La verità su tutto
di Vanni Santoni
Quando Dattadeva fece venire gli sbirri nella sede centrale, lì al Mulino, all’inizio credetti che stesse portando all’estremo le logiche da brigatisti del Carme e di Girolamo – scatenare una repressione per attivare una mobilitazione generale, pensa tu cosa mi toccava sentire nei rapporti che ci facevano i nostri.
Poi, quando un ulteriore rapporto da Shaktiville riferiva che Dattadeva non si faceva più vedere, che dava ordini da dietro una porta chiusa che poteva essere varcata solo dai suoi fedelissimi, mi venne il dubbio che Kumari non mi avesse dato retta. Me lo immaginai tutto ingessato, nascosto in quella stanza guardata a vista, a portare avanti la sua vendetta.
Kumari negò di aver fatto alcunché, anzi diede la colpa alla mia opposizione, dicendo che se gli avessimo dato davvero una lezione, tutto questo non sarebbe accaduto. Non seppi mai se Kumari l’aveva fatto pestare o meno; se il comportamento di Dattadeva fosse la reazione a un atto di Kumari o il frutto della mia opposizione a quell’atto.
Fatto sta che nella sua azione, o vendetta, Dattadeva trovò sponde anche in quel che restava della stampa, e non solo italiana. Quando polizia e carabinieri invasero il Mulino riuscimmo a far sparire tutto, ma una settantina di acidi e un pezzo di fumo di qualche ospite bastò a sollevare un bel casino, e quando il giorno dopo arrivò puntuale una lettera anonima di un “ex sannyasin” – che poi: non c’erano ex sannyasin! Nessuno aveva lasciato l’ashram sbattendo la porta, la gente entrava e usciva e non c’erano investiture particolari! – che spiegava come alla Fondazione Shakti si usassero sostanze illegali per “dare l’illusione dell’illuminazione” ci sentimmo veramente fottute.
Intendiamoci: sapevamo che lavorare con sostanze ancora illegali era rischioso, per quanto altrove il vento fosse cambiato e in tanti Paesi fossero rientrate in società dalla porta principale – anche un po’ grazie a noi, potremmo dire, se è vero che in quegli anni il nostro centro aveva iniziato almeno diecimila persone, che a loro volta ne avevano iniziate dieci volte tante –, e sentivo un retrogusto ribaldo, forse addirittura perverso, nell’assumerci un rischio del genere (avremmo potuto trasferire la sede in Portogallo o in Olanda o in Repubblica Ceca o in Colorado o in un altro Paese dove vigessero la piena depenalizzazione o almeno un minor moralismo rispetto alle libertà cognitive), un rischio che era anzitutto possibilità del tradimento.
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Dopo gli sbirri arrivarono le tv, con tutta la loro beceraggine, e ci stettero addosso fino al processo. Furono mesi dolorosi, passati a rinfacciarci le responsabilità, in cui l’unica soddisfazione che ebbi fu quella di cacciare Girolamo dal Mulino a calci nel culo, letteralmente e personalmente (il Carme, più sveglio, era già sparito da solo). Molti se ne andavano da soli, come se la nostra stella si fosse improvvisamente offuscata. Fuori, non ne parliamo: parevano tutti contro di noi. Va da sé che ci preparavamo al peggio.
Arrivò invece la sentenza meno attesa: assolte in virtù della libertà di culto. E ancora non ho detto la cosa più importante. Pensa, infatti, che neanche avevo voluto prendere uno studio legale di New York a cui era stata legata la madre di Kumari, io volevo l’avvocato d’ufficio, ma sai invece chi si offrì quando la notizia arrivò sui giornali? Proprio “la tizia del mare”, l’avvocato Pia Nandretti… Che smacco, eh? O meglio, che trionfo per lei. Trionfo doppio, dato che ebbe l’acume di impugnare sentenze precedenti riguardanti la Chiesa del Santo Daime, che usava l’ayahuasca, ovvero il DMT, sostanza non meno attiva e non meno illegale, ancorché meno nota, dell’LSD, e ci fece assolvere.
