Il rischio e la perdita

di Vincenzo Frungillo

( è uscito il saggio di Vincenzo Frungillo Il rischio e la perditaSu identità e linguaggi di Martin Heidegger, Mimesis, euro 15, di cui pubblico qualche pagina, g.m.)

Viviamo in un’epoca singolare, strana, inquietante. Quanto più in modo follemente veloce la gran quantità delle informazioni aumenta, tanto più decisamente si estende l’accecamento e la cecità per i fenomeni. Di più ancora, quanto più l’informazione è smisurata, tanto più minima è la capacità della consapevolezza che il pensiero moderno diventa sempre più cieco e un calcolare che non guarda, il quale ha solo l’unica prospettiva di poter contare sull’effetto ed eventualmente sulla sensazionalità.[1]

 

A queste affermazioni Heidegger accompagna anche l’apertura di possibili spiragli che non devono essere accolti esclusivamente come risposta ad un pur legittimo “principio di speranza”, ma devono essere visti prima di tutto come intima necessità etica ed onto-logica:

 

Ma vi sono ancora alcuni, che sono capaci di esperire che il pensare non è un calcolare, bensì un ringraziare (Danken), in quanto il pensare è debitore di sé allo appello-pretesa della manifestività, vale a dire, accettando, permane esposto allo appello-pretesa della manifestività: che l’essente è e non sia nulla. In questo ‘è’, il linguaggio non parlato dell’essere rivolge la parola all’uomo, la cui eccellenza [Auszeichnung] e insieme rischiosità riposa nell’essere-costantemente-aperto in molteplici modi per l’ente in quanto ente.[2]

 

Tutta l’opera di Heidegger si è impegnata nell’approfondimento della natura linguistica dell’essere umano e nella descrizione dei limiti e delle potenzialità che tale natura comporta. Il problema non è salvaguardare le differenze effettive per portare avanti il pregiudizio umanistico della rilevanza che deve avere l’identità di ognuno, è piuttosto mettere in chiaro come la ramificazione planetaria delle tecniche di comunicazione e di controllo non possano andare oltre la singolarità dell’esistenza e l’apertura linguistica che essa comporta, poiché questa tendenza smisurata equivale ad un “crimine ontologico”, per parafrasare il poeta Brodsky. Non c’è parola sensata se non c’è un’apertura esistenziale che l’accolga, la trattenga e le offra una direzione di senso, e non c’è un mondo se non c’è preliminarmente uno spazio linguistico che lo significhi. La questione è proprio la limitazione dell’illimitata identità dell’uomo. “Dove c’è uomo c’è mondo e viceversa”, esiste un legame necessario e indissolubile tra di essi. In dialogo con M. Boss Heidegger, chiamato ad andare oltre la struttura portante della sua storia della metafisica e a fare i conti con la singolarità dell’uomo, dice a proposito della limitazione dell’identità dell’essere umano:

 

Lo spazio è l’aperto, il libero, il penetrabile. Questo aperto, però, esso stesso non è nulla di spaziale. Lo spazio è qualcosa di concedente libertà. Opiniamo, invero, che un ente divenga accessibile in quanto un io, in quanto soggetto, rappresenti un obiettivo. Come se per ciò non dovesse preliminarmente già vigere un aperto, all’interno del cui essere-aperto possa divenire accessibile qualcosa in quanto obietto per un soggetto, nonché l’accessibilità stessa possa venire percorsa in quanto che di esperibile. Attraverso l’appartenenza a questo ambito (dell’essente presente) è, al contempo, assunto un limite rispetto al non-essente-presente. Qui, dunque, il dell’uomo vive determinato in un ‘io’ di volta in volta attuale attraverso la limitazione al non latente che sta intorno. L’appartenenza limitata all’ambito del non-latente costituisce insieme l’esser-sé [Selbstsein] dell’uomo. Attraverso la limitazione, l’uomo diventa un ego, non però attraverso una dislimitazione tale, per cui, prima, l’io, che rappresenta se stesso, si espande allargandosi a misura e centro di tutto il rappresentabile. ‘Io’, per i Greci, è il nome per l’uomo che si adatta [fügt] a questa limitazione e, in tal modo, è presso se stesso, egli stesso.[3]

 

Dando per scontato per ora che lo spazio libero di cui parla il filosofo tedesco sia il linguaggio[4], e che il se stesso (il Selbst) dell’uomo si chiarisca nello spazio da esso aperto, la questione principale da approfondire è il rapporto che esiste tra il Selbst dell’uomo e il linguaggio, tra la singolarità dell’esserci esistenziale di ogni uomo e lo spazio linguistico che l’accoglie. Tale questione risolve in termini più originari la macroquestione del rapporto dell’uomo con il proprio mondo. È in questa direzione che bisogna quindi ritornare ad interrogare gli scritti sul linguaggio di Heidegger.

