Antonio Castronuovo. Tra bibliofilia e patafisica
di Matteo Bianchi
Una miriade di vizi, più o meno capitali, connota il rito della lettura, o quanto meno i supporti che l’avverano: passioni, erotismo, malanni, amputazioni, sepolture, morti e fantasmi aleggiano tra gli scaffali di biblioteche pubbliche e librerie private. Il dizionario del bibliomane, edito da Sellerio, si rivela una fenomenologia dei luoghi dei libri nonché un sommario di psicopatologia di chi li ama e li accumula con affanno, dall’antichità ai giorni nostri. Gli inferni del bibliomane comprendono anche i comportamenti atipici, le stramberie, così la ricerca dell’esemplare unico e dell’abbigliamento adatto per stanarlo sotto polverose pile, o dell’odore specifico di un tipo di colla, e ancora la lotta furiosa contro i tarli, il rapporto con il bancarellista, la ricerca di geometrie sulle mensole di casa, fino ai feticisti della bandella.
Quale bibliofilo, poi, non possiede almeno un Babbomorto nella sua collezione? Castronuovo continua a pubblicare esili plaquette di poche facciate: testi ironici, divertiti, memoriali, aneddotici. Non demorde, vuole la leggerezza, la spensieratezza. Fondando questa piccola etichetta editoriale è riuscito a creare un circolo Pickwick di persone che, sebbene affogate nella tristezza del mondo, sanno stare insieme attorno al focolare di un sorriso. All’opera dal 2017, Babbomorto Editore vanta un catalogo di 250 titoli, tutti fermamente “fuori commercio”: circolano in poche mani ed entrano subito nel piccolo antiquariato, dando alle stampe degli oggetti di carta e inchiostro che sono già delle rarità.
Immagino che lei sia stato contagiato dal morbo sacro dell’accumulare libri. Di quale altra patologia – presente nel suo dizionario – è affetto quando si rapporta con gli oggetti in questione?
«Tutte le patologie presenti nel mio libro mi affliggono: le ho tutte. Mi piace acquisire libri, accumularli, annusarli, palparli, dormirci assieme. A volte li bacio anche, così come mi arrabbio con quelli che comincio a leggere e devo subito abbandonare perché mi respingono. Sto anche già pensando quale libro portarmi nella tomba, ma nessun autore scorbutico: dovendo morire, voglio ridere».
Rimane incancellabile il veleno cosparso a bordo pagina che uccideva dopo dolori atroci i benedettini de Il nome della rosa. La figura di Eco ritorna più volte nel libro. Che cosa ha rappresentato per lei e per la cerchia dei bibliofili Umberto da Bologna?
«È stato un grande bibliomane italiano (aveva cinquantamila libri…); ha scritto cose importanti sulla bibliofilia (pensi ai saggi de La memoria vegetale); è stato tra i fondatori del più antico sodalizio bibliofilo italiano, l’Aldus Club di Milano, nel cui direttivo adesso siedo io pure (sebbene immeritatamente): impossibile non guardare ad Eco come a una stella polare».
Per quale libro commetterebbe un delitto esemplare?
«Premetto che il mio delitto esemplare non sarebbe mai un reato da Corte d’Assise, ma per un grande libro sarei disposto a organizzare un geniale colpo. Quale libro? sono indeciso tra una Bibbia stampata a Magonza da Gutenberg nel 1455 o un ottimo esemplare della Hypneotomachia Poliphili, stampata a Venezia da Manuzio nel 1499».
Un aneddoto gustoso?
«A me piace molto la vicenda di quel tale che invece di far rilegare i libri li faceva rinchiudere da un maestro vetraio dentro delle bottiglie, che poi allineava sugli scaffali. Nel biglietto da visita aveva fatto stampare il termine enigmatico “bibliopixidista”: un titolo molto sonoro, ma resta inteso che far collocare i propri libri in bottiglie o damigiane è una forma davvero pazzoide di collezionarli».
Il locus amoenus del bibliofilo è la biblioteca: secondo quale criterio lei dispone i suoi libri?
«Il paradiso del bibliofilo è la sua collezione privata, in cui egli ama trascorrere giornate intere. Il vero bibliofilo è uno che dovrebbe restare scapolo: in fondo, i buoni libri non tradiscono mai, le persone sì. Anche io adoro passare ore con i miei libri, disposti secondo un ordine mentale molto personale. Credo che non esista un disposizione valida per tutti e per ogni collezione: ognuno allinea i propri libri come vuole. In fondo è lui a doverli gestire e ritrovare: non dobbiamo ordinare i libri pensando agli altri. Noi bibliofili non siamo biblioteche pubbliche, anzi dobbiamo evitare di prestare i libri, ed è anche bene non invitare nessuno nelle nostre biblioteche: a parte noi stessi, chiunque altro è stonato e non gradito».
So che da anni percorre i sentieri luminosi della patafisica. Cosa l’ha convinta della scienza delle soluzioni immaginarie?
«Il fatto che la Patafisica riflette la vita (costituita da progetti che non si avverano o che falliscono sempre), che è immagine degli uomini (seriosi, ma sempre ridicoli), che insegna a non dare troppa importanza a se stessi e, di conseguenza, a tutti gli altri. La Patafisica è un magnifico spazio fatto di nulla: specchio verace dell’universo».
Chi è il più grande maestro di aforismi della storia della letteratura e come si compone l’aforisma perfetto?
«Non esiste un solo maestro di aforismi, ma molti nomi che afferiscono ai diversi ambiti dell’aforistica. Perché dire “aforisma” equivale a dire “forma breve”, e la forme brevi in letteratura sono tante. Pochi esempi: maestro del genere della massima è il francese La Rochefoucauld; grande maestro dell’aforisma pessimista europeo è Cioran; maestro dell’aforisma impertinente italiano è Longanesi, e così via. Come si scrive un aforisma perfetto? Semplice: si prova, si corregge, si riprova, si sbozza, si cambiano parole, si butta via tutto e si ricomincia. Scrivere un aforisma è come scrivere la pagina di un romanzo…»
Da vecchio membro dell’Aldus, presidente Eco, gli consiglio di portare in the grave, l’Ulysses (curatela Terrinoni). Ottimo come poggiatesta e come Opera aperta