Peninsulario
di Marino Magliani
Oltre Sorba, nascosto nella campagna perché raggiungere la città in quel buio era impossibile, Secondo attese l’alba. Giunse a casa verso mezzogiorno, stanco, accaldato, perché più di una volta aveva perso la strada, come all’andata. Era rimasto senza acqua e cibo, e attraversando il paese di Sant’Agata s’era attaccato al rubinetto di una fontana e s’era lavato la faccia e la testa, come a cancellare di dosso tutte le cose che aveva visto.
Adele era in casa, si mise la mano davanti alla bocca, disse che aveva chiamato la polizia, e U – era già in casa anche lui – dapprima s’era detto contrario, disse Adele, ma lei aveva dato lo stesso l’allarme. Secondo si accorse che, per questo fatto di non avergli ubbidito, U l’aveva rimproverata e ora lei tremava ancora, scaricando i nervi su Secondo.
«La colpa è tua».
«Mia?».
«Certo. Ti ho dato per morto, suicida, ti stanno cercando sul molo e nei torrenti. Dov’eri?».
Secondo non glielo disse (si liberò della mano di U che lo teneva per il braccio e gli aveva chiesto le stesse cose: «Dov’eri, scemo? Eravamo a ficcare il naso?»), andò nella stanza delle canne da pesca e sentì che di là bisticciavano di nuovo. Poi lei, sempre su ordine di U, aveva richiamato la polizia e dato notizia del ritrovamento. Secondo a queste cose non badava più, era molto stanco, aveva fatto spazio in quel disordine e si era sdraiato sul vecchio divano, corto e cigolante. Ma non dormì, teneva gli occhi sbarrati rivolti alla finestra che mostrava una rama di palma e un po’ più in su, malgrado fosse giorno, una grande luna bianca.
Forse alla fine riposò e quando tornò alla finestra c’era solo la rama della palma e a Secondo venne nostalgia della luna.
Uscì dalla camera, guardato in cagnesco da Adele, e scese dal professor Filipponi. Mise la faccia tra le assi del cancello e si aggiustò la voce. «Filippo, lo so che ci sei, non farti pregare».
«Ieri ti cercava la polizia. Volevano entrare pure qui da me…», disse Filipponi piuttosto allarmato.
«Lascia perdere la polizia. Ti ricordi quando ti ho detto che erano d’accordo, che l’idea di piazzare guanti dappertutto era per farmi diventare matto come sono in effetti diventato, e poi farmi interna re e prendersi casa e garage, tutto? È lui, è la strategia di Cuculo… Ora ne sono certo, sai, è proprio così, ma io resisto».
«Basta che non ne ricombini qualcuna che la poli zia voglia di nuovo entrare a cercarti qui».
E così fu, Secondo resistette un buon mese, in quelle stanze piene di canne da pesca, dove viveva ormai da confinato. Mangiava pane e frutta che rubava negli orti, ma faceva presto a tornare a casa perché temevano cambiassero la serratura.
La sera guardava la luna, e sentiva la nostalgia di altre cose, del passato e del futuro. Quando non giravano per la casa (se non sentiva la musica, voleva dire che U non c’era) usciva dalla camera, se ne stava un po’ in sala e magari accendeva la tv.
Una volta che stranamente U non aveva messo musica, accostando l’orecchio al muro e sentendoli parlare, per la prima volta Secondo sentì la parola «comunità». Il discorso era durato un po’ e l’avevano menzionata entrambi più di una volta. E questa cosa lo preoccupò. Comunità? Era certo l’avessero fatto apposta, di modo che quella parola penetrasse tra le mura della casa. Andare a vivere in comunità? Sarebbero arrivati a tanto? L’avrebbero portato in uno di quei posti che sono l’ultimo angolo della vita? E lui, avrebbe accettato, e del resto, quanto poteva resistere ancora in quello stato?
NdR Questo frammento fa parte dell’ultimo dei cinque racconti (“Il cuculo”) che compongono la raccolta di Marino Magliani “Peninsulario”, con prefazione di Filippo Tuena, pubblicata di recente da Italo Svevo.