La fase esegetica dell’opera di M. Heidegger successiva a Sein und Zeit, durante la quale il filosofo si occupa di interrogare i detti dei presocratici e dei poeti in lingua tedesca, fa parlare il filosofo americano R. Rorty di reification of language:

 

Ma la reificazione del linguaggio nel secondo Heidegger è semplicemente uno stadio dell’ipostatizzazione da parte di Heidegger di se stesso, vale a dire uno stadio del processo di trasfigurazione di Martin Heidegger da creatura tra le altre del suo tempo, da io tra gli altri costituito dalle pratiche sociali del suo tempo, da io che reagisce tra gli altri alle azioni degli altri, a personaggio cosmico-storico, a primo pensatore post-metafisico. […] È la speranza che il pensatore possa evitare di immergersi in ciò che è “già da sempre aperto”, di sottrarsi alla relazionalità, seguendo un’unica stella, pensando un unico pensiero. Riuscire a liberarsi della metafisica, del mondo creato dalla metafisica, richiederebbe che lo stesso Heidegger fosse in grado di innalzarsi al di sopra del suo tempo. Significherebbe che la sua opera non sarebbe stata soltanto l’ennesima Selbstauffassung, l’ennesima concezione di sé dell’essere umano, perché sottraendosi al suo tempo egli si sarebbe sottratto anche a se stesso.

 

Dopodiché Rorty, parlando di “entità di tipo A”, che accomunano il pensiero di Platone con quello di Kant o di Russel, ossia di entità metafisiche che permettano di sussumere gli eventi storici e di “imporre dei limiti” una volta per tutte al dato, aggiunge:

 

Senza un’entità simile pensava il secondo Heidegger, il linguaggio, il mondo e l’Occidente sono condannati a rimanere senza forma un mero guazzabuglio senza né capo né coda. Il tentativo di sottrarsi all’essere in relazione, di pensare un unico pensiero che non sia un semplice nodo all’interno di una trama di altri pensieri, di pronunciare una parola che abbia significato anche senza aver alcun posto all’interno di una pratica sociale, corrisponde al bisogno di trovare un posto, se non in cielo, quantomeno al di là della chiacchiera, oltre il Geschwätz.[5]

 

La critica di Rorty denuncia un rischio cruciale a cui va incontro la determinazione dell’essenza del linguaggio: il rischio costante di perdere di vista “la relazionalità” strutturale, ontico-ontologica, di ogni essere fornito di parola. Questo pericolo è presente nel pensiero di Heidegger come monito fin dai suoi primi corsi sull’interpretazione fenomenologica di Aristotele. L’impegno del filosofo tedesco è stato da sempre quello di affermare la verità dell’uomo come relazione oltre il concetto di identità proprio della interpretazione classico-logistica del Logos: l’uomo, sulla base della sua stessa essenza discorsiva, si rapporta da sempre ad un senso eccedente, ad un altro da sé. Il linguaggio, la parola, ma poi in genere le forme dell’esserci, sono la messa in opera di questa verità originaria. Il cammino di pensiero di Heidegger verso l’essenza del linguaggio tende, quindi, dall’inizio degli anni Venti, in modo non ancora del tutto consapevole, fino agli anni Sessanta, con la piena consapevolezza, ad affermare la relazionalità dell’essere umano come esposizione ad un senso sempre eccedente che non può venir determinato, ma solo indicato nella forma della parola, che è pertanto il luogo originario di un rapporto ermeneutico (Bezug). Interpretare la parola nella sua funzione ridotta di segno e simbolo, la proposizione nella sua funzione ridotta di asserzione veritativa, il linguaggio in genere nella sua funzione ridotta di mezzo di dominio e di comunicazione, significa perdere di vista nel modo più radicale l’essenza stessa dell’essere umano. Esiste comunque un punto privilegiato dal quale poter osservare e verificare quanto detto da Rorty a proposito di Heidegger: è il corso del 1934 Logik als die Frage nach dem Wesen der Sprache. Questo corso pone al centro della sua trattazione proprio il problema della singolarità eccezionale dell’uomo e del suo rapporto col mondo, come rapporto con il linguaggio. Proprio attraverso questo corso sarà possibile osservare il destino del Selbst dell’uomo […]

[1]M. Heidegger, Zollikoner Seminare.Protokolle-Gespräche-Briefe, Frankfurt a/M, Klostermann, 1987, tr. it. di E. Mazzarella e A. Giugliano, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli, 1991, p. 118.

[2]Ibidem.

[3]Ivi, pp. 247-248.

[4] Per ora si può verificare quanto detto leggendo le prime battute di questo intervento seminariale di Heidegger sul rapporto uomo/linguaggio. Ivi, p. 245: «La parola, non è una relazione; la parola dischiude, apre. L’elemento decisivo del linguaggio è il significato. Anche l’elemento fonetico appartiene al linguaggio, ma non è l’elemento fondamentale. Posso intendere linguisticamente la medesima cosa in lingue diverse. L’elemento essenziale del linguaggio è il dire, che una parola dica qualcosa, non che il suo suono venga emesso. Che una parola mostri qualcosa. Sagen [dire]=zeigen [mostrare]. Il linguaggio è ciò che mostra.»

[5] R. Rorty, Essays on Heidegger and Others Philosophical Papers, Cambridge, University Press, 1991, vol. II, tr. it. di Aldo G. Gargani, Scritti filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1993; pp. 86-87.

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