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Perché (non) andare a Venezia

di Paola Ivaldi

Come l’industria culturale, anche il turismo defrauda il suo adepto, e anche la cambiale del turismo non è mai onorata ma sempre protratta: a modo suo, come è stato constatato infinite volte, il turista non fa altro che inseguire l’irraggiungibile. Il punto è che l’evasione da una società alienata non può che essere alienata.”

Marco d’Eramo, Il selfie del mondo (2017)

Ecco, stavolta ho deciso: io non andrò più alla Biennale Arte di Venezia. Perché non ci capisco niente, di arte contemporanea, e poi perché, lo so, lo so già: intralcio inutilmente gli spazi che, invece, sarebbe opportuno lasciare più sgombri, a favore di altri visitatori che ben più di me hanno diritto di solcarli senza fatica, scorrevolmente, perché la loro presenza, in qualità di fruitori dotati di adeguata conoscenza della materia di cui trattasi, in effetti, riveste un significato autentico, possiede un valore concreto. Io, questo, lo so.

Mi rifiuterò, lo prometto solennemente a me stessa, di recarmi in futuro alla Biennale per potermi vantare che sì, sono andata alla Biennale, per potermene puerilmente imbellettare. Perché, lo possiamo dire? Quanti di noi vi si recano, conoscendo artisti, correnti, opere, filoni… diciamo con una seppur vaga cognizione di causa, eh? Quanti? Quanti sono gli esperti in grado di formulare giudizi e pareri se non proprio pertinenti che almeno osino oltrepassare l’impervio confine dei luoghi comuni, una volta varcata l’uscita, piedi indolenziti, shopper disegnato da un prestigioso studio londinese, dotato di logo ufficiale e ingravidato di cose acquistate al bookshop?

Io sono, l’ho detto e lo ammetto: un inutile ingombro; mi aggiro frastornata dall’incessante cacofonia prodotta dalla compresenza di numerose installazioni dotate di apparato audio-visivo, vago impacciata come anima in pena, quasi avessi un enorme punto interrogativo che grava sulla mia testa, e mentre procedo, sala dopo sala, il volume del punto interrogativo aumenta, lievita, gonfiandosi a dismisura, rischiando di divenire io stessa una inconsapevole straordinaria installazione d’arte vivente.

E poi, no! Pure questo: mi sorprendo con il vecchio smartphone in mano, la cover tutta sgualcita, che scatto un paio di fotografie già immaginandone un eventuale utilizzo social, una condivisione online, e mi sento terribilmente brutta. Bruttissima, sì. Quale spiacevole sensazione, quando capisci che anche tu, nonostante il tuo apparato di buone intenzioni e di supposti sani principi, incespichi e caschi, esattamente come tutte le altre marionette di questo stramaledetto circo, sei pure tu uno dei tanti pupazzi a cavalcioni di improbabili unicorni color lilla che girano girano girano in tondo, girano sempre sulla giostra del turismo di massa, sottocategoria turismo-engagé.

Non sono, io, affatto migliore degli altri, come arrogantemente talvolta mi illudo di essere solo perché dotata di alcune piccole, microscopiche consapevolezze in più rispetto alla media delle persone che mi stanno attorno. Anch’io, come tutti, sono costretta a strisciare online, dove, come tutti, compro il biglietto, lo stampo, provo una sottile soddisfazione se tramite home banking mi giunge la conferma dell’avvenuta transazione, quella grafica puerile, rassicurante, ludica, il pollice in su… ah, bene, ho il biglietto, controllo la mail, eccolo… lo stampo, lo piego. Fatto.

Io volevo andare alla Biennale, perché? Per condividere la visita con mio figlio. Ah, ma tuo figlio ha diciott’anni tra poco: ancora credi, tu, ingenua mammetta che non sei altro, di poter condividere una mostra con lui? Povera illusa! Magari pure fianco a fianco? Infatti no, appena entrati abbiamo convenuto, con un rapido scambio di una manciata di sillabe, di darci appuntamento di lì a un paio d’ore alla caffetteria dell’Arsenale.

Così ho peregrinato, solitaria e spaesata, da un’opera all’altra, più che altro incuriosita da alcune video installazioni multischermo, cortometraggi che riescono a condensare in un lasso temporale ristretto un messaggio, concetti, enigmi, interrogativi, dilemmi che nemmeno sapevi che frullassero nella testa di qualcuno e potessero poi affacciarsi nella tua, di testa.

