Maria del Mezzogiorno_un racconto


di Valeria Merante

Il freddo mi punge la faccia mentre lei dice tu non puoi stare qui. Suo marito rimane muto di fianco a lei, mi guardano entrambi dall’alto mentre io resto seduta, inchiodata al muretto come in attesa dell’ultima sentenza. Per me non c’è scampo. Per noi non c’è. In quel momento capisco che è finita, mi sento debole e so che non riuscirò a remare contro una corrente più forte. Ho perso gli scampoli del mio amore a ogni inciampo lungo la strada spoglia e in salita che abbiamo percorso fin lì: Santa Maria del Mezzogiorno è la stazione finale.

Appeso al muro scrostato davanti a me c’è un lampione acceso, di quelli in ferro battuto disseminati per il centro storico. Un tempo al posto di questi vicoli dorati c’erano estese coltivazioni di gelso bianco, nutrimento dei bachi da seta che davano lavoro e prestigio alla città. Fisso a lungo il lampione e mi perdo in quell’immagine, campi e lavoratori all’opera sullo strapiombo normanno. E in lontananza, Maria del Mezzogiorno che avanza lentamente strascinando l’abito bianco sulla pietra calda, ha una cesta piena di pane e si fermerà proprio lì, all’ombra dell’albero di fico, per raccoglierne i frutti e offrirli ai passanti. Maria che arriva dal mare e compie il prodigio in cima al dirupo, fiaccata dal sole caldo del mezzogiorno.

Sento gli occhi bruciare e inumidirsi. L’eco dei tempi andati si mescola al vociare delle persone intorno a me. Gruppetti di amici che si ritrovano per le feste danzano alla luce giallognola di qualche altro lampione muovendosi disordinati da un punto all’altro dello slargo. Api a raccolta nell’alveare. Una palma, la sua edera e un piccolo sambuco stanno lì in silenzio a osservare. Quel luogo mi è così familiare, le mura umide e giallognole delle poche case intorno sono come braccia accoglienti per me, eppure qualcuno mi scaccia come si scaccia un randagio dalla propria abitazione.

In un miscuglio di sentimenti che vanno dalla gioia alla nostalgia mi arriva ovattata la voce di lei che incalza e dice tu non sei la benvenuta, questa è la nostra serata, devi andartene. In tutto quel frastuono non mi arriva il senso di quelle parole. La vedo distorcere lo sguardo, osservo la sua bocca aprirsi in smorfie per pronunciare frasi, il suo dito agitarsi nell’aria con rabbia e quella che a me pare un’invidiabile decisione. Io che non ho capito niente, che non riesco nemmeno a risponderle, che non riesco a difendermi mentre suo marito mi guarda e Luca, seduto vicino a me, balbetta frasi sconclusionate. Che ci faccio qui. Qualcuno mi aiuti. Non viene nessuno. Sono a casa mia ma in territorio nemico. Non volevo neanche andarci, ma Luca mi trascina continuamente dove io non voglio essere, lui pensa che la mia presenza possa cambiare le cose, io provo a spiegargli che non è così, che deve lasciare andare le abitudini, le cose fatte come devono essere fatte; provo a spiegargli che le cose si possono fare diversamente da come siamo abituati, che l’importante è seguire il cuore, ma lui mi guarda come se venissi dalla Luna, una creatura lunare che parla una lingua incomprensibile e che lo costringe a deviare continuamente dalla retta via.

Perché ogni volta che torniamo qui facciamo un passo indietro? Perché permettiamo a questo luogo, a queste persone, di farci regredire? Perché non ho onorato il mio intuito e sono uscita con te? Perché mi fido così poco di me stessa? Perché ti fidi così poco di me?

Io a quel punto voglio andare via, mi rifiuto di entrare nel locale e fare finta di niente, di stringere relazioni superficiali con queste persone omertose. Il mio fiuto mi dice, mi ha sempre detto, che il loro è un mondo limitato, un mondo di religiosi dettami e precetti morali, di finto decoro e dinamiche ghettizzanti. Qualcosa nel corpo mi avverte del pericolo, i peli si sollevano come antenne e un calore mi attraversa dai piedi fino alla testa. E mi muove. Mi metto a camminare senza guardarmi intorno, a quel punto non m’importa se Luca mi stia seguendo o no: se vuole, se è un animale anche lui, scapperà con me. Taglio in diagonale via Educandato e poi mi tuffo a sinistra su via Menniti, dove qualche volta da bambina venivo con mio padre per accompagnarlo dal barbiere, un luogo che sapeva di dopobarba e creme Proraso e che all’epoca mi sembrava grandissimo e pieno di luce. Qualcuno mi saluta ma io sono così decisa nel passo che a malapena ricambio. Non ricordo dove abbiamo messo la macchina. Dov’è la macchina? Dove hai parcheggiato? chiedo a un Luca che mi segue con il volto affranto, cercando di calmarmi, ma io sono una furia: non parlo, non faccio niente, cammino e basta, veloce come un felino a caccia della sua preda.

La mia preda è la mia libertà.

Quale parte di me ha scelto un uomo così debole?

Gli leggo in volto lo struggimento per avermi spinta in quell’angolo, il dolore per l’inconsapevolezza di quel gesto che avrà, lui lo sa, conseguenze irrimediabili. Lui sa che darò la colpa a lui, che di lì a poco farà da parafulmine e che non ci sarà niente da fare; che al massimo metteremo un’altra pezza e a distanza di qualche giorno usciremo dall’ombra e torneremo alla luce, un po’ acciaccati ma ancora mano nella mano, e ci faremo promesse per darci forza e per un periodo riprenderemo a rispettarci. E poi il mostro tornerà. Qualcuno dirà qualcosa o solleverà il tappeto e mostrerà il groviglio di fili, i mucchi di cenere, il passato irrisolto, le cose non dette. Noi ci porteremo le mani al volto e ci copriremo gli occhi per non guardare. Perché prima ci saremo preoccupati di cucinare una cena gustosa e di apparecchiare per bene la tavola, perché a vederci da fuori dobbiamo sembrare perfetti.