Già quello era un segno, se vogliamo. Figuriamoci quando, il giorno dopo la sentenza, scoprimmo nel conto dell’associazione una donazione da quattrocento bitcoin, dodici milioni di euro, da parte di un fantomatico “Pomegranate fund”. Pomegranate fund che, scoprimmo in un sol colpo di Google, era costituito da certi anonimi “attivisti psichedelici” i quali, capimmo cercando un po’ più a fondo, altro non erano che seller della prima ora su Silk Road, venditori di acidi sul dark web divenuti ricchi sfondati grazie alle criptovalute. Potevano essere le stesse persone da cui compravamo noi stesse le sostanze per le varie sedi. Gente che aveva incassato qualche decina di migliaia di bitcoin ai tempi in cui valevano pochi euro, se li erano visti levitare sotto al naso di diecimila volte, e adesso, secondo quella propensione al proselitismo così diffusa tra chi aveva tratto benefici interiori dagli psichedelici, distribuivano donazioni spropositate alle varie organizzazioni che si battevano, ormai vincendo, per la loro rilegittimazione, legalizzazione e diffusione. Noi comprese, a quanto pareva.
Quell’evento fu la cesura tra il “prima” e il “dopo”, certo; ma se adesso avevamo i fondi per aprire non un altro paio di centri, ma decine, centinaia, il fatto che, allo sfaldarsi delle strutture sociali là fuori continuassero ad arrivare accoliti da ogni dove a riempirli, a farsene carico disinteressatamente, a diffondere il nostro verbo, quello non poteva dipendere né dalla fortuna che ci aveva baciate (ma anche quella fortuna, non era forse il frutto di precisi processi storici?), né dalle nostre capacità o dai nostri insegnamenti: ormai ci giovava – e quanto! – anche la pubblicità negativa. Evidentemente i tempi erano maturi perché una nuova sintesi spirituale si affermasse, e a incarnarla c’eravamo noi come avrebbe potuto finirci qualcun altro. Pure, c’eravamo noi. E di certo si vedeva, considerando quanto si moltiplicavano, ovunque, i nostri ritratti, non importa quanto cercassi di impedire la cosa (era vero che Kumari non la impediva, anzi): da sole o insieme, più spesso con Kumari in grande e io come iconcina a lato, ma a volte anche a parti invertite…
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Così crescevamo ancora, ineluttabili. Sebbene ci arrivassero notizie sul fatto che in India un Dattadeva bandito da Shaktiville e pieno di rancore continuasse a lavorare contro di noi, animando gruppuscoli, spargendo voci, vedendosi con politici dei peggiori, l’organizzazione, con quell’iniezione di liquidità che neanche avevamo dovuto usare per il processo, cresceva ancora e ancora si strutturava, ma un paio d’anni più tardi si era già su un altro piano, e non solo perché stavamo per toccare il milione di fedeli. Un piano ulteriore, oppure molto precedente, per il contemporaneo e inverso degenerare del mondo fuori.
La folla che si era formata nel cortile centrale faceva impressione: per numero, per come ribolliva, per come alzava la polvere, ma ancor più per essere nuova: chi era tutta quella gente, perché era lì?
Quando uscii ci fu un “Oooh!” generale e si avvicinarono. Quando uscì Kumari partì un “Oooh!” anche più forte e qualcuno si buttò in ginocchio.
– Non mi piace, ti dico che non mi piace, – dissi volta verso di lei.
– Ma se sono qua tutti i giorni.
– Prima non avevano cartelloni con le nostre facce. E non erano così tanti.
– Nell’ingenuità risiede la purezza.
– Non raccontare ’ste cose a me, Kumari, ti prego… ti dico che oggi sono diversi, è come se fosse stata passata una linea…
Dalla folla si staccò un gruppo più piccolo, come uscito da un’oscura fantasia medievale: le donne scarmigliate si lamentavano, gli uomini si battevano la fronte, e al centro, in mezzo a quella angosciosa simmetria di supplicanti, c’era una donna che teneva in braccio una bambina che si sarebbe potuta dire viva solo per i piccoli spasmi che a tratti ne scuotevano il corpo pallido, con le labbra blu come quelle di un’annegata e delle occhiaie che erano le orbite di un teschio.
– La tocchi! La tocchi!
– Gridavano questo. Dicevano a me. Pietà, Shakti Devi, la tocchi!
– La tocchi, la tocchi!
– …
– Toccala, su, mi disse Kumari mettendomi la mano sulla spalla mentre quella gente invitava anche lei a toccarla. Non avere paura.
– Non ho paura, le dissi nell’orecchio. A differenza di te, non sento la seduzione di simili scene.
– Che vuoi farci. Il mondo sta andando come sta andando. Toccala, su. Dai loro quel che vogliono, Shakti Devi. Se morirà, vorrà dire che doveva andare così.
– Non ho paura che muoia, Kumari, ho paura che guarisca.