Estratto da L’inganno

di Veronica Tomassini

 

Un estratto del romanzo “L’inganno” di Veronica Tomassini, in uscita per La nave di Teseo.

Jan riposava. Attraverso i nembi, il sole tornava a infilarsi tra le colonne, ribatteva dai ballatoi, sulla cima degli abbaini, sopra le finestrelle, sui tetti. Camminai lungo la via. La signora Erminia mi aspettava per il pranzo. Così mi decisi a tornare, nell’ora inconsueta. Presi l’autobus. La luce indebolita mi raccontava la desolazione che avrei raggiunto. Come ogni sera.

La destinazione popolare, meneghina e negletta. Mi ero abituata a un ingranaggio smorzato. La luce livida dopo la pioggerellina impastava colori scuri e accidiosi.

Avevo imparato a memoria ogni traccia di quel passaggio: la 69, il verduraio con le erbe amare già mondate. Il trillo del campanello, la signora Erminia che apre l’uscio serrato a doppia mandata. La cucina, il profumo oleoso e ruffiano del burro a rosolare, l’usciolo del tinello. La carta violacea e plumbea delle pareti. Il pendolo.

La tavola era apparecchiata. Il pane bianco tagliato a fette nella cesta, l’acqua corrente nella caraffa. Il vino di un supermercato ancora nel bricco di cartone.

Mangiammo in silenzio, la signora Erminia aggiungeva un mestolo di pietanza al mio piatto. Dolciastra, burro, verdure, non saprei distinguere. Mi piaceva osservare fuori le ombre in anticipo sulla fine del giorno. La nuvolaglia che avevo imparato a riconoscere, non più oscurità sfuggenti, strane sagome buie sul cielo senza rondini, ma sarebbero tornate le rondini, anche a Milano.

Quando sopravvenne l’ora tarda, erano le tre del pomeriggio. Per molti anni, le tre del pomeriggio era l’ora della tristezza non riferibile. L’ora che rifiutava il linguaggio, un assenso umano. L’ora definitiva. Ho capito molto dopo l’ora della tristezza, l’ora in cui il Cristo moriva.

Tutto questo agiva in me, ma io non avevo realizzato ancora che comunque sarebbe accaduto in futuro, che attraverso il nostro vestito di carne e sangue a pulsare, si riponevano verità eterne a dimorarvi. Quel che ci avrebbe disorientato, rimasto appresso al momento in cui avremmo inteso la tristezza, la disperazione, la preoccupazione, era il trabattello di un tramato inalterabile che ci avrebbe lambito con la ferocia purificatrice del fuoco, depositando brani di certezze perenni. Nella nostra inquietudine o concitazione o inutile rodìo c’era anzitempo deciso un destino, il castigo, la conversione. Consegnavamo tutti la riconferma, la replicazione ancor meglio, della vicenda biblica. Ne portavamo indosso una specie di marchio. Un crisma.

Ogni profeta ci aveva annunziato, lungo i millenni.

Conclusi il pranzo con una mela turgida e rosea. Zuccherina. L’acqua corrente aveva un retrogusto di erba umida, muschio. Stranezza che scioccamente confidai alla signora Erminia. Riuscivo a farla ridere delle mie ingenuità.

Andai a riposarmi. Riposai come riposava Jan, distesa, le mani incrociate sul petto. Chiusi gli occhi e pensai a Jan. Non al francese di Tolosa.

Mi addormentai e sognai un viaggio. Un treno antico, correvo per il corridoio di una vecchia locomotiva. Cercavo qualcuno. Il treno si arrestò di colpo. Mi affacciai dal finestrino e oltre non c’era niente. Un biancore traverso e un vuoto, un vuoto che sprofondava nel mistero. Dove?

In lontananza intercettavo un binario, l’odore del carbone, del brecciolino.

Mi svegliai nel buio della sera anonima. Tirai giù la tapparella. Sostituiva i battenti, ma prima notai, nel cavedio che porta alle cantine, proprio sotto la mia finestra, un colle di mondezza. Mondezza organizzata in sacchi, pronta per essere riconvertita in qualcos’altro di produttivo. Non un fatto che non servisse ad altro.

Mi sembrò avvilente che persino la mondezza avrebbe potuto ingannare il mio sguardo, nutrendo un campo di fiori selvatici, nel getto irrorato di un fertilizzante. Era forse un bel messaggio, l’ennesima metafora da apprendere e meditare, nei minuti sazi.

Io avevo bisogno soltanto di esistere. Non meditare, accidenti! Esistere. Il mio corpo, esiste? Cos’è il mio corpo?

Guardai il viso sciupato nello specchio sopra il lavabo del bagno.

Io esisto. Ma non so riconoscermi. Guardo i miei occhi nello specchio. Non è la stessa cosa, penso.

Quale viso io abbia deve dirmelo un altro.

Un uomo.

Lavai la faccia e indossai un rossetto fragola che trovai nel beauty case della signora Erminia.

Fissavo i miei occhi.

L’iride è gialla o marroncina o verde.

La lettera del francese concludeva così: “I tuoi occhi, Mademoiselle”. Senza aggiungere altro.


Veronica Tomassini, siciliana, di origini umbre. Esordisce con il romanzo “Sangue di cane”, Laurana editore, nel 2010. Fu un caso letterario.  Nei suoi scritti tornano spesso ambientazioni suburbane, storie intestine e periferiche. Nel 2012, pubblica con Feltrinelli l’e-book “Il polacco Maciej”. Nel 2014, pubblica con Gaffi il romanzo “Christiane deve morire”. Partecipa con un suo testo all’antologia “La formazione della scrittrice”, edita da Laurana, curata da Chicca Gagliardo e Gabriele Dadati, per un’idea di Giulio Mozzi. Nel 2017, torna in libreria con il romanzo “L’altro addio”, per Marsilio editore. Nel 2019, pubblica il romanzo “Mazzarrona (Miraggi, edizioni) candidato al Premio Strega. Nel 2020, pubblica “Vodka Siberiana”.

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