Su “Noi” di Alessandro Broggi
di Andrea Inglese
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[Questo testo è apparso sul numero 65 (2/2021) della rivista “Semicerchio”]
Il primo pregio del nuovo libro di Alessandro Broggi, Noi, uscito per Tic edizioni nel 2021, è di non assomigliare a nessun libro in circolazione. È probabile attendersi qualcosa del genere da un autore che è stato a ragione etichettato “poeta di ricerca”, ossia qualcuno che si situa consapevolmente alla frontiera dei generi, là dove si tradiscono spesso le attese dei lettori e si richiedono attitudini di comprensione del testo meno consolidate. Sette anni dopo Avventure minime, il precedente e più rappresentativo libro di Broggi, Noi presenta i tratti esteriori della narrativa di viaggio. Questa iniziale riconoscibilità del testo si rivela però fallace. Uno dei capisaldi della letteratura di viaggio, infatti, è il patto referenziale che sottende il rapporto tra lo sguardo dell’autore e uno spazio geograficamente e storicamente determinato. Vedremo come questo patto, nel lungo racconto di Broggi, sia infranto fin da subito. Siamo comunque lontani dalle prose brevi e dalle quartine che hanno caratterizzato il lavoro del 2014. In Avventure minime dominava un impianto critico, che sembrava aver tratto i propri strumenti da una lettura fresca e simpatetica della Società dello spettacolo di Debord. La carica negativa e decostruttiva di quei testi era però compensata da una strategia fondata sull’ambiguità o, come ha scritto Vincenzo Ostuni (“Oggettivo indecidibile”, in Ex.it 2014), su un certo grado di “indistinzione e indecidibilità”. Lo stereotipo narrativo o espressivo, che Broggi distillava con accurata freddezza, poteva sempre lasciarsi leggere in termini referenziali e lirici. E le stesse quartine, oltre a costituire un inventario delle formule più elementari della comunicazione quotidiana già intrise di ideologia, potevano fungere da poesia didascalica. In Noi, l’urgenza di esibire-decostruire lo stereotipo lascia lo spazio a un’architettura narrativa alla ricerca di un proprio orizzonte di senso. Questa architettura, pur non rispettando i principali criteri di verosimiglianza di una narrazione realista, permette quantomeno d’identificare un tema generale, che potremmo definire – utilizzando le parole stesse dell’autore – “un viaggio ai bordi della civiltà”. In altri termini, abbiamo abbandonato il terreno dei triti fatti e modi di dire per inoltrarci in un mondo vergine, ai margini appunto della società umana. Che cosa voglia dire, per Broggi, un tale viaggio e tale configurazione di uno spazio “inesplorato”, “integro”, “incontaminato”, è quanto ci interessa qui indagare. Punto certo, è che – anche se d’intreccio e fabula non si può parlare –, dei personaggi esistono – quattro, due uomini e due donne – e pure uno scenario costantemente cangiante ma riconoscibile. Si potrebbe pensare che, proprio in virtù del titolo, a non permettere uno sviluppo narrativo sia l’impossibilità di distinguere i quattro personaggi, che vivono quasi tutto il tempo in uno stato “fusionale”. Non solo abbiamo degli individui sottratti alle particolarità sociali e biografiche, ma nel corso delle pagine neppure acquistano delle nuove caratteristiche, in virtù degli eventi nei quali sono progressivamente coinvolti. L’unico evento in grado di incidere almeno parzialmente su questo stato d’indeterminazione permanente dei protagonisti è la morte violenta di uno di loro a opera di un orso. Qui abbiamo almeno un evento irreversibile, che sembra per un certo lasso di tempo condizionare se non le azioni almeno gli stati d’animo dei tre sopravvissuti. In realtà, nel penultimo capitoletto, verrà rievocata la presenza del compagno ucciso in questi termini: “l’uomo chiamato Norberto Orci, nel cui nome come si era aperta si chiuderà questa breve rassegna di fatti, sarà seduto di fianco a noi”. Anche l’uccisione e la morte diventano processi reversibili. Non vi è quindi da raccontare né una vicenda specifica né la trasformazione che essa avrebbe suscitato nella coscienza di un personaggio. Siamo di fronte a un impianto che assomiglia più a un paesaggio allegorico, in cui i movimenti locali non contraddicono la staticità dell’insieme. Tale paesaggio si propone di raffigurare la possibilità dell’io di sciogliersi nel noi, e dell’umanità di sciogliersi nell’ambiente che la circonda, laddove tutto il lavoro della civiltà – “moderna” aggiungerebbe Bruno Latour – è quello di edificare il confine e l’opposizione tra l’individuo e la specie, e tra la specie e il suo ambiente. In Noi, sono innumerevoli le immagini di “fusione”, “osmosi”, “abbattimento dei limiti” tra la mente e il mondo. Un piccolo campionario: “Non dobbiamo resistere a nulla, non dobbiamo erigere barriere contro nulla”; “Disidentificarci da questo luogo e da questo tempo ed essere qualcun altro”; “Magari le volte che avremo visitato tutti i possibili habitat integrandoci tra le specie, e in risonanza con essi avremo tentato di dissolvere la grande illusione separatrice in cui viviamo”. A volte l’insistenza su tali immagini sembra quasi approdare a un discorso apertamente didascalico, come quando uno dei personaggi sentenzia: “Sono senza una storia da custodire, non sono più la linea del mio movimento – niente persona, niente morte, non ho più una biografia. Finalmente senza identità”. Ancora una volta, però, la qualità della scrittura di Broggi, ossia la sua persistente capacità di rendere instabili le coordinate spaziali e temporali – gli slittamenti di modo e tempo dei verbi, di persona grammaticale, ecc. – mette in crisi non tanto il tema ricorrente della fusione, ma la sua possibilità di costituirsi come principio volontaristico, nuova dottrina, elemento ideologico, da integrare tra gli armamentari “buoni” della nostra civiltà. Il viaggio allegorico di questo soggetto umano plurale, che ambisce a fondersi dentro gli ecosistemi terrestri, non può funzionare che come ipotesi figurativa. Non sarà mai garantito da un concetto, e quindi da un discorso di questo mondo storico-sociale. Se Noi è un’allegoria, lo è come anticipazione utopica, che può acquistare senso unicamente nello spazio separato, irreale, della pagina letteraria. Al resoconto delle azioni vere o verosimili dei personaggi subentra allora una successione d’ingiunzioni o di formulazioni ipotetiche, che non hanno ancora trovato tipi umani e contesti reali di radicamento. Il materiale figurativo di una tale operazione, come già nel classico Fortini (e prima di lui in Brecht), è costituito in gran parte da magnifiche descrizioni di paesaggi naturali, di universi non umani, che soli paiono promettere qualcosa d’altro rispetto a questa umanità. Possiamo allora salutare il nuovo libro di Broggi come un felice e sorprendente contributo alla letteratura utopica, in un’epoca che è fin troppo propensa a ingozzarsi di distopia.