinematografica consiste, mi sembra, in questo rimettere in circolo materiali diversi, nell’intuire e nel suggerire nuove combinazioni e nuove geografie, come se i film si rivelassero l’un l’altro, in uno spazio tutto fatto di incontri e di urti. Dove nasce, dunque, questa tua modalità di presentazione?

Questa modalità di combinare i miei film è nata quando studiavo ancora film alla scuola delle belli arti di Francoforte. La “Filmklasse“ stava per presentare un programma collettivo al cinema del Museo del Cinema della città. Il nostro professore di cinema Peter Kubelka mi consigliava di pensare a fare un “montaggio“ di qualche mio film. Non consideravo il singolo film montato direttamente nella cinepresa come un’opera finita, ma come un’opera aperta facente parte di un “work in progress“. Così ho elaborato per la prima volta una piccola “composizione“ di film. Si trattava di quattro film individuali, con soggetti, durata e ritmi diversi ma che, per la durata della proiezione, diventavano un “film“ unico. Con solo quattro film c’erano già tantissime possibilità di combinazioni, di “incontri“ e “urti“. Scambiare l’ordine di questi pochi film mi permetteva di analizzare e capire i fattori complessi che influenzano la “lettura“ del singolo film a seconda della sua contestualizzazione. In questo si potrebbe paragonare questa pratica al montaggio tradizionale, salvo che ogni mio montaggio di film è temporaneo. Trovare la sequenza che mi sembrava giusta e mi piaceva di più era un processo impegnativo, ma molto interessante. Alla fine, dovevo decidere la sequenza in modo intuitivo e sentito. Questa prima esperienza fu una vera introduzione all’arte della programmazione.

Da allora e col crescere della mia opera questa pratica è diventata sempre più importante e ricca, soprattutto da quando ho iniziato a prepare proiezioni individuali. Pian piano le possibilità di costellazioni si mostravano infinite. Questo lavoro di programmazione comporta sempre un momento di scoperta e di sorpresa, per me come per altri che rivedono un film in varie combinazioni. Il modo di vedere e interpretare il singolo film non è fisso, ma variabile. Questo aspetto dinamico mi incoraggiava a continuare anche se, a volte, era una sfida faticosa. Essere la curatrice dei miei film e non seguire la convenzione del film finito con datazione precisa limitava la visibilità del mio lavoro. Vista la mia pratica e poetica mi pareva quasi impossibile affidare i miei film alla distribuzione e ai festival. Preferivo rispettare le restrizioni inerenti al formato Super 8 e la mia libertà artistica. Ogni programma unico e passeggero rappresenta il mio lavoro cinematografico nel suo insieme.

In una delle e-mail mi hai scritto: “ … Questo lavoro mi ha fatto capire che ci sono tantissimi film che non ho mai fatto vedere e che sarebbe bene farlo nel futuro. Tramite un’esposizione all’inizio di quest’anno è nato l’idea e il sogno di creare uno spazio per film dove potrei riunire tutte le copie di film, apparecchi, materiali, documenti, dove potrei continuare ad elaborare programmi vari e soprattutto avere la possibilità di fare delle proiezioni ad ogni momento, in modo totalmente indipendente, per me, per visitatori, artisti amici ed altri, e ogni tanto anche delle proiezioni pubbliche, anche se solo per un pubblico ristretto. Potrebbe essere anche uno spazio di incontri e comunicazione.” Mi piacerebbe conoscere qualcosa in più a proposito di questo spazio a Berlino.

Siccome il Super 8 non è un formato cinematografico come il 16mm o 35mm sono costretta a badare alle condizioni giuste per ogni proiezione. Preferisco mettere il proiettore in sala, in mezzo al pubblico. Bisogna trovare la buona altezza del proiettore, la buona distanza tra proiettore e immagine sullo schermo e definire le buone dimensioni dell’immagine in relazione allo spazio. Mi sembra importante rispettare il piccolo formato che è più intimo rispetto ai suoi fratelli più grandi.

Preparare ogni proiezione è un vero impegno spesso difficile perché manca il tempo o il materiale. E’ stata una esperienza tutta nuova quella di poter creare – non per la durata di una sola proiezione ma durante tutta la mostra FILM LIVE – due sale di proiezione, un cinema S8 e un cinema 16mm, alla galleria DAS ESSZIMMER a Bonn nel 2015. Per la prima volta mi è venuto in mente che sarebbe bene avere uno spazio di proiezione permanente per i miei film. Ma c’era anche un altro motivo che faceva maturare lentamente il progetto dello RAUM FÜR FILM – SPAZIO PER FILM. Grazie al catalogo ragionato della mia opera elaborato con Karianne Fiorini ho capito che avevo fatto vedere fino ad allora solo circa un terzo dei miei tanti film e che ormai sarebbe tempo di mostrare di più.

Finalmente ho scoperto e preso in subaffitto un bello spazio a Berlino dove sono riunite le copie dei miei film, i proiettori e i diversi materiali. Questo spazio serve da studio e da sala di proiezione, per visionare film, preparare i miei programmi e fare delle proiezioni per amici, colleghi e visitatori interessati in modo autonomo ed informale. A volte vorrei anche organizzare proiezioni pubbliche. Spero che lo SPAZIO PER FILM diventi un luogo di incontri e scambi per riflettere insieme su temi di poetica, pratica artistica e politica che interessano. Mi sembra che questo spazio me permette di dare una forma idonea alla totalità della mia pratica artistica.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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