C’è odore di gomma, plastica, sentore di tessuti acrilici e di polvere, di terriccio, di vegetali indoor. Forse è questo il profumo dell’arte contemporanea, forse non dovrei nemmeno stupirmene o addirittura esserne lievemente infastidita, ma è così. Giro giro e rigiro, mi pare di non avere una meta e me ne dolgo, sentendomi mano a mano che il tempo passa sempre più fuori contesto, fuori tempo massimo.

Forse è finita, per me, la stagione degli eventi, dei rituali pseudo mondani, simil culturali, quegli appuntamenti ciclici che ci danno l’illusione di un eterno ritorno, un falso presente oscenamente dilatato, così rassicuranti per il loro ripetersi sempre, ogni anno, in un preciso periodo, quelle manifestazioni a cui in molti non rinuncerebbero per niente al mondo perché del tutto funzionali al narcisismo e al presenzialismo degli amari tempi nostri, ai must sociali a cui occorre ubbidire per poter dire, di qualsiasi cosa: io c’ero. Sei stata? Sono stata! Hai visto? Ho visto! Piaciuto? Da matti!

In me, che mi ritrovo a Venezia sul finire dell’estate 2022, si fa sempre più strada la convinzione che per mettersi in viaggio, invece, sia necessario possedere un buon motivo, che non basti l’impulso di assecondare un capriccio, un’offerta low-cost o, appunto, un debole, scarno atto di presenza. Un “buon motivo”, per come lo intendo io, ha a che fare con qualcosa di intimamente visceralmente sentito, qualcosa che ci germoglia dentro, che abita la nostra storia.

Allora succede questo. Cerco di mettermi in contatto con S, un conoscente che non vedo da quasi trent’anni e che so vivere a Burano. E vado a trovarlo, il penultimo giorno. Lì, sull’isola lontana e colorata, ci abbracciamo impulsivamente come due superstiti, e ce lo diciamo: che questo non è più tanto il nostro mondo, ricordando che quando ci era capitato di lavorare insieme, per un breve periodo, parliamo degli anni Novanta del secolo scorso, si usava ancora il fax: ne ridiamo.

Nel giardino davanti a casa sua, S apre due sdraio e ci sediamo, accolti da un’oasi di quiete, lo sguardo adagiato sulle baragge, i colori di una laguna appartata e selvaggia. Stringo la mano a un’anziana merlettaia, vicina di casa di S, la quale mi racconta in poche parole tutta la durezza di una vita famigliare fatta di fame, fatica e disagi: lei, sposata a un pescatore, non ha mica dimenticato la vita di un tempo. Però, adesso, è felice perché ha sei nipoti, ma delle femmine nessuna fa i merletti: pensi lei, mi dice, che per fare una margherita a dieci petali, che quelle a dieci petali sono le più belle eh, ci hanno messo due anni! E poi… tutti quei tatuaggi, io mica li capisco.

C’è un valore nel ritrovare dopo interi decenni qualcuno conosciuto in gioventù, non è affatto scontato, lo è sempre meno, che si sia ancora in vita, e in salute. Le due ore trascorse a Burano hanno reso ancora più nitida la mia visione delle cose, il significato di un viaggio che andrebbe intrapreso per un motivo vero, come dicevo, o, al limite, per nessun motivo, dettato, in tal caso, solo dalla volontà luminosa di compiere un’azione puramente esplorativa.

Sul vaporetto che mi riporta a Venezia, nel tardo pomeriggio, poco prima di giungere alle Fondamenta Nove, per poi incamminarmi verso il mio albergo, considero che la cura dei rapporti umani è qualcosa che stiamo rapidamente smarrendo per strada, come si perde un mazzo di chiavi, che dopo non possiamo stupirci se non riusciamo più ad aprire le porte, rimanendone chiusi fuori; la tendenza che mi pare dilagante è di dare sempre più spazio alle cose che alle persone, agli eventi rispetto agli incontri, di concedere più tempo alla comunicazione digitale che allo scambio reale, al dialogo, all’ascolto, anche al silenzio condiviso, che andrebbe, forse, più praticato senza suscitare imbarazzo.

Pure dell’esperienza del gesto, nella sua intima ineffabile genuinità, stiamo perdendo memoria, soprattutto se disinteressato, non finalizzato a null’altro che a suggellare un prezioso istante di condivisione. Abbracciare un buranello o stringere la mano di un’anziana merlettaia, a questo punto, rischiano di valere ben più di una superficiale visita alla Biennale Arte di Venezia.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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