Ancora giù per via Jannoni, la percorriamo contro senso al suono di qualche clacson, io avanti e lui dietro, io avanti e lui dietro, fino al Politeama, che stride per forma, fasto e lucentezza nell’umile incoerenza dei palazzi attorno. Quella luce quasi accecante mi sembra però anticipatrice di possibilità, siamo sotto i riflettori e possiamo scegliere che cosa farne delle nostre origini. Per un attimo mi fermo e mi lascio inondare da questo fascio luminoso. Del resto che cosa è appena accaduto? Uno sgradevole incidente di percorso che può essere benissimo ridimensionato, rimpicciolito. Possiamo prenderlo in mano e giocarci. Sminuzzarlo per bene quando parliamo al telefono con qualcuno, poi farne un mucchietto da tenere nel palmo di una mano prima di lasciarlo andare in un secchio strofinando il pollice con le dita. Dimenticarcelo in un trasloco, uno dei tanti.

Chiudo gli occhi e allargo le braccia respirando a pieni polmoni quella possibilità, ma è un attimo che mi ricordo che siamo lì per cercare la macchina, dobbiamo fuggire e frapporre una lunga distanza tra noi e l’accaduto, così mi rimetto a camminare veloce e imbocco via Italia, giù giù fino a che la vallata buia si apre lentamente alla nostra destra mentre a sinistra i palazzi più moderni si allungano verso il cielo e piano piano le mie gambe cedono un poco e rallentano, e io mi arrendo alle lacrime e piango, piango un pianto inconsolabile e lascio che la vista finalmente mi si offuschi. Luca mi mette un braccio sulle spalle e con l’altra mano prende il mio braccio sinistro e poi con calma mi accompagna alla macchina. Entriamo e chiudiamo entrambe le portiere e restiamo in silenzio, un silenzio interrotto soltanto da qualche mio singhiozzo. La rabbia è svanita, mi sento inerme e senza più parole. Vorrei saper dire la cosa giusta, vorrei saper comunicare ma quello è uno di quei momenti in cui è meglio non dire niente e aspettare che passino le ore, dormirci su, far sorgere di nuovo il sole.

Luca mi guarda dispiaciuto, le braccia arrese e le mani giunte in mezzo alle cosce. Fa quella sua mossa di stringersi nelle spalle che riesce a intenerirmi. Se qualcuno mi chiedesse di raccontarlo, io non saprei dire cosa sia appena successo.

Restiamo in silenzio per un po’ con lo sguardo fuori dai finestrini. Noi due non siamo che due puntini insignificanti di questa vita incomprensibile eppure ci diamo così tanta importanza. Vogliamo che il nostro amore si veda, che calzi perfettamente e superi ogni barriera ma in questo disumano tentativo sprechiamo talmente tante energie da restare svuotati e privi di creatività. Siamo ancora così incoscienti. Eppure così fortunati. Siamo così feriti, due bestie che non hanno ancora imparato la legge del bosco. Non è colpa nostra, né io né lui possiamo farci niente. Dobbiamo soltanto vivere, ma ne siamo spaventati.

E la vallata adesso è buia, e la strada sotto di noi è deserta. Ed è allora che vedo una macchia bianca avanzare da lontano. Apro la portiera e scendo, mi asciugo il naso con la manica del cappotto e faccio fumo dalla bocca.

Per molto tempo non saprò dire niente e la rabbia tornerà a trovarmi e assumerà diverse sembianze: una gazza che atterra sul prato, un cappello di lana, il pomodoro tagliato sottile, un pugno di mandorle, una scodella di riso caduta dal ripiano. Lo spavento.

Guardo davanti a me per ricominciare a camminare. E ora la macchia bianca è sempre più vicina, è Maria, Maria col cesto di pane che guida i braccianti diretta a nord. Ed ecco che io adesso voglio soltanto sparire, azzerare ogni pretesa, ogni ferita e perdermi nel buio della vallata, fare spazio, scomparire all’orizzonte sopra la lingua di mare invisibile.

Lascio Luca alle mie spalle sbalordito nella macchina e corro verso la piccola folla, voglio confondermi lì in mezzo, sparpagliare le intenzioni, contemplare il bianco dell’abito che striscia sull’asfalto. Voglio affondare nella mistica della sua apparizione, nel calore della mulattiera che brucia sotto i piedi dei braccianti. Me ne vado, ciao, anzi addio, non torno più, non aspettarmi a pranzo, puoi restare lì in macchina col tuo perfezionismo e gli abbinamenti opportuni, le frasi fatte e l’amicizia ambigua, dire a tuo padre che sono pazza, che una sera d’inverno me ne sono andata con Maria del Mezzogiorno.

Vuoi mettere, addentare pane e fichi.

Annusare il fiore del finocchio selvatico in collina.

Bere acqua di mare per sbaglio.

Farsi crescere i capelli e non pettinarli mai.

Camminare scalza sulla roccia.

Piegarsi sulle gambe.

Spostare aghi di pino seccati al sole con le mani.

E poi scavare, grattare via lo strato di resina, ali di pigna e piccoli coni.

Trovare tesori.

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Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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